Man mano che la data del referendum si avvicina, crescono i
toni dello scontro tra sostenitori del SÌ e sostenitori del NO. I primi
sostengono a spada tratta la riforma perché finalmente, dopo trent’anni di
inutili tentativi, il bicameralismo paritario è stato abolito, le regioni
sprecone sono state indebolite, il governo può agire più speditamente senza
intoppi, ecc. I secondi sostengono invece che il bicameralismo previsto dalla
riforma è un pasticcio, il Senato delle autonomie è una Camera di serie B, il
rischio di una deriva autoritaria è reale, ecc. Purtroppo manca un’informazione
oggettiva e autorevole. Persino i costituzionalisti sono divisi.
Disorientamento e adesione fideistica
E’ quindi inevitabile che i cittadini chiamati a votare si
trovino disorientati, non sapendo bene se la riforma apporterà davvero i
benefici promessi, se la democrazia ne risulterà rafforzata o indebolita, se il
divario tra i territori (per es. tra nord e sud, tra regioni ordinarie e
regioni a statuto speciale) aumenterà o diminuirà. Nell’incertezza, assai
diffusa, verosimilmente molti voteranno non per reale convinzione sui vantaggi
o gli svantaggi della riforma, quanto piuttosto per una sorta di adesione fideistica
al partito dei sostenitori del SÌ (specialmente il PD) o al raggruppamento
trasversale dei sostenitori del NO (Movimento 5 Stelle, Forza Italia, Lega,
minoranza PD e altri).
A creare disorientamento e divisione tra gli italiani
contribuisce non poco lo stesso Presidente del Consiglio Matteo Renzi,
che ha fatto della riforma una «sua» bandiera, a tal punto da minacciare (o mi
approvate la riforma o me ne vado) o promettere (se il referendum passa, i 500
milioni risparmiati sui costi della politica andranno ai poveri) a seconda del
momento. Ultimamente ha cercato di moderare i toni, attribuire la paternità
della riforma all’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano
(come se questa figura di veterocomunista fosse una garanzia di buona riforma!)
e accattivarsi il consenso di molti compagni di partito, incerti sul voto,
facendo credere che «questa è la riforma del PD, come lo era dell’Ulivo e del
Pds».
Ma come, viene da chiedersi, un’autorità dello Stato può
affermare che una modifica importante della Costituzione, ossia del fondamento
dello Stato di diritto, è la «sua» riforma e la riforma del «suo partito»? Non
si rende conto che, attribuendo la paternità della riforma addirittura a una
forza politica, che non rappresenta la maggioranza degli italiani, ma solo una
maggioranza parlamentare (per altro grazie a un premio di maggioranza ritenuto
spropositato dalla Corte costituzionale), non fa che accrescere i sospetti di
strumentalizzazione? Perché in Parlamento non si è cercata una maggiore
concordanza, accettando magari qualche compromesso, ma si è preferito lo
scontro con le opposizioni e un’approvazione con una ristretta maggioranza, di
parte?
«Un protagonismo esorbitante del governo»
A questo punto, alla vigilia di un’importante votazione
referendaria, ci si deve anche chiedere se sia democraticamente giustificata le
frequenza e l’insistenza con cui il Governo cerca di avallare le ragioni, vere
e presunte, del sì. Se penso al comportamento del Consiglio federale, mi viene
spontaneo costatare la distanza che separa il Governo Renzi da quello svizzero,
al quale la legge impone di spiegare al popolo in maniera oggettiva, prima di
ogni votazione, il pro e il contro dell’oggetto in votazione! Non credo che sia
solo una differenza di stile, ma di sostanza, di democrazia, di rispetto del
Popolo sovrano.
Il senatore Claudio Micheloni, sostenitore del NO,
ritiene l’attivismo del Governo «un protagonismo esorbitante e improprio, in
quanto l’intero processo della revisione costituzionale, «materia parlamentare
per eccellenza», «è stato ideato, gestito, votato dal Governo». Ci si può
chiedere, a questo punto, perché i parlamentari, deputati e senatori, si sono
lasciati espropriare o limitare questa competenza: per mancanza di
autorevolezza dell’attuale Parlamento?
Ma forse il capo del Governo, Matteo Renzi,
dimentica (come fecero, del resto, molti suoi predecessori) di essere a capo di
un esecutivo, non di uno Stato assoluto con una persona sola al comando.
Purtroppo ha talmente abituato il popolo italiano al suo linguaggio diretto da
uomo solo al comando (ho detto, ho deciso, ho fatto la legge, faccio la
riforma, cambio la Costituzione o me ne vado, ecc.) che quasi nessuno, anche
tra i giornalisti, ci fa più caso. Solo i sostenitori del NO gli ricordano (se
mai ci abbia pensato!) che lo Stato e le sue istituzioni sono da servire, non
da modificare a suo piacimento e, soprattutto, che «la sovranità appartiene al
popolo», ancora e sempre.
Poiché è comunque importante votare, se non altro per
sentirsi partecipi e protagonisti delle sorti del Paese, pur nell’impossibilità
di una valutazione oggettiva delle 47 modifiche apportate alla Costituzione,
bisognerebbe soffermarsi almeno su qualche problema in particolare e
soprattutto sulla portata complessiva della riforma.
Diffidare degli scenari apocalittici e
semplicistici
Anzitutto, però, bisognerebbe diffidare delle posizioni
estreme e in particolare delle visioni catastrofiche nell’ipotesi che vincano i
favorevoli oppure i contrari alla riforma. Credo che non meritino attenzione
neppure molte considerazioni superficiali e semplicistiche che si trovano in
alcuni profili di sostenitori della riforma del tipo: le riforme «o si fanno
adesso o non si faranno mai», la riforma serve «per cancellare poltrone e
stipendi», serve all’Italia «per essere più competitiva e soprattutto meno
burocratica e corrotta», «per togliere alle Regioni poteri inefficienti» ecc.
![](https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhXLJJ4yCWyIbl7qB7j3Sogdt-Ymbo8531qUwr5m7S3_s9EL2u9npXnNNtBlPlvwLl-cMhzY-37oJen3HWZKPUgECH_ZWA-L3RT2CHtYPFzk3Zhe9wbP6EvwFWE_gHJv27ORz8YCqrWdgE/s320/riforma-costituzionale-2016.png)
Anche tra i sostenitori del NO, non sono pochi quelli che
considerano la riforma «uno stravolgimento della Costituzione», pericoloso per
la democrazia perché farebbe aumentare considerevolmente il peso politico o lo
strapotere del partito vincitore delle elezioni e del suo leader, che
diventerebbe automaticamente capo del Governo e arbitro della politica in
quanto di fatto dominerebbe la Camera dei deputati, unica a dare o togliere la
fiducia, col rischio di una deriva autoritaria.
Non credo che siano ragionevoli le paure evocate dagli uni e
dagli altri. L’Italia continuerà a restare un grande Paese e la riforma, per
quanto sgangherata possa apparire, non è liberticida. Nemmeno il capo del
Governo potrà contare molto su questa riforma per accrescere la sua
autorevolezza, perché la sua forza dipenderà essenzialmente dalle capacità del
suo Governa di risolvere i problemi del Paese. Ma non c’è dubbio che la
democrazia, nel senso della partecipazione popolare alle scelte fondamentali
del Paese e alla scelta dei propri rappresentanti nelle istituzioni, ne
risulterebbe notevolmente indebolita.
La questione fondamentale: più centralismo o
più democrazia?
Nell’impossibilità di soppesare vantaggi e svantaggi dei
singoli punti della riforma, ritengo estremamente importante che si valuti
attentamente, alla luce di quanto letto e sentito, la questione fondamentale
che solleva l’attuale riforma costituzionale, ossia il rapporto in essa
contenuto tra centralismo e democrazia.
Quando nel 1874, in Svizzera, si discusse della revisione
totale della Costituzione federale (e dell’introduzione del referendum
facoltativo), la vera posta in gioco era la scelta tra un maggiore centralismo,
per rispondere più in fretta soprattutto alle edemocrazia diretta con l’estensione dei diritti
popolari. Col referendum costituzionale italiano si è di fronte a una scelta
analoga. In Svizzera vinse la democrazia diretta, che assicurò ai cittadini
maggiori poteri. In Italia l’esito è incerto.
sigenze internazionali, e il
rafforzamento della
Nel rievocare la revisione della Costituzione federale
svizzera del 1874, può essere interessante ricordare la procedura adottata: il
progetto di revisione fu elaborato da un’apposita commissione bicamerale,
approvato dall’Assemblea federale (Parlamento) e sottomesso al voto popolare
(referendum obbligatorio). Una prima proposta venne respinta nel 1872 dal
Popolo e dai Cantoni, perché ritenuta esagerata nei contenuti; ma la seconda
proposta, con un contenuto ridotto rispetto alla precedente, fu invece
approvata a larga maggioranza sia dal Popolo che dai Cantoni.
A questo punto, trovo legittime alcune domande. Anzitutto, perché
in Italia, invece del coinvolgimento ritenuto da molti eccessivo del Governo al
limite dell’ingerenza nelle competenze del Parlamento, non si è incaricata una
commissione bicamerale col compito preciso di indicare poche, efficaci e
ampiamente condivise modifiche costituzionali? Si ha forse paura di un altro
fallimento dopo quelli delle bicamerali del passato? O si ha paura di non
giungere mai ad un ampio consenso e quindi è preferibile appellarsi
direttamente al Popolo, pur sapendo che voterà più per attaccamento al «suo»
partito che per convinzione circa la ragionevolezza o l’inutilità della riforma,
oppure non voterà affatto per l’incomprensibilità di un testo difficile e dalle
conseguenze incerte?
Ma le domande fondamentali mi sembrano: l’Italia ha più
(urgente) bisogno di centralismo o di democrazia? Le Regioni sono soprattutto
un peso o una risorsa? Il Governo, per essere più efficiente ed efficace, ha
davvero bisogno di più poteri? E il Parlamento, non è in grado, già oggi, di
ridurre i costi della politica e migliorare la propria produttività?
In conclusione
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Carlo Azeglio Ciampi, pres. della Repubblica dal 1999 al 2006 |
Gli specialisti e i sostenitori del SÌ e del NO continueranno
ancora per settimane a difendere le loro posizioni e i comuni cittadini che
andranno a votare faranno fatica a districarsi tra gli argomenti per il sì e
per il no. Ognuno dovrà votare secondo scienza e coscienza, ma è importante, mi
sembra, affrontare questa prova con questa consapevolezza: «la Costituzione del
1948 è un documento valido, vivo e vitale, non soltanto perché sapie
ntemente
redatta da eminenti politici e giuristi, ma perché ha un’anima: lo spirito
risorgimentale passato attraverso il dramma della dittatura e la catarsi del
1943-45. Essa esprime la passione civile che solo la condivisione profonda e
vissuta di valori quali quelli maturati dagli italiani nella loro storia può
generare» (Carlo Azeglio Ciampi, nel 2003). (Fine)
Giovanni Longu
Berna, 21.9.2016
Berna, 21.9.2016
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