Nella storia della Svizzera, forse più che in molti altri
Paesi europei, libertà e paura sembrano convivere in un rapporto singolare:
dapprima la libertà vista come ideale da raggiungere supera ogni paura e
difficoltà, poi, una volta conquistata, nella sua dimensione personale e
statuale, genera la paura che si perda o venga ridimensionata da influenze
esterne. Basta ricordare i primi articoli della Costituzione federale del 1848
e analizzare i risultati delle recenti elezioni del 18 ottobre 2015 per
rendersene conto.
Dalla Costituzione del 1848 alle elezioni del 2015
L’articolo 2 della Costituzione federale del 1848 è chiaro:
«La Lega ha per iscopo di sostenere l’indipendenza della Patria contro lo
straniero, di mantenere la tranquillità e l’ordine nell’interno, di proteggere
la libertà e i diritti dei Confederati, e di promuovere la loro comune
prosperità». Se questo era lo scopo della nascente Confederazione,
evidentemente la paura di perdere sia l’indipendenza che la libertà doveva
essere tanta. E’ sintomatico che l’articolo 2 citato sia rimasto invariato in
tutte le revisioni costituzionali fino all’ultima generale del 1999, quando
quel tipo di paura sembrava aver perso di rilievo.
Toni Brunner, presidente dell'UDC, visibilmente soddisfatto delle elezioni del 2015 |
Le elezioni per il Consiglio nazionale (corrispondente alla
Camera dei deputati italiana) del 18 ottobre 2015 possono essere interpretate
da diversi punti di vista, ma non si può escludere un consistente influsso
della paura, sia pure di tipo diverso da quello del 1848 e anche del 1999.
Molti analisti hanno messo in evidenza i cambiamenti rispetto alle precedenti
elezioni del 2011, ma altri hanno preferito sottolineato quanto la paura abbia
influito sul risultato finale. Anche il fatto che la maggioranza dei commentatori
nazionali e internazionali lo abbia interpretato come una pericolosa svolta a
destra dovuta alla vittoria schiacciante dell’Unione democratica di centro (UDC), considerata un partito di
destra, conservatore, nazionalista, anti immigrati e anti-europeo, sta a
denotare per lo meno il clima di paura in cui si è votato. Paura che a mio
parere va tuttavia relativizzata.
Destra e sinistra: categorie inadeguate
Anzitutto trovo inadeguate e superate, anche se ancora ampiamente
utilizzate, le categorie spaziali di destra e sinistra per qualificare eventi così
importanti come le elezioni politiche di qualunque Paese, ma soprattutto della
Svizzera, in cui la democrazia diretta è considerata la massima espressione
della libertà e della identità del suo popolo. L’immagine di una destra e di
una sinistra dà l’idea di una sorta di bivio in cui fa bene solo chi imbocca la
sinistra, mentre rischia grosso e fa male chi imbocca la destra. Oltretutto,
l’uso di tali categorie denota un pregiudizio di fondo, perché introduce in un
discorso che dovrebbe restare politico categorie sostanzialmente etiche o
ideologiche, ossia che la sinistra sia migliore della destra.
Ciò premesso, secondo un’analisi più obiettiva e meno
ideologica del voto del 18 ottobre scorso, non mi pare che si possa parlare di
una svolta (pericolosa) e nemmeno di una scelta (azzardata) dell’elettorato.
Generalmente, infatti, in un Paese di lunga esperienza democratica come la
Svizzera, i cittadini scelgono i partiti ed eleggono i propri rappresentanti con
consapevolezza, anche perché i candidati sono di solito persone molto note,
delle quali è facile conoscere gli orientamenti e la coerenza con cui
sostengono le proprie idee.
Nel solco della continuità
Quanto alla «svolta», vorrei ricordare che anche le elezioni
federali di quest’anno, sebbene rispetto a quelle del 2011 mettano in risalto alcune
importanti variazioni (che secondo alcuni analisti rappresentano piuttosto «correzioni»
di errori del passato) riguardo alla forza dei partiti, si sono svolte
all’insegna della continuità perché confermano una tendenza in atto almeno da
vent’anni. La fiducia del popolo svizzero nell’UDC non nasce in questi ultimi
anni in cui si sono acuiti i problemi riguardanti il lavoro, gli immigrati, i
rapporti con l’Unione europea (UE), ma cresce costantemente (a parte una
battuta d’arresto nel 2011) da almeno un ventennio. Dal 14,9 per cento di
consensi alle elezioni federali del 1995 l’UDC è passata nelle recenti elezioni
al 29,4 per cento, il record di consensi per un partito politico svizzero
dall’introduzione del sistema proporzionale, avvenuta nel 1919.
Per rendersi maggiormente conto della continuità col passato
basterebbe inoltre ricordare che nello stesso lasso di tempo 1995-2015, tutti
gli altri partiti di governo hanno perso consensi: il Partito socialista è
passato dal 21,8 al 18,8 per cento, il Partito liberale radicale dal 20,2 al
16,4 per cento, il Partito popolare democratico dal 16,8 all’11,6 per cento.
Etichettando i recenti risultati elettorali come una svolta o una virata più o
meno marcata si dimentica questa tendenza già in atto da oltre un ventennio e
di attribuire al popolo svizzero un cambiamento di orientamenti non corrispondente
al suo carattere essenzialmente prammatico e poco ideologico.
Bisogno di sicurezza per superare la paura
Resta da capire perché gli elettori sembrano privilegiare
alcuni partiti e non altri. Le risposte vanno cercate, a mio parere, nella
storia psicologica del popolo svizzero. Anche solo partendo dal 1848, l’anno di
fondazione della moderna Confederazione, non si può fare a meno di osservare che
i valori in cui gli svizzeri hanno sempre maggiormente creduto, ossia la
libertà (soprattutto nella sua massima espressione della democrazia diretta) e
l’indipendenza, non sono ritenuti definitivamente al sicuro, sia per ragioni
interne e sia per ragioni esterne.
Si dirà che tutti i popoli considerano la libertà e
l’indipendenza come valori irrinunciabili, ma non per questo li ritengono in
pericolo. Questo è innegabile, ma nel caso del popolo svizzero mi pare di
notare una maggiore sensibilità al riguardo, dovuta forse alla sua ancor
fragile composizione, alla sensazione di accerchiamento con rischio d’invasione
provata in alcuni periodi drammatici della sua storia e ancora presente almeno
nel subconscio, alla paura di mettere a repentaglio il benessere faticosamente
raggiunto. Di qui nasce, soprattutto in alcuni strati medio-bassi della
popolazione, un bisogno di sicurezza, che solo un partito, l’UDC, promette in
continuazione attirando consensi.
In Svizzera la paura è di casa
Sarebbe esagerato affermare che gli svizzeri vivano di
paura, ma significherebbe non conoscerli abbastanza se si negasse che essi sono
particolarmente sensibili alla paura, anzi vi convivono quotidianamente. Se il
franco svizzero si rafforza rispetto all’euro c’è subito qualche giornale che
intitola: «Con il franco forte la Svizzera scopre la paura:
torna lo spettro recessione». Basta che il tasso di disoccupazione (attualmente
è al 3,2 per cento!) aumenti di qualche decimale e già scatta l’allarme lavoro.
Se la Banca nazionale svizzera comunica di non essere certa di poter distribuire
alla fine dell’anno il dividendo di un miliardo alla Confederazione e ai
Cantoni, gli enti pubblici cominciano a preoccuparsi.
L’economia svizzera è florida eppure si teme che non duri
(la stessa paura che si registrava nel dopoguerra, nonostante il boom
economico). Il franco forte fa mettere in evidenza le difficoltà dell’industria
svizzera d’esportazione e nessuno sembra accorgersi che nel terzo trimestre
2015 la bilancia commerciale della Svizzera (esportazioni meno importazioni) ha
registrato un’eccedenza record di 9,4 miliardi. Persino l’Amministrazione
federale delle dogane ha intitolato il relativo comunicato stampa «3° trimestre 2015: il commercio estero
vacilla». Nessun accenno all’export record dell’anno scorso.
Nel quotidiano, tuttavia, la paura non appare tanto, segno
che il grado di soddisfazione generale del popolo svizzero è piuttosto alto
(tre persone su quattro si dicono soddisfatte della loro esistenza), come ha
recentemente confermato anche il «World Happiness Report» (Rapporto sulla
felicità nel mondo) dell’ONU per il 2015, che colloca la Svizzera al primo
posto (per inciso l’Italia figura solo al 50° posto) su 158 nazioni prese in
considerazione. Nel commentare la notizia, il Corriere del Ticino intitolava: «Siamo i più felici del mondo e quasi non ce
ne accorgiamo». Che è tutto dire.
La paura influenza molte decisioni
La paura si manifesta in maniera evidente solo in occasioni
particolari, ad esempio, quando si vota su temi scottanti, per esempio quelli riguardanti
direttamente o indirettamente gli stranieri o quelli sui rapporti tra la
Svizzera e l’UE.
Negli annali della politica migratoria svizzera, la votazione
più emblematica resterà quella sull’«iniziativa Schwarzenbach» anti-stranieri e
soprattutto anti-italiana. Fece registrare una partecipazione record (74,7%), inferiore solo a quella sull’introduzione dell’assicurazione
vecchiaia e superstiti nel 1947, ma mai più superata in seguito. Allora si
disse che la spinta ad andare a votare era stata la paura: paura degli
stranieri da parte dei sostenitori dell’iniziativa e paura che l’iniziativa
venisse approvata da parte di tutti gli altri. La maggioranza del popolo
svizzero (54% dei votanti, allora solo uomini, perché le donne non avevano
ancora ottenuto il diritto di voto a livello federale) respinse l’iniziativa,
ma quel rigetto fu attribuito proprio alla paura delle imprevedibili
conseguenze che avrebbe comportato una sua accettazione.
Il clima degli anni Settanta del secolo scorso non c’è più
stato, ma la paura dell’immigrazione di massa, di avere in Svizzera troppi
stranieri e di non avere strumenti adeguati per gestire i flussi è ancora
attuale. Il partito risultato chiaramente vincitore alle ultime elezioni,
l’UDC, è stato preferito dagli elettori perché ha dato l’impressione di condividere
questa paura, incentrando tutta la campagna elettorale sull’emergenza profughi,
il controllo dell’immigrazione e l'antieuropeismo. Lo
slogan adottato è stato semplice, ma efficace: «Restiamo liberi!». Dire che anche stavolta ha vinto la paura non è
esagerato.
In conclusione
Si può convenire in linea teorica che la paura non è quasi
mai una buona consigliera, come dice il detto, ma non necessariamente ogni
paura è ingannevole e deleteria. Può persino contribuire a cercare le soluzioni
migliori. Diceva il filosofo Spinoza che «non
c’è speranza senza paura né paura senza speranza». In questa occasione
la speranza è che la paura sia superata da un forte accordo tra i partiti
maggiori (principio della concordanza) e dal rafforzamento degli accordi
bilaterali con l’UE. Per mettere al sicuro la libertà e la democrazia non ci
sarà anche in futuro niente di meglio della coesione nazionale e dell’intesa
con l’Europa, di cui comunque, nel bene e nel male, la Svizzera fa parte.
Giovanni Longu
Berna, 4.11. 2015
Berna, 4.11. 2015
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