Settant’anni fa nel mondo occidentale si tirava un
sospiro di sollievo: la guerra era finita. In Italia si festeggiava non solo la
fine della guerra, ma anche la Liberazione dal nazi-fascismo. Le sfilate e le
espressioni incontenibili di gioia rappresentavano per gli italiani la fine di
un incubo e la riconquista della libertà. Anche cent’anni fa, a maggio,
regnava in Italia una grande euforia, ma per una ragione inversa: si stava per
entrare in guerra. Quella guerra che avrebbe causato all'Italia oltre un
milione di morti tra militari e civili in cambio di territori che probabilmente
avrebbe potuto ottenere in altra maniera.
Benedetto XV. Invano chiese ai capi di Stato la fine della guerra e "una pace giusta e duratura" |
Invano il papa Benedetto XV, eletto nel settembre
1914 quando da pochi mesi era divampata in Europa la grande guerra, aveva esortato
i capi di Stato e di governo a far cessare le ostilità che avevano già provocato
centinaia di migliaia di vittime, invitandoli a risolvere le controversie internazionali
attraverso il dialogo e il negoziato. Tutti fecero orecchie di mercante. Anche
l’Italia, che allo scoppio della guerra (luglio 1914) aveva dichiarato la
propria neutralità.
La neutralità italiana
L’Italia, pur essendo alleata
della Germania e dell’Austria (Triplice Alleanza) non era tenuta a intervenire
a fianco dell’una o dell’altra potenza nel caso di una guerra di aggressione,
per cui, secondo la stragrande maggioranza degli italiani, faceva bene a restare
neutrale. Ma si trattava evidentemente di una maggioranza fragile. Bastarono infatti
pochi mesi per farle cambiare opinione e, per dirla con Bruno Vespa nel
suo ultimo libro Italiani voltagabbana, l’Italia che poteva restare
neutrale «riuscì ugualmente a voltare gabbana» (già allora!).
Nei mesi di luglio e agosto 1914 era divampata in Italia la
discussione se fosse più utile restare neutrali o, interpretando Machiavelli,
approfittare dell’occasione per «fare il colpo» e strappare all’Austria le
terre che l’Italia rivendicava per completare l’unità. In realtà l’Italia non
era pronta al colpaccio perché dissestata finanziariamente a causa della guerra
di Libia (1911-1912) e impreparata militarmente. I sostenitori della
neutralità, tra cui molti cattolici, avevano anche altre buone ragioni per non
entrare in guerra. Qualcuno avvertiva: «Guai se domani si potesse dire che
l’Italia non tiene la propria parola, ma la tradisce; i primi a disprezzarci
sarebbero quelli stessi che ora ci premono con le più dolci lusinghe e nessuno
vorrebbe più trattare seriamente con noi». Ciò nonostante, la fila dei sostenitori
dell’intervento italiano andava ingrossandosi sempre più nella prospettiva di
ottenere grandi conquiste territoriali e morali.
Ufficialmente l’Italia si professava rispettosa della Triplice
Alleanza, anche quando era evidente che per avere Trento e Trieste più alcune
città dell’Istria il nemico da battere era uno Stato della Triplice, l’Austria.
Del resto erano noti anche i sondaggi dell’Italia nel campo degli avversari, la
Triplice Intesa (Francia, Gran Bretagna e Russia). Un cronista dell’epoca descrisse
la preparazione alla guerra dell’Italia come una sorta di vendetta «freddamente
calcolata» per punire l’Austria della lunga occupazione di territori italiani.
A dare man forte ai fautori dell’entrata in guerra ci pensò
fra gli altri Benito Mussolini, già socialista rivoluzionario e
sostenitore della neutralità dell’Italia. Convertitosi alla causa dell’entrata
in guerra, andava predicando che persistere nella neutralità assoluta sarebbe
stato un errore e una colpa dei socialisti. La maggioranza del partito
socialista in cui militava però non lo seguì e decise di espellerlo dal partito
e dal suo giornale Avanti che allora
dirigeva.
La neutralità svizzera
Imperterrito e indifferente alle accuse di essere un
voltagabbana (del resto non unico in quel periodo), anzi di «traditore», fondò
a Milano un altro giornale, Popolo
d’Italia, che divenne un giornale di propaganda per l’entrata in guerra
dell’Italia contro l’Austria. Quanto Mussolini fosse abile nella propaganda lo
dimostra il fatto che riuscì a mobilitare anche numerosi italiani residenti in
Svizzera. Ad Ascona, per esempio, fin dal dicembre 1914 fu costituito un
«Fascio autonomo d’azione rivoluzionaria» con lo scopo di svolgere un’attiva
propaganda per l’intervento italiano.
Mussolini, che dalla Svizzera era stato espulso nel 1903
come sovversivo, doveva essersela legata al dito perché nella sua propaganda
non esitò ad accusare la Svizzera di fare la neutrale ma strizzando l’occhio
alla Germania e all'Austria. Era una sorta di luogo comune ritenere che la
Svizzera fosse un Paese «tedesco» e dunque schierato dalla parte della
Germania. In realtà, se è vero che una buona parte dell’opinione pubblica svizzero-tedesca
aveva simpatie per la Germania, la Confederazione affermava in continuazione
che intendeva restare assolutamente neutrale e pronta a difendere la sua
sovranità contro «chiunque» avesse tentato di violare i suoi confini. Chi
conosce il paesaggio svizzero sa quante migliaia di opere militari di difesa sono
disseminate lungo tutta la frontiera e nei punti strategici per opporre in caso
di aggressione una valida difesa. Molte di esse sono sorte in quel periodo.
Sta di fatto che, tra l’Italia e la Svizzera, quel
sentimento di vigile diffidenza che ha caratterizzato le relazioni bilaterali
fino ad allora, ossia dalle velate rivendicazioni sul Ticino fino alla paura
che gli eserciti degli Imperi centrali potessero utilizzare il corridoio
svizzero per giungere fino a Milano, ha spinto l’Italia a fortificare per parecchie
decine di chilometri la frontiera con la Svizzera e la Svizzera a fare
altrettanto.
Festeggiare la pace e ripudiare la guerra
Per fortuna tutte queste fortificazioni (a cui hanno
lavorato decine di migliaia di persone e che sono costate ingenti somme di
denaro pubblico), munite di armamenti leggeri e pesanti, non sono state mai
utilizzate. Meriterebbero una festa proprio per questo. Invece di celebrare le
vittorie, costate milioni di morti, bisognerebbe festeggiare la pace raggiunta
e salvaguardata senza guerre. La storia insegna ormai abbondantemente che le
guerre non risolvono i problemi dell’umanità ma rischiano di aggravarli. Quel
che è scritto nella Costituzione italiana all'articolo 11 dei Principi
Fondamentali credo che dovrebbe valere non solo per gli Stati, ma anche per i
cittadini, ossia il «ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali…».
Giovanni Longu
Berna, 13.05.2015
Berna, 13.05.2015
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