13 luglio 2022

Immigrazione italiana 1991-2000: 13. Gli italiani e la politica (quarta parte/fine)

A completamento del quadro riguardante l’impegno politico degli italiani residenti in Svizzera nel periodo in esame (1991-2000) s’intende esaminare in questo articolo il contributo delle istituzioni italiane allo sviluppo della lingua italiana e dell’italianità in generale. Purtroppo fu scarso perché mancava nel campo italiano (come del resto anche in quello svizzero) una politica linguistica di lungo respiro. Molti italiani pensavano che spettasse allo Stato italiano e alle rappresentanze diplomatiche e consolari in Svizzera garantire l’italianità dei propri cittadini. A loro volta, le istituzioni italiane ritenevano probabilmente che il loro impegno principale si esaurisse nel garantire i corsi di lingua e cultura ai bambini in età scolastica. Gli italiani integrati e soprattutto quelli con la doppia nazionalità sembravano completamente ignorati.

La situazione

Cinquant'anni di immigrazione italiana avevano trasformato il panorama linguistico della Svizzera, perché l’italiano era uscito dalla sua regione naturale, la Svizzera italiana, e si era diffuso anche nella Svizzera tedesca e francese. Era stato creato un capitale enorme d’italianità che avrebbe meritato di essere consolidato e valorizzato. Già i dati del censimento federale della popolazione del 1980 avevano invece certificato che l'italofonia era in forte diminuzione (9,8%, dopo aver sfiorato il 12% nel 1970). I dati dei censimenti del 1990 (7,6%) e del 2000 (6,5%) confermavano che l’italiano era come un malato bisognoso di una terapia intensiva per sopravvivere, ma che nessuno era in grado di indicare e soprattutto di praticare.

Per le istituzioni svizzere il calo sembrava dovuto soprattutto alla diminuzione (ormai inesorabile) degli immigrati italiani ed era irrimediabile. Del resto non destava ancora preoccupazione perché non concerneva se non minimamente la popolazione italofona di nazionalità svizzera. Anche per le autorità italiane il fenomeno era strettamente legato al gran numero dei rientri e probabilmente irreversibile, per cui il loro compito si limitava soprattutto a garantire ai cittadini in età scolastica che avevano deciso di rientrare prossimamente in Italia una sufficiente conoscenza della lingua e della cultura italiana in modo da potersi inserire senza grosse difficoltà nel contesto italiano.

Interrogativi sul futuro dei corsi di lingua e cultura

Nessuno ancora metteva in dubbio l’utilità dei corsi di lingua e cultura per i bambini prossimi al rientro, ma già si cominciava a discutere sul futuro di tali corsi, perché era sempre più evidente che il numero dei destinatari per i quali erano stati introdotti (i figli degli emigrati) si riduceva sempre di più. La maggior parte degli italiani in età scolastica era infatti ormai costituita da italiani di seconda e terza generazione, che certamente non avevano in cima ai loro pensieri un prossimo rientro in Italia. Molti di essi avevano addirittura la doppia nazionalità. Se nei decenni passati i corsi di lingua e cultura erano finalizzati a facilitare l’inserimento degli allievi nelle scuole italiane in caso di rientro dei loro genitori, questa finalità non era più attuale.

Gli interrogativi erano seri. Avrebbero avuto ancora senso questi corsi organizzati e finanziati dallo Stato italiano? Non sarebbe stato preferibile trovare un accordo con le autorità svizzere per integrarli nel sistema scolastico cantonale? Del resto erano sempre più numerosi gli italiani che sostenevano l’opportunità di coinvolgere maggiormente la Confederazione e i Cantoni nella difesa dell’italiano e dell’italianità. Evidentemente, però, i tempi non erano maturi per quel tipo di accordi e per una visione lungimirante della collaborazione italo-svizzera nella politica linguistica e scolastica.

Per gli italiani adulti che avevano deciso di rimanere in Svizzera il calo dell'italofonia non appariva rilevante perché continuavano a ricevere i tradizionali contributi a pioggia dello Stato italiano, che servivano a tenere in vita associazioni, giornali, fogli e foglietti delle principali organizzazioni e a incoraggiare qualche manifestazione vagamente «italiana».

Interventi mirati

Eppure si sentiva in diversi ambienti, italiani e svizzeri, la necessità di affrontare il problema della lingua italiana, in affanno almeno a nord delle Alpi, e dell’italianità, a livello nazionale, con interventi mirati e coordinati per non dissipare il capitale faticosamente accumulato. Effettivamente, già nel periodo in esame e subito dopo, furono intraprese, benché non sempre in modo coordinato, numerose iniziative utili, soprattutto da parte di alcune istituzioni italiane (per esempio l’Associazione degli scrittori di lingua italiana in Svizzera, la Federazione delle colonie libere italiane in Svizzera, l’Ambasciata d’Italia, alcuni Consolati, alcuni Comitati cittadini d’intesa, alcuni Comites). Vennero organizzati incontri, dibattiti, conferenze, feste popolari, celebrazioni di importanti anniversari, ecc.

Si cercò soprattutto (col contributo della stampa italiana cosiddetta d’emigrazione) di sensibilizzare l’opinione pubblica sui temi dell’italiano e dell’italianità, coinvolgendo insegnanti, genitori, allievi, associazioni, intellettuali, artisti, amanti della cultura, dell’arte e della moda italiane e dell’Italia e altri. Mancava, tuttavia, il coinvolgimento diretto delle istituzioni svizzere, per cause che sono in parte note e che comunque non è più il caso di evocare ancora. Resta il fatto, estremamente importante e significativo, che anche nel campo svizzero si cominciò a percepire nettamente il pericolo di un franamento a nord delle Alpi della lingua italiana per la coesione nazionale e per l’immagine (internazionale) della Svizzera plurilingue e multiculturale.

Coinvolgimento delle istituzioni svizzere

Purtroppo non ci fu, nel periodo in esame, un coordinamento tra le varie istituzioni interessate all'italofonia, ma evidentemente furono gettati buoni semi che germoglieranno e produrranno buoni frutti in seguito. Se ne tratterà probabilmente in seguito, ma già ora meritano comunque alcuni cenni. In particolare: l’approvazione della Legge federale sulle lingue nazionali e la comprensione tra le comunità linguistiche del 2007 (che impegna la Confederazione e i Cantoni a promuovere il plurilinguismo, per esempio attraverso scambi linguistici in ambito scolastico), i molteplici interventi della Confederazione a sostegno dei Cantoni plurilingui e in particolare dei Cantoni Ticino e Grigioni, la creazione degli intergruppi parlamentari «Plurilinguismo CH» e «Italianità», la creazione nel 2012 del «Forum per l’italiano in Svizzera», istituito su iniziativa dei Cantoni Ticino e Zurigo, le molteplici attività sul plurilinguismo promosse dal gruppo di riflessione apartitico« Coscienza svizzera», l’organizzazione delle «Giornate del plurilinguismo» in seno all'Amministrazione federale, ecc.

Un accenno particolare meriterebbero alcune interessanti pubblicazioni sulle lingue di «Coscienza svizzera» e il recente (2021) rapporto molto accurato e dettagliato commissionato dal Forum per l’italiano in Svizzera su «La posizione dell’italiano in Svizzera. Uno sguardo sul periodo 2012-2020 attraverso alcuni indicatori» (2021), ma evidentemente manca lo spazio necessario. Se ne parlerà probabilmente in altra occasione perché la problematica linguista e la situazione dell’italiano sono comunque temi sempre attuali e decisivi anche per il futuro dell’italianità in Svizzera.

La direzione è segnata

Dopo il coinvolgimento delle istituzioni svizzere interessate e i risultati già raggiunti è facile concludere che avevano ragione coloro che ritenevano, almeno dagli anni Ottanta (!), che era indispensabile coinvolgere le istituzioni svizzere nella problematica sul futuro dell’italianità in Svizzera. Effettivamente si può dire che il clima linguistico è oggi più sereno che vent'anni fa e che nel frattempo si sono aperti spiragli di ottimismo per il futuro. I dati recenti sulle lingue dell’Ufficio federale di statistica attestano, per esempio, che la lingua italiana sembra stabilizzarsi attorno a valori sostenibili e fanno dunque ben sperare.

Sarebbe comunque un errore gravissimo se la collaborazione tra italiani e svizzeri stabilitasi in quest’ultimo ventennio rallentasse la sua attività o vedesse diminuire il contributo dell’una o dell’altra parte. C’è infatti ancora molto da fare. Per esempio, sarebbe estremamente utile una maggiore integrazione dei corsi di lingua e cultura nel programma scolastico svizzero. Sarebbe inoltre auspicabile coinvolgere maggiormente le seconde (e terze) generazioni nella valorizzazione del plurilinguismo e dell’italianità quali caratteristiche irrinunciabili della storia e della cultura svizzere.

L’esperienza ha dimostrato ampiamente che l’intesa è vantaggiosa. Anche l’opinione pubblica sia svizzera che italiana sembra aver capito che la conoscenza della lingua e della cultura italiana rappresenta non solo un arricchimento culturale individuale, ma anche un potenziamento della collaborazione italo-svizzera nell'interesse reciproco della Svizzera e dell’Italia. La direzione da seguire è perciò segnata. (Fine)

Giovanni Longu
Berna, 13.07.2022

29 giugno 2022

Immigrazione italiana 1991-2000: 12. Gli italiani e la politica (terza parte)

Nei due ultimi articoli si faceva notare sia l’estraneità tradizionale degli emigrati alla politica attiva e sia il tentativo di attivisti, spesso appositamente venuti dall'Italia, di farne una forza in grado d’influire sulle decisioni del governo italiano in materia di emigrazione. Fatta salva la buona fede della quasi totalità degli emigrati aderenti ai partiti e alle associazioni che si incaricavano di questa specie di «missione», non si possono non riconoscere in queste organizzazioni limiti ed errori anche gravi. Per esempio, di non aver capito che qualunque battaglia s’intendesse compiere in Svizzera in favore degli immigrati, per aver successo non poteva prescindere dalle istituzioni svizzere più vicine agli stranieri: alcuni partiti politici, i sindacati svizzeri e le chiese (comprese le Missioni cattoliche italiane).

Visione parziale della realtà

Spesso gli italiani hanno ridotto l’attività politica al diritto di voto comunale,
trascurando altre forme di partecipazione (nei partiti, gruppi di lavoro, ecc.)
Fu sicuramente un errore gravissimo delle organizzazioni orientate politicamente verso l’Italia continuare a ritenere, persino negli anni Novanta, che gli italiani residenti in Svizzera fossero ancora emigrati «temporanei», senza rendersi conto non solo che l’immigrazione italiana tendeva vistosamente a stabilizzarsi, ma che una parte in forte crescita era costituita ormai da italiani nati e cresciuti in Svizzera, o qui giunti in età prescolastica o durante i primi anni di scolarità, che con tutta probabilità sarebbe rimasta a lungo e forse per sempre in Svizzera.

Il compito principale di alcune organizzazioni sembrava, da una parte, quello di intercettare il malessere di molti immigrati e di inoltrare alle autorità italiane proteste e rivendicazioni e, dall'altra, quello di mantenere alto il senso di appartenenza all'Italia di tutti gli italiani. Fu relativamente facile trasmettere al governo elementi del disagio e ottenere alcuni diritti, per esempio il diritto di voto all'estero. A molti lavoratori italiani in età pensionabile risultò sicuramente utile anche l’informazione sui diritti pensionistici in Italia e in Svizzera e ai possessori di case l’informazione sui relativi diritti e doveri e possibili agevolazioni.

Per molti immigrati fu un successo anche essere riusciti a ottenere una rappresentanza di deputati e senatori nel Parlamento italiano, il rafforzamento dei patronati, il potenziamento del Consiglio Generale degli Italiani all'Estero (CGIE), la valorizzazione dei Comitati degli italiani residenti all'estero (Comites), la possibilità di attivare un’infinità di contatti con esponenti politici italiani, ecc.

Dei ragazzi della seconda generazione in età scolastica erano in molti, dall'ambasciata alle associazioni dei genitori, a preoccuparsi che non perdessero le conoscenze basilari della lingua e della cultura italiana; ma quanti s’interessavano al loro grado d’integrazione nella scuola svizzera locale, alla loro capacità di superare la selezione tra i vari tipi di scuola con esigenze variabili, al loro orientamento scolastico e professionale, alla valorizzazione del loro bilinguismo e biculturalismo, al loro potenziale d’innovazione nella società svizzera e nei rapporti bilaterali tra l’Italia e la Svizzera, ecc.? Non poteva fare di più la politica italiana?

Scarsa efficacia rivendicativa in Svizzera

Non vanno certamente sottovalutate le difficoltà delle organizzazioni degli immigrati (italiani) d’intervenire nel mondo della politica, del sindacalismo, dell’associazionismo svizzeri, ma non si può nemmeno negare che i tentativi d’intervento, soprattutto ad alto livello, sono stati scarsi. Per decenni gli italiani sono stati più assenteisti che partecipi nelle commissioni e nei gruppi di lavoro misti, preferendo agire sul versante (solo) italiano attraverso il Comitato nazionale d’intesa (CNI), Comitati cantonali e cittadini d’intesa, Comites.

Talvolta i «politici» italiani non erano presi sul serio dalla Svizzera perché, sottovalutando i problemi, le difficoltà istituzionali e la psicologia di massa invocavano per esempio il diritto di voto agli stranieri in quanto contribuenti, ma non incoraggiavano la naturalizzazione e non favorivano la partecipazione dei naturalizzati nelle organizzazioni degli stranieri.

Considerando i sindacati svizzeri poco efficaci nella lotta e più vicini ai padroni che ai lavoratori stranieri, per molto tempo grandi associazioni di immigrati non hanno incoraggiato la sindacalizzazione, preferendo affidarsi a strutture similari italiane. Un atteggiamento analogo è stato tenuto in ambito ecclesiale, in cui agli sforzi d’integrazione nella chiesa locale si è spesso preferito l’ambiente più rassicurante delle Missioni cattoliche italiane.

Anche in altri campi le organizzazioni italiane si sono rifugiate nell'autoreferenzialità piuttosto che impegnarsi a stabile contatti e avviare collaborazioni, ma gli esempi citati sono sufficienti per evidenziare limiti e talvolta pregiudizi nell'atteggiamento politico di molti italiani. Per completare il quadro sarà comunque analizzato nel prossimo articolo anche lo scarso contributo delle stesse organizzazioni alla valorizzazione della lingua italiana e dell’italianità in generale. (Segue)

Giovanni Longu
Berna 29.06.2022

22 giugno 2022

Immigrazione italiana 1991-2000: 11. Gli italiani e la politica (seconda parte)

La politica è entrata nel discorso sull'emigrazione/immigrazione ben prima degli anni Novanta del secolo scorso, ma è in quel decennio che essa ha invaso ogni ambito degli italiani residenti in Svizzera. Al di là dell’interesse diretto dei partiti ad avere propri rappresentanti anche all'estero, in grado di mobilitare gli emigrati per votare in loro favore al momento delle elezioni in Italia, c’era l’interesse ad avere loro rappresentanti stabili nelle associazioni, nei patronati e soprattutto negli organismi di rappresentanza (Comites e CGIE) e in vista della elezione dei rappresentanti degli italiani all'estero nel Parlamento. Non si trattava tanto di diffondere visioni politiche e possibili soluzioni ai problemi, quanto di numeri, di voti, di visibilità e di potere. Purtroppo questa politica non teneva (sufficiente) conto che gli emigrati italiani erano in forte diminuzione e la seconda generazione (non emigrata) era in costante aumento e stava sviluppando un interesse prevalente per la Svizzera.

Politica orientata all'Italia

Chi ha vissuto per intero gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso in Svizzera ricorderà senz'altro che la politica italiana che si stava diffondendo tra gli emigrati organizzati era orientata prevalentemente alla gestione oltre che delle sezioni dei partiti politici, delle principali organizzazioni, dei patronati e degli organismi di rappresentanza, considerati i veri centri del potere. I principali temi trattati nelle assemblee erano le pensioni di chi rientrava in Italia in età della pensione italiana ma non di quella svizzera, le eventuali agevolazioni per chi ritornava, la scelta del patronato che sembrava più efficiente e del partito che sembrava più promettente, i disservizi consolari. Non figurava quasi mai all'ordine del giorno l’integrazione della seconda generazione, la formazione professionale, la partecipazione alle commissioni comunali locali riguardanti gli stranieri e ai gruppi di lavoro misti.

In molte assemblee sociali di grandi associazioni ci si lamentava tuttavia abitualmente dell’assenza dei giovani, del (presunto) disinteresse dei giovani ai problemi dell’emigrazione, della disaffezione dei giovani alle associazioni che avevano contribuito a dare dignità agli immigrati e a far guadagnare loro rispetto e benessere in una società che agli occhi di molti rimaneva ancora impregnata della stessa xenofobia alla Schwarzenbach che aveva caratterizzato gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso.

Che non ci sia stata una grande evoluzione nella considerazione della società svizzera dagli anni Settanta lo dimostra una serie di pubblicazioni recenti ambientate nell'epoca dei movimenti antistranieri, incentrate su episodi di discriminazione, di «bambini clandestini», di respingimenti alla frontiera, di tentativi di perpetuare una sorta di ceto sociale subalterno, marginale nella società, ecc. In queste pubblicazioni, invece, è sistematicamente ignorato o minimizzato il lento ma incessante avvicinamento delle condizioni degli stranieri agli standard svizzeri, il lavoro silenzioso ma utilissimo delle commissioni e dei gruppi di lavoro con la partecipazione attiva anche di italiani, la trasformazione della società svizzera sempre più consapevole del contributo degli stranieri, le molteplici forme di collaborazione, ecc.

Diverso orientamento degli italiani residenti

Eppure, dagli anni Sessanta, la collettività italiana è stata sempre più caratterizzata dalla progressiva integrazione, dall'accesso alla proprietà delle abitazioni, dalla riuscita professionale di molti italiani, dall'incidenza sempre più marcata nella società dei matrimoni misti, dall'introduzione della doppia nazionalità, dalla diffusa consapevolezza di avere in Svizzera una seconda patria, dalla crescita dell’italianità (intesa come componente della cultura e della società svizzera, sostenuta anche dal contributo italiano), dalla presenza di italiani (anche con la sola nazionalità italiana) nelle amministrazioni pubbliche svizzere persino a livelli dirigenziali, dall'inserimento di italiani in delegazioni svizzere in contesti internazionali, dalla partecipazioni politica e sindacale a tutti i livelli di molti svizzeri con origine migratoria italiana, specialmente della seconda generazione, ecc.

Negli anni Novanta era evidente che la collettività italiana residente si stava trasformando e si orientava sempre più chiaramente verso la Svizzera, pur senza perdere di vista l’Italia. Era sintomatico, per esempio, che molte associazioni tradizionali erano da tempo inattive o scomparse per mancanza di nuovi soci. Quelle che riuscivano a restare in vita, resistevano grazie a un societariato numeroso e fedele (e un significativo sostegno pubblico), che si permetteva una sede propria, magari con annesso ristorante, o grazie a un’ideologia forte.

Non si può tuttavia dimenticare che in quei decenni aumentava anche la conflittualità tra associazioni di destra e di sinistra, degenerando addirittura in episodi al limite del grottesco, come nel caso sottoposto nientemeno che all'allora Presidente del Consiglio dei Ministri Giuliano Amato, in visita ufficiale in Svizzera (10 ottobre 2000). Gli si pose infatti il quesito se era lecito che un presidente del Comites (espressione della sinistra) negasse il diritto di accesso alla sede al rappresentante della minoranza nello stesso organismo (espressione della destra).

Motivo di scontro tra le associazioni sopravvissute era spesso l’accaparramento delle rappresentanze nei Comites e nel CGIE (facendoli in tal modo divenire organismi alibi) e l’aspirazione a entrare nelle liste dei candidati per la rappresentanza degli italiani all'estero nel Parlamento italiano. Lo scontro è stato vinto dalle organizzazioni di sinistra, che riuscirono a monopolizzare quasi tutte le rappresentanze degli italiani. (Nelle elezioni del 2006 le liste di sinistra riuscirono a mandare in Parlamento dalla Svizzera ben quattro rappresentanti).

Domande lecite…

Queste lotte interne e l’esito delle elezioni politiche del 2006 sollevarono lunghe discussioni sull'organizzazione del sistema di voto all'estero, ma soprattutto sulla sua utilità (anche se nel 2006 gli eletti all'estero garantirono la maggioranza a un governo di centro-sinistra piuttosto che a uno di centro-destra). L’ex ambasciatore ed editorialista Sergio Romano, in un articolo intitolato «La commedia degli onorevoli italo-esteri», metteva tuttavia in guardia sull'affidabilità del gruppo estero, per sua natura disomogeneo. Illusoria risulterà invece l’affermazione di uno degli eletti in Svizzera, Claudio Micheloni, per il quale «il voto espresso fuori dai confini nazionali ha dato a noi italiani all'estero un peso e una visibilità, attraverso i quali abbiamo fatto sentire la nostra voce, la nostra presenza, la nostra partecipazione, la nostra sensibilità politica».

Evidentemente è incontestabile il diritto degli italiani di poter votare dall'estero su questioni riguardanti gli italiani, come pure di avere una rappresentanza nel Parlamento italiano, ma è anche legittimo domandarsi se almeno una parte significativa delle abbondanti energie profuse in queste lunghe battaglie «di civiltà» (come si diceva allora) non sarebbe stato meglio dedicarla, per esempio, a trovare una sistemazione definitiva ai corsi di lingua e cultura integrandoli per quanto possibile nei programmi di studio della scuola locale, a sostenere adeguatamente l’orientamento e la formazione professionale dei giovani italiani, a coinvolgere fin dagli anni Settanta altri italofoni (specialmente ticinesi e grigionesi) nei progetti di sostegno all'italianità.

… e qualche dubbio

A distanza di anni, credo che sia lecito nutrire qualche dubbio sull'utilità reale del diritto di voto politico per gli italiani all'estero, prescindendo dalla giusta soddisfazione di una battaglia vinta. Esaminando la questione nel suo complesso, per esempio nel contesto svizzero, non è infatti del tutto evidente che questo diritto e questa rappresentanza abbiano giovato all'evoluzione della collettività italiana qui residente che, in una prospettiva storica, ha visto crescere e integrarsi sempre più la parte «svizzera» con o senza la doppia nazionalità.

Sull'effettiva portata sia del voto all'estero che dell’elezione di una rappresentanza degli italiani all'estero nel Parlamento italiano è inoltre lecito avere ancora qualche dubbio tenendo presente che dagli anni Novanta in poi, mentre la «politica» continuava a guardare quasi esclusivamente all'Italia, la maggioranza degli italiani residenti guardava soprattutto alla Svizzera e percepiva chiaramente l’estraneità delle problematiche emigratorie dal sentire comune degli italiani in patria e l’assoluta ininfluenza delle richieste, delle denunce e delle rivendicazioni degli italiani all'estero, anche di quelli deputati a rappresentarli in Parlamento.

E’ difficile, per chi scrive, negare che gli sforzi per ottenere il diritto di voto all'estero e la rappresentanza politica in Italia abbiano distolto molte energie da altre battaglie forse più utili e urgenti, né escludere che il prevalere dell’orientamento verso l’Italia della politica degli italiani in Svizzera abbia prodotto, come temeva un esponente delle Colonie Libere Italiane nel 2004, «un decadimento delle attività di base, culturali, sociali, ricreative, formative, ad esclusione dei servizi di assistenza erogati dai patronati, che di fatto diverranno il luogo privilegiato per l’accaparramento dei voti». (Segue)

Giovanni Longu
Berna 22.06.2022

15 giugno 2022

Immigrazione italiana 1991-2000: 10. Gli italiani e la politica (prima parte)

Negli articoli precedenti sono stati evidenziati numerosi cambiamenti intervenuti nella collettività italiana residente in Svizzera in seguito al riorientamento della politica federale riguardante gli stranieri (a partire dagli anni Settanta del secolo scorso), ma anche alla trasformazione in gran parte naturale (incremento della seconda generazione nonostante un saldo migratorio negativo) dei residenti italiani. Le manifestazioni più vistose e significative dei cambiamenti sono state l’intensificarsi dell’integrazione (linguistica, scolastica, professionale e sociale) e l’aumento delle naturalizzazioni. Una delle conseguenze di questa trasformazione è stata anche il diverso atteggiamento degli italiani verso la politica, quella italiana e quella svizzera. Essa merita qualche riflessione, relativamente al periodo in esame (1990-2000) e poco oltre, soprattutto per conoscere meglio la nuova realtà che questi cambiamenti hanno prodotto e di cui si parla ancora poco.

Gli italiani immigrati e la politica

Gli italiani immigrati in Svizzera non sono mai stati molto interessati né alla politica italiana né a quella svizzera. La politica attiva è stata fin dall'Ottocento appannaggio di gruppi ristretti di persone ben schierate in senso partitico. Per oltre cent’anni gli immigrati sono stati per lo più strumentalizzati da gruppi ristretti di persone fortemente politicizzate. Ci sono stati periodi in cui a dominare furono i socialisti (fino alla prima guerra mondiale, cfr. il «Cooperativo» di Zurigo), poi i fascisti, tra le due guerre mondiali, poi comunisti e socialisti, legati ai fuorusciti del periodo fascista e alla costituzione di associazioni chiaramente orientate politicamente come le Colonie Libere Italiane, alcuni patronati, alcune sedi ACLI (Associazioni cristiane dei lavoratori italiani), oltre a vere e proprie sezioni dei principali partiti italiani. Gli immigrati italiani sono diventati soggetti politici attivi solo lentamente e di recente.

In generale gli immigrati italiani politicizzati (prima generazione) sono stati sempre molto critici sia verso l’Italia (considerata più matrigna che patria) che verso la Svizzera (ritenuta sfruttatrice e poco accogliente). I più attivi nelle proteste e nelle rivendicazioni nei confronti dell’Italia sono stati i partiti di sinistra (comunisti e socialisti) perché, stando all'opposizione (specialmente nei primi decenni del dopoguerra), potevano evidenziare senza remore le lacune e i difetti della politica emigratoria italiana a direzione democristiana.

L’atteggiamento «politico» degli italiani in Svizzera a cavallo del terzo millennio (quindi soprattutto seconda generazione e nuovi immigrati) è stato invece in larga misura di totale disinteresse verso la politica italiana e di tiepido sebbene crescente interesse verso la politica svizzera. Il disinteresse era dovuto soprattutto alla mancanza di rapporti conoscitivi e partecipativi diretti con la politica italiana, ma anche alle difficoltà identificative della seconda generazione. Del resto è comprensibile che i giovani italiani non potessero sentirsi a loro agio quando venivano identificati come Tschingge (come i loro genitori) senza per questo sentirsi più svizzeri, pur ritenendo comunque che il loro ambiente più naturale fosse quello svizzero.

Disinteresse verso la politica in generale

In genere, tuttavia, agli immigrati italiani (prima generazione) la politica interessava poco, non tanto per disinteresse, quanto perché convinti che il punto di vista degli emigrati contasse poco o niente nelle stanze dove si prendevano le decisioni anche su di loro. Solo i comunisti riuscivano a motivarne una parte, tanto è vero che molti treni organizzati per portare dalla Svizzera gli italiani a votare in Italia erano «rossi», anche se trasportavano sempre anche numerosi democristiani. Molti tuttavia salivano su quei treni speciali solo per le agevolazioni di viaggio concesse agli elettori provenienti dall’estero.

Rispetto alla seconda generazione, tuttavia, gli italiani della prima generazione, anche se delegavano volentieri l’attività politica ai (quasi) professionisti, s’interessavano a ciò che succedeva in Italia, perché si consideravano italiani provvisoriamente all'estero (tant'è che non sentivano il bisogno d’integrarsi né d’imparare la lingua locale, soprattutto quando si trattava del tedesco). La politica attiva non rientrava tuttavia nei loro interessi e non pensavano nemmeno di doversene interessare, ritenendo che tanto le loro rivendicazioni non sarebbero state prese in considerazione, neppure quando erano in gioco interessi vitali come quelli al centro degli accordi sull'emigrazione/immigrazione, sulla sicurezza sociale, sulla scuola o sulla formazione professionale.

Nei primi decenni del dopoguerra molti italiani sostenitori dei governi (a lungo a guida democristiana) si astenevano dall'attività politica perché erano convinti che lo Stato italiano s’impegnasse seriamente a tutelare il lavoro italiano all'estero (come prescrive l’art. 35 della Costituzione), tanto è vero che in tutti i governi c’era sempre qualche ministro o sottosegretario incaricato di questa tutela. Non ne erano invece convinti gli oppositori, che non risparmiavano critiche, manifestazioni e rivendicazioni né al governo né ai suoi rappresentanti in Svizzera, avvalendosi delle forze d’opposizione di sinistra, ben rappresentate nel parlamento, nei sindacati, nei patronati e nell'associazionismo.

Attivismo delle sinistre

Da questa specie di torpore politico gli emigrati adulti venivano scossi di tanto in tanto specialmente dai partiti di sinistra in occasione di votazioni o elezioni in Italia. Per queste votazioni si cercava di mobilitare il maggior numero di italiani perché il loro voto sembrava determinante (com’è stato effettivamente in qualche occasione) per poter modificare la loro condizione di emigrati. In genere, tuttavia, i partiti della sinistra erano i più attivi tutto l’anno.

Con la diffusione dell’attività politica, specialmente negli anni Ottanta e Novanta, i partiti politici assunsero grande importanza e finirono per imporre i loro punti di vista anche all'associazionismo, specialmente in occasione delle elezioni dei Comites (Comitati degli italiani all'estero) e del CGIE (Consiglio generale degli italiani all'estero), influenzando anche le associazioni nazionali e regionali, i patronati e gli enti di formazione professionale.

Allora si parlò persino di eccesso di politicizzazione, perché l’attenzione quasi esclusiva alla politica italiana sottraeva energie preziose allo sforzo che avrebbe potuto essere indirizzato alla soluzione di vecchi e nuovi problemi d’integrazione, di formazione scolastica (indirizzo e gestione dei corsi di lingua e cultura) e professionale (orientamento, assistenza), di sostegno e sviluppo dell’italianità (in collaborazione con tutti gli italofoni), di potenziamento di organismi consultivi misti, ecc. Per di più, la dipendenza dalla politica italiana introduceva nel sistema associazionistico svizzero elementi di conflittualità fino ad allora sconosciuti in Svizzera, che agiva negativamente sull'elemento giovanile fino al punto dal farlo quasi scomparire completamente dalle associazioni tradizionali ritenute ormai superate.

Diritto di voto degli italiani all'estero

Negli anni Novanta, quando cadde il divieto dell’attività politica degli stranieri e quando divenne possibile per i cittadini italiani conservare la cittadinanza italiana anche se acquistavano quella svizzera, ai politici italiani in Svizzera si presentò una specie di alternativa: occuparsi maggiormente delle questioni risolvibili dall'Italia o perseguire obiettivi risolvibili in ambito svizzero? Osservando l’intensità dell’impegno profuso la risposta più spontanea è che fu scelta in generale la prima opzione. Merita al riguardo ricordare anzitutto alcuni fatti.

Sul finire del secolo fu molto sentito e dibattuto il problema del voto degli italiani residenti all'estero, considerato non solo un diritto sacrosanto degli italiani all'estero, ma anche giustificato perché faceva ipotizzare che molti più italiani avrebbero partecipato alle elezioni politiche e amministrative o alle votazioni referendarie senza dover rientrare in Italia per votare. alcuni rappresentanti degli italiani all'estero avrebbero più facilmente contribuito alla soluzione dei loro problemi all'estero.

Com'è noto, quel diritto venne riconosciuto con una legge costituzionale nel 2001, ma gran parte di quelle speranze svanì già alla prima occasione capitata per esercitarlo (referendum del giugno 2003) perché molti plichi non furono consegnati (in quanto muniti di indirizzi incompleti o inesistenti) e la partecipazione fu piuttosto modesta. Anche nelle successive votazioni la partecipazione fu piuttosto bassa, generando fra l’altro polemiche interminabili sul sistema elettorale, sull'organizzazione, sulla segretezza del voto (per nulla garantita), ecc.

Si finì per discutere persino della validità del voto all'estero in quelle condizioni e se non fosse stato preferibile dedicare maggiori sforzi, per esempio, all'ottenimento del diritto di voto per le amministrative svizzere e in genere al diritto-dovere degli immigrati alla partecipazione a tutti quegli organismi che hanno nella vita reale una forte influenza (commissioni scolastiche, commissioni di quartiere, commissioni degli stranieri, commissioni di genitori, commissioni sindacali, commissioni ecclesiali, commissioni culturali, ecc. ecc.). (Segue)

Giovanni Longu
Berna, 15.06.2022

08 giugno 2022

Immigrazione italiana 1991-2000: 09. L’integrazione professionale negli anni Novanta


Il decennio (1991-2000) in esame ha visto cambiare non solo la politica immigratoria svizzera (cfr. articolo precedente), ma anche alcune caratteristiche fondamentali della collettività italiana in Svizzera, divenuta sempre più stabile, consapevole e integrata. Non era più costituita prevalentemente da giovani immigrati giunti dall'Italia per motivi di lavoro, ma da domiciliati che avevano deciso di restare a tempo indeterminato in questo Paese per motivi di lavoro, familiari o per altre ragioni. Negli ultimi decenni era cresciuta numericamente (nonostante un saldo migratorio negativo, in quanto i nuovi arrivati erano sempre meno numerosi dei partenti) e qualitativamente, grazie soprattutto alla seconda generazione che aveva dato una forte spinta all'integrazione scolastica e professionale, anche se restava ancora molto da fare. Del resto era facile costatare che il binomio formazione-integrazione funzionava e cominciava a dare i suoi frutti (cfr. articolo del 18.5.2022).


Disuguaglianze in diminuzione

La seconda generazione dimostrava inequivocabilmente che l’integrazione non solo era possibile e facilitava la convivenza, consentendo il superamento dei principali pregiudizi fino ad allora molto diffusi tra svizzeri e stranieri, ma offriva realmente pari opportunità formative e professionali anche agli stranieri. Benché negli anni Novanta non tutti i problemi scolastici fossero risolti, regnava negli ambienti interessati molto ottimismo sul loro superamento, perché era facile costatare che, dopo la scuola dell’obbligo, anche gli stranieri seguivano normalmente un apprendistato regolare o proseguivano gli studi.

Segnali positivi arrivavano anche dai media quando si veniva a sapere che numerosi dirigenti d’imprese, di banche, di assicurazioni, come pure giornalisti, professori universitari e professionisti in svariati campi avevano nomi italiani, anche se magari erano solo di origine migratoria italiana o cittadini con la doppia cittadinanza italiana e svizzera o ticinesi. Non va dimenticato che da decenni ormai nomi tipicamente italiani (Bruno, Marco, Luca, Matteo, Fabio, Claudia, Silvia, Sara, Sandra, ecc.) erano diffusi anche tra gli svizzeri, come certificava ogni anno una specifica «classifica» dei nomi dei neonati stilata dall'Ufficio federale di statistica.

Del resto era sempre più difficile distinguere gli italiani con la sola nazionalità italiana dagli italo-svizzeri, dai ticinesi, dagli svizzeri, perché tutti parlavano la stessa lingua e perché gli italiani che aggiungevano alla nazionalità originaria quella svizzera erano sempre più numerosi. Se nel 1991 avevano ottenuto la cittadinanza svizzera 1802 italiani, nel 2000 la ottennero ben 6652, un record ancora imbattuto. Il Cantone di Zurigo era quello con il maggior numero di italo-svizzeri (25.005), seguito dal Ticino (24.138), Vaud (13.650), Ginevra (13.166), Berna (9.498), ecc.

Sarebbe tuttavia sbagliato affermare che i problemi degli italiani erano tutti risolti. Ce n’erano infatti ancora molti, perché il processo di avvicinamento al livello degli svizzeri non era ultimato, c’erano differenze significative a livello scolastico, nell'apprendistato, nella condizione professionale (in generale la disoccupazione colpiva più gli stranieri degli svizzeri), nella posizione professionale (in generale gli stranieri occupavano posizioni inferiori rispetto agli svizzeri) ed evidentemente in campo politico. E’ innegabile, tuttavia, che la condizione occupazionale, economica e sociale degli stranieri e specialmente degli italiani alla fine del decennio era in netto miglioramento (cfr. articolo precedente).

Integrazione professionale facilitata

Negli anni Novanta il tema della formazione professionale era meno acuto rispetto ai decenni precedenti, ma non privo di ostacoli. Non va infatti dimenticato che era ancora in vigore la vecchia legge sugli stranieri del 1931, sia pure più volte modificata, che era stata concepita soprattutto per regolamentare l’immigrazione di lavoratori allora in gran parte «manuali», per i quali l’integrazione se non veniva esclusa doveva essere almeno ostacolata. Dagli anni Settanta questa concezione era andata modificandosi radicalmente, ma non tanto da eliminare qualsiasi pregiudizio, per esempio, sulla diversità dei ruoli tra svizzeri e stranieri. Del resto, tradizionalmente un ostacolo era rappresentato dalle prestazioni scolastiche, non sempre eccellenti tra gli allievi stranieri, soprattutto a causa di un presunto minor sostegno familiare.

Lentamente, tuttavia, tutti gli ostacoli stavano cadendo e anche nella vita quotidiana e professionale molti svizzeri consideravano ormai gli italiani come con-cittadini, a prescindere dalla nazionalità e dalla partecipazione politica. Già la conoscenza della lingua locale eliminava sul nascere molte differenze e facilitava l’integrazione scolastica. A sua volta, questa agevolava l’orientamento professionale e la scelta di un buon apprendistato (o il proseguimento degli studi), sicché, in generale, anche gli stranieri trovavano uno sbocco professionale confacente alle loro capacità e inclinazioni.

Il censimento federale della popolazione del 2000 (dicembre) e altre analisi settoriali dell’Ufficio federale di statistica hanno confermato un alto grado d’integrazione della collettività italiana residente stabilmente in Svizzera, ancor più evidente se i dati del 2000 sono confrontati (per quanto possibile) con i dati dei censimenti e analisi precedenti.

Attività professionali degli italiani

Limitatamente all'integrazione professionale, un elemento che salta facilmente agli occhi è la grande varietà delle attività economiche svolte dagli italiani. Tradizionalmente i lavoratori italiani erano attivi in pochi rami economici. Se fino agli anni Ottanta si concentravano nella metalmeccanica, nell'edilizia, nella chimica e nel tessile, dagli anni Novanta essi cominciavano ad operare in decine di rami economici sia del secondario che del terziario. Nell'arco di trent'anni, fra il 1970 e il 2000, il ventaglio delle professioni esercitate dagli italiani si è notevolmente ampliato.

Le donne italiane sono rimaste più a lungo concentrate in pochissimi rami economici. Nel ventennio 1970-1990 erano occupate con oltre mille unità ciascuna in sole 8-9 attività, mentre nel 2000 occupavano oltre mille italiane solo quattro generi di attività. Da allora le donne italiane cominciarono a ripartirsi in decine di attività soprattutto nel settore terziario. Anche per loro l’integrazione professionale era in gran parte compiuta, anche se la maggior parte delle attività svolte era a basso livello di qualificazione. I gruppi più consistenti erano le impiegate di commercio, le venditrici, le addette alle pulizie (alberghi, ristoranti, ospedali) e ai servizi domestici (collaboratrici domestiche, portinaie e addette alla pulizia e a servizi vari).

Posizione nella professione

Un altro elemento facilmente riscontrabile e positivo, soprattutto per gli uomini, è l’alta percentuale delle attività autonome. Mentre negli anni Settanta il lavoro dipendente, per lo più non qualificato o poco qualificato, era la regola (98%), nel 2000 il lavoro autonomo tra gli italiani era è molto diffuso, forse addirittura più che tra gli svizzeri (se non venissero prese in considerazione le imprese agricole tradizionalmente a conduzione familiare). Molti italiani sono diventati autonomi e piccoli imprenditori per esempio nei rami dell’alimentazione, dell’edilizia, della manutenzione, delle riparazioni.

Nel 2000, inoltre, parecchi professionisti italiani esercitavano attività con esigenze molto elevate, come gli oltre mille ingegneri, quasi 400 informatici, 250 insegnanti universitari o in istituti superiori, oltre 150 medici, alcune centinaia tra fisici, matematici, chimici, biologi e ricercatori vari, ecc.

Integrazione e «comune prosperità»

E’ di tutta evidenza che una buona integrazione professionale sia un indicatore sicuro anche di una soddisfacente integrazione economica e sociale. Negli anni Ottanta e Novanta lo capirono molto bene anche gli stranieri, che si sono prodigati per garantirsi e garantire soprattutto alla seconda generazione una buona integrazione scolastica e professionale. Lo capirono anche numerose aziende, i sindacati e le autorità svizzere e italiane, che favorirono la formazione e l’integrazione professionale non solo nell'interesse dell’economia e della società, ma anche della soddisfazione personale e familiare dei diretti interessati.

Non c’è dubbio, del resto, che la «comune prosperità» indicata come obiettivo della Confederazione dalla Costituzione federale non può prescindere dalla prosperità dei singoli. Compresi gli stranieri che alla prosperità comune contribuivano e contribuiscono in larga misura.

Giovanni Longu
Berna, 8.6.2022

25 maggio 2022

Immigrazione italiana 1991-2000: 08. Perché negli anni ‘90 la politica immigratoria svizzera è cambiata?

Chi ha avuto modo di seguire gli articoli di questa serie ha potuto costatare che la politica immigratoria svizzera negli anni Novanta era in via di rapida trasformazione rispetto ai decenni precedenti. Le ragioni vanno ricercate, come è già stato accennato, nei mutamenti interni dell’economia e della società svizzere (politica interna) e nei mutamenti esterni (accordi bilaterali tra la Svizzera e l’Unione europea). Quali sono, in sintesi, le principali ragioni del cambiamento e come ha reagito la popolazione italiana residente in Svizzera?

Trasformazione economica

Da alcuni decenni, le crisi economiche, l’aumento della disoccupazione, le innovazioni tecnologiche, le razionalizzazioni dei sistemi produttivi, il prosciugamento di alcuni mercati del lavoro estero (specialmente Italia e Spagna) e altro ancora spingevano verso una profonda trasformazione di tutte le attività economiche della Svizzera. Nella produzione e nel commercio non si cercava più la manodopera a buon mercato, ma quella più adeguata alle nuove esigenze, ossia meglio formata.

Dagli anni Ottanta, a tutti i giovani, a quelli più capaci come ai meno dotati, venivano offerte forme di qualificazioni modulari, efficaci e aperte alla formazione professionale superiore e alla formazione professionale continua. Per tener conto dei cambiamenti venne elaborata una nuova legge sulla formazione professionale (in sostituzione di quella del 1978) entrata in vigore nel 2002. Anche i giovani stranieri della seconda e terza generazione approfittarono delle nuove opportunità, tanto più che nell'ordinamento formativo e nell'opinione pubblica (anche in quella italiana particolarmente restia) la formazione professionale di base e la formazione liceale erano ormai considerate di pari grado (secondario superiore).

Gli italiani sono stati tra i maggiori beneficiari. Nella fascia d’età dai 20 ai 40 anni, i titolari di una formazione di secondo grado superiore hanno fatto registrare tra il 1970 e il 2000 una forte progressione: 1970: 13.022 su 82618 (= 15,8%), 1980: 8.483 su 39.186 (21,6%), 1990: 15.858 su 34.778 (45,6%), 2000: 14.764 su 30055 (49,1%). E’ abbastanza intuitivo che quanto più seria e solida è la formazione professionale, tanto più facile è l’integrazione e la carriera professionale. Gli italiani, specialmente quelli nati e cresciuti in Svizzera, l’hanno abbondantemente testimoniato.

Miglioramento del clima sociale

Una delle ragioni più importanti che hanno reso la politica immigratoria svizzera più accettabile dall'opinione pubblica (anche italiana), oltre che dall'economia e dagli ambienti sindacali, è stato il mutato atteggiamento della popolazione svizzera nei confronti degli stranieri, specialmente di quelli di vecchia tradizione immigratoria. Gli svizzeri erano divenuti più rispettosi e più accoglienti. In molte discussioni pubbliche riguardanti gli stranieri era frequente la premessa: esclusi gli italiani e gli spagnoli. Del resto era facile notare le differenze al confronto con i nuovi immigrati provenienti dalla Ex-Jugoslavia, dalla Turchia, dall'Albania e dai Paesi asiatici.

Naturalmente nemmeno per gli italiani le difficoltà della convivenza erano finite del tutto. Basti pensare che la categoria dei cosiddetti «working poor», ossia i lavoratori poveri a basso reddito, comprendeva soprattutto stranieri (anche italiani), persone sole con figli a carico, coppie con tre o più figli, persone con un basso grado di formazione. Gli italiani, tuttavia, evitavano sempre più di vivere una tale condizione isolandosi o nascondendosi. Del resto, la voglia di rompere qualsiasi forma di isolamento era comune, soprattutto tra i giovani, per esempio nella gestione del tempo libero, nello sport e nell'associazionismo.

Influsso dell’Unione europea

Se n’è accennato anche nell'articolo precedente, ma è bene sottolineare che gli accordi tra la Svizzera e l’Unione europea (UE) del 1999 (Bilaterali I) hanno introdotto nella politica immigratoria svizzera il principio dell’«eurocompatibilità». Per il Consiglio federale quegli accordi impegnavano la Svizzera a rendere la normativa sugli stranieri il più possibile compatibile con i principi sociali e della libera circolazione di tutti i cittadini appartenenti all'UE e all'AELS (Associazione europea di libero scambio).

Data l’importanza di quegli accordi, se ne riparlerà in altra occasione, ma si può già anticipare che è grazie ad essi che sono intervenuti nella vita soprattutto degli stranieri europei numerosi cambiamenti e avviato a soluzione problemi rimasti aperti per oltre mezzo secolo.

Giovanni Longu
Berna 25.5.2022

18 maggio 2022

Immigrazione italiana 1991-2000: 07. Integrazione e formazione

Negli anni Novanta, la popolazione residente straniera era largamente stabilizzata e beneficiava del permesso di domicilio. Cresceva poco, rispetto ai decenni precedenti (1,5% nel 1999, 1,1% nel 2000), perché la congiuntura economica non era favorevole, ma la sua proporzione sull'insieme della popolazione continuava ad aumentare (2000: 19,3%; 1990: 16,4%; 1980: 14,1%). I nuovi immigrati provenivano in larga maggioranza dai Paesi dell’Unione Europea (UE) e dell’Associazione europea di libero scambio (AELS), ma non dall'Italia. Gli italiani costituivano ancora il gruppo straniero più consistente, ma la tendenza al calo era evidente. Dal 30,8 per cento del 1990 erano scesi nel 1994 al 28 per cento e nel 1997 al 25,1%. Cresceva invece il numero dei naturalizzati (37.368 nel decennio), che accentuava nella statistica svizzera il saldo migratorio già negativo degli italiani. Per la statistica italiana, tuttavia, i naturalizzati non incidevano sul numero complessivo degli italiani, in quanto dal 1992 conservavano la cittadinanza italiana.

La popolazione straniera in trasformazione

La prima generazione di immigrati, soprattutto italiani, aveva contribuito a rendere la Svizzera un Paese moderno e ricco. La società intera era cresciuta, non solo economicamente, ma anche socialmente e culturalmente. Ora si trattava di consolidare e garantire la prosperità raggiunta, facendone beneficiare anche gli stranieri, moltissimi ormai stabilmente qui residenti, ai quali si chiedeva solo uno sforzo d’integrazione. Negli articoli precedenti sono state illustrate molte iniziative politiche per agevolarla, anche senza pretendere che sfociasse nella naturalizzazione.

I risultati già negli anni Novanta erano sotto gli occhi di tutti perché almeno buona parte delle seconde e terze generazioni potevano considerarsi ampiamente integrate linguisticamente, scolasticamente, socialmente, culturalmente e professionalmente. Ovviamente molto restava ancora da fare perché la popolazione straniera era in trasformazione. La legge sugli stranieri del 1931 non era più sufficiente e anche la politica di stabilizzazione e d’integrazione avviata negli anni Settanta richiedeva adeguamenti profondi, anche dietro la spinta degli accordi che si stavano discutendo tra la Svizzera e l’UE.

Nel 1991 il Consiglio federale aveva deciso le linee guida della nuova politica immigratoria, che prevedeva dapprima l’adozione di un sistema d’ammissione che distingueva i Paesi dell’UE e dell'AELS dal resto del mondo, la cosiddetta «politica dei tre cerchi» e poi, dall'ottobre 1998, un sistema binario d’ammissione. L’obiettivo finale restava l’introduzione della libera circolazione delle persone per i cittadini dell’UE, come previsto dagli accordi fra la Svizzera e l’UE (Bilaterali I) conclusi nel 1999.

In effetti il 1° gennaio 2002 fu introdotto in Svizzera il regime della libera circolazione delle persone per i cittadini dell’UE e da allora la strada dell’integrazione, anche per gli italiani, fu molto facilitata. Molti pregiudizi cadevano, la comprensione reciproca aumentava e la collaborazione si estendeva in tutti i campi a vari livelli. Naturalmente restava ancora molto da fare, soprattutto sul piano culturale e psicologico per rendere la popolazione svizzera più rispettosa e accogliente e gli stranieri meno estranei alla vita e alla cultura del Paese in cui in molti si auspicavano una convivenza collaborativa effettiva.

La seconda generazione protagonista

Anche questo compito culturale e politico fu enormemente facilitato dalla partecipazione attiva al processo integrativo dei nuovi immigrati e soprattutto delle seconde e terze generazioni. I nuovi immigrati, in numero più ridotto rispetto alle generazioni precedenti, erano rispetto a loro ben più preparati scolasticamente e professionalmente e più consapevoli dell’attività che si apprestavano a svolgere e delle condizioni generali nella nuova società in cui sapevano di doversi inserire.



Negli anni Settanta e Ottanta i giovani italiani facevano molta fatica ad avvicinarsi ai livelli dei coetanei svizzeri. Negli anni Novanta, invece, il processo di avvicinamento è divenuto costante, specialmente nella scuola obbligatoria, ma anche nelle scuole di grado secondario e persino nel grado universitario. Gli italiani che proseguivano la formazione dopo la scuola obbligatoria erano sempre più numerosi. Anche per loro era divenuto normale seguire una formazione professionale o intraprendere studi superiori. Rappresentava invece una conquista significativa l’accesso all'università.

I risultati al riguardo potrebbero apparire poco appariscenti, a livello statistico, se i titolari di un diploma universitario sono calcolati sull'insieme della popolazione italiana residente (circa il 2% nel 1970 e 1980, il 3,8% nel 1990 e il 6,7% nel 2000), ma diventa ben più rilevante se si osserva la popolazione attiva dai 25 ai 44 anni (1970: 3,1%, 1980: 3%, 1990: 6,7%, 2000:13,2%).

I principali protagonisti di questo progressivo avvicinamento agli standard svizzeri erano tuttavia i giovani della seconda e terza generazione (nati e cresciuti prevalentemente in Svizzera) che soprattutto dagli anni Novanta hanno contribuito sensibilmente a elevare il livello medio di formazione della popolazione italiana residente.

Negli anni Novanta, tuttavia, il livello di formazione tra gli italiani residenti in Svizzera era tutt'altro che omogeneo. Grandi differenze si notavano tra gli allievi delle varie classi d’età in base al luogo di nascita, alla nazionalità (solo italiana o italiana e svizzera), ceto sociale di appartenenza, professione dei genitori, ecc. Quelli che presentavano i migliori risultati nei vari gradi scolastici erano normalmente i doppi cittadini.

In una sorta di retrospettiva di quel decennio (e del decennio precedente) si può anche osservare che forse mai prima di allora tra gli immigrati italiani veniva attribuita così tanta importanza alla formazione scolastica e professionale. E poiché investire nel capitale umano per alcune famiglie poteva rappresentare un costo non indifferente, è giusto ricordare che forse mai come in quel periodo gli immigrati italiani si resero conto dell’importanza di garantire ai loro figli la migliore formazione possibile.

Italiani e formazione professionale

Dagli anni '80 sempre più giovani italiani furono attratti
dall'apprendimento delle nuove tecnologie (foto Cisap) 
Una tale presa di coscienza nasceva probabilmente dalla consapevolezza dei rischi che correvano i lavoratori scarsamente formati o poco qualificati nei periodi di crisi e dei vantaggi che procurava la padronanza di una professione riconosciuta ufficialmente sotto l’aspetto finanziario, sociale e della sicurezza del posto di lavoro. Ad esserne convinta era anche gran parte dei nuovi immigrati dall'Italia. Infatti, dalla seconda metà del decennio in esame, circa il 30 per cento degli italiani giungeva in Svizzera con una formazione di grado terziario (universitario), mentre prima la percentuale era ad una sola cifra.

A confermare tale consapevolezza, proprio negli anni Novanta intervenne una nuova crisi economica che colpì come al solito soprattutto i meno preparati. La disoccupazione che ne conseguì fu oltremodo pesante e allarmante perché aveva raggiunto una proporzione assolutamente insolita (5,7%) con un numero di disoccupati mai visto prima (oltre 200.000 nel 1997). Nell'analisi delle cause si parlò oltre che della recessione dei primi anni Novanta e del ristagno economico successivo, anche della maggiore facilità di entrata in Svizzera per i cittadini dell’UE, di una certa inadeguatezza tra le esigenze dell’economia e l’accresciuta trasformazione dei permessi stagionali in via di esaurimento (nel 2000 ne resteranno solo poche migliaia) in permessi annuali, delle ristrutturazioni industriali e anche delle carenze nella formazione professionale.

Gli italiani non furono particolarmente colpiti perché svolgevano allora, per oltre la metà (circa 140 mila su 270 mila), professioni qualificate, ma la disoccupazione di quegli anni deve aver rafforzato ulteriormente in loro la consapevolezza dell’importanza della formazione sia nella prospettiva della carriera professionale e sia in una logica di prevenzione della disoccupazione. Alcuni enti di formazione professionale sopravvissuti alle costanti riduzioni dei contributi statali hanno saputo adeguare l’offerta dei corsi in funzione dei nuovi bisogni, adottando in particolare moduli brevi di preparazione e specializzazione e, soprattutto, incentivi per la formazione continua.

Giovanni Longu
Berna, 18.5.2022

11 maggio 2022

Immigrazione italiana 1991-2000: 06. Integrazione funzionale alla naturalizzazione

La lentezza del processo integrativo (cfr. articolo precedente era dovuta sicuramente al sistema federale della Svizzera che rallenta tutti i grandi processi decisionali, ma soprattutto a innumerevoli ostacoli di natura giuridica (la legge sugli stranieri del 1931 finalizzata a garantire un rapporto «equilibrato» tra svizzeri e stranieri), politica (lotta contro l'inforestierimento), economica (la «rotazione» della manodopera estera ritenuta per anni conveniente), sindacale (priorità alla protezione dei lavoratori svizzeri sindacalizzati) e sociale. L’ostacolo maggiore non era, però, di natura burocratico-legale, ma sociale e psicologica: la popolazione svizzera, solo nel periodo in esame 1990-2000, cominciava ad essere convintamente favorevole all'integrazione degli stranieri, soprattutto se giovani, in funzione della naturalizzazione.


Naturalizzazione in primo piano

Nell'articolo precedente si è visto come ogni tentativo di apertura verso gli stranieri da parte del Consiglio federale venisse sistematicamente ostacolato. Quando tentò di far entrare il principio dell’integrazione in una nuova legge sugli stranieri (1980), che teneva conto di alcune loro esigenze, ma senza stravolgere la struttura fondamentale della politica immigratoria svizzera per non provocare la temibile contrarietà xenofoba, la legge fu bocciata in un referendum voluto dalle destre (1982).

Per alcuni anni il tema dell’integrazione fu accantonato dalla discussione pubblica, mentre acquistò in attualità e intensità quello della naturalizzazione, balzato improvvisamente all'attenzione dell’opinione pubblica anche grazie al celebre film Die Schweizermacher, di Rolf Lyssy (1978), una satira sugli indagatori e «fabbricatori di svizzeri» (Schweizermacher). Di fatto tra il 1977 e il 1981 il numero delle naturalizzazioni riguardanti gli italiani raggiunsero una media alquanto insolita (oltre 4000 l’anno) sia in riferimento al decennio precedente (poco più di 2700 l’anno) che a quello seguente ( poco più di 2600 l’anno).

Nel frattempo, tuttavia, il Consiglio federale restava convinto che non si dovesse rinunciare a prevedere per i giovani stranieri cresciuti in Svizzera una forma di naturalizzazione agevolata, ossia con una «procedura di naturalizzazione più semplice, la riduzione delle tasse di naturalizzazione nonché condizioni meno severe concernenti residenza e idoneità». Il motivo era presto detto: i giovani stranieri della seconda generazione candidati alla naturalizzazione «sono persone che hanno vissuto molti anni in Svizzera e si sentono quindi Svizzeri, almeno in parte».

Bocciature della naturalizzazione agevolata

Il dibattito sulla naturalizzazione divenne sempre più ampio, sia perché molti osservatori ritenevano ingiustificato l’esiguo numero di naturalizzati rispetto al numero degli appartenenti alla seconda e alla terza generazione, e sia alla luce del forte incremento della popolazione straniera, che nel 1990 contava circa 1.246.000 persone e rappresentava il 18,1 della popolazione totale (nel 1980 tale percentuale era solo del 14,8 per cento). Si sapeva che un tale incremento non sarebbe rimasto inosservato e che una delle misure più efficaci per ridurne la crescita poteva essere la naturalizzazione agevolata. Per tutto il periodo in esame (1990-2000) la naturalizzazione agevolata è stato uno dei temi più dibattuti. 

Poiché il tema riguardava ormai decine di migliaia di giovani stranieri nati e cresciuti qui, da più parti s’invocava un intervento della politica per offrire loro una «naturalizzazione agevolata» (ossia meno burocratica di quella ordinaria e meno costosa). Si esitò a lungo prima di compiere un atto politico perché si pensava che l’opinione pubblica svizzera fosse in maggioranza contraria alla naturalizzazione agevolata per i figli degli immigrati stranieri. Quando nel 1983 il Consiglio federale sottopose al voto popolare un decreto federale sulla revisione del diritto di cittadinanza nella Costituzione federale, che prevedeva la naturalizzazione agevolata, il risultato fu in parte sorprendente perché il Popolo, contrariamente alle previsioni, lo approvò con una percentuale addirittura dell’80,1 per cento di consensi, mentre a bocciarlo fu la maggioranza dei Cantoni.

La maggioranza degli svizzeri temeva una sorta di naturalizzazione
 automatica...  anche se nessuna forza politica l'aveva mai chiesta!

Il consenso popolare ottenuto in quella prima votazione spinse il Governo a sottoporre al voto popolare nel 1994 un altro decreto federale «concernente la revisione del disciplinamento della cittadinanza nella Costituzione federale», ma anch'esso, sia pure con uno scarto minimo, fu ancora respinto dalla maggioranza dei Cantoni, benché nuovamente approvato dal Popolo, sia pure solo col 51 per cento di sì.

Da allora numerosi Cantoni si mossero autonomamente nella direzione di facilitare comunque la naturalizzazione dei giovani stranieri, ma si dovrà aspettare ancora a lungo prima di veder disciplinata a livello federale la normativa sulla cittadinanza per tutti i giovani di origine migratoria di seconda e terza generazione.

Meglio insistere sull'integrazione

Il Consiglio federale preferì a quel momento non insistere più sulla naturalizzazione agevolata dei figli degli stranieri e dedicarsi maggiormente alle misure per favorire la loro integrazione linguistica, scolastica, professionale. Fra l’altro, questo orientamento sembrava prevalere nell'opinione pubblica, che mostrava di aver ormai superato in larga misura i vecchi pregiudizi nei confronti degli stranieri e di preferire comunque per tutti gli stranieri la naturalizzazione ordinaria, sia pure con qualche facilitazione per i giovani.

La scelta del Consiglio federale non fu certamente improvvisata, ma ben ragionata. Era infatti ben a conoscenza che le misure d’integrazione adottate negli anni Settanta stavano dando buoni frutti e ormai schiere di giovani stranieri crescevano accanto ai coetanei svizzeri senza grossi problemi, avevano la possibilità di realizzarsi entro l’ambito di due culture, quella svizzera e quella dei genitori. Conoscendo la lingua del posto e avendo seguito generalmente un regolare apprendistato non avevano difficoltà a trovare un lavoro e intraprendere una professione e una carriera con le stesse opportunità degli svizzeri.

Il Consiglio federale sapeva anche che prima o poi gli stranieri più integrati avrebbero chiesto spontaneamente la naturalizzazione, soprattutto dopo la rimozione (dal 1° gennaio 1992) di uno degli ostacoli più severi, quello del divieto della doppia nazionalità. Del resto era facile osservare, proprio nel periodo in esame, il numero crescente di italiani che chiedevano la naturalizzazione (dai 1802 del 1991 ai 6652 del 2000). Grazie alle misure adottate e agli sforzi compiuti da entrambe le parti era anche possibile notare un netto miglioramento del clima sociale: dalla semplice «con-vivenza» pacifica si stava passando a una vera convivenza collaborativa, senza contrapposizioni e senza pregiudizi.

Alcuni risultati

Che la politica d’integrazione del Consiglio federale riuscisse non solo a motivare e mobilitare tutte le istituzioni pubbliche svizzere, ma anche a produrre risultati certi fu provato a sufficienza dal censimento federale della popolazione del 2000, l’ultimo effettuato col sistema tradizionale dell’indagine totale sull'intera popolazione residente. Data la ricchezza di dati che ha fornito, alcuni di essi saranno esaminati più in dettaglio nei prossimi articoli, non tanto per giustificare la politica d’integrazione del Governo e delle altre istituzioni pubbliche e private che vi hanno collaborato, quanto per testimoniare che la collettività italiana aveva già allora raggiunto un alto grado d’integrazione e costituiva in Svizzera una componente sociale e culturale di alto livello.

Qui basti ricordare che su 1.528.558 stranieri (ossia più di un quinto della popolazione residente totale), circa un quarto di essi era nato in Svizzera (seconda e terza generazione con origini migratorie), molti «stranieri» avevano la doppia nazionalità e risultavano perfettamente integrati a livello professionale, culturale e sociale. Del resto, proprio negli anni Novanta l’«integrazione» era divenuta un requisito per l’ottenimento della nazionalità.

Giovanni Longu
Berna 4.5.2022

04 maggio 2022

Immigrazione italiana 1991-2000: 05. Lentezza del processo integrativo: perché?

Nell'articolo precedente si è accennato ad alcuni ostacoli alla naturalizzazione sia da parte della Svizzera che da parte degli stranieri. In realtà le difficoltà nascevano dalla concezione dell’integrazione, su cui è opportuno soffermarsi (in questo e nei prossimi articoli) per capire la lentezza del processo integrativo specialmente degli immigrati italiani anche nel periodo considerato (1990-2000). D’altra parte, alla luce di quanto avvenuto in Svizzera si può ben comprendere quanto possa essere difficile, anche oggi in altri Paesi, concepire e percorrere una via all'integrazione se non si parte da presupposti corretti e condivisi.

Una distinzione limitativa

La Svizzera, com'è stato più volte ricordato (cfr. per es. articolo del 13.4.2022), nonostante fosse chiaramente fin dagli ultimi decenni dell’Ottocento un Paese d’immigrazione, non si è mai voluta riconoscere tale fino al 2000. Questo atteggiamento ha pesato enormemente sulla politica federale di assimilazione prima e di integrazione dopo (il 1970 può essere considerato il punto di svolta) perché faceva sì che in molti ambienti politici, sindacali e sociali si considerasse l’assimilazione/integrazione un obiettivo eccezionale per una minoranza e non una possibilità reale per tutti, un’eccezione e non la regola, anche per gli stranieri nati e cresciuti qui.

Per capire tale atteggiamento va precisato, tuttavia, che lo Stato federale non poteva favorire una politica d’integrazione perché, sebbene questa apparisse alla Confederazione auspicabile, specialmente in alcuni periodi, non tutti i Cantoni, a cui sarebbe poi spettata in base alla Costituzione federale vigente la sua implementazione, ne erano altrettanto convinti. In effetti il Consiglio federale ha sempre mostrato grande interesse alla naturalizzazione degli stranieri maggiormente assimilati o ritenuti assimilabili, molto meno la maggioranza dei Cantoni.

Un limite invalicabile

Un bell'esempio di grande apertura della politica federale nei confronti degli stranieri la si trova proprio nei riguardi degli italiani in quello che si può considerare il primo accordo di immigrazione/emigrazione tra la Svizzera e l’Italia, ossia il Trattato di domicilio e consolare del 22 luglio 1868. All'articolo 1, si stabilisce, infatti, che «gli Italiani saranno in ogni Cantone della Confederazione Svizzera ricevuti e trattati, riguardo alle persone e proprietà loro, sul medesimo piede e alla medesima maniera come lo sono o potranno esserlo in avvenire gli attinenti degli altri Cantoni. E reciprocamente gli Svizzeri saranno in Italia ricevuti e trattati riguardo alle persone e proprietà loro sul medesimo piede e nella medesima maniera come i nazionali».

Quel Trattato, per altro ancora in vigore, rappresentava il massimo (per l’epoca) a cui si poteva spingerela Confederazione nei confronti degli stranieri perché, pur non essendo cittadini, venivano considerarli sullo stesso piede di parità dei confederati in ogni ambito, salvo quello politico riservato ai cittadini. Tuttavia, in quel Trattato si può vedere anche il limite di tutta la politica svizzera verso gli stranieri fino alla seconda metà del secolo scorso, perché la distinzione tra cittadini e stranieri è netta e a questi era preclusa, almeno in via ordinaria, la stessa possibilità di superare quel limite.

Dall'analisi di questa distinzione tra cittadini e stranieri risulta chiaramente che non si può attribuire alla Confederazione la responsabilità principale di quella pregiudiziale nei confronti degli stranieri. Sta di fatto che la netta distinzione tra cittadini e stranieri ha sempre pesato fortemente in tutta la politica immigratoria federale fino a pochi decenni fa. Gli immigrati italiani più anziani sanno bene quanto abbia pesato nella loro vita la condizione di essere (considerati) stranieri più ancora che immigrati.

Tentativi di superamento

I tentativi di superamento di quel limite sono stati per molti decenni tanto numerosi quanto inutili. Sul finire dell’Ottocento, quando il numero degli stranieri immigrati costituiva oltre il 10 per cento della popolazione residente e cominciava a preoccupare seriamente le istituzioni e l’opinione pubblica, la Confederazione decise di intervenire con un doppio intento: arrestare sul nascere la paura dell'inforestierimento (il termine Überfremdung fu coniato nel 1900) favorendo le naturalizzazioni e sostituire con nuove forze di lavoro i numerosi svizzeri che preferivano emigrare piuttosto che scavare gallerie ferroviarie e lavorare in certe industrie.

Nel 1903 l’Assemblea federale approvò una legge che avrebbe potuto agevolare la naturalizzazione di quegli elementi «adatti alla nazione svizzera» perché già «assimilati» o «assimilabili» e far diminuire la proporzione degli stranieri in modo da renderla meno impattante sull'opinione pubblica. La legge, inoltre, dava la possibilità ai Cantoni di introdurre una sorta di naturalizzazione automatica (jus soli) per i nati in Svizzera da genitori stranieri già residenti. Fu una legge inutile perché nessun Cantone se ne avvalse e ognuno continuò a naturalizzare secondo regole e interessi propri.

Poiché la proporzione degli stranieri continuava ad aumentare (in alcune grandi città la parte di stranieri superava abbondantemente il 30-40%, a Lugano addirittura il 50%), cresceva anche la paura dell'inforestierimento, provocando gravi disagi nella convivenza tra svizzeri e stranieri. La Confederazione pensava di intervenire nuovamente con una nuova legge sulla cittadinanza, ma lo scoppio della prima guerra mondiale bloccò sul nascere l’iter legislativo. Ad approfittarne furono solo alcuni Cantoni che naturalizzarono rapidamente migliaia di stranieri (oltre 50.000 in 5 anni) tra quelli ritenuti più integrati e forse più utili.

Purtroppo determinò invece la fine per parecchi decenni anche della volontà politica di trovare una soluzione soddisfacente al problema di un’integrazione condivisa degli stranieri.

La legge sugli stranieri del 1931, fortemente regressiva

La guerra aveva ridimensionato notevolmente i problemi relativi agli stranieri (anche perché la madrepatria aveva richiamato in servizio moltissimi immigrati e la chiusura delle frontiere aveva bloccato temporaneamente l’emigrazione/immigrazione), ma il tema non era scomparso dall’agenda politica, nonostante si fosse ridotta drasticamente la proporzione degli stranieri nella popolazione residente.

Il tema degli stranieri fu ripreso al termine del conflitto in maniera sistematica, in un’atmosfera decisamente meno favorevole. Dapprima (1917) fu creata la Polizia degli stranieri, poi fu approvata una nuova legge sulla cittadinanza (1919), che introduceva criteri più rigidi di «assimilazione» perché la richiesta di naturalizzazione potesse venire accolta e nel 1925 una modifica costituzionale (sostenuta ampiamente dal voto popolare nel 1928) conferì alla Confederazione la competenza di legiferare sull'entrata, la partenza, la dimora e il domicilio degli stranieri.

La nuova legge sugli stranieri, adottata nel 1931 ed entrata in vigore nel 1934, benché fortemente regressiva nonostante abbia subito nel tempo alcune modifiche, ha costituito la cornice essenziale della politica svizzera in materia d’immigrazione fino al 2008. Data questa durata straordinariamente lunga per una legge riguardante fenomeni sociali di così ampia portata e molto variabili nel tempo come l’immigrazione, i rapporti sociali, l’integrazione e altro, è quantomeno utile osservarne almeno le caratteristiche fondamentali.

Modalità applicative della legge

Anzitutto va ricordato che l’obiettivo finale della nuova legge era quello di stabilire la base giuridica per poter lottare efficacemente contro l’«inforestierimento» (Überfremdung), sebbene la proporzione di stranieri sulla popolazione totale fosse nel 1930 all'8,7 per cento, ben al di sotto di quella registrata allo scoppio della prima guerra mondiale. Per raggiungere questo obiettivo la legge indicava non solo e non tanto le modalità d’ingresso in Svizzera degli stranieri, quanto le ragioni del loro ingresso. Da quel momento, infatti, l’autorizzazione del soggiorno veniva vincolata sia al possesso di un permesso di lavoro e sia alla capacità di accoglienza del Paese (politica selettiva dell’immigrazione), mentre erano del tutto assenti altre ragioni per esempio di carattere politico, sociale, familiare (ricongiungimenti).

In altre parole, le nuove ammissioni potevano avvenire unicamente in funzione della situazione del mercato del lavoro, del clima sociale, della situazione degli alloggi, della politica di limitazione del numero di stranieri. Non bastava quindi avere un permesso di lavoro, ma occorreva anche l’autorizzazione della Polizia degli stranieri, deputata a controllare l’esecuzione delle disposizioni federali in materia di soggiorno degli stranieri. (Segue)

Giovanni Longu
Berna 4.5.2022