25 novembre 2020

Immigrazione italiana 1970-1990: 31. Emigrazione e integrazione

Uno dei freni all’integrazione della seconda generazione degli immigrati italiani in Svizzera nella seconda metà del secolo scorso è stato il generale convincimento che l’emigrazione fosse una condizione temporanea, spesso penosa, per poter vivere meglio in seguito. Quasi tutti gli emigranti lasciavano l’Italia con l’intenzione di tornarvi prima o poi per proseguire la vita più serenamente. La temporaneità era voluta non solo dai migranti, ma anche dalle leggi e dagli ordinamenti svizzeri concepiti per impedire o rendere quasi impossibile la stabilizzazione degli immigrati: chiunque veniva in Svizzera per motivi di lavoro riceveva un permesso di soggiorno temporaneo, stagionale o annuale, rinnovabile solo se i bisogni dell’economia lo consentivano. La Svizzera non voleva essere un Paese d’immigrazione e pertanto l’integrazione non era favorita.

Immigrazione temporanea agli inizi del Novecento

Il passaggio del testimone tra la prima e la seconda generazione spesso si è inceppato!
Fino alla prima guerra mondiale, la «temporaneità» è sempre stata una caratteristica fondamentale dell’immigrazione italiana in Svizzera e rafforzava l’italianità. Negli ultimi decenni dell’Ottocento e agli inizi del Novecento la maggior parte degli italiani veniva chiamata dalle imprese appaltatrici per la realizzazione soprattutto di grandi progetti ferroviari e complessi edilizi. Con la fine dei lavori terminava normalmente anche il contratto dei lavoratori immigrati. Non tutti, però, rientravano in Italia perché molti restavano alle dipendenze delle imprese che li avevano ingaggiati e che avevano interesse a tenersi le maestranze sperimentate e affidabili per l’esecuzione di altri lavori.

In quel periodo si svilupparono in Svizzera diverse comunità italiane, perché le grandi opere duravano generalmente molti anni. Ve n’erano in tutte le regioni della Svizzera (Basilea, Bienne, Chiasso, Ginevra, Kandesteg, Losanna, Lucerna, Zurigo e altre località) e godevano di una certa autonomia organizzativa con propri negozi, ristoranti e persino scuole per bambini e per adulti. Oltre all’italianità, uno dei principali collanti delle varie collettività era costituito dall’associazionismo solidaristico (società di mutuo soccorso) e socio-religioso (società culturali, musicali, Missioni cattoliche italiane, ecc.).

Agli inizi del Novecento, nelle grandi aree urbane esistevano già diversi gruppi organizzati, perché oltre agli immigrati temporanei c’erano già anche molti italiani «domiciliati» stabilmente in Svizzera, per lo più sposati (talvolta con donne svizzere) e impiegati a tempo indeterminato nell’industria. Erano dunque facili gli incontri, gli scambi, le feste comuni, anche se spesso tra i vari gruppi non c’era grande intesa perché, a parte l’appartenenza nazionale all’Italia, avevano ben poco in comune.

Le concentrazioni nelle «colonie»

In questa condizione di temporaneità-provvisorietà, agli immigrati italiani non veniva generalmente nemmeno in mente di dover imparare la lingua locale o di doversi integrare, come si direbbe oggi, per convivere meglio con gli svizzeri. D’altra parte, questo tipo di integrazione non interessava nemmeno a loro, che consideravano gli immigrati «lavoratori ospiti» (Gastarbeiter) e «stranieri» (non solo per la diversa nazionalità, ma anche perché ritenuti «estranei», diversi dal loro mondo).

La combinazione di questi atteggiamenti ed esigenze pratiche di sopravvivenza avevano portato nelle agglomerazioni urbane alla concentrazione degli immigrati italiani in grandi baraccopoli e in determinati quartieri operai (soprattutto nella Svizzera tedesca). Per identificarli si usavano frequentemente termini come «colonia italiana» (Italienerkolonie), «quartiere italiano» (Italienerviertel) ed espressioni equivalenti, con una connotazione prevalentemente giuridico-civile e geografica, ma talvolta anche socio-culturale per sottolinearne in particolare l’isolamento.

Mentre negli ultimi decenni i «quartieri italiani» sono scomparsi in tutte le grandi città, il termine «colonia» è rimasto ed è ancora ricordato non solo dalle associazioni «Colonie libere», ma anche dalla stampa. Quando vengono pubblicati i dati sugli stranieri a fine agosto o a fine anno, dai commenti giornalistici risulta spesso che gli italiani sono sempre «la colonia più numerosa». Dal termine «colonia» sono però scomparse quasi completamente sia la connotazione geografica che quella dell’isolamento e resta solo quella giuridico-civile per indicare semplicemente i «cittadini italiani».

I rapporti con la madrepatria

Nella seconda metà del Novecento e specialmente nel periodo che si sta trattando (1970-1990), il termine «colonia» non esprimeva tuttavia solo l’appartenenza degli immigrati italiani a una delle varie nazionalità straniere presenti nella Confederazione, ma indicava anche il loro legame con l’Italia del tipo colonia-madrepatria basato su interessi reciproci.

In epoca monarchica l’Italia considerava già gli emigrati cittadini italiani a tutti gli effetti, anche se fuori dell’Italia, tanto è vero che i maschi soggiacevano all’obbligo del servizio militare, le donne che sposavano un cittadino straniero perdevano automaticamente la cittadinanza italiana, i lavoratori erano in qualche modo tutelati dalle rappresentanze diplomatiche e consolari (grazie ad accordi internazionali come il trattato tra l’Italia e la Svizzera del 1868). Da parte loro anche gli immigrati si consideravano in certo qual senso una «colonia italiana», benché spesso trascurata dalla madrepatria.

La FCLIS è una delle poche associazioni «storiche» che ancora sopravvive
Il regime fascista cercò di vincolare ancora di più gli emigrati all’Italia intervenendo massicciamente con la propaganda e con sussidi sull’organizzazione e sulla mentalità delle «colonie», creando Fasci, Case d’Italia, scuole italiane, associazioni, ecc., ma incontrando anche non poche resistenze.

Caduto il fascismo, la lotta politica del dopoguerra tra la Democrazia Cristiana (DC) e il Partito comunista italiano (PCI) si è riverberata anche in Svizzera tra le associazioni italiane, producendo tuttavia un esito diverso: mentre in Italia aveva preso quasi subito il sopravvento la DC, in Svizzera cominciò a delinearsi la supremazia del PCI e più in generale della sinistra. A molti appariva chiaro che entrambi i fronti cercavano soprattutto consensi in occasione delle elezioni politiche. Soprattutto la seconda generazione si considerava totalmente estranea al gioco politico.

Poiché la lotta, anche se spesso solo sotterranea, non faceva bene all’immigrazione, nel 1970 si tentò un’intesa operativa almeno tra le principali organizzazioni (politiche). Da allora furono avanzate molte richieste e proposte che influirono probabilmente sul riconoscimento del diritto di voto all’estero e di una rappresentanza degli emigrati nel Parlamento italiano, sull’organizzazione di enti di rappresentanza da affiancare ai Consoli, sulla riorganizzazione delle scuole all’estero e forse su altro ancora, ma tutto era rivolto al rafforzamento dei rapporti della «colonia italiana» con la madrepatria.

Giovani trascurati

Oggi si assiste, in Svizzera, ad una irreversibile crisi dell’associazionismo tradizionale per il venir meno delle ragioni che avevano spinto alla creazione di tante associazioni negli anni Sessanta e Settanta e per l’incapacità delle stesse di osservare le tendenze che cominciavano a delinearsi già allora riguardanti la seconda generazione.

Soprattutto negli anni Ottanta e Novanta molte associazioni assistevano quasi impassibili all’invecchiamento dei loro membri e facevano ben poco per rinnovarsi. Nelle assemblee sociali si parlava preferibilmente di quote, di cariche, di pensioni, di rientri, raramente di problematiche giovanili. I figli degli immigrati, in generale, disertavano quegli incontri, non ambivano ad alcuna carica nelle associazioni e tantomeno a cariche politiche nelle varie istituzioni di rappresentanza, non pensavano nemmeno a tornare in Italia.

I giovani della seconda generazione volevano integrarsi nel Paese in cui erano nati e cresciuti, di cui faticavano ad apprendere la lingua e la cultura, in cui stavano costruendo i primi rapporti sociali e in cui si preparavano a vivere la loro vita professionale. La mentalità dominante nella «colonia italiana» spesso non li ha capiti, non li ha sostenuti, non ha favorito la loro integrazione e, perché no?, la loro naturalizzazione (anche quando reclamava vagamente i diritti politici per gli stranieri).

La concezione dell’emigrazione come momento temporaneo degli «italiani» all'estero impediva anche solo di concepire che quei giovani avrebbero potuto diventare ottimi portatori di «italianità» anche restando per sempre in Svizzera, anche diventando svizzeri. Per questo il percorso della loro integrazione riuscita è stato lungo e difficile.

Ora, però, che questi giovani hanno raggiunto ampiamente i loro obiettivi, sarebbe auspicabile che mostrino ai concittadini e alla società che è possibile e arricchente una buona integrazione linguistica, culturale, etica, in un mondo che sarà sempre più aperto, multiculturale e integrato.

Giovanni Longu
Berna, 25.11.2020

 

18 novembre 2020

Immigrazione italiana 1970-1990: 30. Giovani senza identità?

Negli articoli precedenti si è accennato alle principali problematiche dell’immigrazione italiana in Svizzera nel ventennio 1970-1990, che hanno reso lento e difficile il processo di integrazione, a scuola e nella formazione professionale, dei giovani della seconda generazione. Sono state evidenziate in particolare l’impreparazione delle autorità competenti svizzere e italiane, l’incertezza di molti genitori se restare in Svizzera o rientrare in Italia, se mandare i figli nati qui (o ricongiunti alla famiglia successivamente) alla scuola italiana o alla scuola svizzera, il clima generale della società svizzera poco favorevole alla stabilizzazione della popolazione straniera o addirittura xenofoba. C’era tuttavia anche una difficoltà di fondo ancora poco analizzata che merita di essere evocata perché riguarda l’idea stessa di «emigrazione italiana».

Perché parlarne?

Perché se ne parla raramente per la difficoltà di trovare risposte adeguate, ma forse anche per timore di scoprire che l’idea maggiormente diffusa di «emigrazione italiana in Svizzera» abbia potuto influire negativamente sull’integrazione di centinaia di giovani italiani di seconda generazione. Qui se ne parla non per dare risposte esaustive a un problema enorme, ma nel tentativo di spiegare la lentezza e le difficoltà del processo integrativo, inteso ovviamente nella sua accezione migliore.

Per capire quanto la nozione e la consapevolezza della condizione di immigrati abbia influito sulla vita reale degli italiani in Svizzera e soprattutto sulle relazioni tra indigeni e stranieri, bisognerebbe partire di lontano, quando, per esempio all’inizio del secolo scorso, era sicuramente più conveniente restare italiani che diventare svizzeri. Negli anni Sessanta e Settanta, invece, dopo l’ondata immigratoria di massa del secondo dopoguerra, una tale affermazione non sarebbe stata giustificata perché la condizione migratoria pesava enormemente, soprattutto sulla seconda generazione.

Per rendersi conto di quanto abbia pesato sui figli la condizione dei genitori basterebbe ricordare che gli appartenenti alla seconda generazione, benché non assimilabili agli immigrati non essendo mai emigrati in quanto minorenni o addirittura nati e vissuti in questo Paese, ne hanno sempre dovuto sopportare il peso. Ancora oggi, del resto, i discendenti dei veri emigrati vengono spesso compresi nella categoria dei «migranti», nonostante siano presenti soprattutto nella letteratura svizzera altre espressioni più consone, per esempio, «persone con origini migratorie».

La situazione negli anni ’70 e ‘80

Scriveva nel 1983, l’inviato speciale in Svizzera del Corriere della Sera, Maurizio Chierici: «In Svizzera vivono più di 450.000 operai italiani, i ragazzi sotto i vent’anni sono 80.000. Una generazione perduta, quasi perduta o che sta per perdersi: le definizioni sfumano i diversi pessimismi. Di sicuro una generazione che, per la cultura non ricevuta, a malapena riconosce Garibaldi…».

Il giornalista proseguiva analizzando la situazione sulla base di contatti recenti con immigrati italiani. Riferiva per esempio il racconto di un operaio pugliese che, mentre insieme alla famiglia si recava in macchina in Puglia per le vacanze estive, superando Firenze, la figlia domandò: Quand'è che arriviamo in Italia?. Per lei Italia non è neanche Roma, solo la provincia di Foggia, cioè casa sua ... ».

Per Chierici, la costatazione che «oltre alla casa è la consapevolezza sepolta di appartenere ad una realtà meno compassata che rende schizofrenica l'adolescenza di migliaia di persone» rimandava a un’altra domanda fondamentale: «in quale modo l'Italia si è ricordata di aver spedito fuori un esercito di bambini? Anni fa, gli anni duri del primo referendum xenofobo di Schwarzenbach, parlando di questi giovanotti, il quotidiano zurighese Neue Zürcher Zeitung aveva condensato in un titolo una protesta intelligente. «Possibile che siano tutti stupidi i figli degli italiani?».

Il giornalista italiano proseguiva la sua analisi spietata della difficile situazione dei giovani italiani, che né la scuola italiana (corsi di lingue e cultura) né la scuola svizzera riuscivano a migliorare. Questa anzi la peggiorava perché gli svizzeri «non vedono volentieri l'ingresso nella classe dirigente dei figli degli stranieri. Quindi gli sbarramenti sopravvivono; e le classi differenziate restano popolate da allievi di nomi non tedeschi».

Mondi separati

La testimonianza citata, pur non essendo totalmente condivisibile, dava uno spaccato veritiero della difficile condizione di molti giovani figli di immigrati italiani divisi tra due culture, due Paesi, anzi due mondi lontanissimi l’uno dall’altro, anche se apparentemente vicini. Era evidente che «gli immigrati italiani» costituivano un mondo a sé e gli svizzeri erano l’altro mondo, quello del «piccolo popolo sovrano [che] si sente in pericolo», ma non può fare a meno dell’altro (M. Frisch). Da che parte avrebbero dovuto stare quei giovani?


Questa domanda, legittima e semplice, se la sono posta in molti, ma nessuno ha mai risposto in modo netto perché i figli in età scolastica, che appartengono ancora, per natura, al mondo dei genitori, non avrebbero potuto ribellarsi e nemmeno, in molti casi, esprimere un’alternativa o anche solo una chiara preferenza.

Di questo mondo faceva parte l’utopia del ritorno, l’attaccamento alla propria terra, l’unità della famiglia a guida paterna, l’incertezza del domani, una certa fierezza di essere italiani e, talvolta, anche un senso di superiorità dell’italiano rispetto ad altri popoli. Questo mondo non sempre teneva in (giusta) considerazione il sentimento di appartenenza dei giovani e una valutazione oggettiva delle opzioni di rientrare in Italia o di restare in Svizzera per garantire loro le migliori condizioni di sviluppo possibili.

Le conseguenze per la seconda generazione sono state talvolta tragiche e si sono manifestate soprattutto nelle innumerevoli difficoltà incontrate dai giovani italiani nel lungo e difficile processo integrativo. Per alcuni decenni essi hanno riempito in proporzioni abnormi le classi speciali, risultavano sistematicamente al di sotto dei coetanei svizzeri nelle prestazioni a tutti i livelli scolastici, incontravano grandi difficoltà nell’accesso agli apprendistati più esigenti e nell’inserimento nella vita professionale.

Questi giovani erano talvolta considerati una generazione indefinita e piuttosto problematica, la cosiddetta Weder-noch-Generation, giovani cioè che pur essendo nati e cresciuti qui non si sentivano né svizzeri né italiani. A questi giovani spesso si faceva credere che non era «bello» naturalizzarsi, anche se di italiano talvolta non possedevano nemmeno la lingua. Erano trattati, purtroppo, come se non avessero una propria identità!

Essi non avevano nessuna colpa, forse nessuno doveva o poteva sentirsi responsabile, perché la situazione era il risultato di una sedimentazione almeno secolare di opinioni, decisioni, interpretazioni, pregiudizi, che avevano contribuito a creare e diffondere una nozione di «emigrazione» estremamente riduttiva e conservativa, di cui si trovano tracce anche in molti resoconti di oggi.

Nozione riduttiva di «emigrazione»

La storia dell’emigrazione italiana in Svizzera è estremamente dinamica, mentre le nozioni di «emigrazione» e di «emigrati» sono rimaste bloccate, anche se è cambiata un tantino la terminologia. Oggi non si parla quasi più di espatri e di emigrati, ma si preferiscono espressioni tipo «Italiani all’estero», «Italiani nel mondo», «L’Italia fuori d’Italia».

Forse le nozioni di «emigrazione», «emigrati», «seconda generazione» stanno cambiando davvero, ma se s’intende parlare degli italiani immigrati in Svizzera nella seconda metà del secolo scorso e dei loro figli non si possono dimenticare le nozioni che erano diffuse allora. Per «emigrazione» s’intendeva prevalentemente una condizione provvisoria, gli «emigrati» erano «lavoratori ospiti» (Gastarbeiter) che prima o poi se ne sarebbero andati anche perché all’idea del «ritorno» nessun immigrato in Svizzera rinunciava.

Com’è facile osservare, e come si vedrà meglio in un prossimo articolo, in questa visione i figli erano irrilevanti e purtroppo nel periodo che si sta considerando hanno dovuto subire i molti limiti e difficoltà che comportava. Conquistare la propria identità non è stato facile! (Segue)

Giovanni Longu
Berna 18.11.2020

11 novembre 2020

Immigrazione italiana 1970-1990: 29. I giovani e la formazione professionale

Negli anni Settanta divenne acuto il problema della formazione professionale della seconda generazione. Le iniziative antistranieri e soprattutto la crisi economica del 1974-76 avevano dato forti segnali di cambiamento nell’economia svizzera, che avrebbe interessato anche molti italiani. Già prima, il governo federale aveva fatto capire chiaramente di voler dare una svolta alla politica liberale in materia d’immigrazione ispirandosi a criteri di riduzione, stabilizzazione e integrazione degli stranieri. Per gli italiani avrebbe significato meno nuovi arrivi e più rimpatri. Per l’industria, che si reggeva in alcuni rami grazie al contributo degli immigrati, avrebbe comportato la rinuncia a un gran numero di collaboratori non potendo più contare su un approvvigionamento illimitato di lavoratori stranieri e il ricorso a importanti ristrutturazioni e razionalizzazioni. Per restare sul mercato molte imprese sarebbero state costrette non solo a ristrutturarsi, ma anche a investire cospicue somme in nuovi impianti, nuove tecnologie e collaboratori meglio preparati.

Italiani preoccupati…

Negli anni ‘70-80 molti italiani volevano diventare automeccanici (foto Cisap)

 

Agli industriali, ai sindacati e agli osservatori del settore appariva chiaro che al termine del processo l’esigenza di manodopera non qualificata o poco qualificata si sarebbe notevolmente ridotta, mentre sarebbe cresciuto parallelamente il bisogno di personale sempre più qualificato e specializzato. Un vago senso dei cambiamenti che stavano per stravolgere il vecchio sistema produttivo dell’economia svizzera era percepito anche dai lavoratori immigrati. Specialmente nel periodo della crisi, la continua emorragia di forze di lavoro, soprattutto straniere, non poteva passare inosservata dagli stessi stranieri, molti dei quali avranno sicuramente notato che a perdere il posto di lavoro erano soprattutto i lavoratori generici, né specializzati né qualificati.

Si può ben ritenere che, in famiglia, questi lavoratori immigrati, abbiano guardato con preoccupazione al futuro dei loro figli, soprattutto se avevano deciso di restare a tempo indeterminato in Svizzera. Non bastava, infatti, volere per loro una vita diversa, meno pericolosa, meno precaria, meno dipendente dagli altri. Né serviva molto essere convinti che per riuscire dovessero studiare. Purtroppo molti genitori italiani furono lasciati soli ad immaginare futuri fantasiosi. Fatta eccezione per pochissime associazioni (una per tutte quella del CISAP) che prendevano seriamente a cuore la problematica, l’associazionismo italiano non era nemmeno in grado di offrire suggerimenti praticabili oltre ai generici «imparare un mestiere», «chiedere al datore di lavoro», «rivolgersi al Consolato» e simili.

… e impreparati

Occorre anche dire che in generale gli immigrati non si rendevano ancora ben conto dell’importanza della formazione professionale. Erano venuti in Svizzera già con un contratto di lavoro per svolgere determinate attività (per lo più lavori poco qualificati) e non sentivano il bisogno di una conoscenza approfondita del mestiere. La qualificazione professionale non rientrava nei loro obiettivi, che si limitavano essenzialmente all’accumulazione di un risparmio che permettesse loro nel tempo un ritorno nel Paese d’origine (M. Monferrini).

Inoltre, la maggior parte dei genitori immigrati non aveva alcuna esperienza di orientamento professionale, stages conoscitivi, rapporto prestazione scolastica-apprendistato e spesso non aveva nemmeno sufficienti conoscenze linguistiche per informarsi in modo appropriato delle varie possibilità al termine della scuola obbligatoria.

Come avrebbero potuto questi genitori sostenere i figli nella progettazione del loro futuro professionale? Tanto più che le professioni in cui erano concentrate le attività degli immigrati erano pochissime, una decina, mentre per gli svizzeri le possibilità di scelta concernevano centinaia di professioni. In questa situazione, senza aiuti adeguati, la seconda generazione rischiava seriamente di ripercorrere le orme dei genitori.

L’orientamento professionale

E’ vero che anche negli anni Settanta, al termine dell’obbligo scolastico, i giovani venivano informati sulle possibilità di proseguire la formazione, ma la scelta era tutt’altro che facile. Come poteva un ragazzo figlio di immigrati, in quelle condizioni, scegliere se proseguire gli studi (ginnasio, lice, università) o imparare una professione da perfezionare eventualmente in seguito attraverso scuole tecniche di alto livello? Purtroppo il sistema ufficiale di orientamento professionale era poco conosciuto dagli immigrati e scarsamente frequentato, anche per una certa diffidenza nei confronti degli orientatori che fondavano i consigli soprattutto sulle prestazioni scolastiche e tenevano in poca considerazione le aspirazioni degli interessati.

Dagli anni ‘70 molti italiani cominciarono a studiare l’elettronica (foto Cisap)
Concretamente, a un allievo che aveva seguito solo una scuola primaria (elementare) venivano prospettate soltanto formazioni elementari e orientate prevalentemente alla pratica (apprendistati di corta durata, due o tre anni). A un allievo che proveniva da una scuola di grado secondario inferiore (scuola media) con buone prestazioni si prospettavano invece apprendistati più esigenti e più lunghi (generalmente quattro anni) e un corredo molto ampio di conoscenze teoriche (professionali e culturali).

Di fatto, negli anni Settanta e Ottanta, la maggior parte dei giovani stranieri (italiani) poté seguire solo apprendistati meno impegnativi e solo pochi seguirono apprendistati lunghi ed esigenti. Purtroppo ci furono anche giovani italiani, spesso venuti per ricongiungersi con la famiglia dopo aver frequentato la scuola obbligatoria in Italia, che non riuscirono a seguire un regolare apprendistato per carenze linguistiche. Pochissimi italiani, negli anni Settanta e Ottanta, riuscirono a proseguire gli studi in un liceo o altra scuola corrispondente e poi all’università.

Importanza della formazione professionale

Ripensando a quel periodo, oggettivamente molto difficile per l’immigrazione italiana, non si può negare, come è stato ricordato in articoli precedenti, che i risultati della seconda generazione sono stati sovente al di sotto delle attese. Sarebbe tuttavia ingiusto addossarne le responsabilità solo alle magre prestazioni dei giovani o al sistema fortemente selettivo della formazione in Svizzera. I giovani andrebbero considerati i meno responsabili perché erano in gran parte privati del sostegno e degli aiuti familiari che ricevevano i coetanei svizzeri.

Negli anni 70-80 molti italiani divennero meccanici (foto Cisap)

Quanto al sistema formativo svizzero è innegabile che fosse, soprattutto allora, ossessionato dalle prestazioni e pertanto fortemente selettivo e penalizzante nei confronti degli stranieri. Non si può tuttavia negare che l’organizzazione dell’immigrazione italiana (dalle rappresentanze diplomatiche e consolari, agli organismi di rappresentanza e alle varie associazioni) sia stata inadeguata alle esigenze della seconda generazione che era destinata con grandissima probabilità, come sostenevano le autorità e i sindacati svizzeri, a restare e a integrarsi in Svizzera.

E’ emblematico che in quel periodo la via degli studi sembrasse per i figli degli immigrati più gratificante della via dell’apprendistato, perché allora prevaleva ancora la prospettiva di un rientro in Italia, dove gli studi e la laurea godevano, soprattutto nei ceti medio-bassi, di grande prestigio sociale. Pochi consideravano la fabbrica o il cantiere possibili luoghi d’integrazione e di crescita, perché svizzeri e stranieri non svolgevano gli stessi compiti, alle stesse condizioni e con la stessa competenza. Moltissimi non si rendevano conto che l’ostacolo alla parità era soprattutto la mancanza di competenza professionale certificata.

L’integrazione professionale e sociale

Eppure già allora, nella nuova politica immigratoria svizzera, l’attività professionale competente e provata era considerata un importante criterio d’integrazione sociale. E anche numerosi stranieri, della prima e della seconda generazione, cominciavano a rendersene conto dopo aver frequentato i corsi serali di formazione professionale tipo quelli organizzati dal CISAP a Berna e in altre regioni della Svizzera. La competenza professionale acquisita dava loro sicurezza, miglioramenti salariali, rispetto e stima dentro e fuori dell’azienda.

L’importanza della formazione professionale richiese tuttavia molto tempo prima di radicarsi nella collettività immigrata, ma sia pure lentamente stava diventando un aspetto fondamentale di qualunque discorso sull’integrazione, a tal punto da far ritenere che senza una buona integrazione sul lavoro difficilmente ci può essere un’integrazione sociale. (Segue)

Giovanni Longu
Berna 11.11.2020