25 ottobre 2017

Italiani in Svizzera: 27. Condizioni di lavoro: «bocconi amari» e successo



Le condizioni di lavoro degli immigrati, soprattutto di quelli non qualificati, sono generalmente più dure di quelle che devono affrontare gli indigeni. Quasi sempre, infatti, si tratta di attività che questi ultimi non vogliono più svolgere per svariate ragioni, spesso sono anche meno redditizie, più faticose o pericolose. Inoltre, alla lunga, diventa penosa più ancora della pericolosità o della fatica dei lavori svolti, la dipendenza dell’emigrato dal suo datore di lavoro, perché rischia sovente di trasformarsi in discriminazione, arbitrio, angheria (specialmente in mancanza di garanzie legali, contrattuali o sindacali). La storia dell’immigrazione italiana in Svizzera dimostra tuttavia che superare le difficoltà è possibile, ma richiede impegno, costanza e talvolta cambiamento di mentalità. Moltissimi ci sono riusciti.

Quando gli italiani divennero indispensabili
Negli anni '60 e '70 molti italiani erano addetti alle fonderie.
I primi immigrati, quelli dell’Ottocento e inizi del Novecento, erano chiamati a svolgere soprattutto attività pesanti e pericolose nel settore delle costruzioni (edilizia e genio civile). Gli incidenti sul lavoro e le morti erano frequenti. I contrasti e gli scontri tra indigeni e immigrati erano costanti. Basti pensare agli attacchi violenti ai lavoratori italiani di fine Ottocento a Berna, Basilea, Zurigo e altrove. Purtroppo anche la popolazione era schierata contro gli immigrati, considerati «invasori», pur sapendo che si ammazzavano di fatica.
Lo Stato italiano cercava di tutelare il lavoro degli emigrati, ma lo faceva con poca convinzione, perché era più interessato alla pace sociale in patria che al benessere di chi l’aveva lasciata. Da parte sua la Confederazione, Paese liberale, si è sempre fidata (troppo) della buona volontà delle parti sociali (imprenditori e sindacati), pur sapendo che le condizioni di lavoro, d’abitazione e di vita degli immigrati spesso non corrispondevano all’«umanità» e agli impegni presi nelle convenzioni bilaterali o internazionali.
Per ottenere condizioni di lavoro più umane e salari più idonei, gli immigrati si son dovuti battere tenacemente, non esitando ad avanzare richieste (pur essendo tutt’altro che facile, per paura dei licenziamenti), organizzare proteste, riunioni sindacali (società di mutuo soccorso) e numerosi scioperi. Non sempre andavano a buon fine, ma sia pure lentamente i miglioramenti arrivarono, anche perché molti datori di lavoro si rendevano conto che senza gli immigrati italiani certe attività si sarebbero fermate.
Dopo le violenze contro gli italiani nel famoso «Italiener-Krawall» nell’estate del 1896 a Zurigo, molti immigrati cercarono di fuggire dalla città. Furono i datori di lavoro a chiamarli indietro mentre si accalcavano alla stazione in cerca di un treno che li portasse lontano. «Abbiamo bisogno di voi», dicevano, «cosa faremo senza il vostro aiuto?». La stagione edilizia era appena iniziata e un blocco dei cantieri avrebbe significato una catastrofe non solo per il settore, ma anche per molti affittacamere, bottegai, ristoratori. Molti italiani tornarono e tanti restarono per sempre (cfr. Fiorenza Venturini, 1976). 

Indispensabili come «braccia», ma «Gastarbeiter», anzi «cìnkali»
Ritenendoli utili e talvolta indispensabili, per certi impieghi molti datori di lavoro preferivano la manodopera italiana a quella locale. Il calcolo era di estrema semplicità: gli immigrati italiani non erano generalmente politicizzati, non creavano problemi, erano più rapidi, più efficaci, rendevano di più e costavano meno degli svizzeri.
Nel 1908, Gazzetta Ticinese, un quotidiano liberale-radicale scriveva: «La ricerca dell'elemento italiano è giustificata dalle doti oramai proverbiali di maggiore energia produttiva e di maggior duttilità, per cui l'operaio italiano rappresenta la macchina umana di maggior rendimento; fatto incontestabile, riconosciuto ed ammesso da tutti, al quale si deve se gli industriali ne tollerano molti difetti e ne sollecitano volentieri l'opera».
Lo stesso giornale citava alcune testimonianze: «Recentemente la Direzione di un importante opificio, la Vetreria di Monthey, si difendeva, sulla Gazzetta di Losanna, dall'accusa di favoritismo verso gli operai italiani con queste parole: “Come potrebbero vivere e sussistere le nostre industrie, le nostre imprese edilizie o d'altro genere se dovessero occupare solo svizzeri?” E l'ufficio d'assistenza del Cantone Argovia scriveva, or non è molto, che senza gli operai italiani non si potrebbe costruire neppure una casa».
Non è certo un grande riconoscimento ritenere il lavoratore italiano «la macchina umana di maggior rendimento», ma il paragone indica bene un atteggiamento molto diffuso tra i datori di lavoro svizzeri, che consideravano gli immigrati «macchine» o, come si dirà più tardi «forze di lavoro», «braccia», trascurando quasi del tutto gli aspetti umani. Un atteggiamento che farà dire con tristezza nel 1965 allo scrittore svizzero Max Frisch: «Abbiamo chiamato braccia e sono venuti uomini» e più tardi al politico e scrittore socialista svizzero Dario Robbiani: «Ci chiamavano Gastarbeiter, lavoratori ospiti, ma eravamo stranieri, anzi cìnkali».
In queste espressioni e in questi atteggiamenti è condensata una parte consistente della storia dell’immigrazione italiana in Svizzera fino a pochi decenni orsono. Eppure, a ben vedere, è soprattutto grazie al lavoro che gli italiani si sono affermati in questo Paese. Già nell’Ottocento, quando gli italiani costituivano un «problema», il lavoro, il buon lavoro serio e coscienzioso, li rendeva utili e spesso indispensabili. Lavorando generalmente a cottimo, producevano più degli altri e, secondo numerose testimonianze, erano anche ben pagati. Quanto bastava, però, per suscitare invidia e odio da parte soprattutto di quegli svizzeri che non reggevano la concorrenza, fino ad arrivare alla degenerazione degli attacchi violenti di Berna (Käfigturmkrawall, 1893) e di Zurigo (Italiener-Krawall, 1896).

Secondo dopoguerra difficile
Nel secondo dopoguerra, con la forte ripresa dell’immigrazione dall’Italia (del nord), il lavoro italiano venne ampiamente riconosciuto dall’economia svizzera. Fino ai primi anni ’60 i datori di lavoro svizzeri erano molto soddisfatti degli italiani, sempre intesi come «macchine di maggior rendimento», anche perché erano giovani e forti e non creavano problemi con figli, famiglie, scuole, proteste, ecc. In seguito la situazione, com’è noto, peggiorò, non solo perché i movimenti xenofobi erano in crescita, ma anche e soprattutto perché, via via che l’immigrazione italiana (ormai prevalentemente dal sud) aumentava, il rendimento diminuiva e cresceva il disagio sociale tra due comunità che non si comprendevano, non si frequentavano e talvolta si odiavano.
Lino Guzzella, un «secondo», pres. del Politecnico fed. di Zurigo
Le condizioni di lavoro erano varie secondo la grandezza dell’impresa, il tipo d’impresa, le esigenze della singola impresa, il luogo di lavoro, il cantiere, la fabbrica, ma soprattutto secondo le competenze professionali dei lavoratori. Molti datori di lavoro cominciavano anche ad avere dubbi sulle capacità di molti operai italiani provenienti dal sud e sulla possibilità di integrarli efficacemente nei processi produttivi. Oltretutto erano preoccupati, in alcune grandi fabbriche, del clima di contestazione che si stava creando ad opera di attivisti di sinistra (comunisti) venuti appositamente dall’Italia.
Sulle condizioni di lavoro nelle fabbriche i numerosi racconti dei protagonisti (lavoratori, datori di lavoro, capi del personale, sindacalisti) sono difficilmente unificabili, perché esistono troppe differenze tra piccole e grandi imprese, tra imprese con una prevalenza di manodopera estera e imprese con pochi lavoratori stranieri, tra lavoratori italiani provenienti del nord e lavoratori provenienti dal sud Italia, ecc.
Volendo trovare qualche tratto comune, si può ritenere, per esempio, che la stragrande maggioranza dei lavoratori immigrati accettava qualunque lavoro, sia per non rischiare, in caso di rifiuto, di restarne senza e sia perché gli italiani, come scriveva nel 1970 il sociologo Rudolf Braun, «sono venuti da noi per guadagnare e vivono solo per il guadagno. Si può dire a un italiano che deve lavorare fino a mezzanotte; egli lo fa senz’altro perché vede il tornaconto finanziario, ossia il 25 per cento di paga in più per lo straordinario». Molti datori di lavoro se ne approfittavano.
Un’altra caratteristica degli italiani era la disponibilità a rendere di più se ben guidati e premiati (con incentivi in denaro o in carriera), con una differenza: un italiano del nord accettava difficilmente osservazioni sul suo operato ritenendo di saper far bene quel che faceva; un italiano del sud, invece, consapevole della sua impreparazione, era più disposto a lasciarsi guidare e consigliare con la prospettiva di migliorare la sua posizione.

Dal cottimo al lavoro di qualità
Molto spesso i racconti di numerosi italiani contengono queste due osservazioni: il lavoro era molto duro, ma generalmente era svolto senza lamentarsi. Ha scritto una immigrata lucana riferendosi alla situazione vissuta agli inizi degli anni ‘60: «Era un lavoro durissimo, pieno di polvere e in mezzo a un rumore frastornante, ma a me piaceva. […] Per me dura, ma essendo partita da un piccolissimo paese, era tutta un’altra vita con risvolti a suo modo interessanti: anche senza conoscere il tedesco».
Ignazio Cassis, un «secondo», consigliere federale
Dagli anni ’80 in poi la situazione dei lavoratori italiani cominciò a migliorare radicalmente, sia perché i «vecchi» si erano ormai stabilizzati, e sia perché diventavano «attivi» numerosi figli di immigrati del dopoguerra. La seconda generazione aveva superato, nel complesso, le principali difficoltà dei genitori: non aveva particolari problemi linguistici e scolastici e possedeva una formazione professionale «normale» che la metteva al riparo da confronti insostenibili con i coetanei svizzeri.
La diffusione della formazione e della cultura in generale ha fatto sì che sul lavoro da qualche decennio le differenze tra svizzeri e italiani si siano praticamente azzerate o comunque minimizzate. Di fatto oggi gli italiani e gli svizzeri di origine italiana sono presenti in tutti i rami professionali e a tutti i livelli, compresi quelli superiori, anche in politica.
La strada è stata lunga e, per dirla con una lettrice, «quanti bocconi amari abbiamo dovuto mandar giù!», ma a ben vedere, ne è valsa anche la pena.
Giovanni Longu
Berna, 25.10.2017

18 ottobre 2017

Italiani in Svizzera: 26. Condizioni d’abitazione molto varie negli anni '50-70



Le condizioni d’abitazione degli immigrati (italiani) in Svizzera hanno provocato qui e in Italia molti dibattiti, alcune volte avviati da specifiche denunce di abusi e violazioni dei regolamenti, altre volte da presunzioni di abusi, sfruttamento, discriminazione della manodopera estera. Nella letteratura sull’emigrazione, in generale, è stata operata un’azione inaccettabile di enfatizzazione degli aspetti più negativi, per di più generalizzandoli, senza alcun serio tentativo di un’analisi obiettiva della situazione, senza riferimenti a dati statistici ufficiali e senza tener conto di descrizioni di segno positivo.

La situazione riguardante le baracche
Anzitutto è fondamentale distinguere le abitazioni degli stagionali vicino ai cantieri (in prevalenza baracche) dalle abitazioni dei dimoranti annuali o domiciliati nei centri abitati. I problemi infatti erano molto diversi. Basti pensare che le baracche erano ritenute per loro natura provvisorie, quindi destinate ad essere demolite o smontate e portate eventualmente altrove una volta chiuso il cantiere, mentre le abitazioni dei centri abitati erano in muratura e quindi stabili.
Il sogno di molti immigrati degli anni '50-70 del secolo scorso
Nella concezione delle baracche al primo posto veniva la funzionalità, non il confort. Esse dovevano soddisfare i bisogni essenziali dei lavoratori per un periodo ritenuto sempre limitato ed era certamente nell’interesse del datore di lavoro offrire ai propri dipendenti condizioni abitative dignitose e soddisfacenti, anche per evitare lamentale, reclami e ispezioni degli ispettorati del lavoro. Era inoltre impensabile che gli alloggi degli stagionali si trovassero troppo distanti dai cantieri e dai luoghi di lavoro, per cui era inevitabile che soprattutto gli stagionali addetti all’edilizia e al genio civile alloggiassero in baracche, come del resto avveniva in tutti i Paesi europei d’immigrazione.
Non va neppure sottovalutato il fatto che le baracche offrivano anche notevoli vantaggi agli utilizzatori. Per esempio, essendo vicine ai cantieri, facevano risparmiare tempo e denaro per recarsi al lavoro. Inoltre, esse erano relativamente a buon mercato, rispetto agli affitti di un appartamentino proprio. Un immigrato italiano raccontava, presumibilmente agli inizi degli anni ’70, che la stanza in cui erano sistemati 5 letti era abbastanza grossa e pagava, vitto e alloggio, 300 franchi al mese; ne guadagnava 7.70 l’ora. 

Baracche e confort
Il confort delle baracche del dopoguerra era sicuramente superiore a quello d’inizio secolo, soprattutto riguardo alle condizioni igieniche, alla disponibilità di servizi sanitari, al riscaldamento. E’ probabile tuttavia che gli alloggi dei primi immigrati ne fossero ancora carenti. La «qualità» delle abitazioni degli stagionali cominciò a migliorare con l’entrata in vigore (15 luglio 1948) del primo Accordo d’immigrazione tra la Svizzera e l’Italia. Infatti le richieste di lavoratori italiani, inoltrate ai Consolati e alla Legazione d’Italia in Berna (elevata nel 1953 al rango di Ambasciata) dovevano contenere «indicazioni precise sulla natura dell’impiego, il genere e la qualificazione della mano d’opera desiderata, le condizioni di lavoro, di retribuzione, di alloggio e di sussistenza» (art. 6). Dunque, tanto la Legazione quanto i diretti interessati potevano conoscere in anticipo le condizioni d’abitazione.
Una volta sul posto, se i connazionali trovavano la baracca o altro tipo di alloggio non idoneo, avrebbero potuto reclamare tramite il Consolato, il Sindacato o il Patronato, ma raramente lo fecero per paura, per mancanza di sostegno o per ignoranza. In generale, tuttavia, la stragrande maggioranza non aveva motivo di lamentarsi sia perché l’alloggio era quello previsto nel contratto di lavoro e sia perché le alternative erano quasi inesistenti. Chi, per esempio, avrebbe potuto trovare sul mercato delle abitazioni un alloggio più idoneo e a costi sostenibili? Del resto la maggioranza delle baracche non presentava particolari criticità.

Alcune testimonianze
Scriveva, per esempio, il giornalista Vasco Fraccanelli sul quotidiano socialista Libera Stampa nel 1951 sulle baracche del cantiere della Maggia, nel Ticino: «Sopra un pianoro […] è stato costruito un paesino di baracche. Ma intendiamoci, baracche in ordine col pianterreno rialzato in sasso e il piano di sopra in legno ben immaschiato, tanto che da una tavola all'altra non passa il ben che minimo filo d'aria. Lucide e pulitissime, sia all'interno sia all'esterno. Le finestre sono ampie e munite da gelosie, così queste casette ti sembrano più dei veri e propri «chalets», piuttosto che delle baracche…».
Dieci anni più tardi, nel 1961, un altro cronista, del Corriere del Ticino, in un servizio sul cantiere della Verzasca, scriveva fra l’altro a riguardo delle baracche che ospitavano al momento 250 persone: «Più che baracche, dovrebbero essere definite casette. […] Servizi igienici e logistici all'insegna della perfezione. Né vien trascurata quella parte di sana ricreazione (un po' di musica, un po' di televisione, tanta radio, lettura, ecc. ecc.) così che si è costruita una baracca appositamente per tale scopo. […] Un bar e un vasto vano sono a disposizione degli operai che, nelle ore libere, frequentano con piacere questo locale, ove c'è di che rallegrare lo spirito, ove mentre tra una discussione e un'altra, si trova il tempo di scrivere a casa.».
L'«Hotel Ritz» della Grande Dixence (1951-1961)...ristrutturato
Per la costruzione della più grande diga della Svizzera, la Grande Dixence (1951-1961), furono predisposte baracche e un grande edificio chiamato allora «Hotel Ritz», che lo scrittore Maurice Zermatten descrisse così: «una costruzione ultramoderna, in alluminio, [che ha ospitato anche più di 1000 operai …] comprende un ristorante, una sala di proiezione per 400 persone, una ricca biblioteca con libri in tedesco, francese e italiano; sale di lettura e di giochi…».
Anche le baracche principali, quelle a valle, del cantiere di Mattmark erano di buona fattura, come ha confermato in più occasioni uno dei sopravvissuti alla disgrazia del 30 agosto 1965, Ilario Bagnariol. Le baracche a valle, dove dormivano e trascorrevano il tempo libero gli operai, disponevano di acqua fredda e acqua calda, servizi igienici, docce, riscaldamento e quanto serviva agli operai durante il tempo libero. Gli alloggi non solo dei dirigenti ma anche quelli delle maestranze erano secondo lui eccellenti, meglio di tanti alberghi. Purtroppo sulla sicurezza di alcune baracche del cantiere situate in prossimità della diga in costruzione non fu fatto abbastanza, diversamente la disgrazia si sarebbe potuta evitare.

Alloggi in città: rari e costosi
La situazione delle abitazioni nelle città era più complessa a causa della penuria di abitazioni, anche per gli svizzeri, ma soprattutto per gli stranieri. Era quasi impossibile, per uno straniero, trovare subito un appartamento a causa dei costi elevati, oltre che per il diffuso clima antistranieri degli anni ’60 e ’70.
Quando nel 1957 l’Unione Sindacale Svizzera (USS) avanzava la prima richiesta di riduzione del numero degli stranieri, uno degli obiettivi era di non aggravare la penuria degli alloggi e frenare l’evoluzione dei salari (inflazione). Per le stesse ragioni nel 1965 presentò un progetto di legge per ridurre gli stranieri a 500 mila e al 10% della popolazione residente.
Quanto alle critiche dell’on. Giuseppe Pellegrino (PCI) del 1963 (cfr. articolo precedente dell’11.10.2017), nella stessa seduta della Camera dei Deputati l’on. Giuseppe Lupis (PSDI), pur riconoscendo la gravità del problema, osservava che alla difficoltà oggettiva di trovare in Svizzera un alloggio più confortevole e al tempo stesso economico si aggiungeva in molti emigrati un «profondo senso del risparmio», che li spingeva a non cercare nemmeno un’altra sistemazione, essendo «l’elemento predominante per i nostri lavoratori […] il desiderio di accantonare, di risparmiare il più possibile per sé e per la propria famiglia, in vista di un ritorno in patria e dell'acquisto di una casa nel proprio paese o città».
Credo che queste parole dell’on. Lupis spieghino in buona parte fenomeni come quelli delle misere condizioni d’alloggio di molti immigrati italiani nei primi decenni del dopoguerra. Tutto il risparmio era finalizzato a mettere insieme un gruzzolo da impiegare al ritorno in Italia. Pertanto era logico risparmiare anche sulle spese d’abitazione. Il ricercatore Lucio Boscardin ha calcolato per il periodo 1946-1959, un tasso di risparmio (tra vitto, alloggio, imposte, assicurazioni, ecc.) tra il 53 e il 63% delle entrate lorde.

Situazione critica dalla metà degli anni ‘60
In base ai dati del censimento della popolazione del 1960, l'Ufficio federale di statistica (UST) affermava che, nel complesso, le condizioni abitative delle famiglie straniere erano simili a quelle delle famiglie svizzere, ma variavano secondo i gruppi nazionali. Per esempio, le famiglie francesi, tedesche e austriache che disponevano di un bagno erano più numerose di quelle svizzere; per quelle italiane era il contrario. Mentre il 64% delle abitazioni degli svizzeri erano dotate di bagno, la percentuale di quelle degli italiani era solo del 36,9% (media 54,1% per l'insieme delle famiglie straniere).
Anche la grandezza dell’abitazione differiva secondo il gruppo nazionale. Riguardo alle abitazioni di grandezza media, austriaci e italiani ne disponevano in una proporzione più elevata che nei loro Paesi d’origine, mentre per i tedeschi era il contrario. Per quanto riguarda le abitazioni grandi, solo gli italiani ne disponevano meno che al loro Paese (spiegazione: le loro economie domestiche in Svizzera erano costituite in maggioranza da giovani). Nel complesso, austriaci, tedeschi e italiani disponevano in Svizzera di abitazioni meglio equipaggiate (bagno, doccia, riscaldamento, acqua corrente) che nei loro Paesi d'origine.
Le considerazioni dell’UST si riferiscono al 1960, quando gli inquilini erano soprattutto immigrati provenienti dal Nord Italia. In seguito, tuttavia, la situazione abitativa degli italiani, andata via via migliorando riguardo alle baracche, ha incontrato nuove difficoltà per quel che riguarda gli alloggi in città, in seguito all’immigrazione di massa prevalentemente dal Sud, ai ricongiungimenti familiari, resi più facili dopo l’Accordo italo-svizzero di emigrazione del 1964, e soprattutto all’accresciuta paura dell’«inforestierimento». Solo negli anni ’80 e ’90 si registrerà un sostanziale miglioramento, ma alcune differenze resteranno a lungo. Per esempio, gli italiani continuano ad abitare in appartamenti a pigione medio-bassa e sono relativamente pochi i proprietari della propria abitazione.
Giovanni Longu
Berna, 18.10.2017

11 ottobre 2017

Italiani in Svizzera: 25. Condizioni d’abitazione: voci critiche



Spesso, leggendo o sentendo racconti di immigrati arrivati in Svizzera negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, si resta sconcertati per le condizioni di lavoro, d’abitazione e di vita, a cui molti di essi erano costretti dalle circostanze. Altri racconti, che mettono in luce la buona accoglienza ricevuta al loro arrivo in questo Paese e l’aiuto ricevuto da famiglie svizzere per trovare un alloggio e superare le difficoltà iniziali, trovano scarsa accoglienza nelle ricostruzioni e analisi di quel periodo. Da questo contrasto nasce la domanda: è possibile, a distanza di anni, tentare almeno di dare risposte oggettive e fondate, superando le affermazioni generiche, a domande tipo: quali erano le reali condizioni d’abitazione, di lavoro e di vita degli immigrati italiani dei primi decenni del dopoguerra? Ritengo di sì.

Problema abitativo: complesso e di difficile soluzione
Per esigenza di sintesi occorre ricordare che subito dopo la guerra, per le ragioni descritte nei precedenti articoli, sono giunti in Svizzera, in maniera regolare o irregolare, centinaia di migliaia di italiani. E’ facile comprendere che questa massa inevitabilmente creava problemi, le cui soluzioni non erano sempre a portata di mano.
Tipiche baracche alla periferia delle città negli anni ’60 e ’70
Oltre alla difficoltà oggettiva di reperire alloggi adeguati per tutti gli immigrati non va sottaciuto che in quel periodo ampi strati della popolazione svizzera ritenevano gli immigrati fonti di preoccupazioni per la sicurezza del lavoro, la tranquillità della vita, le prospettive future, ecc.) per cui era molto diffusa la diffidenza nei loro confronti, per esempio quando cercavano un alloggio.
Non va nemmeno dimenticato che la penuria di alloggi esisteva già prima della guerra; gli immigrati hanno contribuito a renderla ancor più evidente, tanto da provocare numerosi interventi parlamentari e misure del governo per la promozione di un’edilizia popolare e il freno all’aumento delle pigioni. Effettivamente, già negli anni ’50 vennero prodotte 20-30 mila nuove abitazioni l’anno, raggiungendo negli anni ’60 circa 40-50 mila unità l’anno. Costruirne di più avrebbe comportato l’arrivo di nuovi immigrati e quindi il rischio di aggravare ancor di più il problema. I risultati non furono ritenuti da tutti soddisfacenti, ma contribuirono senz’altro a ridurre anno dopo anno la grave penuria di alloggi.
Non tutti gli immigrati erano ugualmente coinvolti
Quando in molti racconti e in molte ricostruzioni dell’immigrazione italiana del periodo considerato si tratta delle condizioni abitative, di solito vengono messe in evidenza le difficoltà di trovare un’abitazione (enfatizzando talvolta gli episodi di evidente discriminazione) e le limitazioni e i disagi che comportava la vita nelle baracche. Sulla base di pochi o anche numerosi episodi documentati è stato facile per alcuni studiosi concludere che gli immigrati vivevano in condizioni abitative pessime, addirittura disumane.
Evidentemente i fatti accertati non si possono negare e nemmeno minimizzare. La generalizzazione è tuttavia sbagliata perché non è vero che tutte le categorie di immigrati avevano (grandi) problemi in materia d’abitazione. Per esempio, non erano coinvolti in questa problematica i domiciliati (oltre 200.000 italiani negli anni ’60), che in materia civile avevano praticamente gli stessi diritti e doveri degli svizzeri.
Anche i lavoratori dell’agricoltura, quelli degli alberghi e quelli dei servizi domestici non ponevano particolari problemi (perché i contadini, gli alberghi e spesso le famiglie in cui si prestava servizio potevano garantire facilmente un alloggio), tanto più che il loro numero era nel complesso molto contenuto. Persino la sistemazione dei lavoratori dell’edilizia e del genio civile, in gran parte stagionali e soli, non rappresentava per i datori di lavoro difficoltà insuperabili, a prescindere dalla soddisfazione degli interessati, perché tutte le grandi imprese edili per le quali lavoravano disponevano di moduli abitativi (baracche) per gli operai. Soprattutto nei grandi cantieri di montagna (dighe, centrali idroelettriche), ma anche nei cantieri di importanti costruzioni urbane e periurbane (complessi abitativi, grandi centri commerciali e industriali), era evidente che le maestranze dovessero essere alloggiate vicino al luogo di lavoro.

Il problema degli alloggi nelle città
I problemi maggiori li avevano gli immigrati con famiglia e residenti (permesso B) che lavoravano nel settore industriale, dunque in città, dove più acuta era la penuria di alloggi e dove solo le grandi imprese disponevano di edifici ad uso abitativo, per altro in numero insufficiente, per i propri dipendenti. Si trattava indubbiamente di un numero importante di persone, ma inferiore certamente a quel che certi racconti lasciano immaginare.
Interno di una baracca
Il periodo più acuto della penuria di alloggi coincise con quello della massima immigrazione dall’Italia, negli anni ’60 e ’70, e colpì non tanto gli stagionali (100-180 mila l’anno), quanto soprattutto gli immigrati residenti stabilmente e i cosiddetti «falsi stagionali» che di fatto restavano in Svizzera fino a 11 mesi invece di 9. Era anche il periodo in cui la «rotazione» tra gli immigrati si stava attenuando e la popolazione straniera stabilizzata (residente) cresceva velocemente sia per l’arrivo dei nuovi immigrati e sia per le facilitazioni accordate al ricongiungimento familiare, soprattutto dopo l’accordo italo-svizzero del 1964.
Di fronte a una domanda in continua crescita di alloggi e un’offerta assai limitata, molti immigrati dovettero accontentarsi di alloggi di fortuna (soprattutto baracche e trasformazioni di spazi destinati originariamente a svariati usi) e numerosi speculatori ne approfittarono soprattutto nelle periferie dei grandi agglomerati urbani per offrire mansarde e persino sottoscala a prezzi esorbitanti. Agli inizi degli anni ’60 vennero denunciati numerosi abusi e il governo federale non trovò di meglio che vincolare il ricongiungimento familiare alla garanzia di un alloggio adeguato… difficilissimo da ottenere!

Voci critiche
Secondo una parte della letteratura sull’immigrazione italiana in Svizzera le condizioni abitative degli immigrati erano generalmente pessime. Secondo alcuni studi, invece, questa generalizzazione è ingiustificata. A chi dare ragione e a chi torto?
Giusto per citare qualche voce critica, nel 1977 Delia Castelnuovo-Frigessi scriveva: «i lavoratori stagionali sono ammucchiati, di solito in precarie condizioni igieniche, in luoghi lontani dai centri urbani e sociali (le famigerate baracche) o in vecchi edifici destinati alla demolizione. Questo tipo di alloggi, sui quali del resto l'imprenditore riesce a ottenere scandalosi profitti, costringe lo stagionale, una volta uscito dal luogo di lavoro, a sentirsi segregato in un ghetto».
A Dario Robbiani le baracche del dopoguerra apparivano come «topaie e tristi baraccamenti, poiché solo inquilini provvisori si adattano avendo quale unico impegno esistenziale di risparmiare soldi: pochi, maledetti e subito!». Giovanni Blumer scriveva nel 1970: «in Svizzera, una percentuale cospicua di lavoratori è condannata a vivere nelle baracche del padrone, magari per un decennio». Secondo Toni Ricciardi (2015) la manodopera italiana addetta alla costruzione della diga di Mattmark venne ingaggiata «probabilmente perché gli italiani si adeguavano facilmente alle pessime condizioni abitative e soprattutto erano disposti a lavorare anche 15-16 ore al giorno, domenica compresa…».

Quanti stranieri vivevano nelle baracche o in alloggi di fortuna?
In realtà, come si vedrà nel prossimo articolo, non tutte le baracche e non tutti gli alloggi erano uguali e, soprattutto, bisognerebbe chiedersi seriamente quante persone erano direttamente coinvolte in questa problematica, dando per scontato che le difficoltà di trovare un’abitazione dignitosa, a basso costo e rispondente ai bisogni degli interessati erano reali e abbastanza comuni (anche per gli svizzeri).
Ebbene, nel 1966, secondo lo stesso Blumer, uno studioso molto critico sulla politica immigratoria svizzera, solo il 28% degli stagionali dell’edilizia alloggiava in una baracca; il 14,5% viveva in un appartamento per una sola famiglia, il 32% in un appartamento in comune con altri e il 22% in una camera. Dunque non tutti gli stagionali vivevano in baracche, ma solo poco più di un quarto. La percentuale degli annuali che alloggiavano in baracche, probabilmente a causa della lontananza dal luogo di residenza, scendeva all’8%, mentre il 63,5% abitava in appartamenti per una sola famiglia e il 26,5% in appartamenti in comune o in camere.
Va inoltre notato che la qualità dell’abitazione nelle baracche (ordine, pulizia, servizi igienici, ecc.) dipendeva in larga misura anche dal comportamento degli stessi inquilini e, nelle baracche più grandi, dal capobaracca.
Eppure i racconti sulle condizioni abitative erano, soprattutto negli anni ’60, piuttosto drammatici, tanto da provocare accese discussioni anche nel Parlamento italiano. Se ne facevano interpreti soprattutto i parlamentari comunisti. In un vivace intervento alla Camera dei Deputati del 9 ottobre del 1963, l’on. Giuseppe Pellegrino (del PCI) così qualificò le abitazioni degli immigrati italiani: «gli abituri fangosi, le stalle e le baracche umide e sconnesse che sono il loro tetto». Aveva ragione? La risposta nel prossimo articolo.
Giovanni Longu
Berna, 11.10.2017