10 maggio 2017

Italiani in Svizzera: 15. Bambini «clandestini», una brutta storia



Gli italiani immigrati in Svizzera nel dopoguerra per motivi di lavoro non erano «clandestini», anche se molti erano entrati aggirando alcune disposizioni burocratiche italiane (cfr. L’ECO del 3.5.2017). Negli anni ’50 e ‘60 la collettività italiana immigrata registrò un aumento straordinario, non solo grazie ai nuovi immigrati, ma anche ai ricongiungimenti familiari (facilitati dopo l’accordo italo-svizzero del 1964) e a un forte incremento naturale. Quest’ultimo, in particolare, non previsto né dalla politica svizzera né da quella italiana, cominciò a creare non pochi problemi a partire dalla fine degli anni ’60. Uno dei più delicati riguardava i «bambini clandestini», figli di immigrati non ancora stabilizzati e non autorizzati a tenere con sé figli minorenni.

La situazione di partenza
Si è detto e scritto molto su questo argomento, analizzato dal punto di vista quantitativo e soprattutto qualitativo, dando luogo inevitabilmente a opinioni differenti, opinioni, si badi bene, e non certezze. Sui (presunti) «clandestini», infatti, è ovviamente impossibile disporre di numeri certi e, trattandosi di situazioni complesse che dipendevano da decisioni politiche in un Paese con sensibilità anche giuridiche diverse, è normale che anche le valutazioni siano differenti a seconda dei punti di partenza ideologici, politici e valoriali. Di assolutamente certo c’è solo che si è fatto male, qualche volta molto male, a bambini assolutamente innocenti e non adeguatamente protetti dalla politica, ma soprattutto dai loro genitori. Per analizzare il fenomeno oggettivamente conviene partire da alcuni fatti.
Nel dopoguerra, l’ondata di immigrati italiani (stagionali e annuali) che trovavano in Svizzera la soluzione ai loro problemi suscitava grandi speranze in molti connazionali desiderosi anch’essi di trovare un lavoro sicuro e ben pagato. Il miraggio delle retribuzioni alte praticate in questo Paese nel periodo dell’alta congiuntura e la facilità di trovar lavoro riuscivano persino a far dimenticare o a minimizzare negli interessati i rischi e le difficoltà dell’impatto con un mondo in gran parte sconosciuto e impenetrabile.
Per decenni, per esempio, la preparazione culturale e linguistica dei nuovi emigranti fu completamente trascurata dalle autorità predisposte alla gestione dell’emigrazione. Sotto questo aspetto la condizione di questi migranti era persino peggiore di quella degli emigranti dell’Ottocento-inizio Novecento, che bene o male disponevano di opuscoli informativi tipo «vademecum dell’emigrante», piccoli dizionari bilingui di sopravvivenza, indirizzi di riferimento.
Anche la conoscenza della legislazione quadro (legge sugli stranieri, permessi di soggiorno, diritti e doveri degli immigrati, ecc.) era carente, specialmente in coloro che non seguivano la procedura regolare del reclutamento. Ciò che interessava maggiormente agli emigranti di allora era il lavoro, la paga, il risparmio, meno i rischi sul lavoro (la prevenzione), l’alloggio, il vitto, i contatti sociali e un minimo d’integrazione.
Questa situazione, molto comune tra le persone celibi o nubili, ossia nella maggior parte dei primi immigrati, cominciò a creare seri problemi negli anni ’60 tra gli immigrati sposati con figli, per una ragione molto semplice: la politica immigratoria svizzera di allora e gli stessi accordi bilaterali italo-svizzeri d’immigrazione non prevedevano che gli stagionali, e per un certo tempo anche gli annuali, potessero portare con sé i figli minorenni. Non si trattava quindi di una lacuna legislativa o contrattuale, ma di una politica voluta espressamente in applicazione della legge sugli stranieri del 1931 e finalizzata ad impedire, per quanto possibile, il temuto inforestierimento.

Quando nasce il problema
Allo Stato non interessava propriamente se un lavoratore e una lavoratrice fossero sposati e convivessero, se avessero figli oppure no. Importava invece che entrambi lavorassero e non avessero in Svizzera figli a cui dover provvedere. Si riteneva infatti che durante la settimana nessuno dei due genitori avrebbe avuto il tempo sufficiente per dedicarsi convenientemente ai figli. Inoltre, difficilmente due stagionali avrebbero potuto permettersi un’abitazione dignitosa per alloggiare sé stessi e i loro figli e pagare la pigione per un intero anno anche se nei mesi invernali dovevano rientrare in patria. Per questo, molte autorità cantonali a cui competevano le autorizzazioni erano inflessibili.
Di fronte a questa intransigenza della legislazione e della politica svizzere, ci furono stagionali e annuali che, sfidando i regolamenti e le disposizioni della polizia degli stranieri, trattenevano con sé «clandestinamente» i propri figli, affidandone la custodia a terze persone (quando era possibile) o rinchiudendoli in casa sperando che le autorità non ne venissero a conoscenza (solitamente a seguito di denuncia). Se scoperti sarebbe stata inevitabile l’espulsione e spesso anche l’interdizione a rientrare in Svizzera per qualche anno. Nacque così il problema dei bambini cosiddetti «clandestini», perché non dichiarati alle autorità competenti.

Verso la metà degli anni ’50, quando il problema dei ricongiungimenti familiari non era ancora acuto, le autorità cantonali svizzere furono invitate dalla Confederazione a non essere troppo severe e a tener conto di «ragioni di umanità» nel trattamento delle richieste. Da allora, con l’incremento dell’immigrazione, il fenomeno è andato diffondendosi e acuendosi, tanto da diventare tema di discussione durante la trattativa italo-svizzera per il nuovo accordo sull'immigrazione (1964) e sempre più nell'opinione pubblica.
Con l’accordo del 1964 le condizioni e i termini per i ricongiungimenti familiari furono tuttavia resi meno gravosi per gli immigrati italiani, ma evidentemente alcuni di essi ritenevano insopportabile restare mesi e mesi senza vedere i propri familiari.

Negli anni ’70 il problema divenne politico
Dal film di A. Bizzarri "Lo Stagionale"
Nel 1971, nel periodo della massima intensità d’impiego di lavoratori stagionali, il tema dello «stagionale» e dei loro figli divenne oggetto di un commovente film dell’emigrato-regista Alvaro Bizzarri, «Lo stagionale». Ma a sollevare il problema nell’opinione pubblica fu soprattutto l'inchiesta del 1971 della giornalista romanda Anne-Marie Jaccard dedicata ai «bambini dell'ombra», diecimila «piccoli stranieri», figli di stagionali e annuali italiani e spagnoli introdotti in Svizzera «clandestinamente», una situazione «scandalosa».
«Diecimila bambini clandestini in Svizzera?» s’interrogava un giornale di San Gallo nel 1972, ritenendo la cifra esagerata. Lo stesso anno, al consigliere nazionale socialista Fritz Waldner, che interpellava il governo a proposito di questi «diecimila bambini in età scolastica che non vanno a scuola», il Consiglio federale rispose anzitutto che riteneva quella cifra esagerata e che se un bambino non va a scuola è solo perché i genitori lo sottraggono al controllo delle autorità. Fornì anche la seguente interpretazione del fenomeno: probabilmente si trattava di figli di immigrati che lavoravano da molti anni in Svizzera gran parte dell’anno, ossia «falsi stagionali». Il Consiglio federale aveva già provveduto l’anno precedente a trasformare 8000 permessi stagionali in permessi annuali e rendere così possibile il ricongiungimento familiare.
La risposta del Consiglio federale appare in verità solo in parte plausibile: se ammetteva che la situazione era divenuta insostenibile anche per lo stesso governo, è lecito chiedersi perché, avendone gli strumenti, non ha esercitato anche prima la vigilanza sulla reale durata dei permessi stagionali e soprattutto perché non ha provveduto subito a trasformare i permessi dei «falsi stagionali» in permessi annuali, consentendo così i ricongiungimenti familiari.

Le responsabilità
Ciononostante, la cifra iniziale di diecimila bambini «clandestini» è stata ripetuta per molti anni acriticamente da quasi tutti coloro che si sono occupati del fenomeno, pur sapendo che non è verificabile in alcun modo, soprattutto se non si specifica a che data o a quale periodo si riferisce e la durata della «clandestinità», se pochi mesi o anni.
Non è certo un contributo alla verità l’affermazione di Gian Antonio Stella: «è la storia di migliaia di bambini nascosti in casa dai genitori che non avevano il diritto, secondo le rigidissime leggi svizzere, di portare la famiglia a Berna o a Ginevra. Piccoli fatti entrare di straforo e costretti a vivere come Anna Frank. Sepolti vivi, per anni, in un appartamento di periferia. Senza poter ridere, giocare, piangere. Senza poter uscire, andare ai giardini, farsi qualche amichetto». Naturalmente Stella non si è mai chiesto se le informazioni in suo possesso fossero sufficienti e attendibili. Gli è bastata una fonte, Marina Frigerio: «erano trentamila quei nostri bambini nascosti, secondo la Frigerio, verso la metà degli anni Settanta…».
Ha scritto anni fa il giornalista Daniele Mariani che da alcuni racconti di bambini costretti a vivere nascosti emergono «le pagine più buie della storia dell’emigrazione italiana in Svizzera». Non so se sono state le più buie, certamente sono tra le più toccanti e le più tristi, perché fanno emergere molti lati oscuri dell’emigrazione/immigrazione italiana in Svizzera.
A questo punto è forse inutile soffermarsi oggi sul numero dei casi e sulle responsabilità di allora, ma ritengo che sia lecito parlare di una complicità diffusa fra tutti i responsabili dell’emigrazione, dell’immigrazione e dei genitori interessati. Ognuno avrà avuto sicuramente delle attenuanti, ma non c’è dubbio che nessuna di queste entità ha messo chiaramente e decisamente al primo posto l’interesse del bambino, della sua crescita, della sua formazione, della sua felicità in una condizione «normale». (Segue)
Giovanni Longu
Berna, 10.5.2017

03 maggio 2017

Italiani in Svizzera: 14. Gli immigrati non erano «clandestini»!


Quando il flusso emigratorio verso la Svizzera superò (1947) la soglia delle 100.000 persone, il governo italiano ritenne opportuno concludere con le autorità svizzere un accordo di emigrazione (1948). Più che tutelare il lavoro italiano all’estero, come imponeva ormai la Costituzione repubblicana entrata in vigore il 1° gennaio 1948, al governo interessava controllare il reclutamento dei migranti, per evitare che le imprese svizzere scegliessero il personale direttamente, soprattutto al nord (trascurando i disoccupati meridionali), e che dietro le persone autorizzate a emigrare partissero «clandestinamente», ossia senza i permessi previsti, anche altre persone.

«Quando i clandestini eravamo noi»?
Spesso, in questi ultimi anni, si sono lette affermazioni del tipo «quando i clandestini eravamo noi» (Gian Antonio Stella) e forse pochi si sono chiesti se esse contengano più verità o falsità. Non è facile rispondere senza conoscere, anche solo a grandi linee, la storia dell’emigrazione/immigrazione italiana, ma conoscendola, si scopre facilmente che, soprattutto nel caso dell’immigrazione in Svizzera, quelle frasi sono infondate, false e persino offensive. 
Benvenuti in Svizzera!
Basterebbe chiedersi: è mai possibile che gli immigrati in Svizzera, ormai milioni, siano usciti dall’Italia ed entrati in Svizzera «clandestinamente» (nel significato comunemente inteso), senza documenti, senza permessi? NO, nella stragrande maggioranza non sono mai stati «clandestini», anche se in centocinquant’anni ci sono sempre stati casi di «clandestinità» fin dai tempi dello scavo della galleria del San Gottardo. Spesso, tuttavia, si trattava non di veri e propri migranti per motivi di lavoro, ma di fuoriusciti che, a ragione delle loro idee o delle loro malefatte, avevano tutto l’interesse a vivere nascostamente. In ogni caso, rispetto ai grandi numeri di «immigrati regolari», i clandestini hanno rappresentato le eccezioni, mai la regola.
Tuttavia, il fatto che quelle frasi vengano ancora ripetute merita una spiegazione, anche se potrebbe apparire un po’ strana. Generalmente, infatti, è lo Stato d’immigrazione che vuole proteggersi dall’immigrazione clandestina. Nel caso italiano, invece, è l’Italia, Paese d’emigrazione che, soprattutto nei primi decenni del dopoguerra, ha cercato di impedire l’«emigrazione clandestina», ossia l’espatrio di persone che non avevano tutti i documenti in regola. Perché questo atteggiamento italiano non appaia affatto strano, occorre anzitutto riferire brevemente la situazione migratoria di allora verso la Svizzera. 

La situazione migratoria nel dopoguerra
Anzitutto è bene ricordare che in Italia, per diverso tempo, la classe politica (da destra a sinistra) e l’opinione pubblica furono (almeno apparentemente) concordi sull’utilità dell’emigrazione, sia come rimedio alla disoccupazione e sia sotto l’aspetto economico, perché assicurava all’Italia le provvidenziali rimesse degli emigrati che servivano a ripianare i bilanci. Dalla Svizzera, poi, oltre alle rimesse, entravano direttamente nelle casse statali le tasse di visto sui contratti di lavoro per un importo che si aggirava sui 100 milioni di lire l’anno. Tutte valide ragioni per incoraggiare l’emigrazione verso questo Paese, che nel dopoguerra era particolarmente bisognoso di manodopera, ma anche un’ambita destinazione per moltissimi emigranti.
In Italia, allora, dell’emigrazione in Svizzera si aveva un’idea piuttosto superficiale, ma positiva: si riteneva che gli emigrati fossero in generale fortunati perché potevano lavorare, guadagnare e tornare a casa con un bel gruzzolo da impiegare a loro piacimento. Per di più, di solito, potevano continuare a lavorare in Svizzera, se volevano.

Il punto di vista degli emigrati e della stampa
A creare e diffondere questa immagine fondamentalmente positiva contribuivano gli stessi emigrati, che rientravano dalla Svizzera a fine stagione (se stagionali) o per le ferie (se annuali o domiciliati) solitamente soddisfatti della loro esperienza, del lavoro svolto (anche se spesso penoso e pericoloso) e dei loro guadagni. Molte biografie di emigrati della fine degli anni ’40 e inizi anni ’50 parlano persino di un’accoglienza simpatica da parte degli svizzeri.
Anche la stampa di allora (1949-1951) non faceva che amplificare l’immagine di una Svizzera accogliente in cui gli italiani si trovano pienamente a loro agio. In una serie di reportage veniva descritta una situazione quasi irreale (dal punto di vista italiano) di un popolo onesto, ben amministrato, dedito soprattutto al lavoro, in cui i compiti tra uomo e donna erano ben ripartiti, rispettoso degli stranieri, ecc.
Nel 1949, il Corriere della Sera dedicava un articolo agli italiani che lavoravano nel Cantone Argovia nelle aziende di Wettingen e Baden, intitolato: «Perfettamente ambientati i nostri operai in Svizzera».
Egidio Reale
Un altro articolo del 1951 sul Giornale d’Italia, dopo aver accennato alla presenza animata di molti italiani nelle principali città svizzere, forniva queste significative indicazioni: «Alloggiati in impeccabili Hospize [baracche?], ben nutriti, non oppressi da alcun pregiudizio linguistico o nazionale, non sovreccitati da appelli convulsi e propagande ribelliste, essi lavorano e prosperano, fumano ottime sigarette […]. Si rigenerano moralmente in questa benevola democrazia montana e lacustre». Il giornalista rendeva poi omaggio al ministro (allora non ancora ambasciatore) Egidio Reale, ritenuto il principale artefice di questa situazione per essere riuscito, grazie alle sue «influenti amicizie», ma soprattutto all’impegno e alla sua competenza imbattibile, a «sormontare difficoltà e sbarazzare pregiudiziali alla mano d’opera».

Le maggiori preoccupazioni delle autorità
Che la rappresentazione dell’immigrazione italiana in Svizzera in quegli anni fosse in larga misura fedele alla realtà lo prova anche il fatto che nella stampa locale, ma anche nei documenti diplomatici tra l’Italia e la Svizzera, non vi è quasi traccia di situazioni particolarmente problematiche. Solo nell’agricoltura gli italiani erano soliti lamentarsi sia perché ritenevano gli orari di lavoro eccessivi (rispetto a quelli delle fabbriche) e sia perché era loro vietato cambiare posto di lavoro (una misura introdotta nel 1949 proprio per evitare che gli addetti all’agricoltura e alle piccole aziende abbandonassero quelle attività per cercare lavoro nei centri industriali e nelle medie e grandi imprese, che assumevano più facilmente personale già in Svizzera).
In generale, tuttavia, almeno fino agli inizi degli anni ’50, la situazione riguardante gli immigrati italiani in Svizzera appariva non solo tranquilla, ma anche soddisfacente. Questo non significa che non ci fossero questioni potenzialmente critiche, ma che al momento erano tenute sotto controllo, soprattutto da parte svizzera.
La Svizzera si mostrava piuttosto tranquilla perché, dopo l’adozione della legge sugli stranieri del 1931, era convinta di avere a disposizione gli strumenti adatti per far fronte a due eventuali emergenze: un eccesso di manodopera estera e l’ingresso di persone indesiderate. Nel primo caso sarebbe bastato rendere più difficile non tanto l’ingresso in Svizzera (a causa dei trattati internazionali) quanto l’ottenimento del permesso di soggiorno o il suo rinnovo. Nel secondo caso, la stessa legge rendeva più facile di prima l’individuazione e l’espulsione delle persone considerate «pericolose», allora rappresentate soprattutto da infiltrati comunisti attraverso le Legazioni dei Paesi satelliti dell’Unione Sovietica, ma anche attraverso gli immigrati italiani.
L’Italia, invece, almeno inizialmente, aveva una doppia preoccupazione, da una parte avviare il maggior numero possibile di emigrati verso la Svizzera (oltre che verso altri Paesi) e dall’altra riuscire a mantenere sotto controllo il flusso degli emigrati. In entrambi i casi appariva indispensabile la collaborazione della controparte svizzera, che non era sempre garantita. Il caso degli emigrati italiani «clandestini» è emblematico.

Perché l’Italia considerava molti emigranti «clandestini»?
Sull’onda della corrente migratoria sempre più intensa verso la Svizzera, un numero crescente di italiani e italiane entrava in Svizzera senza documenti di lavoro e di soggiorno previsti dagli accordi con l’Italia, convinti di trovare un posto di lavoro di propria scelta e ben remunerato, più facilmente che seguendo la complicata burocrazia italiana.
Molti italiani desiderosi di emigrare trovavano infatti troppo lunga la trafila burocratica delle domande, dei permessi, del passaporto, del contratto di lavoro, dei visti sui contratti, ecc. e preferivano recarsi sul posto, sperando persino di poter scegliere l’occupazione desiderata e magari più redditizia. Questa pratica, di cui le autorità italiane erano ben al corrente, provocò più di un intervento del Ministro Reale presso le competenti autorità federali, ma invano.
Alfred Zehnder
Per le autorità federali, infatti, se gli italiani espatriavano «clandestinamente», cioè senza passare attraverso i sistemi di controllo predisposti dall’Italia, era una questione tutta italiana. Chiunque infatti poteva entrare in Svizzera, purché titolare di un passaporto, anche turistico, e non era ritenuto illegittimo cercare un posto di lavoro entro i tre mesi consentiti dal permesso turistico. L’Italia, al contrario, li considerava «falsi turisti» e parlava ancora nel 1954 di «esodo clandestino». Lo stesso anno l’ambasciatore Reale denunciava, nell’ambito della Commissione mista prevista dall’Accordo italo-svizzero del 1948, l’arrivo «irregolare» sempre più frequente dal 1951 di lavoratori italiani muniti del solo passaporto turistico, di ben 4000 italiani «entrati irregolarmente in Svizzera» in un solo semestre.
Proprio in quell’occasione, il capo della delegazione svizzera Alfred Zehnder rispose a Reale, come si legge nel verbale della Commissione, di considerare «il mercato nero della manodopera italiana come un mercato regolare. Questo mercato non è illegale e la Svizzera non è tenuta a impedirlo». In altre parole, per la Svizzera, anche i «falsi turisti», non potevano essere ritenuti clandestini, eventualmente da rinviare perché senza un visto sul contratto di lavoro o senza contratto di lavoro. In ogni caso, riteneva Zehnder, 4000 «irregolari» su 160.000 italiani che ogni anno entravano in Svizzera «regolarmente» sono ben poca cosa e poi «le eccezioni sono simpatiche in tutti gli accordi».
Tant’è che ancora oggi qualcuno continua a parlare di emigrati italiani «clandestini» (Segue)
Giovanni Longu
Berna, 3.5. 2017

26 aprile 2017

Italiani in Svizzera: 13. Realtà e speranze nel dopoguerra



L’ondata di immigrati italiani in Svizzera subito dopo la seconda guerra mondiale non fu dovuta solo alla dinamica classica della migrazione dai Paesi poveri verso i Paesi ricchi, ma esprimeva la convergenza di due esplicite politiche opposte: quella immigratoria svizzera e quella emigratoria italiana. A determinare l’entità, il ritmo e le modalità del flusso emigratorio/immigratorio fu soprattutto la Svizzera, che decideva in base alle esigenze della propria economia, tenendo conto degli accordi bilaterali in materia (1948 e 1964), ma soprattutto della propria legislazione sugli
stranieri.

Interessi dell’Italia
Destinazione Svizzera: sempre più frequente dal 1946...
Quando nel 1945 le autorità svizzere costatarono l’impossibilità di reclutare lavoratori tedeschi, austriaci e francesi, si rivolsero all’Italia, sapendo che la risposta non avrebbe potuto essere che affermativa. L’Italia aveva infatti perso la guerra, era un Paese povero, con più di due milioni di disoccupati, soprattutto al Nord e una capacità produttiva dell’industria fortemente ridotta, non solo a causa delle distruzioni ma anche per la scarsità di materie prime e carburanti (carbone, petrolio e derivati). Senza ripresa della produzione e delle esportazioni, che avrebbero dovuto fornire la valuta necessaria alle importazioni, non avrebbe potuto risolvere nessuno dei grandi problemi creati o accentuati dalla guerra.
In questa difficile situazione, le autorità italiane non facevano mistero di contare molto sulla ripresa dei rapporti commerciali e finanziari con la Svizzera, un Paese economicamente e finanziariamente solido e tradizionalmente amico. Durante la guerra i rapporti Italia-Svizzera non si erano mai interrotti, ma furono ripresi con grande intensità subito dopo e il 10 agosto 1945 era pronto un accordo commerciale. Non poté essere ratificato da parte italiana per la mancata approvazione degli alleati, ma segnò comunque l’inizio di una ripresa generale dei buoni rapporti bilaterali. Anche la Svizzera aveva interesse a normalizzare i rapporti bilaterali, sia per esigenze di approvvigionamento di merci attraverso il porto di Genova e sia per avere sufficienti garanzie in caso di un prestito finanziario.
Quando sul finire del 1945 la Svizzera chiese di potersi approvvigionare di manodopera al mercato italiano, la risposta affermativa dell’Italia fu quasi scontata, nonostante un divieto pregiudiziale degli alleati (primavera 1945), subito abrogato perché l’Italia, non essendo un Paese occupato, fece valere le sue ragioni vitali di trovare sbocchi migratori ai numerosi disoccupati (oltre un milione solo al nord). Nell’ottica del governo l’emigrazione rappresentava per l’Italia se non la soluzione dei problemi sociali certamente un significativo aiuto a risolvere almeno parzialmente il problema della disoccupazione al nord e il rischio dei conflitti sociali.

Emigrazione «indispensabile»
Il problema dell’emigrazione sarà attentamente valutato dalla Costituente (1946-1948) quando si tratterà di inserire o meno la

libertà di emigrazione nella Costituzione. Questa libertà verrà inserita senza difficoltà nell’articolo 35 (La Repubblica «riconosce la libertà di emigrazione, salvo gli obblighi stabiliti dalla legge nell'interesse generale, e tutela il lavoro italiano all'estero») perché l’emigrazione sembrava per tutti gli orientamenti politici una «dura ma indispensabile necessità per l’economia italiana».
Per la stessa ragione non ci fu probabilmente alcuna esitazione a consentire alla Svizzera di attingere a piene mani la manodopera necessaria nel mercato del lavoro italiano. Inoltre, alla luce dei buoni rapporti tra l’Ufficio federale dell’industria, delle arti e mestieri e del lavoro (UFIAML) e la Legazione italiana in Berna (Ambasciata dal 1953), si trovò facilmente un accordo informale, tanto è vero che nessuna delle parti richiese un accordo ufficiale (come invece avvenne tra l’Italia e il Belgio per il cosiddetto «Patto del carbone», firmato il 23.6.1946).
Migranti italiani a Briga, anni '50
Probabilmente né l’Italia né la Svizzera chiesero un accordo formale non solo perché i rapporti bilaterali erano improntati alla fiducia reciproca, ma anche perché in quel momento era del tutto imprevedibile lo sviluppo che avrebbe avuto l’economia svizzera (già si parlava di una prossima crisi) e dunque anche l’evoluzione del flusso migratorio.
Si deve anche supporre che le autorità italiane conoscessero bene la nuova politica immigratoria svizzera e le condizioni di assunzione dei nuovi immigrati e, almeno apparentemente, non vi fossero ostacoli di sorta a una risposta affermativa alla richiesta svizzera. Oppure, nel confronto costi/benefici, i secondi risultavano preponderanti.
Di fatto, finita la guerra (8 maggio 1945), aziende svizzere cominciarono senza indugio a reclutare personale in Italia e già nell’agosto 1945 un primo gruppo di 300 donne provenienti dalla provincia di Sondrio entrò in Svizzera per lavorare in alcuni alberghi dell’Engadina. Ma il grande flusso immigratorio cominciò nel 1946 quando ben 48.808 lavoratori italiani poterono trovare lavoro in Svizzera. Proseguì nel 1947 con ben 105.112 persone con regolare permesso, alle quali ne andrebbero aggiunte sicuramente altre, entrate in Svizzera come turiste, in realtà in cerca di lavoro. Il biennio 1947-1949 fu quello del massimo afflusso di italiani, segno dell’ottima congiuntura dell’economia svizzera, mentre quello successivo 1949-1950 fu quello del minor afflusso.
Il forte calo del movimento migratorio verso la Svizzera nel biennio 1949-1950 fu dovuto principalmente a cause congiunturali legate alla recessione americana di quegli anni e spinse le autorità federali ad essere prudenti e vigilanti negli ingressi di stranieri, tanto più che già alla fine della guerra nessuno prevedeva uno sviluppo durevole dell’economia.

Qualche considerazione
Quella che inizialmente sembrava per la Svizzera una strada obbligata (ricorrere agli italiani perché non erano disponibili tedeschi, austriaci e francesi) si trasformò fin dall’inizio in un buon affare. Le imprese svizzere potevano infatti attingere facilmente la manodopera di cui abbisognavano, anche qualificata, nel Nord Italia e le loro scelte erano soddisfacenti. Nel 1948 il Consiglio federale rilevava: «i nostri imprenditori sono generalmente soddisfatti della manodopera italiana» e, d’altra parte, «i lavoratori italiani nell’insieme non hanno avuto di che lamentarsi delle condizioni di vita e di lavoro avute in Svizzera».
In effetti, nei documenti diplomatici svizzeri dei primi anni postbellici non si trovano quasi mai riferimenti a situazioni problematiche riguardanti gli immigrati italiani. Solo negli anni '50 emergeranno alcuni problemi, destinati ad aumentare negli anni '60. Pertanto, almeno stando alla documentazione ufficiale, non rappresentavano alcun ostacolo alla pacifica convivenza le numerose limitazioni che imponevano agli stranieri le leggi e i regolamenti in vigore. Si può ben ritenere che nei primi immigrati provenienti dal Nord Italia ci fosse una buona dose di accettazione e sopportazione, sicuramente mitigata dalla consapevolezza delle «condizioni» previste dai contratti di lavoro, dal desiderio prevalente del guadagno che apportava l’attività svolta, dalla soddisfazione dei datori di lavoro e anche dal clima generale, non ancora deteriorato da diffusi sentimenti xenofobi che caratterizzeranno soprattutto gli anni ’60.
Più in generale, la prova che in quegli anni l’emigrazione italiana verso la Svizzera rappresentasse per l’Italia del dopoguerra e per i diretti interessati una buona soluzione (certamente non quella ideale e nemmeno la migliore) è data dalle cifre. Secondo statistiche italiane, tra il 1946 e il 1961 emigrarono liberamente in Svizzera circa 1.284.000 italiani. La Svizzera era il principale Paese di destinazione dei migranti italiani. Nel 1950 gli italiani residenti costituivano circa il 50% degli stranieri. Alla fine del decennio erano quasi il 60%. Fino al 1957 la provenienza era soprattutto dal Nord Italia, dal 1958 prevalse l’emigrazione dal Sud e dal centro Italia, dal 1961 prese nettamente il sopravvento il Sud Italia; nel 1969 i due terzi degli italiani provenivano dal Sud.

Dibattito sull’emigrazione
In Italia il dibattito sull’emigrazione in generale e su quella verso la Svizzera in particolare si accese fin dai primi anni ’50 con intenti non sempre trasparenti, anzi spesso strumentali nella dialettica governo-opposizione. Una parte della sinistra italiana, all’opposizione, considerava l’emigrazione
«un danno economico e sociale per il Paese» perché «la perdita di tante energie produttive, anche se potenziali, peggiora sempre più il rapporto tra popolazione attiva o/e passiva, con conseguenze di ordine economico e sociale che finiscono con l’aggravare le nostre difficoltà anziché alleviarle».
In effetti, i primi governi del dopoguerra, a guida democristiana, avendo dato la priorità alla ricostruzione del Paese e allo sviluppo industriale, concentrato essenzialmente al Nord, avevano provocato non solo un’intensa migrazione interna dal sud a nord, ma anche verso l’estero, soprattutto dal sud. Per di più, contravvenendo all’articolo 35 della Costituzione, non sempre avevano tutelato sufficientemente il lavoro degli emigrati. Fu anche sotto la spinta delle opposizioni, ma forse soprattutto delle costatazioni critiche del Ministro d’Italia a Berna Egidio Reale, che si giunse a un accordo d’emigrazione formale (22 giugno 1948).
Ai lavoratori italiani vennero concessi alcuni benefici, ma l’Italia non riuscì ad ottenere tutto quel che chiedeva, per esempio in materia di reclutamento, e dovette accontentarsi di quanto concesso dalla Svizzera. La debolezza dell’Italia nella trattativa dipendeva dal forte interesse che aveva a ridurre la pressione dei disoccupati, a mantenere elevato il flusso emigratorio e dalla speranza di poter riequilibrare la bilancia dei pagamenti con le rimesse degli emigrati, scese a 32 milioni di dollari nel 1947. (Segue)
Giovanni Longu
Berna, 26.4.2017

25 aprile 2017

25 aprile: omaggio a un popolo coraggioso!



Il 25 aprile 1945 è giorno memorabile per l’Italia, perché segnò la fine di un incubo e l’inizio di una speranza, per altro non ancora completamente realizzata. 
In Italia, grazie alle sollevazioni popolari e all’arrivo delle forze alleate, quasi ovunque cessarono i combattimenti: il popolo italiano poteva celebrare la sua vittoria sui nazifascisti e sperare in uno sviluppo pacifico e democratico dell’Italia e del mondo.
Lo stesso giorno iniziava a San Francisco una conferenza internazionale per gettare le basi di un nuovo sistema internazionale di sicurezza collettiva, l’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU). Vi parteciparono delegati di una cinquantina di nazioni che avevano combattuto contro la Germania e i suoi alleati. Pur non essendo una conferenza di pace, per volontà dei vincitori furono esclusi i delegati dei Paesi sconfitti, dunque anche dell’Italia. Un’onta per l’Italia, come ricorderà il presidente del Consiglio Alcide De Gasperi l’anno seguente alla conferenza di pace di Parigi (29 luglio-15 ottobre 1946) in un celebre discorso che iniziava con queste parole:
«
Prendo la parola in questo consesso mondiale e sento che tutto, tranne la vostra cortesia, è contro di me: è soprattutto la mia qualifica di ex nemico, che mi fa ritenere un imputato, l'essere arrivato qui dopo che i più influenti di voi hanno già formulato le loro conclusioni in una lunga e faticosa elaborazione.
[...] Ho il dovere innanzi alla coscienza del mio paese e per difendere la vitalità del mio popolo di parlare come italiano, ma sento la responsabilità e il diritto di parlare anche come democratico antifascista, come rappresentante della nuova Repubblica che, armonizzando in sé le sue aspirazioni umanitarie
di Giuseppe Mazzini, le concezioni universalistiche del cristianesimo e le speranze internazionalistiche dei lavoratori, è tutta rivolta verso quella pace duratura e ricostruttiva che voi cercate e verso quella cooperazione fra i popoli che avete il compito di stabilire».
Il 25 aprile 1945, dedicando un articolo alla Conferenza di San Francisco («San Francisco e l’Italia»), il quotidiano socialista ticinese Libera Stampa, scriveva: «Se avessero dovuto decidere della presenza d'Italia a S. Francisco i nemici che realmente conobbero il popolo italiano, i fuggiaschi francesi e polacchi, i profughi greci e jugoslavi, i prigionieri di guerra, gli internati ebrei, le truppe alleate che procedono combattendo in Italia, certamente alla delegazione italiana spetterebbe oggi un posto d'onore, quale rappresentante di un popolo che ha commesso gravi errori per inesperienza politica e per insufficienza o complicità delle istituzioni, ma in ogni momento della sua storia, al cospetto di ogni altro popolo, sempre ha voluto ascoltare il battito del proprio cuore, incapace di odio. Né è forse errato ritenere che alla rigenerazione del mondo, alla sua trasformazione ed al suo miglioramento, le doti di bontà innata, di evangelica comprensione siano del tutto inutili».
Ricordare così il 25 aprile del 1945 ha ancora un senso.
Giovanni Longu