08 maggio 2019

Immigrazione italiana 1950-1970:13. Frustrazioni e speranze


Gli italiani che arrivavano in Svizzera per la prima volta erano spesso ignari della vita e del lavoro da emigrati. Se la visita medica al passaggio della frontiera poteva causare uno shock, le sorprese non finivano lì. Ad attenderli sul luogo di destinazione e di lavoro c’erano le baracche, non sempre preparate e gestite in modo appropriato, c’erano il lavoro, duro e a volte pericoloso, i salari sempre inferiori a quelli dei colleghi svizzeri, la costante sottomissione ai capi, senza poter dire «questo non mi va, è troppo, me ne vado» com’era invece possibile a uno svizzero che poteva decidere di andarsene senza paura di restare disoccupato, c’era l’assenza della famiglia e molto altro ancora.

Partenza amara
Partenza amara dell'emigrante.
Nei racconti di molti emigrati già la partenza è quasi sempre amara, perché l’emigrante sperimenta sulla propria pelle tutta l’ansia di chi lascia il certo per l’incerto, anche se di certezze, oltre alla famiglia, possiede spesso solo la miseria, la mancanza di lavoro, forse una casa e un pezzo di terra infruttuosa. Il bacio di addio e gli abbracci finali ricordati in molte autobiografie rappresentano tuttavia per quasi tutti gli emigranti anche una sorta di giuramento e una promessa: tornerò da vincitore, non da sconfitto. Nel dopoguerra, la visione «eroica» dei migranti è molto più vicina alla realtà della visione romantica o «obiettiva» di tante narrazioni sull’emigrazione italiana del secolo scorso.
In Svizzera, per molti immigrati italiani le condizioni di vita e di lavoro sono state tutt’altro che facili, anche se le loro priorità erano il lavoro, la famiglia, il futuro dei figli, il risparmio da inviare o portare a casa, per cui tutto il resto passava in secondo piano e diveniva in qualche modo sopportabile: il vitto, l’alloggio, i pericoli sul lavoro, la mancanza di tempo libero o di un minimo di divertimento e persino la lontananza dalla famiglia.

Limitazioni della mobilità
Gli stagionali italiani sapevano, se non nel dettaglio, almeno in generale il lavoro che avrebbero svolto, ma forse nessuno si rendeva conto delle limitazioni che comportava il contratto ottenuto in base all’Accordo italo-svizzero del 1948. Probabilmente nessuno sapeva che i posti che andavano ad occupare erano per lo più disertati dagli svizzeri perché a basso contenuto di professionalità, con scarsa possibilità di sviluppo e poco pagati.
Con la seconda ondata d’immigrazione di massa, proveniente soprattutto dal Mezzogiorno, la mobilità professionale dei lavoratori italiani, già limitata, si ridusse ulteriormente. Infatti, per evitare eccessivi cambiamenti di posti di lavoro e di datori di lavoro, soprattutto dall’agricoltura all’industria e ai servizi, furono introdotte regole rigide che vietavano, salvo esplicita autorizzazione, qualsiasi cambiamento del posto di lavoro, della professione e del Cantone di residenza.
La mobilità orizzontale diventava possibile solo dopo diversi anni di permanenza in Svizzera. Più difficoltosa è sempre rimasta la mobilità verticale, la carriera professionale. A renderla difficile, quasi impossibile, erano le circostanze. In teoria, col permesso annuale, anche i lavoratori italiani avrebbero potuto perfezionarsi nel mestiere e salire di qualche gradino. Fino agli inizi degli anni Settanta ne approfittarono pochi, che avevano già una qualifica professionale e conoscevano l’organizzazione del lavoro. 

Requisiti mancanti
Oggi è facile incontrare italiani e soprattutto italo-svizzeri in tutte le principali attività economiche e a tutti i livelli, compreso il management superiore. Allora era diverso. Mancavano soprattutto due requisiti fondamentali: una buona formazione scolastica e professionale di base e la conoscenza della lingua locale. Anche il contesto generale non era favorevole, non era affatto superata la concezione dell’emigrazione/immigrazione «temporanea» (sancita dagli accordi bilaterali e dalle leggi svizzere) e pertanto non era ancora realistica l’opzione dell’integrazione da parte degli stranieri immigrati (prima generazione).
E’ stato osservato che dagli anni Sessanta era possibile, in Svizzera, recuperare entrambi i requisiti assenti o carenti per la mobilità verticale, ma mancava l’interesse da parte degli immigrati. Non è possibile negarlo, perché almeno fin verso la metà degli anni Sessanta ben pochi immigrati prendevano in seria considerazione la possibilità del perfezionamento e della carriera professionale. Tuttavia l’osservazione andrebbe precisata e spiegata (e lo si farà in altra occasione), tenendo presente che fino agli anni Settanta erano completamente assenti dai programmi statali e dagli accordi bilaterali tra l’Italia e la Svizzera, in riferimento alla prima generazione, gli stessi concetti di recupero scolastico, formazione professionale, integrazione.
Si potrebbe anche aggiungere che nel periodo considerato erano ben altre le preoccupazioni e gli interessi della maggior parte degli immigrati italiani.
Grandi sofferenze e frustrazioni
L’esperienza emigratoria dei primi decenni del dopoguerra è stata per moltissimi italiani traumatica, anche se, in quella specie di giuramento al momento della partenza, le privazioni, le difficoltà, le frustrazioni erano messe in conto.
Baracca per stagionali.
Di fatto innumerevoli sofferenze psicologiche più che fisiche hanno segnato la vita di molti immigrati. Fin dai primi contatti con la popolazione locale dev’essere stato frustrante sapere che una parte di essa era ostile agli stranieri. Come se quel loro darsi da fare, sacrificarsi, costruire, produrre non fosse soprattutto nell’interesse generale. La scarsa considerazione e comunque la percezione di non essere graditi come persone più che come lavoratori e lavoratrici devono aver indotto in molti di loro una persistente tristezza e quella nostalgia struggente di cui hanno lasciato traccia in molti scritti.
Non andrebbero inoltre dimenticate o minimizzate le logoranti paure e persino le fobie di tanti immigrati di perdere il lavoro, di dover tornare a casa a mani vuote non avendo avuto il tempo di risparmiare abbastanza, di non riuscire a mantenere la promessa fatta il giorno della partenza, la paura della propria impotenza.
Intanto le preoccupazioni col tempo non solo non diminuivano ma anzi aumentavano. Il «mito del ritorno» era sempre in agguato ed era fonte di preoccupazioni, perché i risparmi ancora non bastavano eppure una decisione andava presa, che andasse bene ai genitori ma pure ai figli. Molti genitori erano impreparati a fare la scelta giusta. Interminabili discussioni pubbliche spesso non facevano che alimentare i dubbi.
Negli anni Sessanta i figli divennero forse la maggiore preoccupazione degli immigrati italiani, soprattutto al momento della scelta scolastica. Ogni decisione sembrava problematica, non c’erano certezze, ma solo dubbi: era nell’interesse dei bambini mandarli a studiare in Italia, affidandoli a nonni o altri parenti, o in un collegio appena varcato il confine oppure in una scuola italiana qui in Svizzera o direttamente nella scuola svizzera? Le autorità italiane non erano in grado di dare indicazioni precise, quelle svizzere erano drastiche: tutti i bambini devono essere integrati nella scuola svizzera. Molti genitori dovettero farsene una ragione. 

L’ostilità xenofoba
A tutto quanto precede si deve aggiungere che negli Anni Sessanta e Settanta l’ostilità nei confronti degli stranieri immigrati era al massimo. Se un bel numero di essi avesse potuto scomparire da un giorno all’altro, molti svizzeri avrebbero gioito salvo poi piangere lacrime amare per il disastro causato alla loro economia, ai loro salari, al loro benessere.
Gli immigrati italiani, allora in grande maggioranza, non potevano certo restare indifferenti a sentire i vari Stocker, Schwarzenbach, Hoehen che chiedevano la riduzione del numero di stranieri. Molti maturarono la decisione di terminare il più presto possibile l’esperienza migratoria. Altri, invece, decisero di proseguirla, soprattutto per il bene dei loro figli.
Non tutti, evidentemente, si rendevano conto che anche questa scelta non sarebbe stata indolore, ma probabilmente pensarono che fosse quella migliore. Anche senza conoscere l’antico proverbio, tutti sapevano che basta insistere e prima o poi, inghiottendo magari ogni tanto qualche boccone amaro, i risultati arrivano: «chi la dura la vince».

Chi la dura la vince!
In effetti, la speranza di futuri miglioramenti e la certezza di poterli raggiungere hanno consentito a generazioni di immigrati italiani di sopportare condizioni di disagio, di paura, di frustrazioni, che in patria, forse, non avrebbero sopportato. Certo, qui la paga era buona, i risparmi erano possibili tanto da sfamare la famiglia, far studiare i figli e magari farsi anche la casa. Tanto valeva continuare a fare qualche sacrificio… ancora per qualche anno!
L’immigrazione degli italiani in Svizzera avrebbe richiesto una adeguata preparazione degli interessati prima della partenza, le informazioni fondamentali sulle istituzioni di tutela, qualche buon indirizzo a cui rivolgersi in caso di bisogno, ecc. Molti di essi o forse quasi tutti furono mandati allo sbaraglio, nella speranza di consentire al governo di sentenziare, in qualche discorso pubblico o in Parlamento, «missione compiuta», perché in Italia diminuiva la disoccupazione e aumentava la prospettiva di tante rimesse! (Segue)
Giovanni Longu
Berna, 8 maggio 2019

01 maggio 2019

Immigrazione italiana 1950-1970: 12. Cosa facevano gli italiani in quegli anni?

Gli italiani hanno sempre costituito, dal secondo dopoguerra in poi, il gruppo straniero più numeroso dell’intera manodopera attiva in Svizzera. Dopo l’accordo sull’immigrazione del 1948 giungevano dall’Italia ogni anno decine di migliaia di lavoratori, soprattutto stagionali, ma anche un numero crescente di italiani con un permesso di dimora annuale. Come si è visto negli articoli precedenti, la richiesta di manodopera straniera era dovuta alla carenza di lavoratori indigeni specialmente in alcuni rami dell’economia. Appresso si cercherà di precisare in quali erano occupati maggiormente gli immigrati (italiani) e in quale posizione professionale. In seguito si cercherà anche di sapere se e quanto fosse possibile, per loro, la mobilità professionale orizzontale (cambio di attività) e soprattutto verticale (carriera professionale), garantita per gli svizzeri. 

Due premesse indispensabili
Negli anni '50 e '60 gli italiani furono tra i principali protagonisti
di costruzioni faraoniche come le dighe della Grande Dixence
(disegno), Mauvoisin, Emosson, Mattmark, ecc.
La prima: nel secondo dopoguerra l’economia svizzera ha conosciuto non solo uno straordinario sviluppo, ma anche una profonda trasformazione dell’occupazione, provocando grandi spostamenti di popolazione da un settore all’altro. Il settore primario, da tempo in fase di contrazione, continuava a perdere addetti che si riversavano nelle attività più sicure e meglio remunerate del secondario e del terziario. Il settore secondario (edilizia e genio civile compresi), in forte espansione per far fronte alla crescente domanda di beni per il mercato interno ed internazionale, non riusciva a soddisfare il fabbisogno di manodopera perché il mercato del lavoro svizzero era totalmente prosciugato (anche il terziario era in pieno sviluppo) e addirittura numerosi addetti preferivano al lavoro artigianale e industriale quello ritenuto più vantaggioso dei servizi. Di fatto tutti e tre i settori erano alla ricerca di personale… anche straniero e gli italiani erano i più richiesti in tutti e tre.
La seconda: gli immigrati erano funzionali non solo allo sviluppo economico generale, ma anche a quello dei singoli settori e rami economici. Il loro numero e la qualità delle prestazioni richieste dipendevano dall’andamento delle singole attività economiche. Inizialmente gli immigrati erano «chiamati» ad occupare solo quei posti per i quali mancava l’offerta di manodopera indigena. Erano generalmente posti che non richiedevano una qualifica professionale o competenze specifiche e pertanto erano anche i meno retribuiti. Quando si legge o si sente che in Svizzera «si veniva a cercar lavoro» non va dimenticato che la scelta era limitata a quelle attività e a quei posti che gli svizzeri non intendevano occupare. Poiché i posti «liberi» erano tanti, era relativamente facile, almeno fino agli anni Sessanta, che anche gli immigrati «irregolari» trovassero un lavoro. Le accuse dei movimenti xenofobi agli stranieri di «rubare» il lavoro agli svizzeri erano pertanto del tutto prive di fondamento.
Negli anni Cinquanta e Sessanta, in piena espansione economica, gli svizzeri, che tradizionalmente seguivano un regolare apprendistato e conseguivano un diploma, si orientavano sempre più numerosi verso impieghi socialmente più ambiti e più corrispondenti alla loro formazione nel secondario e nel terziario, lasciando inoccupati quelli socialmente meno gratificanti e a scarsa esigenza professionale. I posti lasciati liberi venivano occupati dagli immigrati. Erano in genere posti che non richiedevano una preparazione professionale specifica per attività soprattutto manuali, di manovalanza o comunque poco qualificate.

Sguardo complessivo
Nel dopoguerra, gli immigrati italiani, a prescindere dal loro statuto (frontalieri, stagionali, annuali, domiciliati) non hanno solo colmato numerosi vuoti lasciati dagli svizzeri passati ad altre attività, ma hanno contribuito in misura determinante ad estendere dapprima il settore trainante dell’economia svizzera degli anni Cinquanta e Sessanta, quello secondario, e successivamente quello dei servizi (terziario). Nel 1950, la popolazione attiva nell’industria era costituita per il 93% da svizzeri e per il 7% da stranieri. Nel 1970 la percentuale degli svizzeri risulterà solo del 70% mentre quella degli stranieri del 30%. Una variazione analoga sebbene meno accentuata si registrerà anche nel settore dei servizi dove la quota degli stranieri passerà dall'11% del 1950 al 16% del 1970.
Negli anni Sessanta, grazie agli immigrati, gli addetti al settore industriale sono passati da 666.676 (1960) a 751.077 (1965) e la quota degli stranieri è passata dal 17% al 22% della popolazione attiva totale. In questa evoluzione va tenuto anche presente che la produzione industriale cresceva mediamente di circa l’11% l’anno e il settore secondario era quello che contribuiva maggiormente al prodotto interno lordo (PIL). Poiché nel frattempo un numero crescente di svizzeri passava dal secondario al terziario (che prenderà definitivamente il sopravvento nella formazione del PIL dagli inizi degli anni Settanta) è facile capire l’enorme contributo fornito dagli immigrati alla creazione della ricchezza e alla diffusione del benessere in Svizzera in quei decenni.

Principali attività svolte dagli italiani
In base all’Accordo del 1948 tra la Svizzera e l’Italia in materia d’immigrazione i datori di lavoro svizzeri dovevano presentare all’Ambasciata d’Italia a Berna normalmente «domande numeriche» (non nominative) con «indicazioni precise sulla natura dell’impiego, il genere e la qualificazione della mano d’opera desiderata, le condizioni di lavoro, di retribuzione, di alloggio e di sussistenza» (art. 6, cpv. 1).
L’Accordo riguardava principalmente i lavoratori stagionali, ma anche le richieste riguardanti lavoratori annuali erano sempre accompagnate da indicazioni precise sul tipo di lavoro e sulle competenze professionali necessarie per svolgerlo. Dalle periodiche rilevazioni dell’Ufficio federale di statistica si possono ricavare dati interessanti sull’evoluzione delle principali attività economiche svolte dagli immigrati e talvolta anche sulla loro posizione professionale (indipendenti, dipendenti, dirigenti, ecc.).
Negli anni '50 e '60 gli italiani erano occupati soprattutto
nel ramo delle costruzioni (edilizia e genio civile)
Si sa che il ventaglio delle professioni esercitate in tutti e tre i settori economici dagli immigrati (italiani), molto limitato all’inizio, andò sempre più ampliandosi. Si stima, per esempio, che nel 1948 nei tre rami dell’edilizia, dell’industria metalmeccanica e in quella del tessile e dell’abbigliamento fossero occupati rispettivamente circa 41.000, 12.000 e 7.000 italiani (a prescindere dal loro statuto di stagionali, annuali, ecc.). Nel 1953 la distribuzione era mutata solo leggermente: circa 30.000, 10.600, 8.900 italiani.
Nella rilevazione dell’agosto 1955, però, la situazione risultava ulteriormente mutata: edilizia e genio civile: 51.992 (31,0%), tessile e abbigliamento: 14.371 (5,3%), metalmeccanica: 14.737 (9,1%). Risultava anche che molti italiani erano occupati nel settore primario e in quello dei servizi: una buona percentuale di italiani lavorava infatti ancora nell’agricoltura: 26.512 (16,3%) e negli alberghi e ristoranti: 26.672 (16,4%). Due anni più tardi (agosto 1957) lavoravano nel settore agricolo 27.789 italiani (17274 annuali e 10515 stagionali). Dieci anni dopo, nell’agosto 1967, gli italiani che lavoravano nell’agricoltura erano solo 9.693 (4797 annuali e 4896 stagionali). Nell’agosto 1977 erano scesi a 2547 (888 annuali e 1659 stagionali). Nel 1987 lavoravano nell’agricoltura appena 1035 italiani (120 annuali e 915 stagionali).
Nella metalmeccanica l’andamento è stato diverso: dapprima si ebbe un forte incremento e poi un crollo. Nell’agosto 1957 lavoravano nella metalmeccanica 32.301 italiani (31121 annuali e 1180 stagionali). Dieci anni dopo, nell’agosto 1967, gli italiani che lavoravano nell’industria metalmeccanica erano 79.099 (78.072 annuali e 1027 stagionali). Nell’agosto 1977 scenderanno a 12451 (12.285 annuali e 166 stagionali). Nel 1987 risulteranno addetti all’industria metalmeccanica appena 1946 italiani (1555 annuali e 391 stagionali).
Nel ramo delle costruzioni (edilizia e genio civile) l’andamento dell’occupazione italiana è stato analogo a quello della metalmeccanica. Nell’agosto 1957 lavoravano nelle costruzioni 79.335 italiani (3209 annuali e 76126 stagionali). Dieci anni dopo, nell’agosto 1967, gli italiani che lavoravano nelle costruzioni erano ben 129.944 (28.629 annuali e 101.315 stagionali). Nell’agosto 1977 ne risulteranno solo 30.711 (13615 annuali e 17.096 stagionali) e nel 1987 appena 13.911 (2286 annuali e 11629 stagionali).
Un andamento simile si registrò nell’occupazione in alberghi e ristoranti. Nell’agosto 1957 lavoravano in alberghi e ristoranti 34.253 italiani (21.324 annuali e 12.929 stagionali). Dieci anni dopo, nell’agosto 1967, gli italiani che lavoravano in alberghi e ristoranti erano 34.581 (23.711 annuali e 10.870 stagionali). Nell’agosto 1977 saranno solo 8399 (3802 annuali e 4597 stagionali) e nel 1987 appena 4119 italiani (947 annuali e 3172 stagionali).

Massima occupazione degli italiani
La massima occupazione degli italiani è stata registrata nella prima metà degli anni ’60. Nella rilevazione di agosto 1964 gli italiani addetti all’edilizia e genio civile (muratori, manovali, minatori, carpentieri, ecc.) erano ben 171.898 (36,2%); gli addetti all’industria metalmeccanica 91.968 (19,4%), quelli addetti all’industria tessile (28.922) e dell’abbigliamento (35.869) (tessile + abbigliamento = 13,7%), quelli della ristorazione e alberghi 36.021 (7,6%), alimentazione e tabacchi (17.140), orologeria e bigiotteria (8.280), mentre nell’agricoltura gli italiani saranno meno di diecimila (9.217/1,9%), così come nei servizi domestici (8.553). Gli italiani che svolgevano attività in proprio (liberi professionisti e lavoratori autonomi) erano circa il 5%. (Segue)

17 aprile 2019

Immigrazione italiana 1950-1970: 11. La «famigerata visita medica»


Nel 1914 un immigrato italiano residente a Zurigo dedicò alla poetessa Ada Negri, che risiedeva allora anch’essa a Zurigo, una «poesia lirica sull’emigrazione italiana» intitolata «Le rondinelle». In una nota spiegava che «Rondinelle venivano chiamati da tanti anni i nostri operai, specialmente i muratori e i manovali, al loro arrivo in Isvizzera, forse perché arrivano a sciami poche settimane prima delle rondinelle vere». L’immagine suggestiva delle rondini in arrivo a primavera rende bene l’idea dell’ingresso in Svizzera di migliaia di stagionali italiani ai valichi di Briga e Chiasso durante i mesi di marzo e aprile. Il paragone, però, non va oltre. Alla libertà incontrastata delle rondini di volare di qui e di là, ignare dei confini degli Stati, per gli stagionali si contrapponeva infatti la sosta obbligata in stazione per il controllo dei documenti e il controllo sanitario.


Una visita traumatica

Stagionali in attesa della visita medica alla frontiera svizzera
Il ricordo della visita medica alla frontiera italo-svizzera è rimasto indelebile nella memoria di moltissimi immigrati del dopoguerra, anche perché era il primo contatto fisico con gli svizzeri. I resoconti tramandati oralmente o per iscritto si rassomigliano molto e concordano nel ritenere quella visita medica «disumana», «umiliante». Leggendoli non si fa fatica a comprendere il senso di frustrazione dei giovani e soprattutto dei meno giovani, uomini e donne, all’annuncio di mettersi in fila per la visita medica. Dopo un viaggio tutt’altro che comodo, all’immigrato che aveva forse sognato di andare in Svizzera per lavorare, risparmiare e guardare al futuro con fiducia, quello stop alla frontiera dev’essere stato traumatico.

Un immigrato dell’immediato dopoguerra racconta il repentino passaggio dal sogno alla delusione tra Domodossola (dov’era giunto «in un treno composto di carri bestiame» ed era salito su un treno dove «le carrozze erano vecchie ma pur sempre accoglienti») e Briga. Ricorda: «Sembrava di entrare in un nuovo mondo e i nostri animi esultavano di gioia e di speranza che purtroppo sarebbe durata poco. Solo il tragitto Domodossola-Briga. Qui si scende; per entrare in Svizzera è necessario fare il controllo medico. Forse è una giusta precauzione presa dalla autorità elvetiche, ma quando fanno entrare nella baracca adibita allo scopo un nodo prende alla gola e a stento si reprime il desiderio di tornare indietro. Tutti in fila a spogliarsi nudi, questo è l’ordine. Entrare nella doccia e lavarsi. All’uscita dalla doccia ti irrorano tutto il corpo di polvere disinfettante. Si cercano i vestiti: aspettare, sono nel forno di disinfezione con tutto il contenuto della valigia. Che vergogna, la nuova biancheria che con grande amore e sacrificio le madri, le spose hanno procurato è finita nel forno. Ci trattano come se fossimo dei Lanzichenecchi, portatori di peste anziché uomini portatori di lavoro e quindi di benessere. Si risale in treno e si parte, ognuno per la propria destinazione…».


Frustrazione e proteste

Il senso di frustrazione provato prima, durante e dopo il controllo sanitario risulta da gran parte delle testimonianze di quella che un emigrato ha definito «la famigerata visita medica». E’ comprensibile perché, sebbene si sapesse che entrando in Svizzera per motivi di lavoro c’era questo controllo obbligatorio, esso avveniva spesso in condizioni che non tenevano conto del sentimento di pudore e di intimità di molti interessati.

La visita medica alla frontiera, prevista dall’Accordo di emigrazione/immigrazione del 1948 (art. 15), suscitava molto malcontento tra gli interessati. Nel 1961 il ministro del lavoro Fiorentino Sullo ne chiese la soppressione ritenendola «vessatoria e umiliante», ma la richiesta non fu accolta. Nell’Accordo di emigrazione/immigrazione del 1964 si preciserà, tuttavia, che «il controllo sanitario all’ingresso in Svizzera, richiesto per ragioni di sanità pubblica e nello stesso interesse dei lavoratori, sarà limitato allo stretto necessario» (art. 14). In effetti la visita sanitaria sarà resa da allora sempre più dignitosa e accettabile.

Perché un «controllo sanitario»?

Contrariamente a quel che spesso si dice e si scrive, la visita medica non era finalizzata principalmente a verificare l’idoneità fisica all’esercizio della professione che gli immigrati andavano a svolgere, ma a escludere eventuali malattie trasmissibili, specialmente tubercolosi. Essa era stata introdotta in base alla legge sulle epidemie del 1886. Nel dopoguerra riguardava inizialmente soprattutto le donne destinate ai servizi domestici e alberghieri, poi venne generalizzata e finalizzata all’accertamento di malattie trasmissibili quali la tubercolosi e la sifilide.

Un’altra ragione del controllo medico era di poter eventualmente accertare che una futura malattia (professionale) era stata contratta in Svizzera e non importata. Era dunque anche nell’interesse degli immigrati disporre di questo accertamento d’idoneità in caso di malattia o d’infortunio. Questo aspetto fu sottolineato anche dall’on. Mario Toros durante la discussione alla Camera dei deputati per la ratifica dell’Accordo del 1964: «d’ora in poi … la visita sanitaria prevista dal nuovo accordo potrà suscitare delle contrarietà in alcuni lavoratori, ma essa darà la possibilità di superare tutte le difficoltà che sono state incontrate nella soluzione di certi problemi che interessavano alcuni lavoratori italiani, i quali si trovavano nell'impossibilità di dimostrare che la malattia era insorta durante la residenza in Svizzera».

Giovanni Longu
Berna, 17.04.2019

10 aprile 2019

Immigrazione italiana 1950-1970: 10. L’emigrazione «clandestina» del dopoguerra


Sul tema dell’«emigrazione clandestina» italiana regna ancora molta confusione. Ritengo pertanto utile fornire ai lettori interessati al tema qualche informazione in più sul contesto e sulla portata del fenomeno in relazione ai flussi emigratori verso la Svizzera. Dal precedente articolo (http://disappuntidigiovannilongu.blogspot.com/2019/04/immigrazione-italiana-1950-1970-9.html) è emerso chiaramente che la cosiddetta «emigrazione clandestina» altro non era che l’aggiramento della lenta burocrazia italiana del dopoguerra da parte degli emigranti interessati a un’occupazione in questo Paese. Pertanto l’aggettivo «clandestino» è inappropriato, almeno da una prospettiva svizzera.

Confusione tra emigrazione e immigrazione
Purtroppo la confusione è diffusa non solo nei media, ma anche in opere di ricerca storica. Nei media ha fatto scuola l’invito del noto giornalista Gian Antonio Stella (2002) a non dimenticare «quando i clandestini eravamo noi». Tra gli studiosi, sono molti quelli che confondono «emigrare clandestinamente» e «immigrare clandestinamente». La differenza, invece, specialmente nel caso dell’emigrazione italiana in Svizzera, non è di poco conto.
Solitamente, e anche qui, si considerano «clandestini» i migranti stranieri che entrano e soggiornano illegalmente (= senza documenti d’ingresso e di soggiorno validi) in un altro Paese. Si considerano invece «irregolari» gli stranieri che soggiornano in un Paese senza un permesso di soggiorno valido, pur essendovi entrati regolarmente. In molti testi riguardanti l’emigrazione italiana spesso sono definiti erroneamente «clandestini» gli italiani espatriati illegalmente, ossia senza un documento valido per l’espatrio, anche se entrati legalmente nel Paese di destinazione, per esempio in Svizzera. In certi periodi del dopoguerra (fino alla metà degli anni Settanta) molti italiani adulti emigrati in Svizzera sono stati per qualche tempo «irregolari», quasi mai «clandestini».
Un altro contributo alla chiarezza dovrebbe venire dall’uso corretto dei termini «migrazione», «emigrazione» e «immigrazione», utilizzando il primo nel significato generico di movimento volontario di persone (adulte) da un luogo ad un altro con l'intenzione di stabilirvisi almeno temporaneamente, il secondo per indicare il trasferimento effettivo di persone da un Paese a un altro (normalmente per svolgervi un’attività lavorativa) e il terzo per indicare l’arrivo nel Paese ospite o di destinazione di persone provenienti da un altro Paese. Purtroppo, spesso, i tre termini sono usati come sinonimi, per cui non è raro incontrare anche in comunicati stampa ufficiali l’espressione «migrazione clandestina» o «migrazione illegale» per indicare entrate e/o soggiorni illegali o irregolari.
Usate in modo appropriato, l’espressione «emigrazione clandestina» farebbe pensare subito all’espatrio «clandestino» (o illegale) e «immigrazione clandestina» all’entrata e al soggiorno in un Paese in violazione delle leggi sull’ingresso e sul soggiorno. Per oltre un secolo l’Italia unita non ha avuto problemi rilevanti di immigrazione clandestina, mentre ne ha avuti molti di «emigrazione clandestina» o «illegale». 

L’«emigrazione clandestina» italiana nella storia
Per esigenze di politica interna e internazionale l’Italia ha sempre voluto controllare gli espatri. Molti cittadini, tuttavia, sul finire dell’Ottocento e agli inizi del Novecento riuscivano ad aggirare i controlli e le norme restrittive sull’«emigrazione clandestina» adottate dai governi postunitari presieduti da Menabrea (1868), Lanza (1873), Depretis (1876), Crispi (1888) fino all’adozione della prima Legge sull’emigrazione (1901) e successivamente del Testo unico della Legge sull’emigrazione (1919).
In certi periodi lo Stato voleva scoraggiare l’emigrazione e impedire gli espatri «clandestini» per frenare l’esodo dalle campagne, che creava gravi problemi all’agricoltura, allora la principale attività economica. Si voleva anche evitare che il governo fosse accusato di inadeguatezza e incapacità a risolvere i problemi di arretratezza del Mezzogiorno.
Il «passaporto rosso» per contrastare l'«emigrazione clandestina»
Alle ragioni di politica interna si aggiungevano quelle di politica internazionale del giovane Stato italiano che intendeva tutelare la propria immagine all’estero. Non voleva dare l’impressione che gli sfuggissero di mano i delinquenti (compresi i disertori e gli anarchici) e che ad emigrare fossero solo analfabeti, disoccupati e poveri bisognosi di assistenza. Il governo temeva di fornire attraverso questi emigrati un’immagine dell’Italia quasi fosse in preda alla malavita, alla povertà e all’ignoranza. Voleva però anche poter intervenire presso i governi stranieri per tutelare gli italiani emigrati regolarmente ogniqualvolta fosse necessario.
Per controllare efficacemente l’emigrazione regolare e contrastare l’emigrazione clandestina il Testo unico del 1919 prevedeva fra l’altro il passaporto (chiamato anche «passaporto rosso» dal colore della copertina) obbligatorio per ogni emigrante (art. 15) e la pena detentiva e la multa a chiunque diffondesse notizie subdole per «eccitare ad emigrare», come pure a chiunque indirizzasse un emigrante a uno Stato diverso da quello dove intendeva recarsi.

Emigrazione «clandestina» nel dopoguerra
Nel dopoguerra (tra il 1946 e il 1970), quando la Svizzera aveva bisogno di molta manodopera, vennero messi a disposizione dell’economia circa tre milioni di permessi stagionali. L’Italia fu la prima nazione europea a consentire l’espatrio a centinaia di migliaia di stagionali. La richiesta da parte della Svizzera e l’invio da parte dell’Italia di lavoratori e lavoratrici stagionali erano regolati dalle intese bilaterali messe a punto nell’Accordo di immigrazione del 22 giugno 1948 (cfr. articolo precedente).

Nessuno, forse, in Italia si rese subito conto della portata di quell’Accordo, che consentiva alla Svizzera di reclutare direttamente o indirettamente nel mercato del lavoro italiano milioni di lavoratori per una o più stagioni. Tutti gli interessati però sapevano che si trattava di attività «stagionali» con forti limitazioni, anche nel caso del rinnovo del permesso, almeno fino alla trasformazione del permesso «stagionale» in «annuale», dopo un certo numero di stagioni.
In base all’Accordo, l’Italia doveva garantire il reclutamento e l’invio delle persone richieste dalla Svizzera nel più breve tempo possibile, al massimo entro pochi mesi. Invece, soprattutto all’inizio, i ritardi erano tali da spingere molti emigranti a espatriare anche senza i documenti necessari (permesso di lavoro vistato dall’Ambasciata o dal Consolato, permesso di soggiorno, ecc.), col solo passaporto turistico (che l’Italia non riconosceva valido per l’emigrazione), sapendo o illudendosi che in Svizzera avrebbero comunque trovato un posto di lavoro entro tre mesi (durata di validità del permesso turistico) e si sarebbero messi in regola con i permessi. Per l’Italia questi emigrati erano «clandestini», per la Svizzera no, essendo entrati con un documento (passaporto) valido.

Stagionali «clandestini»
A questo punto è inevitabile la domanda: ma quanti erano, nell’ottica italiana, ogni anno i «clandestini»? Impossibile dare una risposta precisa perché i «clandestini» come tali non sono censibili. Non è nemmeno possibile ricavare qualche dato utile dalle statistiche svizzere perché in Svizzera erano considerati «irregolari» solo coloro che soggiornavano senza un permesso di dimora valido dopo tre mesi dal loro ingresso «regolare». Negli anni Settanta circolavano cifre che davano da 30.000 a 50.000 «clandestini» o «irregolari», ma senza specificarne la nazionalità. E’ pensabile che fino agli anni Settanta quella italiana fosse la più rappresentata, ma con numeri nettamente al di sotto delle stime diffuse dalla stampa.
Non va infatti dimenticato che allora era estremamente facile ottenere un permesso di lavoro e di soggiorno, soprattutto per gli italiani, per cui non era conveniente rischiare l’espulsione entrando e soggiornando «clandestinamente» o irregolarmente. Nel 1964 su 206.305 stagionali regolari di diverse nazionalità gli italiani «regolari» erano oltre 170.000; nel 1970 su poco più di 200.000 stagionali regolari gli italiani erano più della metà. Non è pensabile che ci fossero in Svizzera ancora decine di migliaia di «clandestini» o «irregolari».

Bambini «clandestini»
Negli anni Sessanta e Settanta, però, vista la facilità di trovare un lavoro e pur sapendo che per loro il ricongiungimento familiare (soprattutto nel caso che fossero sposati con figli minorenni), numerosi stagionali (e specialmente «falsi stagionali» che restavano in Svizzera più a lungo della stagione normale) decisero di far entrare e soggiornare «clandestinamente» o «irregolarmente» mogli e figli. Si trattò di un fenomeno di illegalità molto diffuso, da Ginevra a San Gallo, ma non riguardava solo gli italiani (cfr. https://disappuntidigiovannilongu.blogspot.com/search?q=bambini+clandestini).
A sollevare il problema nell’opinione pubblica furono alcuni articoli pubblicati nel 1971 dalla giornalista Anne-Marie Jaccard sui risultati di un’inchiesta dedicata ai «bambini dell'ombra», diecimila «piccoli stranieri», figli di stagionali e annuali italiani e spagnoli introdotti in Svizzera «clandestinamente», una situazione «scandalosa». La cifra indicata era una stima, non riguardava solo gli italiani né solo gli stagionali. Eppure da allora, senza mai interrogarsi sulla sua plausibilità e il periodo di riferimento, è (stata) continuamente ripetuta e spesso amplificata (fino a 40.000!) da Delia Castelnuovo Frigessi, Marina Frigerio, Claudio Calvaruso, Giovanna Meyer Sabino, Gian Antonio Stella, Sandro Rinauro, Toni Ricciardi e altri. Già nel 1972 il Consiglio federale aveva ritenuto quella stima «esagerata», ma tant’è…! (Segue)
Giovanni Longu
Berna 10.04.2019