14 febbraio 2017

Italiani in Svizzera: 5. Gli inizi del benessere e della xenofobia



Gli immigrati italiani in Svizzera di fine Ottocento e inizio Novecento lavoravano non solo sui cantieri delle infrastrutture ferroviarie e stradali, ma anche nell’edilizia urbana e nelle fabbriche dei grandi centri industriali di Zurigo, Basilea, Winterthur, Berna, La Chaux-de-Fonds, ecc. Il loro contributo alla creazione del benessere diffuso e, più in generale, di quella che anche in Svizzera fu la «Belle Époque» (dall’ultimo decennio dell’Ottocento al 1914), è stato determinante, ma non è stato sempre apprezzato quanto meritava.

Forte crescita demografica a cavallo tra XIX e XX secolo
L’apertura della galleria del San Gottardo (1882) e la possibilità di trasporti veloci tra nord e sud diedero slancio a tutta l’economia elvetica, proiettandola decisamente verso la modernità. In breve tempo, sul finire del XIX secolo, fu raggiunto un livello di produzione industriale e di prosperità pari o superiore a quello degli Stati europei più avanzati. Il prodotto interno lordo (PIL) pro capite della Svizzera superava nettamente quello di tutti i Paesi vicini. Le condizioni d’abitazione e di vita miglioravano ovunque. I beni di consumo si diffondevano rapidamente, il tenore di vita si elevava, la speranza di vita aumentava.
Berna: tipiche case in mattoni nel quartiere di Kirchenfeld (gl)
Causa e conseguenza di questo straordinario sviluppo era la crescita della popolazione, con i suoi bisogni e le sue aspettative. Negli ultimi decenni dell’Ottocento, l’incremento demografico raggiunse ritmi più che doppi rispetto ai decenni precedenti, soprattutto nelle città. A Zurigo, per esempio, tra il 1880 e il 1910 la popolazione residente passò da 86.890 a 215.488, a Berna da 45.743 a 90.937, a Basilea da 61.737 a 132.276, a Ginevra da 70.355 a 115.243, ecc.
Ad aumentare non era solo la popolazione svizzera, nonostante fosse ancora considerevole fino alla fine del secolo l’emigrazione, ma anche quella straniera, che compensava ormai abbondantemente le partenze degli svizzeri e soddisfaceva con forze giovani le esigenze crescenti di un’economia in espansione. Tra il 1880 e il 1910 gli stranieri passarono dal 7,4 al 14,7% della popolazione residente. Il contributo maggiore a questo incremento lo fornivano gli italiani. Infatti, mentre nello stesso periodo la percentuale dei tedeschi (fino ad allora il gruppo nazionale di gran lunga più numeroso) sull’insieme degli stranieri scendeva dal 45,1 al 39,8 per cento, quella degli italiani cresceva dal 19,7 al 36,7 per cento.

Trasformazione delle città e boom edilizio
Il segno forse più evidente dello sviluppo economico e dell’incremento demografico era la trasformazione in corso di tutte le grandi città svizzere con nuovi piani urbanistici, creazione di nuovi quartieri, sistemazioni di strade e piazze, costruzione di edifici industriali, commerciali, amministrativi (per la Confederazione e per i Cantoni e Comuni), di servizio (stazioni, uffici postali, scuole, ospedali, chiese, musei…), turistici e di svago (alberghi, teatri, caffè, ristoranti, cinematografi…), residenziali (ville lussuose, ma anche case-giardino per operai e impiegati e «alloggi di utilità pubblica»), alimentando un boom edilizio senza precedenti.
Se nel 1888 l’attività edilizia occupava poco più di 62.000 addetti in tutta la Svizzera, nel 1910 il loro numero era più che doppio. Il 40% di essi (nelle grandi città addirittura il 50%) era costituito da stranieri. Molti erano italiani.
La costruzione della ferrovia e della galleria del San Gottardo ebbe l’effetto, fra l’altro, di accreditare gli italiani come ottimi lavoratori non solo nel ramo del genio civile (strade e ferrovie in particolare), ma anche nell’edilizia generale. Sul finire dell’Ottocento, l’attività edilizia frenetica richiamò pertanto nelle grandi città svizzere un gran numero di muratori e operai generici italiani da adibire nell’urbanizzazione dei terreni e nella costruzione di edifici di ogni genere. Provenivano, come per le costruzioni ferroviarie e stradali, prevalentemente dall’Italia settentrionale e trovavano facilmente lavoro.
I muratori italiani erano molto richiesti perché costavano di meno e producevano più di tutti gli altri. Nonostante i salari bassi, fissati dall’imprenditore e non certo dai salariati, spesso gli italiani riuscivano a guadagnare più di molti svizzeri perché lavoravano generalmente a cottimo. Già questo bastava per attirarsi molte invidie e accuse da parte delle maestranze e degli operai svizzeri. Il colmo si raggiungeva quando, nei periodi di contrazione dell’attività edilizia, molti svizzeri restavano disoccupati e gli italiani continuavano a lavorare. Le risse erano inevitabili e frequenti.

Violenze contro gli italiani
L’episodio più clamoroso fu quello avvenuto a Berna nel 1893, mentre si stava edificando un intero quartiere, Kirchenfeld. Ne ho già parlato in passato, ma merita ricordarlo ancora perché alquanto significativo dell’impatto (negativo) che avevano spesso gli italiani nell’opinione pubblica svizzera, anche quando le presunte cause dei contrasti non dipendevano dai loro comportamenti o dalla loro volontà.
Berna 1893: Käfigturmkrawall (disegno dell'epoca)
Ecco in breve i fatti. L’attività edilizia nel nuovo quartiere era frenetica. Vi lavoravano numerose imprese (anche italiane), che si avvalevano soprattutto di manodopera italiana e ticinese (spesso nelle statistiche dell’epoca la distinzione non è chiara) perché costava meno e rendeva più di quella indigena. Gli italiani lavoravano infatti generalmente a cottimo, solitamente non scioperavano e soprattutto erano più esperti degli svizzeri nell’utilizzo del mattone (Backstein), usato abitualmente in Italia, mentre a Berna cominciava solo allora ad essere preferito all’arenaria (Sandstein) tradizionale.
In questa situazione, per muratori e manovali svizzeri diventava sempre più difficile trovar lavoro. A molti di essi, il fatto che la stessa sorte non colpisse gli italiani dovette apparire un’onta insopportabile. Il passaggio dalle proteste alle violenze fu quasi inevitabile. Il 19 giugno 1893, 50-60 manovali bernesi, per lo più disoccupati, decisero di dare una lezione agli italiani. Radunata una piccola folla, marciarono in direzione dei cantieri dove c’erano molti italiani. Giunti sul luogo, distrussero ponteggi e quant’altro, picchiando gli operai italiani che non erano riusciti a scappare prima. Fortunatamente non ci furono morti, ma molti immigrati italiani decisero in quel momento di andar via da Berna.
Per evitare l’estendersi della violenza intervenne la polizia e arrestò una settantina di assalitori, sistemandoli nella Torre delle prigioni (Käfigturm). Attorno all’edificio si radunò allora una folla inferocita, che si era nel frattempo ingrossata a più di mille persone, reclamando la liberazione degli arrestati. Per paura di essere sopraffatta, la polizia chiese l’intervento dell’esercito e solo dopo l’arrivo di centinaia di militari da Thun e da Lucerna si riuscì a disperdere i manifestanti. Per precauzione, tuttavia, per oltre un mese 450 soldati venuti dall’Argovia  restarono a presidiare i cantieri più a rischio, al fine di evitare altre violenze e danni materiali.

Opinioni discordanti tra pubblico e autorità
A differenza di quanto era avvenuto in seguito allo sciopero durante lo scavo della galleria del San Gottardo, l’opinione pubblica si divise nel giudicare la «rivolta del Käfigturm» (Käfigturmkrawall). Una parte considerava legittime le rivendicazioni dei disoccupati bernesi, un’altra riteneva invece che la rabbia dei manovali svizzeri non fosse altro che un tentativo rivoluzionario della classe operaia organizzata sotto la guida di capi stranieri (tedeschi).
Le autorità cantonali bernesi, invece, pur essendo intervenute in questa occasione in difesa degli operai italiani, adottarono un atteggiamento del tutto in linea con quello delle autorità del Cantone di Uri quando fecero intervenire la milizia contro i manifestanti italiani. Per esse, infatti, «gli imprenditori non devono cedere alle rivendicazioni degli scioperanti e devono fare di tutto per trattenere i loro operai italiani pronti a partire. Facendo così agiranno nell’interesse superiore del Paese e saranno certi di avere il sostegno di una popolazione giustamente irritata». Evidentemente gli italiani era ritenuti quantomeno utili.
Le autorità federali agirono invece diversamente. Per evitare altri disordini, esclusero gli italiani dalla costruzione del Palazzo federale che stava per essere avviata (1894-1902), ma si attirarono non poche critiche. Per esempio, il corrispondente da Berna di un quotidiano romando, non avendo dubbi sulla  superiorità dell’operaio italiano nei confronti di quello svizzero perché più produttivo, si domandava ironicamente se le amministrazioni pubbliche pensassero seriamente di migliorare l’operaio indigeno escludendo dai cantieri il lavoro italiano. Per lui, infatti, sopprimendo la concorrenza si sopprimeva «uno stimolo al progresso» e lanciava una pesante accusa alle autorità federali affermando: «questo protezionismo costa caro allo Stato che, sotto forma di prezzo unitario più elevato ha dovuto prendere a suo carico l’inferiorità della manodopera locale».

Italiani utili, anzi indispensabili
Numa Droz (1844-1899)
Queste forme di protezionismo, l’opposizione tra manodopera locale e manodopera straniera, i disordini, i sospetti e le facili accuse nei confronti di una parte della popolazione straniera (quella italiana, perché quella tedesca era più rispettata anche se ritenuta più pericolosa, come si vedrà in seguito) segnarono purtroppo l’inizio di un progressivo distacco tra la collettività svizzera e quella degli italiani, che finiranno per condurre praticamente vite parallele ancora per molto tempo. Erano anche le prime avvisaglie di una xenofobia che avrebbe caratterizzato per quasi un secolo i rapporti tra svizzeri e stranieri e soprattutto tra svizzeri e italiani.
La difficile convivenza non impedirà, tuttavia, l’arrivo in Svizzera di decine di migliaia di italiani fino a divenire, specialmente in alcuni rami dell’economia, una forza insostituibile, come attestò nel 1899 l’ex presidente della Confederazione Numa Droz: «considero l’immigrazione italiana non solo utile, ma necessaria». (Segue)
Giovanni Longu
Berna, 14.02.2017

07 febbraio 2017

Italiani in Svizzera: 4. La «febbre ferroviaria»



La costruzione della galleria ferroviaria transalpina sotto il San Gottardo (1872-1882) fu percepita dagli ambienti del trasporto ferroviario come un successo ripetibile. Progetti di altre gallerie transalpine erano già pronti o in discussione prima ancora che entrasse in esercizio quella del Gottardo. La «febbre ferroviaria» si stava diffondendo in tutta la Svizzera. Il lavoro per minatori, muratori, carpentieri e manovali italiani sembrava garantito almeno per qualche decennio, perché senza di loro era impensabile aprire nuovi cantieri di montagna.

Italiani fidati ed esperti
Italiani al lavoro nella galleria della Jungfraubahn (1900)
Durante i brindisi ufficiali in occasione dei festeggiamenti per l’inaugurazione della galleria e dell’intera ferrovia del Gottardo da Lucerna a Chiasso, alle maestranze e ai lavoratori italiani si accennò appena, ma tutti, autorità e imprenditori, sapevano che senza di essi quell’inaugurazione, in quel moment o e chi sa per quanto tempo ancora, non ci sarebbe stata. Ed è probabile che anche gli stessi italiani ne fossero consapevoli, perché proprio durante quei lavori si crearono intensi legami con le imprese che li avevano ingaggiati. Diversamente non si spiegherebbe perché molte di esse, chiuso un cantiere, erano pronte ad aprirne un altro. Evidentemente partecipavano alle gare d’appalto sapendo di poter contare su squadre di lavoratori italiani bravi e fidati, soprattutto minatori, carpentieri, muratori, ecc. Del resto il lavoro non mancava.
Tra il 1872 (inizio dei lavori della galleria del San Gottardo) e il 1914 (scoppio della prima guerra mondiale), la Svizzera fu pervasa da una specie di febbre ferroviaria. La Confederazione, i Cantoni, le Città volevano proprie ferrovie, tranvie, funicolari, ferrovie di montagna. Le reclamavano il progresso, interessi nazionali e internazionali, i commerci, le comunicazioni, il turismo e persino il prestigio. Tra il 1872 e il 1914 furono costruiti migliaia di chilometri di ferrovia e una sessantina di ferrovie di montagna per migliorare le comunicazioni e a scopo eminentemente turistico e commerciale.

Italiani protagonisti indispensabili
Per la realizzazione di questa densa rete ferroviaria il contributo dei lavoratori italiani fu determinante. Parteciparono ai lavori di preparazione e realizzazione decine di migliaia di italiani, sia come manovali che come operai specializzati. In alcuni cantieri la manodopera era costituita quasi al 100% da italiani. Nel 1905, anno in cui venne realizzato il primo censimento delle aziende in Svizzera, oltre la metà (51%) degli 85.866 lavoratori italiani del settore secondario risultava addetta alla costruzione delle linee ferroviarie e delle strade. Su poco più di 70.000 addetti a questa attività, gli italiani erano ben 45.321, gli svizzeri poco più di 20.000, i tedeschi 1960, gli austriaci 1374, i francesi 584..
Dopo la galleria del San Gottardo (1872-1882), gli italiani furono determinanti per la realizzazione di tutti gli altri grandi trafori ferroviari: Sempione (1898-1906), Ricken (1904-1910), Lötschberg (1906-1913), Mont d’Or, tra la Svizzera e la Francia, (1910-1915), Grenchen-Moutier (1911- 1915), la galleria di base dell’Hauenstein, tra Trimbach e Tecknau (1912-1916), ecc.
I lavoratori italiani furono protagonisti anche nelle costruzioni di gran parte delle ferrovie di montagna, da quelle più celebri, come la Jungfraubahn (1889-1892) e la ferrovia retica (1888-1910, dal 2008 patrimonio mondiale dell’UNESCO) a quelle forse meno famose ma ancora oggi molto efficienti come la Vitznau-Rigi-Bahn (1869-1871, la prima ferrovia a cremagliera d’Europa), la Arth-Rigi-Bahn (1873-1875), l’Alpnachstad-Pilatus (1886-1889, la ferrovia a cremagliera più ripida del mondo), la Gornergratbahn (1896-1898, che collega Zermatt a Gornergrat nella regione del Monte Rosa), la Brienz-Rothorn (1889-1891), la Furka-Oberalp (1911-1915), ecc.

Riconoscimenti federali
Ben a ragione, anni più tardi nel corso di una cerimonia celebrativa, l’ex presidente della Confederazione Enrico Celio poteva affermare: «Né la galleria ferroviaria del San Gottardo nel 1872, né quella del Sempione (1905), né i ponti riallaccianti i dossi dei valloni nelle nostre valli, né i diversi manufatti su cui si snodano le nostre strade ferrate, automobilistiche, del piano ed alpine, né i muraglioni atti a raccogliere le nostre acque nei bacini delle montagne, né molte opere edili d’eccezionale o anche di minore consistenza sarebbero state materialmente realizzate senza l’apporto di lavoro e di sacrificio della mano d’opera italiana».
Della stessa opinione era anche il consigliere nazionale ticinese Nello Celio, divenuto poi anche lui Presidente della Confederazione, che nel 1965 ebbe a dire in Parlamento: «In collaborazione con l'eccellente operaio svizzero, l'emigrazione italiana ha da noi impresso il marchio alle più grandi opere, dalle gallerie ferroviarie agli impianti idrici, e le grandi costruzioni del genio civile non avrebbero visto la luce se umili e meno umili lavoratori di quella nazione che nei tempi illuminò il mondo con la sua civiltà, non vi avessero posto mano. Il padronato svizzero non può misconoscere di avere, grazie alla mano d'opera italiana, risolto il problema della espansione ed i lavoratori del nostro paese, dopo aver fino a ieri predicato la solidarietà internazionale, non avranno dimenticato il contributo dell'estero all'incremento del prodotto sociale di cui essi stessi hanno beneficiato in larga misura».

Italiani sempre più numerosi
La costruzione della galleria del San Gottardo aveva inaugurato, per così dire, la grande immigrazione in Svizzera degli italiani, dapprima principalmente dalle regioni del nord (Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna), poi anche dal centro e dal sud.
Per la galleria del Sempione furono fatti arrivare anche dal sud, specialmente dalla Calabria, ritenendo che i meridionali avrebbero sopportato meglio le alte temperature che si prevedevano in galleria. Per la costruzione della galleria del Lötschberg, in cui furono ancora impiegati quasi esclusivamente lavoratori italiani, il 40% proveniva dal Sud, il 30% dall’Italia centrale e il 27% dal Nord.
Cippo commemorativo e targa (v. sotto) con i nomi delle vittime
della sciagura del Lötschberg, nel cimitero di Kandersteg (gl).
Poiché il lavoro ferroviario sembrava non finire mai, di «figli d’Italia che vanno pel mondo offrendo coraggiosamente sé stessi per opere ardue e rischiose» (così scriveva lo scrittore Niklaus Bolt nel 1913 subito dopo l’inaugurazione del Lötschberg) ne arrivavano sempre di più. Se nel 1870 gli italiani residenti in Svizzera erano poco più di 18.000, nel 1900 superarono le 117.000 unità. Erano attratti soprattutto dal guadagno, per lo più ignari dei rischi e delle condizioni di lavoro e di vita alle quali sarebbe stati sottoposti.

Condizioni di vita e di lavoro pessime

La targa dedicata "Ai Figli d'Italia Martiri del lavoro per l'unione
dei vincoli internazionali nel traforo del Lötschberg..." (gl)
Dopo l’esperienza della galleria del San Gottardo, negli altri scavi migliorarono notevolmente le tecniche, che consentivano un avanzamento sempre maggiore (fino al doppio, 12 metri al giorno, nella galleria del Lötschberg). Non altrettanto si può dire delle condizioni di lavoro, che anzi, soprattutto nella galleria del Sempione, risultarono persino peggiori a causa delle alte temperature e dell’insufficiente ventilazione.
I salari, inizialmente molto bassi, salirono in seguito lentamente soprattutto a seguito di lunghi scioperi. Anche le condizioni abitative dei lavoratori, ancora pessime durante il traforo del Sempione, migliorarono in seguito con significativi progressi già nei cantieri per lo scavo del Lötschberg.
Durante la costruzione di queste opere grandiose del lavoro umano gli italiani pagarono un grande contributo di sangue. Oltre alle centinaia di morti collegate allo scavo del Gottardo, 67 furono gli operai deceduti durante il traforo del Sempione (ma almeno altri 200 morirono in seguito di pneumoconiosi, un’affezione dei polmoni provocata dall’inalazione di polvere). Durante i lavori nella galleria del Lötschberg i morti furono 64, 25 dei quali travolti da un’improvvisa e imprevista (!) massa di circa 10 mila metri cubi di acqua, fango e detriti che invase la galleria dove stavano lavorando. 29 italiani (su 30 in tutto) morirono durante la realizzazione della Jungfraubahn. Complessivamente, tuttavia, gli italiani caduti sul lavoro in Svizzera furono migliaia.
Può essere illuminante, a questo punto, un breve dialogo contenuto in un romanzo dello scrittore Bolt già menzionato. Il romanzo, del 1913, è intitolato «Svizzero» anche in tedesco e racconta la storia di uno dei pochi svizzeri che lavorarono in galleria insieme agli italiani. Si chiamava Christen Abplanalp, ma gli italiani lo chiamavano «Svizzero». Prima di cominciare a lavorare, uno svizzero adulto aveva cercato invano di dissuaderlo perché ancora minorenne con queste parole: «Senti, ragazzo, sei quassù fra neve e ghiaccio, è terribilmente pericoloso: non vedi quanti sono già caduti ed hanno braccia o la testa fasciate? Ci devono essere uomini che si sacrificano e mettono a repentaglio la loro vita per compiere un’opera così grandiosa, ma gli italiani sono più abituati di noi». Ma il ragazzo, nel racconto di Bolt, replicò: «Sono più abituati a morire? Rimango proprio, non posso cedere».
A distanza di oltre un secolo, il ricordo di quelle imprese resta affidato unicamente a qualche scritto e a qualche lapide commemorativa. Raramente se ne ricordano i protagonisti, quasi tutti italiani rimasti per lo più anonimi, che le realizzarono in condizioni di estrema durezza. Eppure essi furono, per lo più inconsapevolmente, artefici delle principali linee ferroviarie di collegamento tra Nord e Sud dell’era moderna.

Giovanni Longu

Berna, 7.2.2017

31 gennaio 2017

Italiani in Svizzera: 3. «L'oscura eroica fatica del lavoratore ignoto»



La costruzione della galleria ferroviaria transalpina sotto il San Gottardo (1872-1882) costituì il primo vero banco di prova del «Trattato di domicilio e consolare» del 1868 tra l’Italia e la Svizzera. Il lavoro in galleria, anche se mal pagato, era sempre meglio di niente e costituiva una forte attrazione per quanti avevano famiglia a carico con qualche difficoltà finanziaria e una fonte di guadagno per chi non aveva carichi familiari. A migliaia, provenienti quasi esclusivamente dal Piemonte e dalla Lombardia, accorsero agli uffici della ditta appaltatrice dei lavori: scavatori, minatori, muratori, ma anche fabbri, falegnami, cuochi, manovali e persino avventurieri e pregiudicati. Ne giungevano talmente tanti che l’imprenditore aveva solo l’imbarazzo della scelta e poteva offrire senza problemi i salari che voleva, comunque sempre bassi.

La sfida del Gottardo
Statua delle due sorelle, Svizzera e Italia,
collocata alla stazione di Chiasso per ricordare
la prima grande impresa ferroviaria comune
Nella seconda metà dell’Ottocento, la Svizzera dovette affrontare con un forte ritardo rispetto ai Paesi vicini la problematica del trasporto ferroviario, non solo a causa del federalismo che sottraeva alla Confederazione le competenze necessarie per costruire ferrovie intercantonali, ma anche a causa di difficoltà finanziarie e costruttive. Per colmare il ritardo era indispensabile affrontare con coraggio e determinazione la sfida, su cui da tempo si discuteva non solo in Svizzera ma anche in Italia e Germania, di un attraversamento ferroviario delle Alpi sotto il San Gottardo.
Quale opera ingegneristica transalpina non avrebbe rappresentato di per sé una novità assoluta, perché gli italiani avevano appena terminato la costruzione dell’imponente traforo ferroviario del Fréjus sotto il Moncenisio, tra l’Italia e la Francia, lungo ben 13,6 chilometri (1857-1871). Per la realizzazione del progetto del San Gottardo, che prevedeva una galleria di 15 chilometri, le incognite non erano tuttavia di poco conto, soprattutto riguardo al suo finanziamento, alla società concessionaria, alla ditta appaltatrice, alla durata effettiva dei lavori, ecc. Il sostegno riscosso non solo da parte della Confederazione e dei Cantoni interessati, ma anche dell’Italia e della Germania, sembrava la migliore garanzia per avviare subito la realizzazione del progetto.
In pochi mesi fu completata tutta la fase preparatoria. Il 6 dicembre 1871 venne costituita la Compagnia ferroviaria del Gottardo (la Gotthardbahngesellschaft) quale società concessionaria dotata di un capitale di 187 milioni di lire tra pubblico (Italia 45, Germania 20, Svizzera 20) e privato (partecipazione di vari gruppi tedeschi con 102 milioni). Il 5 aprile 1872 fu lanciata una gara d’appalto per l’assegnazione dei lavori. Il 7 agosto 1872 fu firmato il contratto con la ditta appaltatrice di Louis Favre Entreprise du Grand Tunnel du Gothard. Di lì a poco sarebbero iniziati i lavori partendo a sud da Airolo e a nord da Göschenen.

Preventivi azzardati
Quando, nella gara d’appalto l’impresa dell’ingegner Favre fu preferita alla Società Italiana di Lavori pubblici, che aveva già eseguito il traforo del Fréjus, la scelta era stata fatta in base all’offerta più bassa (47.804.300 lire, contro 58.883.530 lire), tenendo anche conto che l’ingegnere ginevrino s’impegnava a terminare i lavori entro otto anni a partire dal 1° ottobre 1872.
E’ possibile che Favre avesse tenuto bassa l’offerta pensando di far tesoro delle esperienze fatte dagli italiani nello scavo del Fréjus e della sperimentazione con successo di nuove perforatrici più efficaci. In realtà, tanto l’ingegnere che la società concessionaria avevano sottovalutato i costi reali dei lavori sotto il San Gottardo, calcolato insufficientemente i rischi e sopravvalutato la nuova tecnologia mineraria sperimentata al Fréjus.
La costruzione della galleria del Fréjus aveva rappresentato per gli italiani (allora soprattutto piemontesi e savoiardi perché inizialmente l’Italia non era stata ancora unificata e la Savoia apparteneva fino al 1860 al Regno Sabaudo) un’esperienza straordinaria per molti versi, non solo per la durata dei lavori ma anche per la sperimentazione di nuove tecniche di perforazione e l’introduzione di nuovi macchinari. Vennero infatti sperimentate positivamente le ultime innovazioni tecnologiche: le perforatrici meccaniche vennero sostituite via via da perforatrici automatiche a vapore, aria e acqua compresse e si cominciò a usare la dinamite inventata da Nobel nel 1869. Tutto ciò, però, non rappresentava alcuna garanzia sicura della riuscita dell’opera che Favre si apprestava a realizzare.

Lavoro in condizioni disumane
I lavori per la galleria del San Gottardo iniziarono il 13 settembre 1872 ad Airolo e il 24 ottobre a Göschenen. Le difficoltà di avanzamento apparvero subito evidenti a causa di problemi tecnici imprevisti legati alla natura della roccia. I1 primo anno, infatti, lo scavo dovette procedere a mano e a rilento. Solo in seguito entrarono in funzione le perforatrici meccaniche. Ben presto apparve anche chiaro che pure le altre previsioni di Favre erano irrealistiche. I costi cominciavano a lievitare (nel 1875 la   aveva già superato il 50% delle spese preventivate), l’insoddisfazione dei lavoratori cresceva come anche il numero degli incidenti e il ritardo che si accumulava giorno dopo giorno nell’avanzamento in galleria. In effetti, la durata dei lavori fino alla consegna dell’opera finita si prolungherà di ben due anni con gravi conseguenze sia per l’impresa Favre che per la Compagnia del Gottardo.
Probabilmente Favre aveva calcolato male anche il fattore umano non rendendosi conto che l’esperienza da sola non basta per assicurare un buon lavoro. Pur disponendo quasi esclusivamente di lavoratori italiani sperimentati, in massima parte piemontesi e lombardi, molti dei quali provenienti dalla costruzione della galleria del Fréjus, non aveva tenuto conto di altri fattori, in particolare della sopportabilità delle condizioni di lavoro da molti osservatori ritenute «disumane».
Favre aveva presentato un’offerta troppo bassa, pur di ottenere l’appalto dei lavori, ma si era anche vincolato contrattualmente a pesanti penali se avesse consegnato l’opera finita in ritardo. Per rimediare agli errori di valutazione e forse all’ambizione, cercò di risparmiare su tutto, compresi i salari del personale e i sistemi di sicurezza. A pagare gli errori non furono solo i finanziatori dell’opera che in pochi anni videro dimezzarsi il valore dell’azione della Ferrovia del Gottardo e lo stesso Favre, ma soprattutto i lavoratori italiani immigrati.

Eran giovani e forti, e molti sono morti!
Gli operai del Gottardo avevano un’età media di 28 anni, erano, come si dice, giovani e forti, ma non tanto da resistere a lungo nel lavoro in galleria. Le difficoltà erano immense, dovute a cause geologiche, all’alta temperatura, superiore ai 30 gradi, alle forti fuoruscite d’acqua, fino a 250 litri al secondo, all’umidità, alla ventilazione insufficiente, al rumore delle perforatrici, ai gas provocati dallo scoppio delle mine, ecc. Quasi tutti gli operai soffrirono di congestioni, vertigini, nausea, diarrea. Questo spiega perché molti fra gli oltre 10.000 uomini che lavorarono in galleria non guarirono mai più completamente e solo 80 resistettero sull’arco dell’intero traforo. Il ricambio di personale era frequente per garantire comunque un contingente medio di circa 3000 persone al giorno.
Le difficoltà che dovettero affrontare gli operai italiani non erano solo quelle che incontravano in galleria, ma anche quelle di fuori, a causa di un’alimentazione insufficiente, dei bassi salari (la paga media giornaliera si aggirava sui 4 franchi), delle precarie condizioni abitative (talvolta in baracche sovraffollate e molto sporche), ma anche all’indifferenza e persino all’ostilità di una parte significativa dell’opinione pubblica.
A seguito delle inutili proteste contro le pessime condizioni di lavoro, salariali e abitative (attestate anche ufficialmente dal commissario federale Hans Hold e dal medico Laurenz Sonderegger), nel 1875 scoppiarono diverse agitazioni culminate il 27 e 28 luglio in tumulti. Per ristabilire l’ordine fu fatta intervenire la milizia di Göschenen che sparò sui manifestanti ferendone molti e uccidendone quattro.
La stampa locale reagì a favore dell’impresa di Favre e accusò gli scioperanti di essere ingrati, avidi di denaro e pericolosi. Era una forma di risentimento per il disturbo che il massiccio afflusso di italiani stava provocando nei tranquilli villaggi nelle vicinanze dei portali nord e sud della galleria. E poco importava se quella galleria avrebbe apportato loro qualche beneficio e se in quella galleria almeno 177 persone giovani e forti vi avrebbero lasciato la vita, per non parlare delle centinaia che sarebbero morti dopo il rimpatrio, in seguito alla cosiddetta «anemia del Gottardo» contratta a causa delle malsane condizioni igieniche e di lavoro.

L'«eroica  fatica» di lavoratori ignoti
Al termine dei lavori, quando venne inaugurata con grande solennità la galleria più lunga del mondo, un capolavoro di ingegneria e di tecnica ferroviaria, furono esaltati il genio e l’industria, pochi ricordarono seppur vagamente quei morti giovani e forti e le migliaia di lavoratori senza i quali, in quel momento, non si sarebbe potuto celebrare il «trionfo della scienza e della tecnica», «l’opera di civiltà» che avvicina i popoli. Proprio per questo meritano di essere ricordati.

Airolo: monumento di Vincenzo Vela alle vittime del
traforo ferroviario del San Gottardo (1872-1882)
Airolo: bassorilievo "Le vittime del lavaoro" di Vincenzo Vela
In onore delle vittime del traforo, sul piazzale antistante la stazione ferroviaria di Airolo venne eretto nel 1932 un monumento dello scultore ticinese Vincenzo Vela. L'epigrafe recita: Nel 50° anniversario della grande umana vittoria che dischiuse fra genti e genti la via del San Gottardo, questa pietra ove l'arte segna e consacra l'oscura eroica fatica del lavoratore ignoto.
La galleria del Gottardo ebbe a livello politico e industriale un effetto scatenante di quella che venne definita da alcuni la «febbre ferroviaria».(Segue)
Giovanni Longu
Berna, 31 gennaio 2017