04 aprile 2012

Quanta italianità c’è a Berna! (1a parte)

Che esistano forti legami tra Berna e l’italianità è evidente. Per rendersene conto basterebbe una breve passeggiata dalla Piazza della stazione in direzione della vecchia Fossa degli orsi (Bärengraben), percorrendo dapprima la Spitalgasse fino alla Torre delle prigioni, poi, dopo aver dato sulla destra uno sguardo al maestoso Palazzo federale, la Marktgasse fino alla Torre dell’Orologio, quindi in leggera discesa la Kramgasse e la Gerechtigkeitsgasse. Attraversato il ponte di Nydegg si giunge alla vecchia Fossa degli orsi.

Se questi monumenti e queste vie potessero parlare… si scoprirebbe quanta italianità è contenuta in questo gioiello urbanistico considerato patrimonio dell’umanità dall’Unesco. Ma anche in assenza di un racconto originale, lungo la nostra ipotetica passeggiata è facile incontrare molti indizi dei forti legami tra Berna e l’italianità.
Già dopo il primo tratto di strada, basta dare uno sguardo fuggevole al Palazzo federale per ritrovarvi a grandi linee lo stile rinascimentale di celebri palazzi fiorentini. Anche la Torre delle prigioni e la Torre dell’orologio, testimoni austeri ed eleganti di un glorioso passato, contengono, come si vedrà, elementi d’italianità. Per non parlare delle numerose fontane, anch’esse in stile rinascimentale, che abbelliscono la città vecchia e che meritano un cenno a parte.

Portici medievali della Kramgasse attorno al 1900
Persino i famosi portici di chiara origine medievale rinviano a un’epoca ancor più lontana, quella degli antichi fori romani. Poiché Berna fino al XV secolo non di disponeva di una piazza del mercato, gli scambi avvenivano per così dire davanti alla porta di casa, ma al coperto, sotto i portici.

Italianità radicata …
L’italianità è radicata profondamente in questa città anche nel tessuto sociale e culturale soprattutto dopo la proclamazione di Berna capitale federale (1848). Da allora, infatti, l’italianità è entrata a far parte attraverso i ticinesi delle istituzioni federali concentrate soprattutto a Berna. Quasi contemporaneamente è iniziata anche la migrazione di molti lavoratori italiani chiamati per costruire ogni sorta di palazzi e manufatti che via via si rendevano indispensabili per il buon funzionamento delle istituzioni federali e per soddisfare gli svariati bisogni di una popolazione in forte crescita. Non erano solo braccia, ma persone che con le loro organizzazioni, le loro particolarità mediterranee e il loro modo di essere finirono col tempo per integrarsi nel tessuto sociale bernese contribuendo a trasformarlo e arricchirlo.
Nella nostra ipotetica passeggiata, in mezzo alle tante persone che si possono incontrare, è ormai difficile distinguere gli italofoni dai bernesi se non quando comunicano, magari ad alta voce, in un italiano non sempre preciso perché spesso intercalato con espressioni in bernese. Non che l’italiano a Berna si sia imbastardito. Riesce infatti a sopravvivere senza grandi difficoltà non solo nelle organizzazioni italiane e nelle istituzioni scolastiche e universitarie, ma anche nell’Amministrazione federale, dove soprattutto i funzionari italofoni ne garantiscono il plurilinguismo. A Berna l’italiano è pur sempre, ancora, la seconda lingua dopo il tedesco. E’ però evidente che l’italiano è in forte calo, non solo per il rientro in Italia della maggior parte degli immigrati della prima generazione e il forte grado d’integrazione degli italiani o italo-svizzeri di seconda e terza generazione, ma anche perché a Berna «la lingua» di comunicazione è soprattutto il «berndütsch».

… fin dalle origini
Proseguendo il nostro percorso attraverso la Berna «medievale» giungiamo in vista del fiume Aare. Sostando sul grande ponte di Nydegg, ci accorgiamo di trovarci proprio sulla punta della penisola formata dall’ansa del fiume, luogo storico della nascita di Berna. Ed è proprio da qui che conviene partire, oltre che per tornare al punto di partenza della nostra passeggiata, per evidenziare i legami tra Berna e l’italianità fin dalle origini della città.

Quartiere di Nydegg (s.) dove fu fondata Berna

Secondo una Cronica del 1309, Berna sarebbe stata fondata nel 1191 dal duca Bertoldo V di Zähringen. A prescindere dall’anno esatto della fondazione, l’epoca va situata sicuramente attorno a quella data e anche sul casato del fondatore non ci sono dubbi. Si tratta della potente famiglia tedesca degli Zähringen, che avevano possedimenti non solo in Germania (Brisgovia), ma anche in Francia (Borgogna), in Austria (Carinzia), in Svizzera e in Italia. Qui Bertoldo IV, padre del fondatore di Berna, aveva ottenuto dall’imperatore Federico I il Barbarossa il titolo di marchese di Verona. Dopo la fondazione di Berna, la comune appartenenza delle due città agli Zähringen, ha creato in alcuni cronisti dell’epoca qualche confusione e uno scambio di nomi. Talvolta, infatti, Berna veniva chiamata «Verona in Uechtlanden» e Verona «Welsch-Bern». In seguito si preferì la distinzione tra «Deutsch-Bern» e «Welsch-Bern»; ma finì per imporsi definitivamente Bern.
A parte questa origine singolare e lo scambio di nomi, le storie delle due città si svilupparono indipendentemente, anche perché alla morte di Bertoldo V (1218) la dinastia degli Zähringen si estinse e Berna entrò a far parte del Sacro Romano Impero, godendo di ampie autonomie come «città libera».
Per secoli i rapporti tra Berna e l’italianità rimasero occasionali e superficiali anche nel periodo d’influenza savoiarda. Bisognerà aspettare il XV secolo per trovare segni d’italianità, soprattutto nella cultura e nell’arte.

Lo sviluppo di Berna
Dal 1191 Berna conobbe uno sviluppo incessante anche se a ritmi molto diversi. L’insediamento originario si estendeva dalla punta della penisola formata dall’ansa del fiume Aare, l’attuale quartiere di Nydegg, fino alla prima cinta muraria che aveva la principale porta a ovest nella Torre dell’Orologio (Zeitglockenturm) e due altre porte laterali a nord e a sud verso il fiume. Ad est, il passaggio all’altro lato del fiume avveniva originariamente con un traghetto e successivamente attraverso un ponte dapprima in legno (1256-1460) e poi in muratura (1461-1487). A protezione dell’importante passaggio gli Zähringen avevano costruito un castello-fortezza, il Castello di Nydegg, di cui si conserva solo qualche piccola traccia, distrutto attorno al 1270.  
La Kramgasse e la Torre dell'Orologio

La Torre dell’Orologio giunta fino ai nostri giorni non è quella originaria costruita nella prima metà del XIII secolo, ma il risultato di numerosi interventi dei secoli successivi. Il celebre orologio fu realizzato nel 1527-1530 e anch’esso ha subito numerose revisioni. Osservando la parte alta del meccanismo al momento del rintocco delle ore, a chi conosce Venezia non può sfuggire la somiglianza tra questo automa che sembra colpire la campana e i due mori del Campanile di San Marco del 1497, che sicuramente l’hanno ispirato, come risulta anche dalla somiglianza della figura e dell’armatura. L’italianità cominciava a farsi sentire… e vedere.
Grosse e Kleine Schanze nel XVII sec.
Con gli anni e l’incremento della popolazione, tra il 1256 e il 1344, Berna si estese ulteriormente in direzione est-ovest (lungo l’asse principale costituito dalle strade attuali Gerechtigkeitsgasse, Kramgasse, Marktgasse e Spitalgasse) e spostò la sua difesa fino ad una seconda cinta muraria che ebbe la sua porta principale in quella che oggi viene chiamata la Torre delle prigioni (Käfigturm), eretta nel 1256. E’ l’epoca in cui Berna può contare sulla protezione dei Savoia (subendone per altro l’influenza) contro i continui attacchi dapprima dei conti di Kyburg e poi degli Asburgo.
In una successiva fase espansiva, dopo il 1344, le fortificazioni vennero spostate in corrispondenza dell’attuale stazione ferroviaria per una lunghezza di 1200 metri e successivamente (1622-1634) rafforzate con due bastioni principali a forma poligonale (Grosse Schanze, dove ora sorge l’università, e Kleine Schanze, ora adibita a parco, col monumento all’Unione postale universale), secondo un modello di sistema difensivo sviluppato nell’Italia centrale all’inizio del XVI secolo. L’accesso principale alla città fortificata era costituito dalla porta-torre di San Cristoforo (Christoffelturm), demolita nel 1865, dopo che gran parte delle fortificazioni erano già state rase al suolo. Una strada sta ancora a ricordare queste fortificazioni (Bollwerk). Nel XVIII secolo, tuttavia, la città aveva già cominciato ad espandersi oltre la cinta muraria. (Fine prima parte)

Giovanni Longu
Berna, 4 aprile 2012


28 marzo 2012

Il principio della buona fede e l’articolo 18

Qualche settimana fa La Posta svizzera ha emesso un francobollo commemorativo in occasione del centenario dell’entrata in vigore (1° gennaio 1912) del Codice civile svizzero (CCS), che costituisce la base del diritto privato. Più volte modificato e adeguato alle nuove esigenze, non è mai stato revisionato integralmente, segno della sua adeguatezza ai tempi.

La validità di un codice è data soprattutto dalla sua capacità di rispondere efficacemente alle esigenze dei cittadini col mutare delle condizioni storiche. La capacità di adattamento e l’efficacia del CCS dipendono sicuramente da molteplici fattori quali la sua struttura, la ragionevolezza delle norme contenute e il grado di accettazione e di rispetto da parte dei cittadini; ma non c’è dubbio ch’esse dipendono anche dall’impostazione generale e dai principi che stanno alla base delle relazioni sociali e giuridiche.

Agire secondo la buona fede
Credo che La Posta svizzera, emettendo l’8 marzo scorso il francobollo commemorativo del centenario del CCS, abbia colto se non il fondamento certamente un principio fondamentale dello stesso codice, riproducendo nelle tre lingue ufficiali tedesco francese e italiano il primo capoverso dell’articolo 2 che recita:
«Ognuno è tenuto ad agire secondo la buona fede così nell’esercizio dei propri diritti come nell’adempimento dei propri obblighi».

La validità, tuttora incontestata, del CCS non dipende evidentemente solo dal principio della buona fede, ma sicuramente ne costituisce un solido fondamento. Esso stabilisce infatti che ogni cittadino è tenuto ad agire «secondo la buona fede», non solo «nell’esercizio dei propri diritti», ma anche «nell’adempimento dei propri obblighi». I comportamenti che chiamiamo abitualmente frode, inganno, raggiro, abuso sono contrari alla buona fede.
So benissimo che la buona fede come il suo contrario sono difficili da provare in un processo, ma è in ogni caso importante che il legislatore svizzero abbia ritenuto opportuno indicare proprio all’inizio del Codice civile che i comportamenti dei cittadini devono essere sempre ispirati dalla buona fede. Tanto è vero che, pur non essendo una norma, questo principio dev’essere tenuto in considerazione anche dal giudice ogniqualvolta un cittadino si ritenga danneggiato da un altro. Si deve infatti presupporre che ognuno agisca in buona fede, salvo la prova del contrario.
Non è questa la sede per approfondire temi di natura tecnico-giuridica quali la validità e l’efficacia di una norma o di un codice. Il mio intento è solo quello di presentare una riflessione, partendo dall’emissione di un francobollo, ma anche dalle interminabili discussioni di queste ultime settimane in Italia sulla riforma del mercato del lavoro e in particolare sulla modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.
Mi sono chiesto se i numerosi dibattiti su questo tema, per lo più inconcludenti, avrebbero avuto la stessa carica emotiva e lo stesso risultato se si fosse partiti dal presupposto della buona fede nei rapporti tra datori di lavoro e lavoratori. Un principio questo, si badi bene, non solo giuridico, ma anche di civiltà, perché considera fondamentalmente legittimi e onesti i comportamenti di tutti i cittadini, fino alla prova del contrario. Un principio fondamentale anche nelle relazioni di lavoro, perché sta alla base della collaborazione e del rispetto reciproco delle parti, condizione indispensabile, anche se non unica, del raggiungimento degli obiettivi dell’impresa e della realizzazione delle aspettative dei lavoratori.

Buona fede e articolo 18
Nelle discussioni nei media italiani sull’eventuale modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non ho mai sentito alcun riferimento al principio della buona fede. Anzi, soprattutto tra i fautori del mantenimento di quell’articolo, ho avuto la netta sensazione che si ragionasse ancora in base a uno schema di tipo manicheo, fatto di contrapposizioni tra bene e male, buoni e cattivi, virtuosi e corrotti e persino lavoratori e padroni. Gli oppositori al licenziamento per motivi economici con indennizzo ma senza reintegro mi sembrano mossi, più che da un interesse generale per «tutti» i lavoratori e per uno sviluppo economico «sostenibile», dal preconcetto che il datore di lavoro sia un possibile anzi probabile sfruttatore, pronto ad approfittare di questa possibilità di licenziare per camuffare altre inconfessabili motivazioni.
Ma si può continuare a vedere i problemi solo in termini di buoni-cattivi, onesti-disonesti? In Svizzera, dove l’articolo 18 non esiste e il licenziamento economico non prevede mai il reintegro, allo scopo di evitare possibili abusi il legislatore ha previsto in un articolo di legge la «protezione dal licenziamento» per presunta discriminazione o per motivi ingiustificati. Non basterebbe un articolo del genere anche in Italia per evitare ingiustificate e inutili contrapposizioni ideologiche?
Non so se la legislazione svizzera sia migliore di altre, ma non mi risultano «licenziamenti facili» a valanga, anche perché il sindacato prima del giudice veglia affinché non si verifichino abusi e quando accadono vengano sanzionati. Perché non dovrebbe essere possibile anche in Italia?

Giovanni Longu
Berna 28.03.2012

Italia-Svizzera : a quando la ripresa del dialogo?

A dar credito ad autorevoli voci nazionali e internazionali, l’Italia del secondo semestre dell’anno scorso sembrava dirigersi inesorabilmente sulla scia della Grecia verso la bancarotta. Personalmente non ho mai condiviso tanto pessimismo, anche se ritenevo allarmante il crescente divario tra l’Italia e i principali Paesi competitori europei. Ho pure sempre individuato nella cattiva politica la causa principale del mancato sviluppo dell’Italia negli ultimi decenni, per cui ho ben visto le iniziative del governo «tecnico» a guida Monti, anche se non mi hanno convinto del tutto la tempistica e l’ordine di priorità degli interventi.

Sul medio e lungo periodo ritengo tuttavia che il governo Monti riuscirà a «rimediare a molti mali fatti negli ultimi decenni» e a «mettere l'Italia sul sentiero della crescita e sulla diminuzione delle tasse», come annunciato recentemente dallo stesso premier . Soprattutto l’introduzione di alcune riforme strutturali riguardanti il sistema pensionistico, la flessibilità nel mercato del lavoro, le liberalizzazioni, il sistema fiscale e la lotta all’evasione sembrano dare speranza per la messa in sicurezza dei conti dello Stato e per un prossimo allineamento dell’Italia alle prestazioni dei Paesi europei più dinamici ed efficienti.
In questo sforzo di avvicinamento all’Europa del governo Monti ha certamente rappresentato uno stimolo l’esempio tedesco e il plauso delle principali istituzioni europee e internazionali. Proprio guardando all’esempio tedesco trovo alquanto sorprendente che l’Italia non abbia imitato la Germania (e la Gran Bretagna) nel tentativo di regolare bilateralmente i rapporti fiscali con la vicina Svizzera .

Peggioramento dei rapporti bilaterali
Come noto, la Gran Bretagna ha concluso giorni fa l’accordo con la Svizzera sul modello Kubik (di cui si è più volta parlato in questa rubrica) e anche la Germania si appresta a farlo, salvo imprevisti legati alla forte opposizione dei socialisti tedeschi. Resta comunque il fatto che il negoziato anche tra Germania e Svizzera è stato avviato e da entrambe le parti si nutre ottimismo circa la sua conclusione . Perché il governo Monti si ostina a non volerlo nemmeno iniziare?
La sorpresa è legittima anche alla luce dell’ottimo andamento degli scambi commerciali (l’interscambio aumenta costantemente e soprattutto l’export italiano «continua a correre» , come ha scritto recentemente un quotidiano ticinese). Ed è ancor più sorprendente che ciononostante l’Italia unilateralmente si ostini a tenere la Svizzera in una «black list», sebbene non rappresenti più un paradiso fiscale .
Sorprende e preoccupa questo atteggiamento di chiusura dell’Italia perché è facile osservare che le relazioni tra due Paesi tradizionalmente amici e solidali sono in continuo peggioramento . Cresce, soprattutto in Ticino, un sentimento antitaliano, che rischia di scaricarsi sulle decine di migliaia di lavoratori frontalieri. Nei loro riguardi sono ricomparsi titoli di giornale che richiamano il blocco della frontiera svizzera durante la guerra nei confronti degli ebrei in fuga: «Frontalieri, quando la barca è piena» (on. Lorenzo Quadri, Lega dei Ticinesi) . All’inizio di marzo è risuonato l’appello del Ticino alle autorità federali per una «reintroduzione dei contingenti» attivando una clausola prevista dagli Accordi bilaterali Unione Europea-Svizzera .
Praticamente non c’è più opposizione al mantenimento del blocco parziale del versamento all’Italia della parte d’imposta alla fonte prelevata sui salari dei frontalieri. A nulla sono valse finora le contrarietà del Consiglio federale a questa misura, che rischia di danneggiare ancora di più le relazioni bilaterali con l’Italia .

Il Consiglio nazionale sostiene il Ticino
E’ di qualche settimana fa l’approvazione da parte del Consiglio nazionale (contro il parere del Consiglio federale) di un’iniziativa del Cantone Ticino per una riduzione della percentuale di ristorno delle imposte dei frontalieri dal 38,8 al 12,5% (suscitando le ira dei Comuni lombardi e piemontesi della fascia di frontiera con la Svizzera). Si è voluto così lanciare un segnale forte all’Italia per il suo «atteggiamento ostile al libero mercato e alla reciprocità nel campo degli Accordi bilaterali» (on. Fulvio Pelli, presidente del PLR svizzero).
Le reazioni negative a questo stato di cose sono davvero tante. Credo che il governo Monti dovrebbe tenerne conto, pensando anche al mezzo milione di connazionali che in Svizzera si guadagnano degnamente da vivere e soffrono di questa mancanza di dialogo, che rende anche più difficile la collaborazione soprattutto per la valorizzazione dell’italianità.

Giovanni Longu
Berna, 28.03.2012

21 marzo 2012

Berna capitale federale

Da 110 anni il Palazzo federale di Berna è il centro politico della Svizzera. Per chi volesse visitarlo o anche solo osservarlo dall’esterno, è interessante conoscerne la storia, che inizia con la moderna Confederazione (in seguito all’approvazione della Costituzione federale nel 1848) e aggiunge un capitolo importante allo sviluppo urbanistico della città di Berna e alla sua storia plurisecolare.

Secondo la Cronica de Berno del 1309, Berna sarebbe stata fondata nel 1191 dal duca Berthold V di Zähringen, ultimo discendente della potente dinastia dei conti di Brisgovia in Germania. A prescindere dall’anno di fondazione, che come accade per molte antiche città, è avvolto nella leggenda, Berna si sviluppò nel Medioevo come un centro politico e commerciale, destinato a diventare la capitale di uno dei Cantoni più grandi e potenti della Svizzera.

Sviluppo e fortificazioni
Inizialmente l’insediamento occupava solo la punta della penisola formata dal fiume Aare; successivamente si estese in direzione est-ovest lungo una serie di vicoli che fiancheggiano ancora oggi l’asse centrale costituito dalle strade Gerechtigkeitsgasse, Kramgasse, Marktgasse e Spitalgasse, oggi abbellite da palazzi storici e celebri fontane.
Protetta su tre lati dal fiume Aare, grazie alla sua posizione Berna divenne presto un importante mercato, ma stimolò per questo gli appetiti degli Asburgo, costringendola a cingersi di mura per difendersi dagli attacchi continui. Alla metà del XIII secolo la prima cerchia muraria arrivava fino alla Torre dell’orologio (Zeitglockenturm), che verrà in seguito più volte rifatta fino ai nostri giorni (l’orologio astronomico del 1530 è, come quelli di Soletta e di Aarau, uno dei più antichi della Svizzera).

Per garantirsi maggiore sicurezza, dal 1256 Berna accettò la protezione dei Savoia, già influenti nelle regioni occidentali della Svizzera, permettendole di estendersi oltre le antiche mura. Ben presto si circondò di nuove fortificazioni di cui facevano parte la Torre degli Olandesi (Holländerturm) e la Torre delle Prigioni (Käfigturm), che costituiva il principale passaggio a ovest. Questa porta, distrutta e ricostruita nel 1641-44, s’ispira nella parte bassa a un arco di trionfo con evidenti influenze del manierismo italiano.
Nel XIV secolo Berna continuò a crescere non solo urbanisticamente, ma anche come potenza territoriale e militare, soprattutto dopo la sua entrata (1353) nell’alleanza dei Cantoni primitivi Uri, Svitto e Untervaldo a cui si era aggiunta nel frattempo anche Lucerna. In questo periodo il perimetro urbano, delimitato da una nuova (la terza) cinta muraria, si estende fino all’attuale stazione ferroviaria, nel cui sottopassaggio sono visibili alcuni resti della Torre di San Cristoforo (Christoffelturm), demolita nel 1865.

Torre dell'orologio (Zytglogge)
Monumenti sacri e profani
Del periodo medievale Berna ha conservato l’originaria struttura, ma si è andata sempre più abbellendosi, col crescere della sua potenza e ricchezza, soprattutto nel secolo XVIII. Di epoca tardogotica, anche se più volte restaurati, sono alcuni monumenti sacri e profani quali la cosiddetta Chiesa francese (Französische Kirche), già appartenente a un monastero di Dominicani, la già ricordata Käfigturm, la Nydeggkirche, il Rathaus (municipio), lo Zeitglockenturm, il Duomo, ecc.). Sono invece di epoca successiva il Kornhaus (granaio), la singolare Chiesa dello Spirito Santo (Heiliggeistkirche), in stile barocco come il Burgerspital, entrambi vicini alla stazione, ecc.
Il nucleo antico della città, in ottimo stato di conservazione, è stato inserito nel 1983 dall’UNESCO nel Patrimonio mondiale dell’umanità.
L’ultima parte dello sviluppo urbanistico della città, al di qua e al di là della terza cinta muraria cambiò completamente aspetto quando Berna nel 1848 venne scelta quale Capitale federale per la sua posizione tra la Svizzera tedesca e la Romandia.
Berna era già una grande e bella città perché capitale di uno dei Cantoni più estesi e più influenti, ma non sufficientemente attrezzata per ospitare le autorità federali, ossia le Camere federali, il Consiglio federale e il Tribunale federale. La città dovette quindi affrontare subito un’importante trasformazione urbanistica, entro il perimetro difensivo dell’ultima cinta muraria di Berna (fortificazioni di San Cristoforo), di cui restano ormai ben poche tracce nella stazione ferroviaria e nella toponomastica (Grosse Schanze, dove oggi sorge l’Università, e Kleine Schanze, il parco col monumento all’Unione postale universale). Per le nuove costruzioni federali venne riservata la parte sud occidentale di quest’area con vista sul fiume Aare.

I primi palazzi federali
In attesa della costruzione di palazzi idonei, le varie autorità federali vennero alloggiate a titolo provvisorio in diversi edifici della città. Il Consiglio federale occupò l’Erlacherhof, palazzo settecentesco con influenze francesi (oggi sede del sindaco e dell’ufficio presidenziale di Berna); il Consiglio degli Stati teneva le sue sedute nel palazzo ancora oggi chiamato Rathaus des äusseren Standes, un bel palazzo con evidenti influenze francesi; il Consiglio nazionale svolgeva i suoi lavori nel vecchio Casino di Berna (del 1821), dove più tardi sorgerà il Palazzo del Parlamento, mentre il Tribunale federale disponeva di una casa privata (Isenschmidhaus) sull’odierna Amthausgasse. L’amministrazione federale, inizialmente costituita solo da poche decine di persone, era distribuita tra la sede della Zecca (dove oggi sorge l’Hotel Bellevue) e alcuni altri edifici.
In pochi anni Berna dovette provvedere alacremente alla costruzione non solo della prima sede del Parlamento, ma anche della stazione ferroviaria e di un albergo per ospitare i membri dell’Assemblea federale durante le sessioni e ricevere degnamente le delegazioni straniere.

Palazzo della Confederazione con Fontana di Berna

Fu ultimato per primo, nel 1857, il Palazzo della Confederazione (oggi Palazzo federale ovest), su un terreno che ospitava prima le officine comunali. L’edificio, che ricorda i palazzi fiorentini rinascimentali, ha una forma a U e racchiude un cortile d’onore e una fontana con al centro la statua che rappresenta non l’Elvezia tradizionale, ma la dea Berna, protettrice della città. Al suo interno l’edificio è bello ma non sfarzoso, come voleva il committente, ossia la città di Berna, pur essendo dotato di tutti i confort dell’epoca.
L’anno seguente, 1858, fu inaugurato il Bernerhof, un albergo di lusso di 123 camere, un grande salone, varie sale di conversazione, cinque cucine, illuminazione a gas, grandi lampadari dorati, riscaldamento centrale (il primo in Svizzera) a regolazione individuale, insomma il massimo di eleganza e di confort di cui si poteva disporre in quell’epoca. Particolare interessante: dal 1886 sulla carta da lettera del Bernerhof figuravano anche i nomi di altri tre alberghi succursali, uno a Torino, un altro a Firenze e uno a Nizza.
Nel 1957 era intanto arrivato a Berna (ma solo alla stazione di Wylerfeld) il primo treno proveniente da Olten. Solo l’anno seguente poté entrare in città, grazie alla messa in funzione del ponte in ferro sull’Aare chiamato la Rote Brücke, il ponte rosso, mentre era ancora in costruzione la stazione centrale (che sarà ultimata nel 1860). E’ durante questi lavori che vennero abbattute le ultime fortificazioni e qualche anno più tardi anche la Christoffelturm.
Ben presto il Palazzo della Confederazione si rivelò insufficiente per ospitare sia il Parlamento che il Governo e l’amministrazione federale. Perciò, sul terreno dove sorgeva l’ospedale della città, tra il 1888 e il 1892 venne costruito ad est del vecchio Casino un nuovo edificio simmetrico a quello già funzionante ad ovest. Anche questo palazzo (oggi Palazzo federale est), in stile neorinascimentale, ha la forma a U con cortile d’onore, ma senza fontana. Oggi ospita alcuni Dipartimenti, mentre gli altri sono alloggiati nel Palazzo federale ovest e in altri edifici amministrativi della città.

Il Palazzo del Parlamento
Per la sede del Parlamento era stata riservata l’area del vecchio Casino. Qui, tra il 1894 e il 1902 fu edificato il Palazzo del Parlamento raccordato agli altri due edifici, così che i tre edifici costituiscono il complesso architettonico che comunemente viene chiamato Palazzo federale.
Il Palazzo del Parlamento doveva costituire non solo l’ambiente idoneo ai lavori parlamentari (sale delle due Camere, sale per le commissioni e per i servizi parlamentari) ma un autentico monumento nazionale, tale da conferire gloria imperitura al Paese, simbolo dell’unità di tutte le comunità svizzere e anche testimonianza della sensibilità artistica nazionale. Il federalismo, già codificato nella Costituzione, si espresse nella costruzione di questo edificio attraverso la fornitura dei materiali più svariati (marmi, pietre, legni) da parte di quasi tutti i Cantoni. Per la costruzione non si badò a spese e l’esito fu pagante. Dal 1902, il Palazzo del Parlamento ha subito la prima importante ristrutturazione in questi ultimi anni, tra il 2006 e il 2008.

Giovanni Longu
Berna, 21.3.2012

14 marzo 2012

L’Italianità s’è desta

.
Chi pensasse che per l’italianità in Svizzera gli spazi si restringono sempre più deve forse ricredersi. E’ vero che il numero degli italofoni diminuisce vistosamente, ma per l’italianità sembrano invece aprirsi nuove prospettive. In questo senso fa ben sperare il neocostituito intergruppo parlamentare denominato «Italianità». E’ stato tenuto a battesimo il 7 marzo scorso in un celebre ristorante italiano di Berna dai copresidenti Silva Semadeni e Ignazio Cassis, entrambi consiglieri nazionali, con la partecipazione di una nutrita rappresentanza dei parlamentari italofoni o italofili già iscritti.

I due copresidenti, nella presentazione del gruppo, non hanno esitato a sottolinearne le ambizioni, in particolare quella di sollecitare la componente culturale italiana in Svizzera per riportare il dibattito sul piano nazionale e quella di sensibilizzare l’opinione pubblica sulle esigenze dell’italianità soprattutto a livello federale. Per evidenziarne la portata, all’incontro erano presenti, oltre ad una trentina di parlamentari, il presidente del Gran Consiglio ticinese Gianni Giudicelli, la presidente del Consiglio di Stato grigionese Barbara Janom Steiner, l’ambasciatore d’Italia in Svizzera Giuseppe Deodato e diversi giornalisti.

La svolta nella difesa dell’italianità
La difesa istituzionale dell’italianità a livello federale era affidata finora alla sola Deputazione ticinese alle Camere federali. Ora però, come ha sottolineato il presidente della Deputazione Fulvio Pelli, «occorre uscire da una concezione regionale dell’italianità per entrare in una dimensione nazionale e persino internazionale», con riferimento esplicito all’Italia, che resta «il nostro interlocutore principale».
Nell’accogliere l’auspicio di Pelli, l’ambasciatore Giuseppe Deodato non ha mancato di evocare le attese della collettività italiana presente in Svizzera, che potrebbe esprimere ulteriormente le sue enormi potenzialità, se la Confederazione si impegnasse maggiormente nella promozione della lingua e della cultura italiana. Purtroppo l’ambasciatore ha dovuto ammettere che dall’Italia non giungono buone notizie proprio sul fronte della conduzione dei corsi di lingua e cultura per il taglio dei fondi deciso dal governo Monti. Egli ha fatto anche cenno alle recenti difficoltà tra i due Paesi, ma ha anche detto che occorre superare gli aspetti politici e privilegiare il contesto più generale, che vede i due Paesi schierati l’uno accanto all’altro, vicini anche umanamente e amici.
Nei giorni scorsi anche l’ambasciatore svizzero a Roma Bernardino Regazzoni ha sottolineato che, nonostante le divergenze soprattutto in materia fiscale, i due Paesi sono «più uniti di quanto sembri» oltre che ottimi partner commerciali (nel 2011 l’interscambio tra l’Italia e la Svizzera ha superato i 35 miliardi di franchi).

Valorizzare il carattere nazionale dell’italianità
Tornando al tema dell’italianità, vorrei aggiungere che l’intergruppo parlamentare è uno strumento importantissimo per tenere vivi il tema e le rivendicazioni dell’italianità a livello parlamentare (anche ai fini di favorire una sua rappresentanza in Consiglio federale), ma non può fermarsi entro le mura del Palazzo. E’ certamente un buon segnale che a farne parte siano parlamentari di ogni partito e di ogni provenienza geografica, perché saranno in grado di valorizzare l’italianità fuori dei territori della Svizzera italiana. Non basta cioè scrivere e rivendicare i diritti dell’italianità in Ticino e sui giornali ticinesi, ma anche a Zurigo, a Berna, a Basilea, a Ginevra, ovunque in Svizzera.
Ma l’italofonia non potrà essere difesa validamente solo dai parlamentari federali. Occorre, a mio parere, che l’intergruppo promuova la valorizzazione della lingua e della cultura italiana tramite ogni altra istituzione e organizzazione che comprenda tra i suoi scopi anche questo. I gruppi di sostegno già esistenti vanno riconosciuti e sostenuti. Altri che intendono costituirsi vanno incoraggiati. E’ quanto mai auspicabile che tutte le componenti ispirate dalla e all’italianità si mettano in rete in modo che l’informazione circoli e le forze si uniscano. Sarebbe anche auspicabile che l’enorme ricchezza creatasi in questi ultimi decenni con l’esperienza dei corsi di lingua e cultura, sostenuti finora esclusivamente dallo Stato italiano, trovi una riqualificazione e collocazione all’interno di un grande progetto di difesa e valorizzazione di questa componente fondamentale della Svizzera, appunto l’italianità.

Giovanni Longu
Berna, 14.3.2012

Cittadinanza agevolata per la terza generazione

.
Da anni la parlamentare italo-svizzera Ada Marra sta conducendo una battaglia in favore della naturalizzazione agevolata per gli stranieri di terza generazione. Purtroppo la sua iniziativa («La Svizzera deve riconoscere i propri figli»), presentata al Consiglio nazionale nel 2008, sta incontrando ostacoli non previsti dalla stessa deputata, pur sapendo fin dall’inizio che le maggiori difficoltà sarebbero derivate dall’atteggiamento decisamente negativo dell’Unione democratica di centro (UDC).

Riprendo l’argomento già affrontato in precedenti articoli perché mi appare inspiegabile la lentezza della procedura a livello di commissione responsabile del Consiglio nazionale, che ha già esaminato l’iniziativa ed elaborato un progetto di legge e di modifica della Costituzione federale. Secondo Ada Marra, tale progetto è stato persino sottoposto per un parere ai Cantoni e sulla base delle risposte ottenute sono stati riformulati i due testi, pronti per essere trasmessi al Consiglio nazionale per la decisione di sottoporre o meno l’iniziativa al voto popolare. Infatti questo potrà aver luogo unicamente se il Consiglio approverà l’iniziativa, diversamente l’iniziativa decadrebbe. Spetta però alla commissione trasmettere il testo al Consiglio con una raccomandazione di voto.

Naturalizzazione a richiesta
Ben consapevole dell’opposizione che avrebbe suscitato in Parlamento e nell’opinione pubblica svizzera una proposta di «naturalizzazione automatica» già respinta più volte in votazione popolare, Ada Marra si era ben guardata dal presentare la sua iniziativa in questi termini. La proposta definitiva esclude pertanto qualsiasi automatismo e precisa che la persona interessata alla naturalizzazione agevolata (o i suoi genitori) debba farne richiesta. Persino Oskar Freysinger, uno dei massimi esponenti dell’UDC, mi aveva confermato in un’intervista (v. L’ECO del 29.6.2011) che sarebbe stato d’accordo a quanto sostenuto da Ada Marra, ossia «che si debba concedere molto facilmente il passaporto svizzero agli stranieri della terza generazione», purché non comportasse alcun automatismo, «ma solo dopo averne fatto domanda».
Insomma, tutto sembrava andare per il verso giusto fino al 23 febbraio scorso, quando la commissione ha deciso di sospendere per la terza volta (la prima nel 2010, la seconda nel 2011) i suoi lavori perché intende trattare il tema della naturalizzazione agevolata per gli stranieri della terza generazione nel contesto più ampio della revisione totale della legge sulla cittadinanza attualmente allo studio. Questa è a quanto sembra la motivazione ufficiale.

Cinismo o incomprensione?
Secondo Ada Marra, invece, l’iniziativa è ferma da oltre un anno in commissione per il boicottaggio dei membri dell’UCD, nonostante incontri il favore di tutti gli altri partiti, che la considerano un «progetto sensato ed equilibrato». La deputata socialista, figlia d’immigrati pugliesi, dotata di spirito battagliero e di grande passione civile, accusa gli oppositori all’iniziativa di «cinismo». La decisione di non trasmettere subito l’iniziativa al Consiglio nazionale non sarebbe altro che un pretesto per far pressione sui socialisti che vedono nella nuova legge sulla cittadinanza un peggioramento dell’accesso alla naturalizzazione per le persone più deboli socialmente ed economicamente.
A prescindere dalle questioni di diritto e procedurali che riguardano i meccanismi della preparazione dei testi di legge e delle modifiche costituzionali, appare chiaro che una parte consistente dei rappresentanti del popolo svizzero fa ancora fatica a comprendere non solo le ragioni del cuore dei giovani della terza generazione che aspirano alla naturalizzazione, ma anche quella che è divenuta ormai una questione di civiltà giuridica.
I giovani stranieri di cui si tratta sono infatti pienamente integrati e non si distinguono dagli svizzeri, salvo per il passaporto e per l’esercizio dei diritti politici, che vengono loro negati in base a concezioni giuridiche in via di superamento ovunque in Europa. Si tratta soprattutto di nipoti di immigrati venuti in Svizzera per lavorare, per svolgere molto spesso lavori necessari all’economia, che gli svizzeri non volevano più svolgere. Molti di questi all’età della pensione sono più rientrati al loro Paese, ma i loro figli (seconda generazione) molto spesso non li hanno seguiti, perché hanno trovato nella Svizzera la loro vera patria, anche senza averne il passaporto. Che cosa si deve dire a questo punto dei loro figli (terza generazione), che praticamente non conoscono altra patria se non quella in cui sono nati e cresciuti?

Un atto di civiltà
Piaccia o no la denominazione dell’iniziativa Marra, questi giovani sono figli di questo Paese e il loro riconoscimento come tali è non solo un atto di civiltà, ma anche di responsabilità. In altri tempi - perché la questione è sul tappeto della discussione politica da oltre un secolo – si sarebbe argomentato che è anche nell’interesse prevalente della Svizzera agevolare la loro naturalizzazione. Oggi tale argomento è meno invocato, perché nei fatti e nella vita sociale, economica e professionale (quasi) tutte le discriminazioni sono saltate (per fortuna!) e il contributo degli stranieri non è diverso da quello degli svizzeri. Proprio per questo ci si deve chiedere a chi giova continuare a considerare «stranieri» persone che sono integrate pienamente e considerano di fatto questo Paese la loro unica vera patria, pur senza rinnegare le loro origini e conservare magari legami affettivi con la patria dei loro nonni.

Giovanni Longu
Berna, 14.3.2012

07 marzo 2012

Femminismo e «genio femminile»

Il traguardo della parità donna-uomo sembra ancora un miraggio, soprattutto in alcuni Paesi islamici, mentre è stato in gran parte raggiunto nelle società più evolute, ad esempio in Europa. Eppure alcune disparità sul terreno delle retribuzioni, della partecipazione politica e soprattutto dell’accesso ai quadri superiori dell’economia, della finanza, dell’istruzione, della ricerca, dei media, ecc. saltano facilmente all’occhio anche in Paesi a democrazia consolidata come la Svizzera e l’Italia.
In Svizzera, fin dal 1981 il principio dell’uguaglianza tra donna e uomo è ancorato nella Costituzione federale e alla sua applicazione veglia dal 1988 un apposito Ufficio federale per l’uguaglianza fra donna e uomo. Dal 1996 è in vigore la legge federale sulla parità dei sessi che vieta, in particolare, ogni forma di discriminazione nell’ambito dell’attività lavorativa. Nonostante questo, l’attuazione del principio di uguaglianza resta un compito assai arduo.
In Italia, fin dalla sua entrata in vigore il 1° gennaio 1948 la Costituzione prevede la parità dei sessi in diversi articoli (3, 37, 51 e 117). Successivamente l’Italia ha fatto propria la normativa europea che ha precisato a più riprese, fin dal 1957 soprattutto il principio di parità delle retribuzioni tra lavoratori e lavoratrici per uno stesso lavoro. Basta dare tuttavia un semplice sguardo alle statistiche per accorgersi che si è ancora ben lontani dall’uguaglianza e dalle pari opportunità.

I movimenti femministi
Evidentemente resta ancora molto da rivendicare, da parte delle donne, e molto da fare insieme da entrambi i sessi. Se tuttavia si guarda un tantino al passato, si può facilmente concludere che la tendenza è senz’altro positiva. «Il mondo antico, ricordava un secolo fa il quotidiano ticinese Gazzetta Ticinese, volle la donna chiusa fra le pareti domestiche e interamente sottomessa al marito. Le leggi, i costumi e le religioni dimostrano all’evidenza questo fatto». Oggi, grazie anche alle rivendicazioni e alle lotte del movimento femminista, quel mondo, almeno alle nostre latitudini, è stato definitivamente trasformato, anche se la piena uguaglianza non è stata ancora raggiunta. Ma rivendicare non basta.
Agli albori del movimento femminista, verso la fine del Settecento, le distanze tra uomini e donne erano ancora enormi. L’iniziatrice del pensiero femminista, l’inglese Mary Wollstonecraft, nel suo romanzo intitolato «Maria» cercò di dimostrare che le donne, belle o brutte, virtuose o viziose, giovani o vecchie, sono sempre infelici». Contro questa infelicità derivante da ogni sorta di discriminazione cominciò il movimento femminista, partendo dalla coniugazione al femminile della famosa «Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino» (1789) della Rivoluzione francese, cominciando dal principio fondamentale: «la donna nasce libera ed uguale all’uomo in diritto».
Passare dall’affermazione del principio alla sua realizzazione la strada fu molto lunga e difficile. Fu altresì difficile far capire quali scopi si prefiggeva il movimento, anzi i movimenti femministi (perché ve n’erano diversi, ad es. cristiano-cattolico e protestante, operaio-socialista e anarchico, ecc.). La Gazzetta Ticinese registrava cento anni fa la sorpresa e gli interrogativi dell’opinione pubblica (maschile) in questi termini: «Muto per tanti secoli, e chiamato debole ed imbelle, il sesso muliebre, la metà del genere umano, finalmente si desta e, lanciando al suo antico oppressore, l’uomo, un cartello di sfida, intuona l’inno della redenzione. Donde mai questo insolito risveglio? Quali le cause? Quali le rivendicazioni e le conquiste a cui tende? Sono esse un bene od un male? […] Ecco il problema che si affaccia ed innalza, sotto il nome “femminismo”, il problema più grave ed importante che la storia dell’umanità ricorda, e che reclama una pronta soluzione».
Alla domanda generale: «Ma che cosa vuole il femminismo?», lo stesso quotidiano rispondeva: «L’abolizione dei privilegi mascolini; vuole che la donna sia proclamata eguale all’uomo, e in conseguenza che le siano riconosciuti gli stessi diritti dell’uomo. L’inferiorità civile, politica e sociale, in cui la donna è tenuta, per il femminismo, è una grande ingiustizia. Esso quindi proclama che le donne debbono poter liberamente istruirsi al pari degli uomini, concorrere a tutti gli impieghi e a tutte le professioni, lavorare ed essere retribuite nella stessa misura, avere in famiglia i medesimi diritti che ha il marito ed il padre e nella società gli stessi diritti politici degli uomini e la medesima considerazione. Quando la donna avrà ottenuto questo, la società umana sarà trasformata e rigenerata, ed un’era novella di pace e di amore regnerà sulla terra».

Superare le ideologie e le strumentalizzazioni
Per questo tipo di rivendicazioni evidentemente avere le idee chiare non basta, soprattutto quando gli ostacoli da superare sono sedimentazioni culturali che vengono di lontano e pretendono di giustificare svariati pregiudizi e privilegi.
Si accennava al «femminismo cristiano». Il suo principale ostacolo è stato una certa interpretazione dei libri sacri, secondo cui la donna sarebbe stata all’origine del peccato originale meritandosi di essere relegata ad un rango inferiore a quello dell’uomo. Per secoli, di fatto, la donna cristiana si è trovata in una condizione di netta inferiorità, pur senza mai impedire a numerosi movimenti femminili le legittime aspirazioni all’uguaglianza dei sessi proprio invocando lo spirito del Cristianesimo.
Anche il «femminismo operaio-anarchico» ha incontrato non pochi ostacoli all’interno dei movimenti socialisti e anarchici. Questi infatti, almeno inizialmente, contavano sul contributo delle donne soprattutto per accrescere la forza delle loro rivendicazioni. Del resto certe idee anarchiche volte al raggiungimento della felicità «nella gioia di vivere ed amare al cospetto della libera natura» e dell’ideale di donna «libera, uguale all'uomo, non più femmina, ma donna» non erano esenti da sospetti. In fondo, ritenevano molte femministe all’inizio del secolo scorso, «socialista o anarchico, l'uomo sarà sempre uomo, e vorrà opprimere la donna» (Gazzetta Ticinese).
Faticosamente, durante gran parte del secolo scorso, cercò di affermarsi un femminismo indipendente, fondando le proprie rivendicazioni di uguaglianza e pari opportunità non solo sulla demolizione incessante dei vari pregiudizi maschilisti, ma soprattutto sull’affermazione del proprio genio femminile. Si può essere d’accordo o in disaccordo su alcune rivendicazioni femministe sul sesso degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, come pure su certe spettacolarizzazioni dei nostri giorni (come la «rivoluzione femminista in topless» delle militanti Femen), ma non si può negare che i vari movimenti femministi hanno contribuito a conseguire risultati insperati fino a pochi decenni fa.

Il genio femminile
Evidentemente restano ancora traguardi importanti da raggiungere, ma guai se le rivendicazioni delle donne si riducessero all’imitazione degli uomini e finissero per provocare una sorta di competizione tra i sessi… per la supremazia. Scriveva nel 1916 il filosofo francese Teilhard de Chardin, che riconosceva come un valore il movimento di affermazione della donna, ma sperava che la donna non perdesse la sua femminilità e la sua capacità di illuminazione, idealizzazione, rasserenamento della sua presenza: «una certa emancipazione della donna può realizzarsi senza mascolinizzarla e, soprattutto, senza toglierle il carattere di potenza illuminatrice e idealizzatrice che essa esercita per semplice azione di presenza».
Più recentemente, nel 1995, il Papa Giovanni Paolo II, in una splendida lettera alle donne in vista della IV Conferenza Mondiale sulla Donna, promossa a Pechino dalle Nazioni Unite, auspicava anch’egli che si raggiungesse urgentemente «l'effettiva uguaglianza» tra uomini e donne in tutti i campi e dunque, ad esempio, la parità di salario a parità di lavoro, la tutela della lavoratrice-madre, le giuste progressioni nella carriera, l’uguaglianza fra i coniugi nel diritto di famiglia, il riconoscimento di tutto quanto è legato ai diritti e ai doveri del cittadino nella società, ecc.
Ma Papa Wojtyła auspicava anche che si mettesse in luce «la piena verità sulla donna» non solo come madre, sposa, figlia, sorella, lavoratrice, impegnata in tutti gli ambiti della vita sociale, economica, culturale, artistica, politica, ma anche semplicemente come donna, e si ponesse davvero nel dovuto rilievo il «genio della donna » in tutte le sue espressioni, anche come debito di riconoscenza dell’intera società. Pertanto: «Grazie a te, donna, per il fatto stesso che sei donna! Con la percezione che è propria della tua femminilità tu arricchisci la comprensione del mondo e contribuisci alla piena verità dei rapporti umani».
Giovanni Longu
Berna, 7.3.2012

29 febbraio 2012

100 anni fa: gli italiani e la ferrovia della Jungfrau

Nei giorni scorsi è stato rievocato il centenario della caduta dell’ultimo diaframma della galleria ferroviaria che porta alla stazione più alta d’Europa a 3454 metri sullo Jungfraujoch. La ferrovia a cremagliera della Jungfrau, allora la più alta del mondo, sarebbe entrata in funzione alcuni mesi più tardi, il 1° agosto 1912.


Minatori italuiani all’opera durante lo scavo della ferrovia
della Jungfrau attorno al 1900
 
Per commemorare questo centenario, La Posta emetterà un francobollo speciale. Nel presentarlo (La Lente n. 1/2012), in un lungo articolo intitolato: «’Volere è potere’ - Quando la forza di volontà smuove le montagne», l’autore ripercorre le tappe principali della costruzione di questa celebre ferrovia e ne ricorda a giusta ragione l’ideatore con queste parole: «Il progetto era scritto nel destino di questa meravigliosa meta alpina. Fu l’imprenditore tessile Adolf Guyer-Zeller a trasformarlo in realtà e a guadagnarsi così il titolo di «magnate delle ferrovie». Tutto vero, salvo che avrebbero meritato almeno un accenno anche i veri realizzatori dell’opera: gli oltre duecento minatori italiani e i pochi svizzeri che vi hanno lavorato nell’arco di 16 anni.
 
Minatori italiani poco prima della perforazione dell’ultimo
diaframma della galleria (foto: zvg/Jungfraubahnen)


Aveva ragione l’inviato speciale della Gazette de Lausanne che, cento anni fa, nel dare l’annuncio della perforazione dell’ultima barriera della galleria ai lettori romandi, concludeva il suo servizio con questa domanda in gran parte retorica: una volta completata questa ferrovia, gli stessi ingegneri e gli stessi minatori andranno a perforare altre montagne; ma la moltitudine di turisti che saliranno comodamente seduti nelle carrozze della Jungfraubahn si ricorderanno di coloro che hanno realizzato questa grande opera?
Eppure la storia di questa ferrovia alpina, quasi tutta in galleria, non può essere scritta senza ricordare il contributo degli italiani.

Un progetto audace e ambizioso
Originariamente la destinazione finale doveva essere la Jungfrau a 4158 metri. Si trattava di un progetto ardito, ma in quell’epoca in cui la «febbre ferroviaria» aveva contagiato tutti, Confederazione, Cantoni e Comuni, banchieri e imprenditori, niente sembrava impossibile. La difficoltà dovuta all’altitudine sarebbe stata superata sfruttando dapprima la ferrovia già esistente che dalla valle di Lauterbrunnen porta a Grindelwald passando per la Kleine Scheidegg (a 2061 m s.l.m.) e di qui seguendo un percorso in galleria attraverso le tre più famose montagne bernesi, l’Eiger, il Mönch e la Jungfrau senza superare la pendenza critica del 25%.
Per vincere le difficoltà tipiche degli scavi in galleria, la competenza ed esperienza acquisite dalla Svizzera durante le realizzazioni apparentemente ben più impegnative delle gallerie già ultimate o in via di compimento come quelle del San Gottardo, del Sempione e del Lötschberg, inducevano un grande ottimismo. Inoltre, la prospettiva di far salire sulla Jungfrau, comodamente seduti sul treno, decine di migliaia di visitatori era una motivazione in grado di superare qualsiasi difficoltà di natura tecnica. Per di più i soldi c’erano, la tecnologia era disponibile, la manodopera anche.
Già la manodopera! Si poteva facilmente attingere da quel grande serbatoio rappresentato dalle migliaia di italiani che ormai da alcuni decenni erano praticamente presenti in ogni grande impresa ferroviaria. Il censimento federale delle aziende del 1905 ne aveva censito ben 45.321 su un totale di poco più di 70.000 addetti alla costruzione delle ferrovie e delle strade, gli italiani risultarono ben 45.321. La parte restante era costituita da svizzeri (poco più di 20.000), tedeschi, austriaci, francesi. Nelle gallerie di montagna però lavoravano quasi esclusivamente italiani. Ne sarebbero bastate poche centinaia.
I lavori iniziarono alla fine del 1896. La prima tappa doveva portare in due anni alla stazione di Eismeer e nei successivi due in cima alla Jungfrau. Questa ferrovia (oggi di 9,34 km) doveva battere tutti i record, soprattutto in altezza, e rappresentare una sorta di consacrazione delle capacità tecniche e imprenditoriali bernesi, ma anche un simbolo per l’Oberland bernese com’era la Torre Eiffel per Parigi, che avrebbe attratto turisti da tutto il mondo.
Invece le difficoltà incontrate furono più grandi di quelle immaginate, i tempi si allungarono notevolmente, le spese raddoppiarono e per mancanza dei finanziamenti necessari si dovette rinunciare all’ultima tappa arrestando i binari alla stazione dello Jungfraujoch. Ciononostante, quello che inizialmente poteva apparire un sogno, divenne realtà e ogni anno la ferrovia della Jungfrau viene utilizzata mediamente da oltre 700.000 persone (765.000 nel 2011). E l’aspirazione di raggiungere comodamente in treno il Top of Europe a 3454 m s.l.m è in crescita.

Il lavoro degli italiani tra molti pericoli e disagi
La caduta dell’ultimo diaframma della galleria, il 21 febbraio 1912 alle ore 5.35, provocò un’immensa gioia tra i quaranta minatori italiani di turno che poco prima avevano preparato l’esplosione con una quantità inusuale di dinamite. Fra l’altro, volevano essere certi d’intascare il premio speciale in denaro previsto per la squadra (ognuna di circa quaranta operai) che per prima avesse sforato la parete che li separava dalla visione di quel panorama straordinario sul più grande ghiacciaio d’Europa, l’Aletsch, e sulle montagne circostanti. Essi non videro subito quel panorama, perché da quell’apertura di poco più di un metro di diametro arrivò loro addosso una ventata gelida. Raccontano però le cronache che fu per tutti loro una grande soddisfazione e tutti si abbracciarono. La stampa, sul posto già da alcuni giorni in attesa dell’evento, raccontò al mondo intero il prodigio che si era realizzato. Si parlò di «una delle nove meraviglie del mondo».
Le guide turistiche non riferiscono ovviamente la storia della costruzione della ferrovia e in particolare del contributo italiano. Tra gli invitati per festeggiare sul posto l’evento della caduta dell’ultima parete di roccia c’era però il pastore evangelico Niklaus Bolt, che racconterà in un romanzo per ragazzi la storia della costruzione di questa ferrovia speciale.
Quel romanzo, del 1913, in tedesco, è intitolato «Svizzero» e racconta la storia di uno dei pochi svizzeri che lavorarono in galleria insieme agli italiani. Era ancora un ragazzo e si chiamava Christen Abplanalp, ma gli italiani lo chiamavano «Svizzero». Prima di cominciare a lavorare, un collega svizzero aveva cercato invano di dissuaderlo: «Senti, ragazzo, sei quassù fra neve e ghiaccio, è terribilmente pericoloso: non vedi quanti sono già caduti ed hanno braccia o la testa fasciate? Ci devono essere uomini che si sacrificano e mettono a repentaglio la loro vita per compiere un’opera così grandiosa, ma gli italiani sono più abituati di noi». Ma il ragazzo, nel racconto di Bolt, replicò: «Sono più abituati a morire? Rimango proprio, non posso cedere».
Certo i minatori italiani erano relativamente ben pagati, soprattutto verso la fine dei lavori e ciascuno di essi poteva inviare in Italia ogni anno oltre 20.000 franchi su un salario di circa 26.000. La ditta metteva a disposizione quasi tutto, ma il lavoro era duro e pericoloso. Date le temperature costantemente sotto zero, spesso la dinamite gelava e non si poteva manipolare senza pericolo. Dopo ogni esplosione di dinamite l’aria diventava irrespirabile. Molti svenivano perché la ventilazione era spesso insufficiente. Ricordava Gazzetta Ticinese in un servizio del 2 febbraio 1912: «I 200 operai italiani addetti a tale lavoro hanno vissuto [gli ultimi] quattro anni a 3400 metri di altezza in mezzo alle nevi eterne, a temperatura polare, collegati col mondo solo da un telefono e dal cavo che trasportava fin lassù l’energia necessaria all’illuminazione, al riscaldamento, alle perforatrici, alle cucine, ecc.». Durante i sedici anni dei lavori ci furono molti incidenti che fecero quasi un centinaio di feriti gravi e una trentina di morti, tutti italiani con una sola eccezione.

«Senza gli italiani nessun tunnel»
Nella prefazione all’edizione italiana dell’opera di Bolt si accenna a una visita del vescovo Bonomelli agli operai del cantiere, nel corso della quale avrebbe detto: «Senza il vostro possente aiuto quest’opera gigantesca non potrebbe compiersi». Durante la piccola festa organizzata sul posto dalla direzione dei lavori per celebrare la caduta dell’ultimo diaframma di roccia della galleria, alla presenza di eminenti personalità del mondo ferroviario, toccò a un membro della direzione della Jungfraubahngesellschaft rivolgere i ringraziamenti a tutti partecipanti alla memorabile impresa «e non da ultimo ai capisquadra e ai lavoratori, i figli del Sud abituati al lavoro duro, perché senza di essi non ci sarebbe alcun tunnel».
Giovanni Longu
Berna, 29.2.2012



15 febbraio 2012

Condizioni per la crescita in Italia: stabilità e formazione

A una persona che vivendo in Svizzera osserva quanto succede in Italia, non sfugge l’anomalia delle tante discussioni apparentemente serie ma inconcludenti, come se in realtà non si volessero vere soluzioni efficaci. Diversamente non si spiegherebbe perché da troppi anni non si riesce a modificare ragionevolmente alcunché della Costituzione, non si riesce a superare l’irriducibile contrapposizione tra destra e sinistra (anche nelle sue forme leggermente più aggiornate di centro-destra e centro-sinistra), non si riesce a portare a termine alcuna riforma seria, a parte quelle poche che sta cercando di realizzare l’attuale governo sotto la spinta dell’urgenza e delle richieste perentorie di un’Europa sempre più germanizzata.

Sul sostanziale immobilismo e conservatorismo dell’Italia nel campo delle riforme e dello sviluppo pesano indubbiamente ragioni storiche e culturali, la discontinuità tra nord e sud, l’invecchiamento della popolazione, l’inadeguatezza della classe politica condizionata da interessi di parte. Credo tuttavia che una spiegazione delle difficoltà (o della impossibilità?) di concludere interminabili discussioni con soluzioni condivise ed efficaci sia la mancanza di metodo. Una lacuna grave per un Paese che ha dato al mondo due geni della metodologia nel campo della scienza, Galileo Galilei, e in quello della politica, Niccolò Machiavelli. Due esempi presi dall’attualità sembrano confermare quanto appena affermato.
Oggi sono in piena discussione due oggetti che stanno occupando molte pagine di giornali e gran parte delle tribune televisive di approfondimento (?!): la legge elettorale e la flessibilità del lavoro. Entrambi i temi sembrano fatti apposta per scaldare gli animi e accentuare le divergenze, mentre dovrebbero essere affrontati pacatamente e razionalmente per trovare soluzioni condivise ed efficaci. Perché ciò possa avvenire bisognerebbe tuttavia interrogarsi prioritariamente sugli obiettivi specifici che s’intendono raggiungere, perché, direbbe Machiavelli, il fine giustifica i mezzi e non va dimenticato che sia la legge elettorale che la flessibilità del lavoro sono mezzi e non fini.

Una nuova legge elettorale: perché?
Quanto alla nuova legge elettorale, visto che quella attuale sembra non andar più bene a nessuno, prima di andare alla ricerca del modello da adottare in Italia tra quelli esistenti o possibili, mi sembrerebbe metodologicamente più corretto e più efficace sciogliere preventivamente il nodo del suo scopo: a che cosa deve servire una nuova legge elettorale?
Da anni si parla di architettura dello Stato in funzione di un Paese più moderno, più dinamico, più competitivo, più giusto e più vicino ai cittadini. Ebbene, non credo che sia giudizioso discutere di legge elettorale senza prima discutere seriamente di questa architettura e aver individuato per lo meno alcuni punti fermi, con la consapevolezza che anche le costituzioni sono modificabili e devono seguire i mutamenti della società.
In questa ottica mi sembra che vadano affrontati con serenità ma anche con decisione temi fondamentali come quelli della Presidenza della Repubblica (presidenzialismo vero, semipresidenzialismo, presidenzialismo strisciante come quello attuale?), del bicameralismo (non andrebbe rivisto alla luce del federalismo e perlomeno ridotto drasticamente nel numero dei parlamentari?), dei poteri del governo e della governabilità (quanto conta la legittimazione popolare e quanto la fiducia di parlamentari senza vincolo di mandato?), della responsabilità dei giudici (deve valere anche per loro il principio: chi sbaglia paga?), dell’organizzazione territoriale dello Stato (servono davvero Regioni, Province e Comuni, enti intercomunali, ecc.?) del federalismo (fondato su quali principi e applicato in quale forma?), ecc.
Solo alla luce di un orientamento chiaro e condiviso sull’assetto futuro dello Stato mi sembra ragionevole stabilire la legge elettorale più adeguata. Essa non dovrà essere ispirata solo a un vago senso della «rappresentanza democratica», ma deve anche rispondere alle nuove esigenze di un Parlamento modificato (probabilmente nella struttura, nella funzione, nel numero dei parlamentari) e di un Governo chiamato a governare efficacemente e durevolmente. La discussione sulla nuova legge elettorale non dovrebbe nemmeno essere totalmente sganciata da quella riguardante il ruolo dei partiti e il loro finanziamento: perché lo Stato dovrebbe finanziare un sistema elettorale così scandalosamente costoso come quello attuale, tanto più che il popolo italiano ha vietato il finanziamento pubblico ai partiti?
Solo a questo punto trovo giudizioso chiedersi anche se all’Italia convenga più il sistema di elezione proporzionale o maggioritario, con sbarramento o senza, con indicazione della coalizione o senza (anche se prima o poi si dovrà decidere a chi spetti questa competenza). Meno importante mi sembra invece la discussione un po’ demagogica e strumentale circa le preferenze, ben sapendo che esse dipendono più che dalla competenza dei candidati dalla loro notorietà, dalla posizione nelle liste, dall’efficacia della campagna elettorale e in fin dei conti dai soldi investitivi per curare la loro immagine.

Il capitale umano dipende dalla sua formazione
C’è poi un altro tema che anima la discussione, quello sulla «flessibilità del lavoro», un’espressione di non facile comprensione, resa ancor più difficile perché sembra contrastare col famoso «articolo 18» dello Statuto dei lavoratori del 1970 (licenziamento discriminatorio e reintegrazione sul posto di lavoro) e con l’aspirazione di molti se non di tutti gli italiani al «posto fisso».
Di per sé, in una discussione seria sulla flessibilità del lavoro (che prevede anche la possibilità del licenziamento per motivi economici o di ristrutturazione di un’impresa), l’articolo 18 non dovrebbe rappresentare un ostacolo insormontabile, perché il licenziamento illegittimo e discriminatorio, per quanto grave e sanzionabile severamente, dev’essere ritenuto un evento eccezionale e non una prassi corrente. Purtroppo però l’articolo 18 (soprattutto nella parte che prevede l’obbligo per il datore di lavoro della reintegrazione del lavoratore ingiustamente licenziato) è visto negli ambienti imprenditoriali come un ostacolo allo sviluppo e al clima aziendale, mentre nel mondo operaio e sindacale è assurto a simbolo di garanzia del posto di lavoro, un diritto acquisito e non più rinegoziabile. Nell’immaginario collettivo questo simbolo ha anche contribuito ad alimentare un’altra idea che non ha alcun riscontro nella realtà, quella del «posto fisso» e garantito a vita.
A ben vedere si tratta di autentici equivoci, che si potrebbero facilmente superare se anche a questo riguardo si invertisse il metodo della discussione, ossia partendo dal fine e non dal mezzo per conseguirlo. Se l’obiettivo principale del governo Monti e di qualsiasi buon governo è quello di far crescere l’Italia, occorre anzitutto trovare un’intesa sulla necessità di rilanciare l’economia e sulle condizioni essenziali perché ciò possa avvenire nella prospettiva di uno «sviluppo sostenibile» anche per le future generazioni.
Una riflessione di questo tipo (prendendo in considerazione anche la situazione dei Paesi vicini) evidenzierebbe subito che per crescere l’economia italiana ha anzitutto bisogno di un quadro politico stabile e credibile di riferimento (per cui è imprescindibile un ripensamento senza preconcetti dell’assetto istituzionale dello Stato) e di un sistema formativo adeguato.

Investire maggiormente nella formazione
Ormai è un dato acquisito: nel mondo moderno non ci può essere sviluppo sostenibile senza un capitale umano ben formato. Purtroppo l’Italia, che può vantare numerose eccellenze individuali in molti campi, non ha un sistema formativo in linea con le esigenze di un’economia competitiva e di una società in trasformazione, anzi non esiste affatto un sistema diffuso di formazione professionale integrato nel mondo del lavoro. E poiché in un mondo globalizzato la formazione generale e specifica svolge un ruolo chiave sul piano della competitività internazionale e delle esigenze della società, la discussione fondamentale dovrebbe incentrarsi su questi aspetti e non su altri obiettivamente secondari o addirittura fantasiosi. Tanto più che anche sul piano individuale sono il livello di formazione di base e la formazione specifica e continua che determinano in buona parte le prospettive d’impiego e la durata dell’occupazione.
Per rendersi conto di quanto sia importante per l’Italia la qualità della formazione per lo sviluppo sostenibile e per la crescita economica e sociale basterebbe un semplice confronto con i Paesi maggiormente competitivi europei, ad esempio la Svizzera, in fatto di investimenti nell’istruzione e nella ricerca, di tasso di crescita e tasso di occupazione. E sono Stati in cui non esiste né l’articolo 18, né il posto fisso, ma nemmeno il licenziamento facile o sacche di forte disoccupazione giovanile e di lunga durata come nel Mezzogiorno d’Italia.
E’ su questi temi che la discussione dovrebbe svolgersi senza pregiudizi di alcun tipo per giungere in tempi brevi a soluzioni condivise. Diversamente passerà anche il governo Monti, ne verranno altri, e i problemi resteranno in attesa che qualcuno imponga anche all’Italia la cura che sta subendo oggi la Grecia.

Giovanni Longu
Berna, 15.2.2012

14 febbraio 2012

L’italianità in Consiglio federale

(Corriere del Ticino, 14.02.2012)
Da qualche anno si parla sempre più spesso, soprattutto in Ticino, della proposta di portare da 7 a 9 i membri del Consiglio federale. In questo modo si spera che la Svizzera italiana (e il Ticino) vi possa essere più facilmente rappresentata. Se n’è riparlato anche qualche giorno fa tra l’Ufficio presidenziale del Gran Consiglio e i parlamentari ticinesi a Berna. Un segnale importante della volontà politica dei rappresentanti della Svizzera italiana di insistere fino al raggiungimento dello scopo, più che legittimo.

Vorrei tuttavia fare osservare che per avvalorare tale richiesta non conviene far troppo conto sulla ripartizione territoriale della Svizzera operata dall’Ufficio federale di statistica una dozzina di anni fa. Le Grandi Regioni a cui si è fatto riferimento nella recente discussione (cfr. CdT del 10.2.2012) sono infatti solo sette (e non nove), una delle quali, il Ticino, non copre nemmeno l’intera area della «Svizzera italiana». Inoltre le 7 Grandi Regioni vennero create unicamente a scopi statistici per disporre di territori d’analisi comparabili a quelli delle unità territoriali (NUTS 2) della classificazione europea.
Per riuscire nella sacrosanta rivendicazione sarebbe preferibile, a mio modo di vedere, riferirsi piuttosto al carattere multilingue e multiculturale della Svizzera e alla necessità di conservare e anzi valorizzare la terza radice fondamentale della Svizzera, l’italianità, in nome della quale vennero eletti finora in Consiglio federale tutti gli italofoni da Stefano Franscini a Flavio Cotti. Non è sicuramente nell’interesse della Svizzera che questa componente venga sacrificata e nemmeno trascurata ormai da troppo tempo.

Riportare l’italianità in seno al Consiglio federale dovrebbe essere l’impegno di tutti.

Giovanni Longu
Berna, 10.02.2012