12 maggio 2010

Svizzera – Italia: prove di riavvicinamento

Ci eravamo abituati, in occasioni d’incontri ai massimi livelli tra autorità italiane e autorità svizzere, a leggere nei comunicati stampa successivi che le relazioni italo-svizzere sono «eccellenti». Dopo l’incontro del 5 maggio scorso tra la Presidente della Confederazione Doris Leuthard e il Presidente del Consiglio dei ministri italiano Silvio Berlusconi non c’è stato invece alcun comunicato dello stesso tenore, anche se la Leuthard ha definito l’incontro «cordiale e costruttivo». E’ facile dedurre che i rapporti italo-svizzeri non sono ancora tornati all’eccellenza di qualche anno fa, ma diversi segnali lasciando ben sperare.
In questi ultimi anni i rapporti tra i due Paesi si sono un po’ deteriorati, non solo a causa delle note vicende sullo scudo fiscale e dei modi poco riguardosi con cui è stato applicato (nei media elvetici si è parlato persino di «guerra fiscale»), ma anche per alcune esternazioni poco o per nulla diplomatiche di alcuni importanti ministri della Repubblica, per la problematica applicazione in Italia degli Accordi bilaterali tra la Svizzera e l’Unione europea e non da ultimo per il clima negativo che questa situazione ha generato nella collettività italiana.
Incontro italo-svizzero ai massimi livelli
Il fatto che sia stato possibile organizzare un vertice ai massimi livelli sta ad indicare l’interesse e la volontà di entrambe le parti a riprendere la via del dialogo per superare quanto prima le attuali difficoltà e riportare le relazioni italo-svizzere sul solco tracciato dal primo importante trattato tra i due Paesi del 1868, ancora in vigore nonostante siano trascorsi da allora ben 142 anni. I due Stati s’impegnarono allora a mantenere tra loro «amicizia perpetua e libertà reciproca di domicilio e di commercio». Non vi sono sempre riusciti, ma nella sostanza le relazioni italo-svizzere sono progredite ininterrottamente superando di volta in volta gli ostacoli del momento. Basti pensare che l’Italia è il secondo partner economico della Svizzera e il secondo principale fornitore. L’interscambio tra i due Paesi si aggira sui 40 miliardi di franchi l’anno.
L’importanza del recente incontro tra la Presidente Leuthard e il Premier Berlusconi, durato quaranta minuti, è data inoltre dal fatto che vi hanno partecipato anche due superministri della Repubblica, il ministro degli affari esteri Franco Frattini (che era intervenuto in modo forse poco accorto nella controversia tra la Svizzera e la Libia) e il ministro dell’economia e delle finanze Giulio Tremonti (principale responsabile della «guerra fiscale» e grande accusatore della Svizzera a causa del segreto bancario). La loro partecipazione è stata voluta da Berlusconi non solo perché dirigono due importanti ministeri, direttamente implicati nello stato delle relazioni bilaterali, ma probabilmente anche per far loro comprendere che le questioni con la Svizzera vanno affrontate e risolte globalmente.
Per l’Italia la Svizzera è infatti un partner di riguardo non solo per le intense relazioni economiche e finanziarie, ma anche per la presenza in questo Paese confinante di oltre mezzo milione di cittadini italiani. Anche per la Svizzera l’Italia è un partner eccezionale non solo per la vicinanza geografica, ma anche e soprattutto per molteplici ragioni storiche, economiche, culturali. Più che i problemi da risolvere sembrano dunque aver influito sull’incontro politico al più alto livello degli ultimi quattro anni i molteplici interessi comuni che i due Paesi intendono salvaguardare e sviluppare.
La Leuthard deve aver apprezzato davvero molto la disponibilità dell’Italia alla ripresa del dialogo, tanto da sentirsi ottimista anche nei confronti di Tremonti. Parlando con i giornalisti, la Consigliera federale ha riferito senza entrare nei dettagli che Silvio Berlusconi è rimasto colpito quando ha appreso che la Svizzera ha accettato e sottoscritto le norme dell’OCSE e ha già firmato nuovi accordi sulla doppia imposizione, fra l’altro con Paesi come la Germania e la Francia. E’ possibile che Berlusconi si sia chiesto perché non dovrebbe essere possibile trovare un’intesa anche con l’Italia. Sta di fatto, ha riferito la Leuthard, che egli ha insistito anche davanti a Tremonti sulla necessità di trovare una soluzione condivisa sulle questioni aperte con la Svizzera. E benché Tremonti abbia ripetuto anche in questa occasione che a suo parere «la Svizzera approfitta ancora troppo dei benefici del segreto bancario», la Leuthard ritiene che il ministro italiano, essendo «un uomo intelligente e pragmatico» saprà rivedere le sue posizioni con maggiore concretezza e positivamente.
Nella conferenza stampa dopo l’incontro con Berlusconi, la Leuthard si è mostrata visibilmente soddisfatta dell’atmosfera distesa che ha chiaramente percepito e ottimista circa la cancellazione della Svizzera dalla «lista nera» dei paradisi fiscali di Tremonti e la ripresa delle trattative per un nuovo accordo sulla doppia imposizione, senza tuttavia nascondere che permangono ancora divergenze importanti in alcuni dossier.
L’ottimismo della Leuthard era anche dovuto alla disponibilità di Berlusconi a perorare la liberazione dello svizzero Max Goeldi, detenuto in Libia, se necessario, pur sapendo che Gheddafi non è un interlocutore facile nemmeno per l’amico italiano.
L’uccellone Tremonti
Che il ministro Tremonti non goda di molta simpatia in Svizzera lo sanno tutti, ma dopo l’incontro con la Leuthard è probabile che anche nei suoi confronti l’atteggiamento di molti svizzeri cambi. Anzi ha già cominciato a cambiare, proprio in quella sorta di «riserva di caccia» in cui in molti sarebbero stati disposti fino a poco tempo fa a violare la legge pur di impallinare l’uccellone Tremonti.
Mentre la Presidente Leuthard incontrava Berlusconi in presenza di Tremonti e Frattini, quasi contemporaneamente nella Piana di Magadino in Ticino un altro esponente importante del governo svizzero, il Consigliere federale Moritz Leuenberger alludeva al ministro italiano con un’immagine che non lascia dubbi sulle scarse simpatie di cui gode in Svizzera e soprattutto in Ticino. Dopo aver riferito, tra il serio e il faceto, che quella Piana è come una specie di riserva in cui fanno tappa diverse specie di uccelli, alcuni provenienti dal sud, «in cerca di cibo e asilo dalle nostre parti», altri semplicemente in transito, Leuenberger ha poi ricordato che «ci sono anche uccelli che vengono qui per pochissimo tempo, nascondendo le uova in una cassaforte. In questi ultimi tempi, però, hanno paura di essere osservati da un grosso uccello predatore in agguato sui monti. Per questo viene chiamato l’uccellone Tremonti».
Il ministro Leuenberger ha accennato anche a un ex ministro, «l’altro uccellone Claudio Scajola nel frattempo già caduto dal nido», ma il richiamo principale era sicuramente il primo. Un modo forse poco diplomatico, ma efficace, nello stile del consigliere federale zurighese (già frequentatore del Cooperativo, locale storico della sinistra italiana di Zurigo), di sdrammatizzare situazioni che possono creare problemi, ma che in fondo, con un po’ di sana ironia, potrebbero essere ridimensionati e ricondotti alla sfera del normale.
Sviluppo dei rapporti culturali e scientifici
Spetterà probabilmente al Consigliere federale Didier Burkhalter cogliere i primi frutti del rasserenamento delle relazioni italo-svizzere. Parteciperà infatti a fine mese a Roma all’inaugurazione del MAXXI, il Museo nazionale delle arti del XXI secolo, uno dei più grandi musei d’Europa dedicato alla creatività contemporanea e all’innovazione nel campo delle arti e dell’architettura. Burkhalter vi parteciperà non solo come ministro della cultura, ma anche come rappresentante della Svizzera, l’unico Paese straniero invitato ufficialmente all’inaugurazione del 30 maggio, anche perché ha contribuito all’allestimento di una delle tre esposizioni inaugurali di questa importante istituzione culturale italiana.
E’ anche probabile che l’esponente svizzero approfitti della visita per segnalare che la Svizzera è interessata vivamente alla collaborazione con l’Italia in tutti i campi attinenti alla cultura, compresa la lingua italiana. Un terreno, questo, molto delicato e importante per la collettività italiana, non da ultimo perché proprio in questi mesi il Dipartimento diretto dal dinamico ministro Burkhalter sta mettendo a punto le ordinanze d’applicazione della nuova legge sulle lingue. Da queste ordinanze potrebbero derivare nuovi impulsi per una maggiore salvaguardia e valorizzazione della lingua italiana in Svizzera.
Si dà invece per certo che sono in corso trattative per attivare quanto prima la Commissione mista italo-svizzera per la ricerca scientifica, prevista dal trattato di collaborazione scientifica e tecnologica risalente al 2003, ma non ancora costituita. Senza questa commissione la collaborazione bilaterale non è efficace perché spetta ad essa «redigere programmi pluriennali e stabilire i settori prioritari e le modalità pratiche della cooperazione scientifica e tecnologica».
Siccome il ministro Burkhalter ha tra le sue priorità di governo anche il mantenimento della Svizzera ai massimi livelli mondiali dell’innovazione e della ricerca, la collaborazione in campo scientifico e tecnologico con i Paesi vicini, Italia compresa, non possono lasciarlo indifferente. Il suo carattere tenace e volitivo fanno ben sperare che i rapporti italo-svizzeri si rafforzino anche su questo fronte, senza dimenticare che uno scambio e una collaborazione ai massimi livelli dell’eccellenza è arricchente per entrambi i Paesi.
Le prove di riavvicinamento tra l’Italia e la Svizzera sembrano ben riuscite. Non resta che attendere qualche mese per verificare se le difficoltà maggiori sono state superate. Un indicatore sensibile sarà anche la reazione della collettività italiana in Svizzera al nuovo clima che si sta prospettando.
Giovanni Longu
Berna 12.05.2010

05 maggio 2010

4. Il Convegno di Lucerna per dar voce all’immigrazione italiana in Svizzera


Quarant’anni fa, 1970: anno cerniera per l’immigrazione italiana in Svizzera*

L’incombere della votazione sull’iniziativa popolare promossa dalla destra xenofoba guidata da James Schwarzenbach, prevista per il 7 giugno 1970, fece accelerare i tempi della ricerca di un’unità possibile tra le centinaia di associazioni italiane in Svizzera.

L’iniziativa Schwarzenbach prevedeva una limitazione della popolazione straniera al 10% di quella residente totale. Soprattutto gli italiani si rendevano conto che, se l’iniziativa fosse stata approvata dal popolo svizzero, molti di essi avrebbero dovuto lasciare definitivamente la Svizzera. Oltre alla paura di una tale evenienza, era diffusa la sensazione che gli svizzeri o comunque molti di essi considerassero gli stranieri unicamente come forza lavoro da sfruttare finché ce ne fosse stato bisogno. Il disagio soprattutto tra gli italiani, che costituivano la componente maggioritaria e trainante degli stranieri, era palpabile. Pochissimi, invece, avvertivano i segnali che annunciavano una svolta radicale nella politica migratoria svizzera, orientata alla stabilizzazione e integrazione degli stranieri, e nuove prospettive specialmente per la collettività italiana in Svizzera.
In questa difficile situazione, alcune associazioni italiane bene organizzate ritenevano che fosse fondamentale far sentire in forma unitaria la voce degli immigrati italiani su tutti i principali problemi che la riguardavano. Questa voce doveva esprimersi sia verso le autorità italiane e sia verso le autorità svizzere. Per questo occorreva anzitutto che la miriade di gruppi e associazioni (si parlava allora di oltre mille associazioni) si desse un coordinamento nazionale e possibilmente un organismo centrale rappresentativo e autorevole.
A sensibilizzare la collettività italiana immigrata pensarono soprattutto la Federazione delle Colonie Libere Italiane (FCLI) promuovendo incontri, dibattiti, convegni, prese di posizione. Alla FCLI si affiancarono ben presto le Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani (ACLI) e i Patronati. Insieme, agli inizi del 1970, proposero la convocazione di un Convegno unitario dell’Emigrazione italiana in Svizzera per mettere a punto strategia d’intervento e dar vita a un autorevole organismo centrale di riferimento in cui l’associazionismo potesse riconoscersi.
Risultati e limiti del Convegno di Lucerna
Il «Primo convegno nazionale delle associazioni degli emigrati italiani in Svizzera» si tenne a Lucerna il 25 e 26 aprile 1970. Vi parteciparono oltre 400 delegati in rappresentanza delle principali associazioni di immigrati in Svizzera, che salutarono il Convegno come un evento decisivo per l’immigrazione italiana in Svizzera.
Purtroppo disertarono il Convegno o non vennero invitate alcune rappresentanze dell’associazionismo moderato non appartenente all’area politica delle Colonie libere italiane, introducendo così in questo grande sforzo aggregativo un elemento di debolezza, che influirà sui risultati dell’incontro di Lucerna. Queste assenze e la netta prevalenza dell’area di sinistra tra le rappresentanze presenti (comprese le numerose delegazioni venute dall’Italia) contribuirono anche ad alimentare nelle autorità sia svizzere che italiane e nelle centrali sindacali svizzere un certo distacco e qualche timore sull’impostazione del Convegno.
Nell’intenzione degli organizzatori, l’incontro non doveva essere una specie di «muro del pianto» degli emigrati, come accadeva solitamente in incontri minori del genere, ma un punto di partenza «per superare la condizione di vittime ed essere protagonisti del nostro destino». Di fatto, anche in questo incontro prevalsero soprattutto le denunce: contro la concezione che vedeva «l’emigrante come merce» e la massa dei lavoratori «come strumento di manovra, volano regolatore delle congiunture, gente priva di ogni diritto civile perché così era più facile cacciarla via o farla arrivare secondo gli interessi dell’economia», «contro l’integrazione selettiva ed autoritaria che mira a spaccare i lavoratori stranieri fra primi della classe, a discrezione svizzera, e paria» ecc.
Le proposte restarono a livello di auspici piuttosto vaghi come le rivendicazioni dei «diritti civili di tutti i lavoratori stranieri», di «una politica della piena occupazione in patria», dell’«unità di tutte le forze rappresentative dell’emigrazione», di una maggiore collaborazione tra «emigrazione e sindacati», ecc.
Al di là degli evidenti limiti, il Convegno di Lucerna ha avuto un grande merito. Esso ha permesso per la prima volta nella storia dell’immigrazione italiana in Svizzera di discutere praticamente tutti i principali problemi degli emigrati italiani in Svizzera alla luce sia della realtà italiana sia della realtà svizzera. Nessun aspetto fu trascurato: il ruolo delle associazioni e dei sindacati, le relazioni tra emigrati e svizzeri, i problemi legati all’emarginazione, all’informazione, alla scuola, alla formazione professionale, all’integrazione, al diritto di voto nei comuni svizzeri, e naturalmente il problema di una rappresentanza unitaria dell’emigrazione italiana in Svizzera.
Il CNI principale risultato del Convegno di Lucerna
Il risultato più importante del Convegno di Lucerna fu indubbiamente l’elezione del Comitato Nazionale d’Intesa (CNI), che per oltre un decennio sarà l’interlocutore più importante delle autorità italiane in Svizzera. Ad esso veniva affidato il compito non facile di rappresentare «unitariamente» le anime di oltre 400 associazioni di base «per affrontare e risolvere concretamente i problemi dell’emigrazione».
Merito del Convegno di Lucerna fu anche la diffusione dello spirito d’intesa e la costituzione, sulla scia del CNI, di numerosi comitati d’intesa a livello cantonale, regionale e cittadino, che hanno contribuito a superare la frammentazione dell’associazionismo tradizionale settoriale. Molti di questi comitati d’intesa sopravvivono ancora e rappresentano uno dei pochi «luoghi» rimasti per l’incontro e lo scambio di idee della collettività italiana organizzata di una città o di una regione alla ricerca di un’«intesa» che resta comunque sempre difficile da trovare.
Il maggior limite del Convegno
Il maggior limite del Convegno è stato quello di non aver capito che in quegli anni la politica migratoria italiana e la politica immigratoria svizzera stavano cambiando radicalmente. Storicamente, il 1970 ha rappresentato per l’immigrazione italiana un anno cerniera, il primo anno in cui il tasso migratorio ha cominciato a diventare negativo, ossia il flusso dei rientri dalla Svizzera ha cominciato a superare quello dell’immigrazione dall’Italia. Ciononostante, la collettività italiana diveniva sempre più stabile e la permanenza in Svizzera sempre più lunga, non da ultimo a causa delle seconde generazioni che aumentavano di anno in anno. Anche la politica migratoria federale incentrata sulla rotazione della manodopera straniera stava mutando e prima o poi avrebbe affrontato decisamente i problemi della stabilizzazione e dell’integrazione degli stranieri.
Poche persone e poche associazioni italiane avevano intuito già nella seconda metà degli anni 1960 (ad esempio il centro italo-svizzero di formazione professionale CISAP) che alcuni problemi strategici come la formazione professionale dei giovani andavano impostati e risolti in collaborazione con le istituzioni svizzere. Occorreva guardare al futuro, soprattutto all’avvenire delle seconde generazioni e dunque alla loro integrazione piuttosto che continuare a recriminare sulla lunga tradizione di subalternità e umiliazioni subite. L’obiettivo principale non doveva più essere il ritorno ma l’integrazione, per divenire parte integrante del tessuto sociologico, culturale ed economico svizzero. Il Convegno di Lucerna, a mio parere, non ha saputo interpretare i vari segnali del cambiamento.
Timori da parte sindacale e delle autorità
Se ne è avuta qualche conferma già durante gli interventi degli ospiti del Convegno. L’osservatore del sindacato FOMO (oggi confluito nell’UNIA), ad esempio, tenne a sottolineare che era venuto «per osservare i lavori delle associazioni e non per partecipare» e che «i problemi sindacali vanno impostati e trattati dai nostri iscritti, nei nostri organi sindacali competenti».
Nonostante i saluti beneauguranti di molte autorità italiane e svizzere, dai loro messaggi traspariva anche un certo timore, legato sia all’orientamento generale del Convegno e sia alla tensione che si percepiva nel Paese a causa dell’iniziativa Schwarzenbach. Si aveva paura che eventuali prese di posizione troppo rigide e impegnative potessero rappresentare non solo un ostacolo alle trattative che stavano per essere avviate tra l’Italia e la Svizzera a livello di Commissione mista per l’emigrazione, ma potessero anche «dare esca ai promotori dell’iniziativa Schwarzenbach» (Ambasciatore Martino).
Ancor più esplicitamente, il presidente della Federazione svizzera dei lavoratori edili e del legno (FLEL) Ezio Canonica aveva declinato l’invito a partecipare al Convegno perché «consideriamo la tenuta del Convegno prima della votazione del 7 giugno prossimo sulla seconda iniziativa contro l’inforestierimento estremamente inopportuna e nociva ai fini della campagna che stiamo conducendo contro l’iniziativa stessa. La nostra partecipazione è suscettibile di aumentare ulteriormente il disagio e le difficoltà che la sgraziata iniziativa ci procura».
Successivamente, le parti più scettiche hanno avuto modo di ricredersi sui rischi del Convegno di Lucerna e soprattutto le autorità italiane hanno finito per apprezzare gli sforzi di aggregazione e collaborazione della collettività italiana. E’ difficile, tuttavia, anche a distanza di quarant’anni, tirare un bilancio conclusivo. Da una parte, infatti, è indubbio che sia il Convegno che il CNI quale suo principale derivato hanno rappresentato momenti fondamentali di maturazione e di consapevolizzazione della collettività italiana immigrata in Svizzera; dall’altra è pur vero che le prese di posizione e gli appelli del Convegno e del CNI non furono quasi mai tenuti in grande considerazione dalle istituzioni e pertanto hanno ben poco influito sull’evoluzione dell’immigrazione in Svizzera.

Giovanni Longu
Berna, 5.5.2010

* Gli altri articoli di questa serie sono apparsi il 10.3.2010, il 7.4.2010 e il 28.4.2010

28 aprile 2010

3. La reazione italiana alla xenofobia


Quarant’anni fa, 1970: anno cerniera per l’immigrazione italiana in Svizzera

Di fronte alla minaccia xenofoba, sul finire degli anni Sessanta del secolo scorso, le organizzazioni degli immigrati italiani cominciarono a sentire il bisogno di costituire un fronte comune per far sentire in forma unitaria sia alla politica italiana che a quella svizzera la voce di un disagio che andava diffondendosi sempre più a causa della difficile convivenza con la popolazione indigena. Le associazioni più consapevoli del pericolo xenofobo erano le Colonie libere italiane (CLI), ma non sempre trovavano interlocutori attenti né tra le autorità né tra le stesse innumerevoli organizzazioni italiane presenti allora in Svizzera.

In Italia, tranne il Partito comunista italiano (PCI), che aveva nelle Colonie libere le principali organizzazioni di riferimento, né il governo né le altre forze politiche prestavano molta attenzione a quel che succedeva in Svizzera, almeno fino alla metà degli anni Cinquanta del secolo scorso. Eppure a Roma giungevano sempre più frequentemente voci di un diffuso disagio della collettività immigrata a causa di presunte discriminazioni e della difficile convivenza con la popolazione locale.
In Svizzera invece, le CLI e altre organizzazioni di sinistra erano attentamente osservate dalla polizia federale, che aveva cominciato a schedarne gli attivisti «comunisti» più in vista, ritenendoli i principali responsabili del malcontento. A titolo forse di avvertimento, nel 1955 la Svizzera aveva anche cominciato ad espellerne alcuni (i più esposti o forse i più deboli) con l’accusa di essere dei sobillatori ed elementi pericolosi per la sicurezza interna dello Stato.
Delle Colonie libere italiane dirà qualche anno più tardi James Schwarzenbach, il fautore della più pericolosa iniziativa antistranieri della storia svizzera, che non meritavano l’attributo «libere» perché di fatto non lo erano in quanto asservite al Partito comunista italiano. Con l’anticomunismo dell’epoca, è probabile che dello stesso avviso fossero molti, mentre è certo che le autorità svizzere guardassero con sospetto tutto ciò che avveniva in seno alle Colonie proprio per il loro legame col PCI, il più forte partito filosovietico dell’occidente.
Le reazioni della politica italiana
Contro le espulsioni degli attivisti italiani reagirono non solo l’immigrazione organizzata, CLI in testa, ma anche il governo italiano attraverso l’Ambasciata d’Italia. Persino gran parte della stampa svizzera era insorta, chiedendo al governo federale di dire almeno chiaramente cosa fosse lecito e cosa no, senza appellarsi a giustificazioni generiche. Inutilmente. Infatti le schedature continuarono come pure l’espulsione di numerosi «comunisti».
In Italia, a chiedere un intervento forte del governo nei confronti della Svizzera erano proprio i comunisti. Ma ragion di Stato e il timore che una protesta decisa potesse nuocere ai numerosi italiani presenti in Svizzera e ai futuri flussi migratori, indussero il governo italiano alla massima prudenza. Del resto, sia l’Italia che la Svizzera preferivano scaricare i problemi sulla Commissione mista prevista dall’Accordo del 1948, pur sapendo che aveva ben pochi poteri e non era certo in grado di assicurare migliori condizioni di vita, di alloggio e assicurative ai lavoratori italiani immigrati.
Per cercare soluzioni stabili ai vari problemi che venivano sempre più spesso sollevati, l’Italia finì per ritenere che la sede più consona fosse non tanto la Commissione mista, ma la revisione dell’accordo del 1948. Così, all’inizio del 1961 l’Italia ne fece richiesta alla Svizzera, che non dimostrò grande entusiasmo, ben sapendo che, oltre a dover rispondere alle rivendicazioni italiane, non poteva ignorare la pressione che la piazza ed alcuni movimenti antistranieri esercitavano sul governo e sull’opinione pubblica.
Credendo di forzare la controparte a concedere quanto l’Italia chiedeva, nel novembre del 1961 si presentò in Svizzera il ministro del lavoro Sullo ufficialmente per raccogliere informazioni di prima mano sulle condizioni dei lavoratori italiani. In realtà, oltre ad indagare, il ministro rilasciò numerose interviste nelle quali elencava diverse rivendicazioni provenienti dagli ambienti migratori italiani (ricongiungimento familiare, scuola, assicurazione malattia, assistenza sociale, alloggio ecc.) da presentare alla Svizzera.
Creò tuttavia molto imbarazzo a Palazzo federale non solo la via poco diplomatica di presentare tali rivendicazioni, doppiando in questo modo i lavori negoziali in corso, ma anche la velata minaccia secondo cui «il governo di Roma, ove non si addivenisse ad un accordo soddisfacente potrebbe anche decidere speciali provvedimenti, volti a limitare l'emigrazione in Svizzera della mano d'opera italiana nuova, o ad avviarla soltanto verso quei cantoni che già riconoscono all'operaio italiano vantaggi evidenti». Il negoziato tra l’Italia e la Svizzera fu subito interrotto e solo più tardi fu possibile riprenderlo per concluderlo faticosamente il 10 agosto 1964.
Attivisti «comunisti» schedati ed espulsi
Nel frattempo, per non dare adito alla destra xenofoba di creare difficoltà al governo e di sollevare contro la sua politica l’opinione pubblica, le autorità federali tentarono in molti modi di introdurre freni all’immigrazione e di controllare meglio gli stranieri, soprattutto quelli che sembravano «pericolosi» per l’ordine pubblico. Il controllo delle organizzazioni di sinistra e degli attivisti «comunisti» si fece intenso, giungendo nel 1963 a un caso clamoroso. Insieme a numerosi attivisti comunisti, accusati di propaganda politica e di essere pericolosi per la «pace sindacale», vennero espulsi anche alcuni deputati comunisti venuti dall’Italia per tenere incontri pubblici in alcune associazioni.
La reazione nell’opinione pubblica fu enorme sia in Italia che in Svizzera. Intervenne anche l’Unione Sindacale Svizzera protestando energicamente contro l'espulsione dei lavoratori italiani, ritenendo che tale misura fosse in evidente contrasto con i principi democratici e con i diritti di uomini liberi in terra libera.
L’on. Pellegrino, uno dei politici comunisti espulsi, accusò espressamente le autorità federali di violazione del diritto internazionale e di «persecuzione politica anticomunista contro italiani in terra svizzera» e «un'azione razzista, schiavista, colonialista degli ambienti più reazionari del padronato elvetico, tacitamente assecondato in un primo momento da tutto il padronato svizzero per fiaccare lo spirito rivendicativo e di lotta dei nostri lavoratori».
Per le autorità svizzere, invece, gli attivisti comunisti e i politici italiani dovevano essere espulsi perché mettevano in pericolo la sicurezza dello Stato e poi una legge vietava agli stranieri non domiciliati di fare politica in luoghi pubblici, se non espressamente autorizzati. In realtà si voleva far capire anche alla destra xenofoba che il governo federale intendeva assumere in pieno il controllo della situazione degli stranieri. La destra era invece convinta del contrario e lo fece chiaramente intendere all’indomani della ratifica dell’Accordo d’emigrazione italo-svizzero, che riteneva troppo favorevole all’Italia.
Essendo parte marginale in Parlamento, i movimenti xenofobi potevano solo sperare nella riuscita di una iniziativa popolare che introducesse a livello costituzionale limiti precisi e invalicabili all’immigrazione. E tentarono quell’unica carta, ben sapendo di poter contare su un ampio seguito popolare. Del resto anche i sindacati, pur non approvando le iniziative antistranieri, erano favorevoli a una limitazione dell’immigrazione per salvaguardare meglio la manodopera indigena.
La reazione delle organizzazioni degli immigrati
In un primo momento, ben pochi si resero conto della pericolosità dell’iniziativa popolare lanciata da James Schwarzenbach nel 1969. Molti pensarono che sarebbe stata ritirata come avvenne per la prima delle iniziative antistranieri, quella del 1964 poi ritirata nel 1968 dietro alcune promesse del governo per contrastare la crescita dell’immigrazione. In effetti anche nel 1969 il Consiglio federale promise di intervenire più efficacemente che in passato per frenare l’immigrazione e stabilizzare la popolazione straniera residente. Ma il movimento di Schwarzenbach non gli credette, deciso a volere un pronunciamento del popolo svizzero, come in effetti avvenne nel 1970 e sul quale si tornerà in altro articolo.
Le Colonie libere furono tra le prime a rendersi conto dei rischi che stava correndo soprattutto l’immigrazione italiana e nel 1969 si fecero promotrici di un’ampia mobilitazione contro la destra xenofoba e rivendicarono persino nei confronti delle autorità federali il diritto di essere consultate. Sul finire di giugno 1969, la Giunta federale delle CLI organizzò un seminario di studio che coinvolse ACLI, INCA, ITAL, il Sindacato FOMO e altre organizzazioni, per affrontare alcuni temi scottanti dell’immigrazione italiana in Svizzera, le condizioni degli stagionali, gli infortuni, la formazione professionale, ecc. Nel luglio dello stesso anno, le CLI e le ACLI emisero un comunicato congiunto per presentare la reale portata dell’iniziativa di Schwarzenbach. Nel gennaio 1970, le due associazioni ACLI e FCLI si ritrovarono insieme ai patronati di emanazione sindacale (INCA, ITAL, INASTIS) all’Ambasciata d’Italia a Berna, Ufficio emigrazione e affari sociali, per discutere dell’applicazione della Convenzione italo-svizzera sulla sicurezza sociale.
Un altro momento di aggregazione delle principali organizzazioni italiane è stata la protesta per il modo di far politica nei confronti dei lavoratori immigrati in occasione dell’emanazione del decreto del Consiglio federale del 16 marzo 1970 sulla limitazione degli stranieri esercitanti un’attività lucrativa. Di questo decreto facevano discutere soprattutto le difficoltà e gli ostacoli posti al cambiamento del posto di lavoro, al cambiamento della professione e allo spostamento della residenza da un Cantone a un altro.
Ma l’associazionismo unitario dell’immigrazione italiana in Svizzera ebbe la sua consacrazione in occasione del Convegno di Lucerna il 25 e 26 aprile 1970, al quale sarà dedicato uno dei prossimi articoli.
Le associazioni italiane stavano lentamente prendendo coscienza delle loro possibilità e responsabilità, soprattutto nel denunciare manchevolezze e inadempienze sia da parte dell’Italia sia da parte della Svizzera. Ufficialmente sia il Governo italiano che il Consiglio federale non ne tenevano conto, ma stavano a sentirle, quelle almeno che riuscivano a far sentire la loro voce. Queste erano purtroppo pochissime, perché le altre erano per lo più scarsamente organizzate, senza mezzi, con pochi iscritti e assolutamente ininfluenti socialmente e politicamente.
(Gli altri articoli di questa serie sono apparsi il 10.3.2010 e il 7.4.2010)
Giovanni Longu
Berna, 28.04.2010

21 aprile 2010

La Svizzera e l’Italia attraverso il Ticino


Il Ticino è l’anello di congiunzione privilegiato tra l’Italia e la Svizzera. Senza il Ticino, probabilmente, la storia delle relazioni italo-svizzere avrebbe avuto andamento e intensità diversi. Com’è noto, i rapporti tra il Ticino e l’Italia non si sono sviluppati sempre come potrebbe far credere non tanto l’immediata vicinanza geografica tra le due regioni quanto i caratteri comuni che rendono il Ticino il Cantone «italiano» della Svizzera, il baluardo della lingua italiana nella Confederazione, il principale sostenitore dell’italianità, il «ponte» tra l’Italia e la Svizzera su cui transitano non solo merci e persone, ma anche idee, arte, cultura.


A sottolineare alcune di queste caratteristiche del Ticino ci ha pensato sabato scorso a Lugano il Consigliere federale Didier Burkhalter nella sua allocuzione in occasione del Dies Accademicus dell’Università della Svizzera Italiana (USI), l’unica università di lingua italiana al di fuori dell’Italia. Un’occasione ghiotta, per il giovane Consigliere federale, per sottolineare quanto gli stiano a cuore le caratteristiche del Ticino, l’internazionalità della scienza e della ricerca, ma anche la necessità di «avvicinare Berna al Sud della Svizzera». Ma a Sud della Svizzera c’è l’Italia, che il ministro della cultura svizzero vede come un partner importante con cui dialogare e collaborare, proprio sull’esempio dell’USI, che con la Lombardia e l’Università degli Studi di Milano dialoga e collabora intensamente.
La collaborazione italo-svizzera
Il Ministro svizzero della cultura ha accennato a più riprese ai rapporti italo svizzeri. Dapprima quando annuncia che è stato invitato a Roma alla prossima inaugurazione del MAXXI - Museo nazionale delle arti del XXI secolo, uno dei più grandi musei d’Europa dedicato alla creatività contemporanea e all’innovazione nel campo delle arti e dell’architettura. «La Svizzera parteciperà a questa cerimonia grazie alla vostra Università. Con la sua Accademia di Architettura e il suo Archivio del Moderno, essa ha contribuito all’allestimento di una delle tre esposizioni inaugurali di questa importante istituzione culturale italiana. Si tratta della mostra intitolata «Luigi Moretti architetto. Dal Razionalismo all’Informale». Grazie al vostro contributo, la Svizzera sarà l’unico Paese straniero presente all’inaugurazione del MAXXI».
Il secondo riferimento all’Italia riguarda la collaborazione italo-svizzera nel campo della ricerca, quando il Ministro Burkhalter ha annunciato che probabilmente si terrà in Ticino «il primo degli incontri ministeriali che abbiamo deciso di istituire con i responsabili italiani dell’istruzione superiore e della ricerca».
A questo proposito è bene ricordare che la Svizzera e l’Italia hanno già firmato nel 2003 un importante accordo di cooperazione scientifica e tecnologica. Esso prevede all’articolo 6 una Commissione Mista «che avrà il compito di redigere Programmi pluriennali e di stabilire i settori prioritari e le modalità pratiche della cooperazione scientifica e tecnologica». Purtroppo questa Commissione, composta di rappresentanti ministeriali e di esperti, non è stata ancora costituita, ma dal suo intervento al Dies Academicus dell’USI, l’omologo della Ministra italiana Gelmini, ha fatto capire che è venuta l’ora di mettere in piedi questa Commissione e dare avvio a un’effettiva collaborazione scientifica e tecnologica.
La Svizzera…
Ben sapendo che le classifiche internazionali hanno i loro limiti e possono rimescolare le posizioni di anno in anno, Didier Burkhalter ne ha ricordate alcune. «La classifica internazionale delle università del Times Higher Education colloca 4 università svizzere tra le 100 migliori al mondo. In Europa, solo la Gran Bretagna fa meglio e la Svizzera compete alla pari soltanto con la Germania e i Paesi Bassi». In un’altra classifica, «la Svizzera figura tra i Paesi più innovatori del pianeta, in seconda posizione dietro gli Stati Uniti, se si dà credito alla classifica annuale del World Economic Forum. Stando all'OCSE, la Svizzera è anche tra i leader mondiali per numero di brevetti depositati per abitante e si colloca al primo posto al mondo per il numero di pubblicazioni scientifiche per abitante».
Non c’è che dire. Eppure, Didier Burkhalter mette in guardia a non considerare le posizioni conquistate come acquisite per sempre. Tutto può cambiare in pochi anni. La concorrenza internazionale, prima riservata a pochi Paesi occidentali, ora è divenuta globale e Paesi un tempo esclusi dalla competizione sono divenuti nel frattempo «competitori agguerriti». Per questo, ha affermato il Ministro svizzero, «il nostro Paese, piccolo, flessibile e dinamico, deve progredire senza sosta per restare tra i top ten più innovativi e più performanti al mondo». E ricordando come anche in questi casi ben si addice il detto secondo cui «la miglior difesa é l'attacco» ha aggiunto che «dobbiamo dunque prendere iniziative, essere creativi, mantenere il nostro dinamismo e la nostra flessibilità».
In questo quadro, si capisce bene come la Svizzera intenda aprirsi sempre più alla collaborazione internazionale, aprire le proprie università ai migliori ricercatori del mondo, partecipare ai maggiori programmi di ricerca europei, rafforzare anche la collaborazione con l’Italia. Vi ha accennato il Ministro quando ha ricordato i valori che figurano nello slogan dell’USI («la Svizzera dovrà essere interdisciplinare, internazionale e innovativa») e quanto a ripetuto a più riprese che la parola chiave nella ricerca svizzera dev’essere l’eccellenza.
… e l’Italia?
Credo che sia anche nell’interesse dell’Italia avviare quanto prima questa collaborazione con la Svizzera, perché sicuramente ne avrebbe da guadagnare. Basterebbe chiedersi come si posiziona oggi l’Italia nelle classifiche internazionali ricordate in precedenza. Purtroppo, occorre dirlo, non fa una bella figura. Oggi la migliore università italiana, l’Università di Bologna, si colloca nella classifica del Times Higher Education solo al 174° posto tra le top 200, davanti all’Università di Roma La Sapienza, che occupa il 205° posto.
Secondo un’altra tra le più accreditate classifiche internazionali, stilata dalla Shanghai Jiao Tong University, solo 5 università italiane si collocano tra il 102° e il 202° posto (Università Statale di Milano, Università di Pisa, Università di Roma La Sapienza, Università di Padova, Università di Torino), 9 atenei tra il 203° al 402° posto, 6 tra il 403 al 510° posto. Tutte le altre università non figurano nemmeno nella classifica.
Sarebbe interessante fare un’analisi della situazione italiana, ma credo che sarebbe inutile perché non farebbe che ripetere valutazioni già note. Mi sia concesso tuttavia di aggiungere un elemento su cui ha insistito molto il Consigliere federale Didier Burkhalter nella sua allocuzione per il Dies Academicus dell’USI: per riuscire bisogna dare fiducia ai giovani, perché sono loro il futuro del Paese. Purtroppo della gioventù, ricordava il Ministro svizzero, si parla spesso solo in termini negativi, mentre se ne parla troppo poco in senso positivo, pur rappresentando «una forza d'innovazione e di progettualità straordinaria se solo si dimostra loro fiducia», «una gioventù brillante, intraprendente e positiva su cui la Svizzera ha la fortuna di poter contare». E su cui anche l’Italia deve poter contare.
Giovanni Longu
Berna, 21.4.2010 (L'ECO)

16 aprile 2010

Italianità in Svizzera: dibattito aperto

Mentre i rapporti italo-svizzeri ufficiali stentano a rimettersi al sereno, non si può dire che stia venendo meno l’interesse svizzero per l’Italia (probabilmente più che l’inverso) e tutto ciò che ha riferimento diretto o indiretto con l’italianità o italicità che dir si voglia.
Prendo come spunto per questa riflessione il recente saggio di Renato Martinoni, professore di letteratura italiana all’università di San Gallo, «L’Italia in Svizzera: lingua, cultura, letteratura, viaggi». Esso si riferisce soprattutto ai rapporti linguistici e culturali (in senso ampio) tra l’Italia e la Svizzera, ma è emblematico dell’interesse che c’è ancora per le cose italiane nonostante le note vicende di scarsa diplomazia tra i due Paesi.
In effetti l’interesse per l’Italia e per gli italiani, nel bene e nel male, compresi i pregiudizi da entrambe le parti non è mai venuto meno. Basta osservare il risalto che i media danno alle «notizie dall’Italia», accompagnato dalla meraviglia che suscita un Paese che continua a «tenere» nonostante la perenne conflittualità politica, il rischio di sgretolarsi da un momento all’altro a causa delle dinamiche opposte tra nord e sud, la presunta tendenza irreversibile al declino (soprattutto secondo certa stampa anglosassone).
L’interesse per l’Italia è grande in questo Paese. C’è la moda italiana che tira ancora. Ci sono i mille prodotti italiani che quotidianamente arrivano dall’Italia e sono consumati tanto dagli italiani quanto dagli svizzeri. C’è la Ferrari, c’è il Prosecco, c’è il made in Italy. C’è soprattutto l’Italia che già in questo periodo comincia ad attirare fortemente gli svizzeri per il suo mare, le sue spiagge, il suo sole, le innumerevoli città d’arte sempre belle da visitare.
A rafforzare l’interesse svizzero per l’Italia e il meglio dell’italianità c’è poi la presenza costante di mezzo milione di italiani che vivono in Svizzera. Non sono più i «Cincali» di una volta, muratori, lavapiatti e lavoratori e lavoratrici tuttofare, ma sono i più ben visti tra gli stranieri, anzi nell’opinione pubblica non vengano nemmeno più considerati stranieri, tanto sono ben integrati e li s’incontra praticamente ovunque e a tutti gradini della scala sociale e professionale.
A guardarli in faccia, a parlarci (in quale lingua? visto che ormai ne conoscono più d’una), non si direbbe nemmeno che sono italiani. In effetti, se non fosse per il passaporto, il cognome che portano e talvolta una particolare impronta somatica che ne attesta l’origine, potrebbero benissimo non essere italiani ma svizzeri. Invece sono italo-svizzeri, di fatto anche se non sempre di diritto, ossia un’entità sociologica nuova che va affermandosi sempre più e che meriterebbe di essere seguita più da vicino nella sua evoluzione.
E’ su questa nuova realtà che bisognerebbe focalizzare l’attenzione e la riflessione di coloro a cui sta a cuore l’avvenire dell’italiano e dell’italianità in questo Paese, invece di perdersi in tante chiacchiere inutili su questioni politiche italiane di scarso impatto pratico. E’ grazie a questo novum che il discorso in atto sul futuro dell’italiano e della cultura italiana in Svizzera assume una potenzialità quasi sconosciuta fino a una decina di anni fa. Per questo è importante che l’italofonia partecipi compatta a mettere in evidenza questa potenzialità e a progettarne e dirigerne il suo manifestarsi nei decenni a venire.
Giovanni Longu
Berna, 16.04.2010 [Internet]

14 aprile 2010

Diritto di voto agli stranieri

Il tema è sempre di attualità non tanto a livello federale, quanto a livello cantonale e comunale. A livello federale la Costituzione è chiara: hanno diritto di voto solo i cittadini svizzeri. A livello cantonale, invece, i singoli Cantoni possono decidere di concedere il diritto di voto e di eleggibilità anche ai non cittadini svizzeri, soprattutto a livello comunale.
Il diritto di voto e di eleggibilità è tornato di attualità nei mesi scorsi perché a marzo si sono tenute numerose elezioni comunali e cantonali e tra i candidati alcuni erano binazionali, ad esempio italo-svizzeri. Non so quanti di essi siano stati eletti, ma alcuni certamente. Il fatto che cittadini di origine migratoria abbiano potuto candidarsi ed essere eletti è stato per molti l’ulteriore conferma che per qualunque straniero che voglia fare politica attiva la via maestra è quella della naturalizzazione.
Un altro elemento che rende il tema attuale è che sono in corso di revisione alcune costituzioni cantonali, ad esempio a Ginevra, Vaud, Basilea Città. La domanda è semplice: prevederanno le nuove costituzioni l’estensione del diritto di voto attivo (diritto di votare e di eleggere) ed eventualmente anche passivo (diritto di essere eletti) agli stranieri a livello cantonale oppure lasceranno i singoli Comuni liberi d’introdurre il diritto di voto attivo ed eventualmente anche passivo solo a livello comunale? Non resta che aspettare l’esito delle revisioni in corso e successivamente il risultato delle votazioni popolari.
E’ lecito tuttavia azzardare dei pronostici. Alla luce di quanto è avvenuto in Svizzera negli ultimi anni non sembra realistico aspettarsi che qualche Cantone estenda agli stranieri il diritto di eleggibilità a livello cantonale ed è improbabile che aumenti il numero dei Cantoni che riconoscono il diritto di voto attivo. Ci sono invece buone prospettive che le nuove costituzioni cantonali lascino i Comuni liberi di introdurre il diritto di voto sia attivo che passivo a livello comunale.
Le resistenze a generalizzare il diritto di voto agli stranieri sono dovute essenzialmente a due considerazioni. La prima: tradizionalmente il diritto di voto è legato alla cittadinanza e poiché oggi la naturalizzazione, soprattutto per i giovani stranieri, è assai facilitata rispetto ad alcuni anni fa, molti svizzeri ritengono che se uno straniero desidera votare non ha che chiedere la cittadinanza svizzera. La seconda: da parte straniera la richiesta del diritto di voto negli ultimi anni si è notevolmente affievolita. Diceva recentemente un esponente del partito radicale ginevrino, Murat Julian Alder, al riguardo: «gli stessi stranieri non rivendicano il diritto di voto, essi comprendono bene la situazione».
Sembra difficile contestare tale affermazione. Basti pensare alla collettività italiana. Chi rivendica davvero il diritto di voto? Quali associazioni (tra quelle poche che ancora hanno un programma di attività) prevedono incontri, dibattiti su questo tema? Sembrerebbe anzi, purtroppo, che tutta l’attenzione sia rivolta alla salvaguardia dell’«italianità», nel senso di un’appartenenza più sentimentale che reale a un’Italia distante, esattamente come avveniva tra le grandi associazioni dell’epoca negli anni Sessanta e Settanta. Se l’informazione fornita dalla stampa destinata alla collettività italiana in Svizzera fosse un buon indicatore si direbbe che l’interesse al diritto di voto svizzero è pressoché nullo rispetto ad esempio all’interesse che sembrerebbe esserci per il diritto di voto degli italiani all’estero per l’elezione di parlamentari, rappresentanti del CGIE, Comites e quant’altro.
Eppure credo che il diritto di voto e di eleggibilità a livello comunale, dove cioè anche lo straniero ha i più forti interessi, sia un diritto che vada ancora rivendicato e possa, anzi debba, essere sganciato dal diritto di cittadinanza. Per molti stranieri di prima generazione, ma anche per una parte di quelli di seconda, il desiderio di poter contribuire col voto e con la partecipazione politica a risolvere i problemi locali è più forte del desiderio di cambiare nazionalità o di aggiungerne una seconda a quella che hanno.
Non va infine dimenticato che in questa direzione di grande apertura si sta muovendo l’Unione europea e di questa tendenza anche la Svizzera prima o poi dovrà tener conto. Tanto più che, soprattutto a livello comunale e di quartiere, il contributo che possono dare gli stranieri è estremamente importante e arricchente. Mentre appare sempre più ingiustificato che in certi Comuni, dove gli stranieri sono forse un quarto o un terzo della cittadinanza, non possano contribuire alla presa di decisioni che li riguardano. Per ottenere i risultati auspicati occorre che la tendenza in corso in Europa si rafforzi anche qui in Svizzera. Gli italiani, che furono tra i primi a rivendicare una partecipazione politica in questo Paese, non dovrebbero ridurre il loro impegno proprio ora.
Giovanni Longu
Berna, 14.04.2010

08 aprile 2010

La xenofobia degli anni Sessanta


Quarant’anni fa, 1970: anno cerniera per l’immigrazione italiana in Svizzera*

La xenofobia in Svizzera ha radici lontane (v. articolo del 10.3.2010), ma si è espressa con toni molto aspri a livello nazionale soprattutto negli anni Sessanta del secolo scorso. Il 1970 ha segnato il momento più acuto della xenofobia antistranieri (soprattutto italiani) in Svizzera.
Dal dopoguerra alla fine degli anni Sessanta, l’immigrazione dall’Italia aveva assicurato alla Svizzera il principale flusso di lavoratori stranieri. L’Italia rappresentava in assoluto il maggiore serbatoio di manodopera disponibile e relativamente a buon mercato dell’economia svizzera. Tra il 1951 e il 1970 vennero in Svizzera 1.766.064 italiani, uomini e donne, mentre i rientri furono 1.419.661. Il saldo migratorio risultante era ampiamente positivo (+346.403 immigrati), che andava ad accrescere la popolazione italiana residente stabile. Nel 1969, nel mese di agosto, erano presenti in Svizzera a vario titolo circa 670.000 italiani, di cui oltre 530.000 residenti stabili. 138.500 erano stagionali.
In breve, la presenza degli italiani alla fine degli anni Sessanta è massiccia e, grazie a una proliferazione di associazioni, anche fortemente organizzata, sia pure in maniera scoordinata. L’italiano è la lingua «franca» del momento. Il numero dei parlanti italiano non è mai stato così alto. Al censimento del 1970 l’italiano come lingua principale sfiorerà il 12%. Lo stile di vita italiano diventa contagioso soprattutto nel mangiare, nel vestire, nei comportamenti.
Per l’economia svizzera, il decennio 1960-1969 fu un decennio d’oro. Alcune cifre sono significative. Il prodotto interno lordo (PIL) reale della Svizzera (ai prezzi del 1970) è passato da 57.165 milioni di franchi (1960) a 85.230 milioni (1969). Nello stesso periodo il debito pubblico netto di Confederazione, Cantoni e Comuni è diminuito dal 22,8% del PIL al 15,6%. Il debito della Confederazione, da solo, è sceso da 5,8 miliardi (14,5% del PIL) a 6,2 miliardi (6,3%). Attualmente il debito pubblico della Confederazione ammonta a circa 111 miliardi (!).
«Senza italiani non c’è benessere»
Gli italiani contribuivano in misura determinante al benessere svizzero. In molti rami dell’economia erano divenuti praticamente indispensabili. Basti pensare alla costruzione degli impianti idroelettrici, all’edilizia in generale, all’industria metallurgica. Un giornalista di Basilea scrisse nella prima metà degli anni Sessanta una serie di articoli dedicati al tema: «Senza italiani non c’è benessere» (Ohne Italiener kein Wohlstand). Ciononostante, egli scriveva, in Svizzera lo straniero è considerato solo «forza lavoro e turista». Quando passa la frontiera per motivi di lavoro riceve solo un permesso a tempo determinato, in modo da poterlo rispedire a casa quando non serve più.
Nel 1964, consapevoli della loro forza non solo numerica e dell’appoggio di un governo italiano finalmente più attento ai problemi degli emigrati, gli italiani riescono a strappare dalla controparte svizzera un nuovo Accordo di emigrazione più vantaggioso di quello del 1848 ancora in vigore, ma era anche il minimo di quel che la Svizzera doveva agli italiani.
Nel dibattito parlamentare per la ratifica dell’Accordo era intervenuto anche il consigliere nazionale ticinese Nello Celio, che pochi anni più tardi sarebbe divenuto Presidente della Confederazione: «In collaborazione con l'eccellente operaio svizzero – egli disse - l'emigrazione italiana ha da noi impresso il marchio alle più grandi opere, dalle gallerie ferroviarie agli impianti idrici, e le grandi costruzioni del genio civile non avrebbero visto la luce se umili e meno umili lavoratori di quella nazione che nei tempi illuminò il mondo con la sua civiltà, non vi avessero posto mano. Il padronato svizzero non può misconoscere di avere, grazie alla mano d'opera italiana, risolto il problema della espansione ed i lavoratori del nostro paese, dopo aver fino a ieri predicato la solidarietà internazionale, non avranno dimenticato il contributo dell'estero all'incremento del prodotto sociale di cui essi stessi hanno beneficiato in larga misura».
Questo Accordo con l’Italia rappresentava in effetti per la Svizzera «una rottura nella politica migratoria svizzera» (M. Cerutti) ed era ritenuto dalla destra nazionalista troppo vantaggioso per gli italiani e pericoloso per la Svizzera perché spianava la strada all’«inforestierimento».
Xenofobia crescente
Ad attizzare l’odio verso gli stranieri aveva cominciato nel 1961 a Winterthur un piccolo partito, molto aggressivo, denominato: Azione nazionale contro l’inforestierimento del popolo e della patria (Nationale Aktion gegen die Überfremdung von Volk und Heima). Gli aveva fato eco due anni più tardi a Zurigo il «Movimento indipendente svizzero per il rafforzamento dei diritti del popolo e della democrazia diretta» meglio conosciuto come «partito anti-italiano» perché si autodefiniva anche «Partei gegen die Überfremdung durch Südländer» (partito contro l’inforestierimento da parte di meridionali). Alcuni fanatici cercarono di scatenare, tramite volantini e lettere razziste - in maggioranza anonime - utilizzando un lessico di stampo nazionalsocialista, l'odio contro gli stranieri e in particolare gli italiani, ormai provenienti in maggioranza dal Meridione.
Da allora i movimenti xenofobi si erano ampiamente diffusi in Svizzera e preoccupavano seriamente il Consiglio federale, che non poteva ignorarli, soprattutto dopo che una Commissione di studio insediata nel 1961 aveva messo in evidenza nel suo rapporto finale del 1964 la pericolosità di una ulteriore espansione incontrollata dell’economia svizzera basata su un costante aumento di lavoratori stranieri (pericolo di inforestierimento). Per di più anche i sindacati condividevano questa analisi.
E’ in questo contesto che si svolsero le difficili trattative per l’Accordo di emigrazione con l’Italia. A causa della pressione dei movimenti xenofobi e persino dei sindacati, il Consiglio federale fu costretto a concedere il meno possibile, ma comunque tanto o addirittura troppo per la destra nazionalista. Questa, tuttavia, non si arrese e insorse sulle piazze agitando lo spauracchio dell’«inforestierimento». Il 30 giugno 1965 depositò ben 59.164 firme per chiedere una modifica della Costituzione finalizzata a limitare drasticamente il numero degli stranieri.
Il Consiglio federale, che non negava l’esistenza del problema degli stranieri, riuscì ad evitare la votazione popolare promettendo di lottare contro l’inforestierimento, ma non nella forma chiesta dagli autori dell’iniziativa, bensì attraverso maggiori sforzi per l’«assimilazione» e la naturalizzazione agevolata degli stranieri residenti stabilmente in Svizzera. Promise comunque un impegno a ridurre nel tempo l’immigrazione e ad agevolare l’assimilazione.
Dietro promesse di riduzione e stabilizzazione della manodopera estera da parte del governo, l’iniziativa venne ritirata, ma l’ostilità nei confronti degli stranieri non diminuì, anzi si rafforzò nell’opinione pubblica e nella politica. Fu così che qualche anno dopo, il 20 maggio 1969, J. Schwarzenbach depose una nuova iniziativa ancor più radicale della precedente «contro l’inforestierimento», corredata di ben 70.292 firme valide.
I «Cincali»
A preoccupare molti svizzeri non era solo l’alto numero di stranieri presenti in Svizzera, ma anche e soprattutto il loro rapido aumento, specialmente degli italiani. Nel 1960 gli italiani residenti (domiciliati e annuali) erano 346.223. Il loro incremento rispetto al 1950 (140.280 residenti) era stato di ben il 147%. Al censimento del 1970 il loro numero risulterà ulteriormente aumentato a 583.855, con un incremento rispetto al 1960 del 169%.
L’aumento degli italiani appariva a molti preoccupante anche perché ormai si alimentava più che con nuovi arrivi dall’Italia grazie soprattutto all’incremento naturale. Se al censimento del 1960 risultavano nati in Svizzera 50.397 italiani, nel 1970 ne risulteranno ben 134.000. Solo nel 1965 i neonati italiani erano 17.855 (ca. 64% degli stranieri) e raggiungeranno la cifra record di 19.101 (il 64% di tutti gli stranieri) nel 1969.
Di fronte al forte incremento delle nascite degli italiani, le nascite degli svizzeri segnavano una leggera diminuzione. Molti svizzeri si domandavano preoccupati dove sarebbero arrivati gli stranieri, se non si fosse posto un freno all’immigrazione durevole. Tanto più che gli stranieri, soprattutto gli italiani, cominciavano a dare segni evidenti di voler restare in Svizzera più a lungo del previsto e con l’intera famiglia e di volersi organizzare sempre meglio con propri centri, associazioni, ristoranti, scuole, chiese, giornali, squadre sportive, attività commerciali, ecc.
I sentimenti xenofobi che covavano da diverso tempo in alcune cerchie di popolazione esplosero verso la fine del decennio considerato. I giornali vennero inondati di lettere, spesso anonime, che esprimevano non solo fastidio e paura per la presenza di «troppi» stranieri, che rischiavano di prendere il sopravvento sugli svizzeri, ma anche sentimenti di disprezzo e di odio. Gli italiani erano ormai quasi solo « «Tschingg» o «Cincali». Contro di essi venivano lanciate le accuse più comuni e più banali, che erano troppo rumorosi, arroganti, sporchi, primitivi, analfabeti, violenti, immorali, che inquinavano l’ambiente, rovinavano la qualità delle aree residenziali, ecc.
A queste accuse se ne aggiungevano altre, meno evidenti ma non meno efficaci, che finivano per considerare specialmente gli italiani degli estremisti, comunisti, rivoluzionari. Tanto è vero che molti attivisti venivano attentamente sorvegliati da una sorta di polizia segreta e schedati. Molti vennero anche espulsi, per dare una lezione a chi restava.
Al Consiglio federale, che andava dicendo che bisognava assimilare gli stranieri residenti stabilmente in Svizzera, i nazionalisti xenofobi rispondevano che soprattutto gli italiani meridionali erano «inassimilabili» e occorrevano nei loro confronti soluzioni radicali.
In questo ambiente maturò la crociata contro gli stranieri avviata da Schwarzenbach e che incontrerà un ampio sostegno popolare nel 1970. Gli italiani, però, non stavano a guardare.
* Il primo articolo di questa serie è del 10.3.2010.
Giovanni Longu
Berna, 7.4.2010

24 marzo 2010

Rapporti ancora instabili tra la Svizzera e l’Italia

Da molti mesi ormai i rapporti italo-svizzeri sono sotto l’attenzione dei media svizzeri. Purtroppo le informazioni che se ne ricavano non sono sempre come vorrebbero gli italiani che vivono in Svizzera. Dispiace soprattutto che si sia rotto quella specie di idillio che da decenni faceva registrare ad ogni incontro ufficiale che le relazioni tra i due Paesi erano «eccellenti». Probabilmente nelle dichiarazioni ufficiali si tende ad esagerare, ma non c’è dubbio che da qualche tempo, e soprattutto dall’attuazione del terzo scudo fiscale voluto dal ministro Tremonti, il clima sia mutato.
Anche se il provvedimento fiscale non ha provocato quel danno che molti ticinesi temevano, il contenzioso rimane aperto e le relazioni tra i due Paesi non sono molto migliorate. Resta infatti ancora viva, soprattutto in Ticino, la paura per la libera circolazione, anche se a detta di tutti gli studiosi, i benefici ch’essa produce sono superiori agli svantaggi. Per esempio, grazie ad essa arrivano in Svizzera principalmente lavoratori altamente qualificati, indispensabili per lo sviluppo dell’economia svizzera. In Svizzera, in particolare in Ticino, arrivano anche numerose aziende italiane che procurano nuova occupazione, e non è poco in un periodo in cui l’occupazione tende piuttosto a diminuire. Anch’esse contribuiscono a far sì che in questo Paese la crescita economica sia superiore alla media europea.
La crisi libica
Ultimamente, a turbare le relazioni bilaterali, si è inserita anche la crisi con la Libia e la sua estensione a livello europeo. L’Italia, secondo il ministro degli esteri italiano Franco Frattini, dalla vicenda che oppone Libia a Svizzera ne risulterebbe gravemente danneggiata se quest’ultima non cerca di risolvere a breve il problema dei visti Schengen. Ma le dichiarazioni di Frattini non sono piaciute ai responsabili della politica estera svizzera, che lo hanno accusato di esercitare pressione sulla parte sbagliata.
Sulla vicenda sono intervenuti anche alcuni parlamentari italiani eletti nella Circoscrizione Estero, facenti parte dell’opposizione, che hanno trovato «francamente indecente» che il ministro Frattini difenda la Libia («un governo dittatoriale») piuttosto che la Svizzera («una democrazia»). Per fortuna che l’on. Micheloni (PD), uno degli eletti, si è affrettato ad affermare di non vedere assolutamente, nelle mosse di Roma, un atteggiamento anti-elvetico e che «la reazione del governo Berlusconi è discutibile, ma va inserita nel timore di Roma di compromettere gli interessi economici e anche, forse soprattutto, l’accordo con la Libia per bloccare l’immigrazione clandestina nel Canale di Sicilia».
Certamente dispiace che la vicenda Svizzera-Libia si protragga così a lungo, e dispiace anche che a trovarsi coinvolta sia pure l’Italia, ma in questi casi la conflittualità non si risolve dando ragioni e torti da una parte o dall’altra, ma mediante soluzioni che convengano sia all’una che all’altra parte. Del resto, ad essere realisti e mettendo in primo luogo la ragion di stato, «i Paesi non hanno amici, ma interessi» (C. Blocher), un detto che dai tempi del Principe di Machiavelli non è mai stato smentito. Andrebbe però aggiunto che almeno gli alleati sono indispensabili, altrimenti le guerre solitarie si perdono.
Difficoltà interne e internazionali
E la Svizzera ha bisogno di alleati non solo per superare la crisi con la Libia, ma anche le varie difficoltà interne e internazionali del momento. All’interno si registra un certo clima di sfiducia nella politica e nelle istituzioni, soprattutto nel governo. Recentemente è stato clamorosamente battuto dal voto popolare su una sua proposta sulle pensioni. Resta sempre aperto il problema degli stranieri (integrazione e diritto di voto) e soprattutto dei «clandestini» (sans papiers) e degli stranieri delinquenti. Alcuni ministri godono sempre meno della fiducia dei cittadini e non si esclude che qualcuno non arrivi alla fine della legislatura.
All’estero le difficoltà non accennano a diminuire. Pur non essendo stata messa ko, come alcuni osservatori temevano, la Svizzera risente ancora dei duri attacchi inferti da diversi Paesi. Il consigliere federale Didier Burkhalter ha parlato di «una vera aggressione», da cui la Svizzera ha cercato di difendersi, pagando un caro prezzo d’immagine. Il bersaglio preferito non era solo il segreto bancario, ma più in generale il «sistema svizzero». E’ così che, citando una breve sintesi di Eros Costantini sul Corriere del Ticino di qualche settimana fa, la Svizzera è stata «tacciata di nazione «affaristica quanto vigliacca» (in Olanda e in Francia), quasi mafiosa (in Italia, ed è tutto dire), di «Paese doppiogiochista al limite della lista nera» (in Germania), di «nemica dei diritti umani e razzista» (in vari Paesi islamici, ed è pure tutto dire)», ecc.
Alcuni problemi con l’estero la Svizzera li ha risolti con nuovi accordi sulla doppia imposizione e con la rinuncia a distinguere frode ed evasione fiscale, altri li sta risolvendo con un miglior coordinamento con l’Unione europea, altri con una diplomazia più attenta. Chi tuttavia in questo Paese vive e ne segue sia pure a distanza le vicende interne ed internazionali sa che riuscirà a risolvere gli attuali problemi non solo grazie a una classe politica non distratta da interessi di parte e meno litigiosa che altrove, ma soprattutto grazie al sentimento di appartenenza di tutti gli svizzeri ad un Paese che è stato ed è fortemente voluto (è una Willensnation) e che si basa su un principio sempre valido: «tutti per uno, uno per tutti».
Ciononostante, ricordava poco tempo fa Franco Ambrosetti, presidente della Camera di Commercio del Cantone Ticino: «Le Alpi sono un ostacolo naturale ma grigionesi e soprattutto ticinesi dovrebbero fare qualcosa di più per avvicinare i due Paesi, non dimenticandosi che in Svizzera ci sono 600.000 italiani di prima e seconda generazione e che l'Italia è secondo partner commerciale della nostra economia dopo la Germania».
Giovanni Longu
Berna, 24.03.2010

Segnali contrastanti per il futuro dell’italiano in Svizzera

Da una parte lo Stato ritiene di fare del suo meglio per migliorare la situazione soprattutto a livello di personale federale, dall’altra il panorama dell’italiano parlato e studiato nelle scuole e all’università si fa sempre più desolante.
Proprio nelle scorse settimane sono stati resi noti numeri e tendenze dell’italiano studiato nella Svizzera tedesca e francese. Gli uni e le altre dicono chiaramente che l’italiano è sempre meno studiato soprattutto nei licei e nelle università, gli studenti preferiscono studiare altre lingue. Per rallentare questa tendenza è già intervenuto il Consiglio federale che intende stanziare 1,2 milioni di franchi per la formazione dei docenti che assicurano corsi di lingua e cultura italiana soprattutto ai figli dei migranti italiani. Si tratta di una cifra sicuramente interessante, ma non risolutiva del problema. Anzi, secondo il prof. De Marchi dell’università di Zurigo, «un intervento fuori tempo massimo perché i figli degli emigrati italiani sono perfettamente integrati e non studiano l’italiano».
Occorrerebbe che nelle scuole svizzere si desse più spazio allo studio dell’italiano e della cultura italiana, ma i Comuni e i Cantoni hanno sempre meno soldi da investire nella scuola e poi, le preferenze degli allievi e studenti vanno ormai in altre direzioni.
«Eppur si muove…» scriveva la settimana scorsa il senatore Filippo Lombardi, per indicare che a livello federale qualcosa si sta muovendo nel senso di una maggiore consapevolezza di Berna in favore dell’italianità e del plurilinguismo. Effettivamente sia il Parlamento che il Consiglio federale da qualche mese dedicano maggiore attenzione al problema linguistico nazionale e mostrano la volontà di intervenire, grazie anche alla nuova legge sulle lingue entrata in vigore all’inizio dell’anno.
Con grande soddisfazione il presidente della Deputazione ticinese alle Camere federali annunciava la settimana scorsa che presto potrebbe esserci un mediatore incaricato di promuovere l’italiano e il francese, oltre che vigilare sull’adeguata rappresentanza di queste componenti nell’amministrazione federale. Il Consiglio degli Stati ha dato infatti via libera a una mozione di Filippo Lombardi in questo senso e il Governo si è detto favorevole all’istituzione di un «ombudsman» all’interno dell’Ufficio federale del personale.
Quale «ombudsman»?
Prima di fare salti di gioia aspetterei i risultati. Non è infatti chiaro che «statuto» avrà questo «mediatore» e di quale autorità disporrà. Sembrerebbe anzi, da quanto riportato dai media, che sarà una persona «nominata» e non «eletta» (com’è invece il caso dei mediatori parlamentari). Soprattutto non si sa come potrebbe «promuovere» l’italiano e il francese senza mezzi finanziari a disposizione (è stato infatti già anticipato che la carica non comporterà oneri supplementari) e se, oltre a «vigilare» sull’adeguata rappresentanza di italofoni e francofoni nell’amministrazione federale, potrà anche «intervenire» (con quali poteri?) in caso di inosservanza della legge e delle ordinanze (quando ci saranno) sulle lingue. E se, ad esempio, per certi posti dirigenziali messi a concorso non ci fossero candidati idonei italofoni o francofoni? E poi, quale dev’essere la rappresentanza «adeguata» degli italofoni? Il 4,3% degli italofoni di nazionalità svizzera o circa il doppio degli italofoni senza distinzione di nazionalità?
L’interrogativo certamente più importante resta tuttavia un altro: chi dovrà e potrà promuovere l’italiano in Svizzera, non solo nell’amministrazione federale, ma anche nelle scuole, nelle università, nei musei, negli uffici postali, nelle stazioni ferroviarie, negli uffici delle imposte, negli ospedali, nelle chiese, ecc.? Una cosa è certa: nessuna legge o regolamento salverà l’italiano in Svizzera, ma a salvarlo saranno unicamente, se lo vorranno, gli italiani qui residenti, i ticinesi, i grigionesi di lingua italiana, gli italofoni in generale, ma anche quanti altri avranno a cuore la lingua di Dante, la cultura e l’arte italiana, le bellezze d’Italia, ma anche quel bel lembo d’italianità che si estende sul versante sud delle Alpi in territorio svizzero.
Prossimamente a Berna un gruppo di lavoro italo-svizzero tenterà di fare il punto sulle esigenze e sulle possibilità dell’italianità nella regione. Se dovessero emergere chiaramente possibilità concrete d’intervento, sarebbe un’occasione da non perdere e sviluppare anche in altre regioni della Svizzera tedesca e francese.
Giovanni Longu
Berna, 24.03.2010

17 marzo 2010

Alle origini della xenofobia (1)

Quarant’anni fa, 1970: anno cerniera per l’immigrazione italiana in Svizzera

Il 1970 è stato un anno fondamentale nella storia dell’immigrazione italiana in Svizzera. Esso è stato il momento più acuto della xenofobia antitaliana, ma l’ostilità verso gli italiani in Svizzera aveva radici lontane. Proviamo a ricordarle.

Nel 1848 la Svizzera si era data l’assetto istituzionale moderno di una Confederazione di Stati membri uguali, fondata sul reciproco sostegno all’insegna del motto che campeggia sotto la cupola di Palazzo federale «tutti per uno – uno per tutti». La Costituzione da sola, tuttavia, non bastava a unificare il Paese. Occorreva creare e rafforzare con azioni politiche comuni il senso di coesione nazionale tra Cantoni e popolazioni di origine, lingua, cultura, economia, religione differenti. Contemporaneamente la Svizzera doveva superare la propria arretratezza, anche per arrestare l’emorragia delle forze giovani della popolazione costrette dal bisogno ad emigrare.
Aprendosi decisamente all’industrializzazione e allo sviluppo, negli ultimi decenni del XIX secolo, la Svizzera divenne in breve tempo un Paese d’immigrazione, che richiamava decine di migliaia di immigrati dapprima dalla Germania, dall’Austria e dalla Francia e poi anche dall’Italia. Fino alla prima guerra mondiale la politica migratoria svizzera era molto liberale.
Per garantirne lo sviluppo industria e commerciale all’interno e verso l’estero occorreva soprattutto un’adeguata infrastruttura ferroviaria. Basti pensare che nel 1862 la Svizzera possedeva solo poco più di mille chilometri di ferrovia e ne occorrevano molti di più per competere con gli altri Paesi europei. Grazie agli immigrati, in pochi decenni la rete ferroviaria svizzera divenne una delle più fitte del mondo, con oltre 4700 chilometri di binario (1910).
La realizzazione di questa infrastruttura fu tutt’altro che facile, data la configurazione del territorio svizzero, soprattutto sulle direttrici nord-sud. Occorsero moltissime gallerie, anche lunghissime, e innumerevoli viadotti. Per la costruzione di queste opere gli italiani furono indispensabili. Le gallerie del San Gottardo, del Sempione, del Lötschberg, del Ricken, ecc. furono scavate quasi esclusivamente da italiani, spesso in condizioni disumane, che richiesero un alto tributo di sangue.
Il lavoro degli italiani e i loro sacrifici erano molto apprezzati nelle cerimonie solenni delle inaugurazioni delle opere finite e in quelle funebri delle numerose sepolture. Nella vita quotidiana erano invece generalmente malvisti. Quando per migliore le condizioni di lavoro e salariali gli italiani che scavavano la galleria del San Gottardo decisero di scioperare e l’impresa costruttrice decise di far intervenire l’esercito contro gli scioperanti uccidendone quattro, l’opinione pubblica svizzera si schierò contro gli italiani, considerati ingrati, avidi di denaro e pericolosi.
Ciononostante, gli italiani continuavano ad essere molto richiesti e venivano fatti arrivare ogni anno a decine di migliaia. Dai 14.000 circa che erano nel 1860 e poco più di 41.600 nel 1880, durante i grandi lavori ferroviari raggiunsero dapprima 117.000 nel 1900 e 203.000 nel 1910. Gli italiani sembravano indispensabili non solo per perforare le montagne, ma anche per l’edilizia in generale e per molte industrie. A loro, naturalmente, e non ai tedeschi o ai francesi, pur essi in forte crescita, erano affidati i lavori più gravosi e pericolosi.
Il problema degli stranieri e degli italiani
Sul finire del XIX secolo, alcuni intellettuali, giuristi e funzionari cominciarono a interrogarsi se e fino a quando l’ancora fragile Confederazione poteva sopportare una così massiccia «invasione di stranieri» in continuo aumento (erano quasi 400.000 nel 1900 e saranno più di mezzo milione nel 1910). In effetti, sulla base dei dati dei censimenti decennali della popolazione, nessun Paese civile aveva all’inizio del XX secolo una proporzione così elevata di stranieri (14,7% nel 1910), che in certi agglomerati superava abbondantemente il 30% (Zurigo 33,8%, Basilea 37,8%, Lugano 50,5%, Ginevra 42%, ecc.).
A preoccupare gli intellettuali e gli statistici non era tanto il numero degli stranieri, quanto la loro crescente importanza nell’economia, nella cultura, nelle università, nella società. Essi si riferivano soprattutto ai tedeschi, che in quell’epoca costituivano il gruppo straniero più numeroso e più influente.
«Il problema degli stranieri» rimase, tuttavia, per lo più un argomento di discussione senza riflessi sul clima sociale, anche perché la maggioranza degli stranieri costituita da tedeschi, francesi e austriaci che solitamente non poneva alcun problema d’inserimento nella realtà locale. Ad agitare l’opinione pubblica era invece «il problema degli italiani» (die Italienerfrage), perché erano loro che, fuori del Ticino, non riuscivano a comunicare (non conoscendo la lingua locale) e quindi non s’integravano, ma preferivano starsene tra di loro e conservare il più possibile le abitudini del loro Paese.
In questa situazione era facile che sorgessero conflitti sociali tra svizzeri e italiani, tanto più violenti quanto maggiore era la distanza linguistica, sociale, culturale e comportamentale tra le due parti. Sul finire dell’Ottocento, molti conflitti sociali degenerarono in risse, atti di violenza, tumulti, soprattutto nelle grandi città come Berna, Zurigo, Basilea.
Il clima, nemmeno tra gli operai era sereno. Riferendosi alla situazione di Basilea d’inizio Novecento, lo storico Peter Manz parla di frequenti manifestazioni di «xenofobia piccolo borghese» e di «xenofobia operaia», che sfociavano talvolta in «autentiche esplosioni di razzismo e di violenza» e persino in «tumulti spesso sanguinosi tra gruppi di operai indigeni e lavoratori italiani».
Si toccò il culmine nell’estate del 1896 quando a Zurigo scoppiarono i tumulti tristemente noti come «Italienerkrawall» o «Tschinggen-Krawall». Durante quei disordini si scatenò una vera e propria caccia all’italiano con atti di violenza, distruzioni e saccheggi di 22 case dove si trovavano negozi, caffè e ristoranti italiani. Nello spazio di una notte, tra il 28 e il 29 luglio, diverse migliaia di italiani dovettero scappare precipitosamente da Zurigo.
Perché la xenofobia?
Ancora oggi gli studiosi s’interrogano come mai ci fosse in quell’epoca tanto odio e tanta violenza nei confronti degli italiani, sebbene rispetto a tedeschi, francesi e austriaci costituissero una minoranza. Il maggiore «inforestierimento» (la parola Überfremdung risale all’inizio del Novecento) nella vita economica, politica e culturale era dovuto a loro e non agli italiani. Ma tedeschi, francesi e austriaci si erano ben insediati nelle regioni dove si parlava la loro stessa lingua, non avevano problemi di comunicazione, non disturbavano socialmente e si erano guadagnati stima e rispetto per le loro professionalità e lo stato sociale raggiunto. Gli italiani, invece, davano troppo nell’occhio con la loro lingua (solitamente il dialetto) incomprensibile, con i loro assembramenti rumorosi, col loro modo di vestire trasandato e con i loro comportamenti che sovente erano giudicati grossolani, primitivi e arroganti, spesso violenti (perché portavano sempre con sé il famigerato coltello) e persino immorali (perché, si diceva, importunavano le ragazze).
E poi gli italiani crescevano troppo in fretta, molto più velocemente di tutti gli altri stranieri. Per un popolo a basso tasso d’incremento naturale (bassa natalità) c’era di che preoccuparsi. Alcuni statistici avevano calcolato che se gli stranieri avessero continuato ad aumentare allo stesso ritmo, nel 1990 avrebbero costituito il 50% della popolazione residente.
Il fatto che gli italiani fossero indispensabili per sviluppare l’infrastruttura ferroviaria e l’edilizia industriale e residenziale della Svizzera non aveva alcun peso nella considerazione del popolo, preoccupato soprattutto di non perdere il posto di lavoro, il potere d’acquisto del salario, la casa, i valori tradizionali (legati soprattutto al mondo agrario), la tranquillità quotidiana. Eppure gli italiani non rappresentavano alcun pericolo, neppure per il lavoro, perché occupavano generalmente posti che gli svizzeri non volevano più occupare, tanto meno per il salario perché gli italiani erano costretti ad accettare quel che veniva loro offerto, senza alternativa. Erano venuti per lavorare, risparmiare e inviare soldi alle famiglie rimaste in patria; non potevano non accettare quanto veniva loro offerto. Non avevano in ogni caso aspirazioni di potere di alcun genere. Resta ancora oggi difficile spiegare il motivo o i motivi di tanto rancore e tanta violenza nei loro confronti.
Molti studiosi ritengono che la xenofobia nasce all’interno di una società complessa che non riesce a conciliare le diversità presenti, anzi le esaspera alimentando disprezzo, paura, risentimento e persino odio verso la parte considerata invadente e potenzialmente pericolosa. Per gli xenofobi, gli stranieri sembrano mettere a repentaglio la tranquillità di una società ritenuta omogenea, retta da un ordinamento, tradizioni, convinzioni, valori, messi in forse da abitudini, valori, comportamenti «diversi», quelli degli stranieri.
Anche per il grande scrittore svizzero Max Frisch all’origine della xenofobia ci sono sempre soprattutto contrasti culturali e sentimenti irrazionali di paura, d’invidia e quindi di disprezzo: «L’odio verso lo straniero è un fenomeno naturale. Esso nasce fra l’altro dalla paura che altri possano essere più abili in questo o quel campo, in ogni modo il loro impegno è diverso, diverso per esempio nell’assaporare la vita, nell’essere felici. Ciò suscita invidia, anche se ci si trova in una posizione privilegiata, e l’invidia sfocia in atti di disprezzo».
Non c’è dubbio che tra svizzeri e italiani d’inizio Novecento le diversità erano tante e rilevanti e, ciò che è forse più grave, mancava tra le due parti il dialogo, non solo per le evidenti carenze linguistiche, ma anche perché la maggioranza degli italiani, provenienti soprattutto dalle regioni del Nord Italia, non mostrava alcun interesse ad integrarsi in Svizzera, come dimostrano le poche naturalizzazioni e i relativamente pochi matrimoni misti dell’epoca. Per molti svizzeri questa «diversità» e questa «estraneità» apparivano intollerabili e pericolose più della stessa «Überfremdung» dovuta a tedeschi, francesi e austriaci.
Giovanni Longu
Berna, 17.3.2010