31 dicembre 2022

In ricordo di Franco Pesce e Cosimo Titolo

 Il 2022 che sta per finire è stato sotto molti aspetti un «annus horribilis». Fra l’altro si è portato via anche due persone molto stimate dalla collettività italiana di Berna e Regione per aver contribuito negli ultimi decenni al suo arricchimento morale e culturale: Franco Pesce (1932-2022) e Cosimo Titolo (1946-2022). Meritano pertanto di essere ricordati come figure emblematiche dell’immigrazione italiana della seconda metà del secolo scorso.

Desidero ricordarli insieme perché Franco e Cosimo avevano molto in comune. Anzitutto li accomunava la condizione di immigrati, che cercarono tutta la vita di migliorare, a vantaggio degli altri più che di sé stessi. Combatterono molte battaglie per rimuovere dalla vita dei connazionali ostacoli, privazioni o riduzioni di diritti. Promossero in vari modi la conservazione e lo sviluppo dell’italianità, ma nella consapevolezza, soprattutto negli ultimi decenni, che l’integrazione era la carta vincente delle generazioni giovani.

Franco e Cosimo avevano in comune anche la militanza politica nel Partito comunista italiano, che servì loro, sia pure in contesti diversi, per denunciare disservizi, carenze e (presunte) ingiustizie da parte dello Stato italiano e della Svizzera e per rivendicare maggiore rispetto, maggiori diritti e migliori condizioni da parte delle autorità di entrambi i Paesi.

Franco e Cosimo sono stati sempre molto attivi anche nell'associazionismo di tipo solidaristico (sindacati, Colonie libere, Casa d’Italia, CISAP…) promuovendo e sostenendo ogni sorta d’iniziativa che contribuisse alla soddisfazione sociale, culturale, morale e sportiva dei concittadini.

Entrambi saranno ricordati, almeno da chi li ha conosciuti, per il loro convincimento della radicalità dei valori democratici derivanti dall'antifascismo, dalla Resistenza e dalla Costituzione. Fra l’altro, Franco possedeva una splendida collezione filatelica sul tema della Resistenza e Cosimo, da presidente della Casa d’Italia, teneva moltissimo alle celebrazioni del 25 aprile. Franco e Cosimo (mi piace immaginarli insieme anche nell'aldilà) saranno ricordati anche per quella sorta di volontà redentiva della condizione di emigrati involontari che manifestavano attraverso l'impegno costante nella rivendicazione di giusti diritti, il lavoro coscienzioso, la solidarietà, la cultura, l’amicizia, lo sforzo d’integrazione quotidiana, la gioia della famiglia.

Franco ha avuto alla fine della sua carriera migratoria la soddisfazione di tornare per gli ultimi anni della sua vita alla sua amata Voltri, vicino a Genova, dove era cresciuto e si era formato come abile meccanico. Cosimo è rimasto fino all'ultimo in questo Paese, dove ha lavorato fino alla pensione come meccanico di precisione (dopo un corso serale al CISAP di Thun) e avviato un’attività commerciale a conduzione familiare. Non so quanto si sia goduto la meritata pensione. Certamente aveva in testa progetti a cui ha dovuto rinunciare.

Quando il 5 dicembre scorso ci siamo salutati alla Casa d’Italia in occasione della Festa del Socio, mi accennò al futuro della Casa d’Italia, ma senza formulare alcunché di concreto. Mi disse solo: «Caro Longu (così mi chiamava anche se ci conoscevamo da quasi 50 anni) prossimamente dobbiamo vederci perché alla Casa d’Italia bisogna organizzare qualcosa d’importante».

Totalmente all'oscuro di eventuali progetti, mi colpì il tono serio con cui mi disse queste parole e l’aggettivo «importante». Congedandomi gli assicurai la mia disponibilità a incontrarlo anche tra Natale e Capodanno e tra di me cercai d’immaginare di che cosa avremmo potuto parlare d’«importante»: forse come caratterizzare meglio la Casa d’Italia come centro d’italianità, come coinvolgere in questo progetto i giovani italiani della seconda e terza generazione, oppure chi sa di che cosa? Non fantastico più, perché l’ideatore se n’è andato, forse sperando che altri seguano le sue orme con lo stesso coraggio e la stessa idealità.
Giovanni Longu
Berna, 31.12.2022

21 dicembre 2022

Immigrazione italiana 1946-2000: 26. Considerazioni finali: 4. Anche gli immigrati grandi beneficiari (1)

La Svizzera e l’Italia sono state le principali beneficiarie dell’immigrazione italiana in Svizzera del secondo dopoguerra, ma anche gli stessi emigrati/immigrati e specialmente i loro discendenti ne sono grandi beneficiari. Chi volesse negarlo avrebbe parecchi argomenti a favore in riferimento alla prima generazione (perché, in un ipotetico bilancio, quel che ha dato è forse più di quel che ha ricevuto), ma non in riferimento alle generazioni successive. Infatti, osservando la popolazione italiana complessiva con un passato migratorio (compresi i doppi cittadini), si deve ammettere che già la seconda generazione ha beneficiato abbondantemente del benessere che la prima ha contribuito a creare. Pertanto mi sembra giusto considerare (in questo e nel prossimo articolo) anche la collettività italiana residente in Svizzera grande beneficiaria dell’epopea migratoria italiana della seconda metà del secolo scorso.

Beneficiari nonostante condizioni iniziali difficili

Per rendersi conto delle affermazioni precedenti basterebbe mettere a confronto, anche solo sommariamente, le condizioni iniziali della prima generazione e la situazione attuale complessiva riguardante l’intera collettività italiana.

Dei primi immigrati basterebbe ricordare le precarie condizioni abitative, l’incomunicabilità a causa delle difficoltà linguistiche, i grossi rischi che correvano i lavoratori nei cantieri di montagna e in alcune attività industriali, le frequenti morti sul lavoro, i disagi psicologici per la lontananza dalla famiglia, la mancanza di una rete sociale solidale, la percezione di non essere ben visti da una parte consistente della popolazione locale, la precarietà dei permessi, le espressioni spregiative con cui venivano talvolta designati gli italiani tipo «cinkali» o peggio «chaibe Tschingg» (lurido italiano) e «sau Tschingg» (porco italiano), ecc.

Se poi si aggiungessero le carenze scolastiche e l’impreparazione professionale di gran parte degli immigrati italiani degli anni Sessanta, si capirebbero facilmente i loro problemi d’inserimento non solo nella società, ma anche nel mondo del lavoro qualificato e le difficoltà a conseguire successivamente una qualifica professionale (eventualmente frequentando corsi serali e durante il fine settimana), a pretendere salari più elevati, a migliorare le condizioni abitative e il tenore di vita della famiglia, ecc.

Oggi basta guardarsi intorno, osservare come i pensionati italiani si godono la meritata pensione, parlare con gli immigrati rimasti di quei folti gruppi giunti in Svizzera alla fine degli anni Cinquanta e negli anni Sessanta e chiedere loro se la decisione di restare è stata un errore, osservare con quanta pacatezza giustificano tutte le loro scelte di vita, senza rimpianti e nostalgie, e quanto volentieri parlano della riuscita dei loro figli, che hanno potuto studiare, apprendere un mestiere «come si deve» e che oggi hanno un lavoro sicuro, ben retribuito e soddisfacente, una bella famiglia… per rendersi conto che la vita difficile e quasi eroica dei primi immigrati è ormai un lontano ricordo.

Beneficiari soprattutto i discendenti

Ovviamente non tutte le biografie che si possono ancora raccogliere hanno lo stesso tenore, ma in generale tutti i protagonisti parlano della loro vita migratoria con grande serenità, senza rancori, anzi con la soddisfazione di essere riusciti a soddisfare gran parte dei loro desideri e soprattutto di aver messo in sicurezza la famiglia. Alcune biografie, tuttavia, se fosse possibile raccontarle, direbbero che molti immigrati della prima generazione hanno potuto fare anche una bella carriera professionale, approfittando, non senza lungimiranza e molti sacrifici, delle numerose opportunità offerte dalla nuova politica immigratoria avviata negli anni Settanta.

Quegli immigrati, grazie a quella politica, ma soprattutto alla loro intraprendenza, al loro coraggio e ai loro sacrifici, possono essere considerati a giusta ragione anch’essi beneficiari dell’esperienza migratoria. Ma non c’è dubbio che a beneficiarne maggiormente sono stati i loro discendenti diretti e indiretti (seconda e terza generazione). Ad essi sarà dedicato il prossimo articolo, senza dimenticare tuttavia che la loro riuscita è dovuta in larga parte alla prima generazione.

Giovanni Longu
Berna, 21.12.2022

14 dicembre 2022

Immigrazione italiana 1946-2000: 25. Considerazioni finali: 3. L’Italia grande beneficiaria

L’Italia è stata tra i principali beneficiari dell’immigrazione italiana in Svizzera del secondo dopoguerra. Sovente, nelle trattazioni sull'emigrazione, si tende a considerare l’Italia quasi esclusivamente come fornitrice di manodopera a buon mercato e gli emigrati come vittime di un «destino cinico e baro» e di una cattiva politica. Raramente si accenna all'Italia quale beneficiaria primaria dell’emigrazione e agli emigrati come beneficiari di grandi opportunità. Una trattazione completa e veritiera non dovrebbe invece fare a meno di annoverare tra i maggiori beneficiari dell’emigrazione sia l’Italia, per i molteplici vantaggi che ha ricavato, e sia gli stessi emigrati, che a grande maggioranza hanno trovato nei Paesi di destinazione possibilità di lavoro e di riscatto sociale difficilmente realizzabili in Italia.

La politica emigratoria italiana del dopoguerra

Generalmente, all'origine del fenomeno emigratorio non c’è mai solo una causa, per esempio l’indigenza o la cattiva politica o la speranza di una vita migliore, ma un complesso di cause. Si emigra, infatti, quando la terra in cui si nasce non ha sufficienti risorse per far vivere e prosperare l’intera popolazione, quando le poche risorse disponibili non sono usate in modo giudizioso (basti pensare alle guerre, alla corruzione, alle preferenze di parte) o anche quando uno spera in una vita migliore, in un altro Paese e in altre condizioni, anche a costo di grandi rischi e sacrifici.

Nell'Italia del secondo dopoguerra molte cause inducevano a intraprendere la via dell’emigrazione: il disastro sociale ed economico provocato da una guerra insensata, le scelte politiche ed economiche dei primi governi, che consideravano l’emigrazione necessaria per poter inseguire il progresso, i forti contrasti ideologici tra i maggiori partiti che rendevano impossibile una politica economica e sociale condivisa su scala nazionale, le difficoltà esistenziali per ampie fasce di popolazione, l’esigenza di molti cittadini di cercare all'estero condizioni di vita più dignitose e sicure per sé e per la famiglia.

I governi del dopoguerra, rendendosi conto che la piena occupazione era impossibile, dichiaravano nei loro programmi che avrebbero fatto di tutto per eliminare alla radice le cause della disoccupazione e dell’emigrazione. Pensavano forse di dissuadere qualche emigrante dal partire? Non si direbbe, visto che tutti i governi vedevano di buon occhio l’emigrazione, incuranti che a partire fossero soprattutto i giovani al termine della scolarizzazione e in parte già avviati al lavoro.

L’emigrazione, in particolare quella verso la Svizzera, ha contribuito a risolvere o almeno ad attenuare numerosi problemi e anche per questo meriterebbe di essere meglio conosciuta e ricordata dagli italiani.

Italia grande beneficiaria

A distanza di decenni sarebbe azzardato e forse ingiusto emettere giudizi troppo severi sui governi del dopoguerra per il loro atteggiamento nei confronti degli emigrati e sulle responsabilità delle opposizioni nel ritenere anch'esse l’emigrazione una necessità, nell'attesa (illusoria) che l’impianto produttivo italiano, al nord come al sud, si (ri)mettesse a funzionare a pieno regime. Eppure è difficile evitare il sospetto che si sia lucrato sui sacrifici e sui risparmi degli emigrati, anche perché le loro abbondanti rimesse non servivano a colmare il divario tra nord e sud con investimenti oculati nelle regioni maggiormente colpite dalla disoccupazione e dall'emigrazione, ma per equilibrare la bilancia dei pagamenti.

A rendere l’Italia una grande beneficiaria dell’emigrazione italiana in Svizzera non sono state tuttavia, come si vedrà, solo le abbondanti rimesse dei lavoratori, ma esse hanno rappresentato sicuramente una specie di manna di cui hanno approfittato in tanti. Nel 1960, quando gli italiani residenti erano poco più di 300.000, L’Unità (organo del partito comunista italiano) stimava già l’ammontare delle rimesse, in 70 miliardi di lire. Negli anni seguenti sarebbero certamente aumentate con l’immigrazione in massa (soprattutto dal Mezzogiorno) e il boom economico della Svizzera, che distribuiva enormi benefici anche agli italiani, ovunque ricercati, benvenuti e ben trattati (almeno fino agli ultimi anni Sessanta).

A beneficiarne, come detto, sono stati in molti, in primo luogo, ovviamente, i diretti interessati (per consentire la sopravvivenza dignitosa delle loro famiglie), ma anche le località di partenza (basti pensare alla valorizzazione del patrimonio immobiliare), i governi che se ne servivano per aggiustare i bilanci dello Stato, la società civile che evitava dolorosi conflitti sociali e migliorava ovunque la qualità della vita, l’intera Italia la cui immagine veniva conosciuta in ogni angolo della Svizzera e alimentava ovunque la voglia di visitarla per la sua bellezza, la sua arte, i suoi prodotti, la sua storia.

Interscambio in crescita a favore dell’Italia

Il Presidente Sergio Mattarella in visita di Stato a Berna
col Presidente della Confederazione Ignazio Cassis 
Grazie alla presenza e all'intraprendenza degli italiani residenti in Svizzera, l’Italia ha potuto incrementare enormemente l’interscambio commerciale con la Svizzera, passando dai 227,7 milioni franchi del 1946 agli oltre 22 miliardi del 2000, con un saldo per l’Italia di 3,2 miliardi. Dal 2004, l'Italia è per la Svizzera il secondo partner commerciale europeo, dopo la Germania.

L’interscambio in continua crescita va visto, tuttavia, non solo come scambio reciproco di beni materiali, ma anche come volano dell’intensificarsi dei rapporti tra i due Stati in tutti i campi. Bene ha fatto, perciò, il Presidente della Confederazione Ignazio Cassis, nel salutare il Presidente della Repubblica Italiana Sergio Mattarella in visita di Stato in Svizzera a fine novembre, a evidenziare non solo il grande volume di scambi commerciali, ma anche «l'impatto che migliaia di lavoratori italiani hanno avuto nella nostra storia contribuendo più di altri al successo della Svizzera». Del resto, anche il Presidente Mattarella ha voluto sottolineare con «profonda soddisfazione» che «i rapporti tra Italia e Svizzera sono naturali, ampi ed intensi».

Briciole agli immigrati

Purtroppo solo in minima parte i benefici dell’interscambio tornavano agli emigrati/immigrati. Le autorità diplomatiche e consolari italiane, a cui certamente non sfuggivano le numerose critiche negli anni Sessanta e Settanta per i disservizi amministrativi (orari impossibili, scarsità di personale, mancanza di empatia, lentezza burocratica, ecc.), non facevano che ripetere ad ogni incontro ufficiale alla presenza di membri del governo, deputati, senatori, rappresentanti regionali, che il governo italiano era sempre vigile per tutelare il lavoro italiano all'estero e che si sarebbe adoperato per risolvere i problemi degli emigrati. Promesse in gran parte vane, parole al vento.

L'italianità travalica le Alpi

Almeno una parte avrebbe potuto essere restituita agli stessi emigrati, per esempio sotto forma di contributi alle associazioni, borse di studio per figli di lavoratori indigenti, agevolazioni per l’apprendimento della lingua locale, promozione di eventi culturali, biblioteche, abbonamenti, ecc. Invece alle associazioni, ai club, alle varie organizzazioni arrivavano solo briciole.

Solo nel settore della formazione l’Italia ha investito molto, mantenendo una struttura complessa ed esigente per l’organizzazione e la gestione dei corsi di lingua e cultura e per il sostegno, sebbene non sempre generoso, dei corsi di formazione professionale e della formazione del personale. D’altra parte, la ricompensa, per lo Stato italiano non è stata di poco conto. Chi osservasse le statistiche sull'evoluzione delle prestazioni scolastiche degli allievi italiani dagli anni Settanta al Duemila noterebbe che il livello si è costantemente alzato. E chi avesse la possibilità di osservare il numero delle qualificazioni professionali raggiunte dagli italiani nello stesso periodo resterebbe sorpreso. Grazie ad essi anche il prestigio dell’Italia in Svizzera si è notevolmente elevato.

Affermazione dell’italianità

In un’osservazione di lungo periodo l’evoluzione qualitativa della popolazione italiana in Svizzera è stata talmente positiva da trasformare nell'opinione pubblica svizzera una reputazione degli italiani decisamente negativa com'era alla fine degli anni Sessanta e nei primi anni Settanta in un sentimento di notevole apprezzamento com'è ampiamente diffuso oggi. Si direbbe che essere italiano oggi è «in», mentre prima era «out».

Per gli italiani oggi si parla di una «integrazione riuscita» e lo è per davvero, come si vedrà meglio nel prossimo articolo, ma occorre sapere che gli sforzi per raggiungere questo e tutti gli altri obiettivi sono stati enormi. Ed è soprattutto grazie ai contributi degli italiani che l’italianità ha raggiunto un livello mai raggiunto prima non solo in termini quantitativi (numero di italofoni, percentuale a livello nazionale dell’italiano come lingua d’uso, numero di allievi d’italiano, numero di pubblicazioni in italiano, ecc.), ma anche qualitativi.

Oggi l’italianità può contare non solo su un gran numero di italofoni, ma anche di personalità di grande notorietà in campo linguistico, scientifico, economico, politico, imprenditoriale, manageriale, giornalistico, letterario. Rafforzando l’italianità è cresciuto in Svizzera anche il prestigio dell’Italia, come Paese di riferimento essenziale.

Giovanni Longu
Berna, 15.12.2022

07 dicembre 2022

Immigrazione italiana 1946-2000: 24. Considerazioni finali: 2. La Svizzera principale beneficiaria

La Svizzera è sicuramente il principale beneficiario dell’immigrazione italiana del secondo dopoguerra. Infatti, è soprattutto grazie a questa (che rappresentava la grande maggioranza di tutti gli immigrati stranieri) che ha risolto numerosi problemi di natura non solo economica, ma anche demografica, formativa, sociale. Con l’arrivo in massa di milioni di lavoratori italiani e loro famigliari (anche se molti rientravano definitivamente dopo qualche stagione o anno) ha incrementato nella seconda metà del secolo scorso tutte le attività produttive e la diffusione in ogni angolo del Paese della prosperità, ha garantito l’approvvigionamento energetico, ha intensificato il sistema dei trasporti e delle comunicazioni, ha sviluppato il patrimonio urbanistico ed edilizio, ha migliorato l’equilibrio demografico superando il problema della bassa natalità autoctona, ha rafforzato la coesione nazionale valorizzando l’italianità e ha creato le basi per un ulteriore sviluppo economico, sociale, culturale della Svizzera.

Immigrazione necessaria e concordata

Nel dopoguerra l’economia svizzera aveva un grande bisogno di manodopera supplementare che non riusciva a soddisfare né sul mercato del lavoro interno né in quello dei Paesi da cui questa proveniva tradizionalmente prima della guerra (Germania, Austria e Francia). Solo l’Italia si dichiarò disponibile a fornirla e la Svizzera ne fece subito richiesta, dapprima senza tante formalità, poi, dal 1948, in base a un accordo formale chiesto dall'Italia, che restò in vigore fino al 1964, quando venne sostituito con un altro.

La lunga durata di questi accordi lasciano facilmente intendere che la convenienza a tenerli in vigore corrispondeva agli interessi sia della Svizzera che dell’Italia, ma anche degli stessi immigrati che continuavano ad alimentare i flussi. Pertanto, accusare la Svizzera di sfruttamento disumano della manodopera straniera o ridurre la migrazione a uno scontro tra imperialismo capitalistico e proletariato da sfruttare (come capita di leggere in qualche pagina dedicata al tema) è paradossale e indice di scarsa conoscenza non solo degli accordi bilaterali tra la Svizzera e l’Italia, ma anche degli organi di vigilanza (commissioni miste). Significa soprattutto far torto all'intelligenza e alla dignità dei principali protagonisti, gli immigrati.

Al riguardo giova ricordare che quando, prima ancora che finisse la guerra, l’Ufficio federale dell’industria, delle arti e mestieri e del lavoro chiese al Consiglio federale (governo) l’autorizzazione per reclutare in Italia, tramite la Legazione (allora non ancora ambasciata), lavoratori per l’economia svizzera, a tempo determinato o indeterminato, una delle condizioni vincolanti fu che gli stranieri venissero assunti alle stesse condizioni salariali e lavorative degli svizzeri. A queste condizioni fu possibile avviare i flussi immigratori dall'Italia (mai interrotti fino ad oggi, pur variando d’intensità), dapprima con accordi verbali, poi con accordi formali e organismi di controllo.

Fu tenendo conto di queste premesse che il 22 giugno 1948 si giunse alla firma, a Roma, di un vero e proprio accordo di emigrazione/immigrazione tra i due Paesi. Nel rileggerlo, oggi, insieme ai resoconti del relativo negoziato, si intuisce facilmente che la Svizzera si trovava allora in una posizione di forza rispetto all'Italia, perché era in grado non solo di assumere la manodopera estera di cui abbisognava, ma anche di fissarne le condizioni. Una, indicata esplicitamente dal Consiglio federale ai negoziatori, stabiliva che i governi interessati garantissero la disponibilità a riaccogliere i propri connazionali qualora non fossero stati più necessari alla Svizzera. Doveva cioè essere chiaro che gli emigranti erano funzionali in numero e qualità alle esigenze dell’economia e fintanto che l’economia ne avesse bisogno.

Collaborazione, non «resa»

I negoziatori italiani, non si sa con quanta convinzione, firmando l’accordo ne accettarono le condizioni, ma per l’Italia non si trattava di una sorta di atto di resa (come sembra invece ritenere un noto «storico delle migrazioni») ma di una nuova forma di collaborazione che avrebbe potuto intensificarsi anche in altri campi oltre la migrazione. In effetti il governo italiano, allora a guida democristiana, contava di migliorare subito gli scambi commerciali con la Confederazione, di riuscire a «trovare alla nostra sovrappopolazione quegli sbocchi che avrebbero permesso […] di poter ristabilire un certo equilibrio» (come auspicavano anche i partiti dell’opposizione) e persino di poter «riequilibrare la bilancia dei pagamenti con le rimesse degli emigrati». Oltretutto il partner dell’accordo sembrava solido e affidabile.

La diga Grande Dixence, una delle più grandi del mondo.
In breve, al governo italiano quell'accordo sembrava l’espressione di una comune volontà di due Stati amici di collaborare alla soluzione dei rispettivi problemi, non solo economici, ma anche sociali e politici. Se l’Italia sperava di riuscire ad alleggerire con l’emigrazione «il fardello della disoccupazione, generatore di tensioni sociali» e allo stesso tempo «di esorcizzare lo spettro dell’ascensione al potere del partito comunista», allora all'opposizione, anche la Svizzera vedeva in quell'accordo una forma di collaborazione che garantiva alla sua economia di poter contare a lungo sulla qualità dei lavoratori italiani (già sperimentata nella realizzazione della fitta rete ferroviaria a cavallo tra Ottocento e Novecento) e di poter reperire sul mercato del lavoro italiano la manodopera di cui avrebbe potuto aver bisogno.

Inoltre, la Svizzera, che risultava la maggiore beneficiaria dell’accordo, sentiva anche una sorta di obbligo morale di aiutare l'Italia «per non correre il rischio che il comunismo prenda piede sulla nostra lunga frontiera meridionale». Di fatto la stampa italiana dell’epoca appariva a maggioranza molto soddisfatta delle buone relazioni che l’Italia era riuscita a stabilire con la Svizzera. Del resto il potere di attrazione che l’economia svizzera esercitava sui lavoratori italiani era sotto gli occhi di tutti. Il flusso di emigrati era continuo, perché non tutti fuggivano dalla disoccupazione, ma tutti erano attratti dalla prospettiva di un’occupazione stabile e ben retribuita, anche a costo di alimentare forme di emigrazione/immigrazione irregolari.

A questo punto, accusare la Svizzera di sfruttamento disumano della manodopera straniera o ridurre la migrazione a uno scontro tra imperialismo capitalistico e proletariato da sfruttare, è paradossale e indice di non conoscenza degli accordi bilaterali formali e informali tra la Svizzera e l’Italia. Questo non vuol dire che l’applicazione degli accordi non pose anche problemi seri, ma si trattava sempre di casi risolvibili dalle istanze previste dagli accordi. Altri problemi, di natura politica o di diritti umani, non rientravano nella competenza dei negoziatori, per cui andrebbero visti in un’ottica diversa.

Risultati soddisfacenti

In base agli accordi sull'emigrazione/immigrazione i risultati positivi furono quasi immediati, come attestano le statistiche ma anche le numerose testimonianze della stampa dell’epoca e i documenti ufficiali. In pochi anni vennero creati in Svizzera 300.000 nuovi posti di lavoro in gran parte occupati da immigrati italiani. Gli italiani residenti stabilmente soprattutto nelle grandi agglomerazioni urbane passarono da poco più di 95.000 (1946) a 140.000 (1950) con una tendenza all'aumento. La stampa italiana dell’epoca attestava una generale soddisfazione delle condizioni di vita degli italiani, tanto è vero che molti decidevano persino di restare e non esitavano a prendere moglie o marito di nazionalità svizzera. In effetti i matrimoni misti passarono da poco più di 1000 (1946) a oltre 2000 (1950) l’anno.

Col tempo, però, soprattutto con l’immigrazione di massa degli anni Sessanta, i problemi di una difficile convivenza si fecero sentire sempre di più e il governo svizzero, anche a causa del federalismo, difficilmente riusciva a trovare soluzioni soddisfacenti. Due concezioni finirono per polarizzarsi proprio negli anni Sessanta e Settanta, una che auspicava una soluzione drastica imponendo limiti cogenti all'immigrazione, sostenuta dai movimenti anti stranieri e l’altra che invocava anch'essa un maggior controllo dell’immigrazione ma al contempo una maggiore stabilizzazione e integrazione della manodopera residente e disposta ad integrarsi. Negli articoli precedenti si è visto chiaramente che la seconda opzione ha finito per imporsi e oggi la situazione appare alquanto tranquilla e positiva.

Bilancio positivo

Volendo tirare una specie di bilancio, credo che sia sotto molti aspetti positivo, anche se la storia dell’immigrazione italiana in Svizzera ha avuto pure momenti dolorosi. In ogni caso dovrebbe apparire evidente che il contributo degli italiani allo sviluppo della Svizzera nella seconda metà del secolo scorso è stato determinante. Negarlo significherebbe dar prova di totale ignoranza di come le grandi opere infrastrutturali e sovrastrutturali siano state realizzate in quel periodo. Nella costruzione di tutte le grandi dighe e centrali idroelettriche come pure delle strade e autostrade svizzere, nella realizzazione di grandi complessi industriali, commerciali e residenziali, nella sistemazione di ampie zone urbanistiche del secolo scorso gli italiani hanno versato la maggiore quantità di sudore e sangue. Giustamente il giornalista basilese Alfred Peter poteva scrivere nel 1962 in una serie di articoli che senza gli italiani non c’era benessere (Ohne Italiener kein Wohlstand).

Allo stesso tempo, e per conseguenza, si deve ammettere che il principale beneficiario degli accordi di emigrazione/immigrazione tra la Svizzera e l’Italia sia stata la prima, anche se, come si vedrà nel prossimo articolo, pure la seconda ha tratto enormi benefici.

Giovanni Longu
Berna, 7.12.2022

23 novembre 2022

Immigrazione italiana 1946-2000: 23. Considerazioni finali (1)

Per terminare convenientemente questo lungo racconto della storia dell’immigrazione italiana in Svizzera, dal secondo dopoguerra del secolo scorso alla fine del millennio, avevo pensato di scrivere una sorta di sintesi per sommi capi di questo fenomeno umano che ha coinvolto milioni di italiani. Mi sono però reso conto che una sintesi, anche ampia, sarebbe stata quasi impossibile per la complessità dell’argomento, la sua estensione nell'arco di oltre mezzo secolo, i molteplici interventi bilaterali della Svizzera e dell’Italia riguardanti la rispettiva politica immigratoria ed emigratoria, l’insorgere e i tentativi di soluzione di importanti problemi presentatisi inaspettatamente come quelli riguardanti la seconda generazione, la doppia cittadinanza, la ripresa dell’italianità. Invece che con una sintesi, ho pensato pertanto di terminare la complessa narrazione, a cui sono già stati dedicati oltre 160 contributi, con alcune considerazioni finali in questo e nei prossimi articoli.

I media hanno sempre seguito con attenzione le condizioni
degli emigrati italiani in Svizzera (La Stampa del 4.2.1970)
Fenomeno migratorio generalmente positivo

L’immigrazione italiana in Svizzera è stata un movimento di massa molto positivo per la Svizzera, per l’Italia e per gli immigrati. Purtroppo ci sono ancora persone (per lo più giornalisti superficiali e qualche mediocre sedicente «storico delle migrazioni») che vedono l’emigrazione come l’elemento perdente di un presunto scontro tra imperialismo capitalistico e proletariato da sfruttare. Giustificano la loro impostazione ideologica sulla base di episodi certamente drammatici ma non determinanti (Mattmark, Schwarzenbach, bambini «clandestini», statuto stagionale e altro).

Eppure la storia dell’immigrazione italiana in Svizzera nelle sue grandi linee dimostra che l’emigrazione rientra più semplicemente nella logica di scambio tra economie forti ed economie deboli, secondo le regole tipiche del mercato libero in cui domanda e offerta si richiamano reciprocamente e talvolta dialetticamente. Questo tipo di scambio non si basa su una logica di sfruttamento, ma di convenienza e di interessi reciproci tra le parti. Anche i flussi migratori tra l’Italia e la Svizzera sono avvenuti e vanno visti pertanto in quest’ottica. Del resto sono stati garantiti fin dall'inizio da accordi, trattati, convenzioni, organi di controllo, commissioni miste, sempre nell'alveo del diritto internazionale.

Condizioni inderogabili dei flussi Italia-Svizzera

I sostenitori della presunta equazione emigrazione=sfruttamento, dimenticano che fin dal Trattato di domicilio e consolare del 22 luglio 1868, che introduceva una sorta di libera circolazione dei cittadini dei due Stati, alla base di quell'accordo e anche di quelli futuri c’erano due condizioni inderogabili: la prima, «il desiderio di mantenere e rassodare le relazioni d’amicizia che stanno fra le due nazioni, e dare mediante nuove e più liberali stipulazioni più ampio sviluppo ai rapporti di buon vicinato tra i cittadini dei due Paesi»; la seconda, l’obbligo dei cittadini dei due Stati di uniformarsi alle leggi del Paese in cui intendono soggiornare: «i cittadini, di ciascuno dei due Stati, non meno che le loro famiglie, quando si uniformino alle leggi del paese, potranno liberamente entrare, viaggiare, soggiornare e stabilirsi in qualsivoglia parte dei territorio…».

Una terza condizione, ovvia alla data del Trattato e mai messa in discussione dopo, era la libertà di emigrazione per i cittadini dei due Stati. Per gli italiani questa libertà fu riconosciuta anche dalla Costituzione repubblicana del 1947, che all'art. 35 riconosce espressamente la libertà di emigrazione. Tuttavia, poiché secondo il diritto internazionale a tale libertà non corrisponde la libertà di immigrare in un altro qualunque Stato, era ovvio che l’emigrazione di massa degli italiani verso la Svizzera fosse regolata da accordi bilaterali.

Governi italiani e la tutela degli emigrati

Se queste erano le condizioni, bisogna dare atto ai governi italiani del secondo dopoguerra di aver saputo accompagnare e tutelare i flussi emigratori verso la Svizzera, negoziando accordi difficili da una condizione di debolezza (si pensi in particolare all'accordo del 1948). Per l’Italia si trattava, dopo la disfatta della seconda guerra mondiale, di una «necessità fisiologica» agevolare l’emigrazione per aiutare il Paese a riprendersi e a ripartire.

E’ vero che la Repubblica non è stata sempre all'altezza del compito assegnatole dalla Costituzione (art. 35, quarto comma) di tutelare il lavoro italiano all'estero e gli emigrati, ma è totalmente infondata, alla luce delle conoscenze certe e dei risultati, l’accusa di aver indotto l’emigrazione («emigrazione di Stato») e di aver abbandonato gli emigrati al loro destino (come sostiene, invece, il sedicente «storico delle migrazioni»).

Nel prossimo articolo si comincerà a trattare dei maggiori beneficiari dell’emigrazione italiana in Svizzera, in primo luogo la Svizzera, ma anche l’Italia e gli stessi emigrati. Gli enormi benefici non sarebbero stati possibili senza una convergenza di interessi e di forze di tutte e tre queste entità.  (Segue)

Giovanni Longu
Berna 23.11.2022

19 novembre 2022

Pace subito tra Russia e Ucraina

Le manifestazioni per la pace delle ultime settimane hanno dimostrato un diffuso desiderio che la guerra tra Russia e Ucraina finisca subito o presto, senza attendere ulteriori disastri per evidenziarne ancora di più l’inutilità e il danno. Oltretutto, persino gli americani si stanno rendendo conto che è illusorio attendersi che il conflitto possa finire nel breve periodo perché una delle due parti ha dovuto soccombere. E poiché nessuno dei belligeranti sembra essere in grado di stravincere e costringere l’avversario alla resa, tanto varrebbe, anche sotto il profilo militare, cessare subito le ostilità e avviare il processo di pace.

Difficoltà oggettive, ma superabili

Purtroppo le posizioni per trovare un accordo sul cessate il fuoco sono ancora molto lontane, complice anche il mondo occidentale che pare di fatto cinicamente indifferente all'inutile strage, alla distruzione di un intero Paese e all'archiviazione definitiva del progetto di «casa comune europea» dell’ultimo leader sovietico nonché premio Nobel per la pace Michail Gorbaciov, recentemente scomparso. Un’autorevole e convinta mediazione (l’ONU? l'OSCE? Paesi neutrali? Vaticano? Le Chiese?) potrebbe rendere possibile l’accordo.

E’ urgente agire, anche perché è irrealistico pensare che l’Ucraina riconquisti in tempi brevi tutti i territori persi e che la Russia rinunci spontaneamente alle conquiste fatte. Dovrebbero tenerne conto anche i Paesi della NATO, interrompendo il flusso degli armamenti e inducendo l’Ucraina ad accettare l’immediato cessate il fuoco e l’avvio di un negoziato di pace. La Russia si è già dichiarata disponibile. E’ infatti nell'interesse di entrambi gli Stati porre fine alla guerra, ben sapendo che interrompere i combattimenti non significa accettare il fatto compiuto, ma avviare una trattativa di pace, sotto l’egida di un’istanza internazionale condivisa da entrambi i belligeranti.

Ripartire dagli accordi di Minsk, ma andare oltre

Per avviare un utile processo di pace credo che sia giudizioso ripartire dagli accordi di Minsk del 2014 e 2015 sottoscritti da Ucraina, Russia e le Repubbliche secessioniste di Doneck e Lugansk, perfezionando i punti che li resero inapplicabili. Riassunti all’essenziale quegli accordi prevedevano, oltre all’immediato cessate il fuoco e allo scambio dei prigionieri, la creazione di una «zona di sicurezza» sotto la sorveglianza dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE), libere elezioni nel Donbass, una profonda riforma costituzionale in Ucraina con la decentralizzazione dei poteri, uno statuto speciale per le regioni di Donetsk e Lugansk.

I punti essenziali non vennero mai applicati, preferendo di fatto che a decidere fossero le armi e non il dialogo e la democrazia. Tuttavia, com'è facile costatare, le armi hanno solo prodotto morte e devastazioni. C’è da sperare che russi e ucraini, ma anche i sostenitori degli uni e degli altri, si rendano conto che solo il rispetto reciproco e il dialogo possono creare le condizioni di pace.

Condizioni di pace

Tacciano le armi!
Una di queste, a mio parere, dovrebbe consistere nella condivisione del diritto all’autodeterminazione dei popoli garantito dalla Carta delle Nazioni Unite, rendendolo applicabile anche in Ucraina. Attualmente non lo è perché le popolazioni russofone delle regioni orientali non hanno avuto la possibilità né di un referendum libero, garantito dall’ONU e dall’OSCE, né l’autonomia regionale negoziata nel 2014-15.

In una prospettiva di pace duratura è anche fondamentale che l’Ucraina sia garantita internazionalmente come Paese neutrale (analogamente a quanto è avvenuto sinora per la Svizzera) e che la Nato non solo non si espanda ulteriormente ad est, ma venga ridimensionata, anche per via dei costi smisurati che comporta ai suoi membri. In questa prospettiva, tuttavia, dovrebbe essere scongiurata l’eventuale adesione dell’Ucraina alla Nato.

Prevale la «sovranità nazionale» o l’«integrità territoriale»?

Sarebbe anche opportuno che a livello di opinione pubblica, ma anche di organizzazioni internazionali si riflettesse seriamente sulla gerarchia tra questi due principi: la sovranità nazionale e l’integrità territoriale degli Stati, entrambi previsti dalla Carta della Nazioni Unite.

Concettualmente i due principi non sono sovrapponibili perché la «sovranità nazionale» appartiene al popolo, alle persone che risiedono stabilmente su un territorio, mentre l’integrità territoriale è una caratteristica dello Stato, che può essere anche lontano, com'era lo Stato coloniale. Recita bene la Costituzione italiana all'articolo 1, secondo comma: «La sovranità appartiene al popolo», dunque non allo Stato, intendendo per popolo quello che abita e possiede da tempo quel territorio, anche prima che esistesse lo Stato nazionale.

Poiché la mancata gerarchizzazione dei due principi può degenerare in un conflitto armato, come nella guerra in corso, sarebbe auspicabile che l’ONU stabilisse una gerarchia chiara tra i due principi, rafforzando l’obbligo degli Stati a risolvere pacificamente le controversie internazionali, senza ricorso alle armi o anche solo alla minaccia di usarle. Non sarà per nulla facile perché le potenze che potrebbero facilitare il chiarimento sono anche le più implicate in tutti i conflitti su ampia scala con notevoli interessi economici, militari, strategici.

Morire ancora «per la Patria»?

No, non lo merita se può esistere un’altra modalità per difendere e onorare il proprio Paese. Per questo è più che mai urgente che da subito l’opinione pubblica si mobiliti per trasformare il generico desidero della pace tra Russia e Ucraina in appelli ai vari Stati occidentali, che indirettamente e ipocritamente partecipano alla guerra con l’invio di armi, perché rinuncino a questi invii e perché si attivino con azioni concrete, soprattutto diplomatiche, a facilitare un negoziato di pace. Per il bene dell’intera umanità è necessario che si interrompa subito la diffusione dell’odio tra i popoli e si diffonda la filosofia del dialogo, del rispetto reciproco, degli scambi e della collaborazione.

La fine della guerra non garantirebbe comunque la pace durevole. Questa va conquistata giorno per giorno e i cittadini del mondo andrebbero educati a rispettare la priorità dei valori, che trova al primo posto la vita umana e la libertà, ma anche a diffidare della facile retorica del patriottismo, del nazionalismo, dei cosiddetti «valori occidentali», della «nostra» democrazia.

Diceva bene Don Lorenzo Milani ai suoi ragazzi: «
Don Lorenzo Milani (1923-1967)
Quando andavamo noi a scuola, i nostri maestri, Dio li perdoni, ci avevano bassamente ingannati. A sentir loro tutte le guerre erano “per la Patria”»,
mentre in realtà «i loro infelici babbi hanno sofferto e fatto soffrire in guerra per difendere gli interessi di una classe ristretta, di cui non facevano nemmeno parte, non gli interessi della Patria. Anche la Patria è una creatura, cioè qualcosa di meno di Dio, cioè un idolo se la si adora. I nostri maestri non ci dissero che nel 1866 l’Austria ci aveva offerto il Veneto gratis. Cioè quei morti erano morti senza scopo. Che è mostruoso andare a morire e uccidere senza scopo…».

Senza scopo è anche questa guerra tra Russia e Ucraina, a meno che sia considerato uno scopo degno di enormi sofferenze e di centinaia di migliaia di morti lo smembramento dell’Ucraina da parte della Russia, la rinuncia dell’Europa al sogno della «casa comune europea» di Gorbaciov, l’annientamento della Russia, per far piacere agli insaziabili USA, e lasciarla di fatto senza alcuna contropartita nelle mani di altre potenze mondiali, pronte a prendersene cura e ad approfittare delle sue enormi ricchezze.

Giovanni Longu
Berna, 19.11.2022

16 novembre 2022

Immigrazione italiana 1991-2000: 22. L’eredità degli immigrati italiani: senso della famiglia

La famiglia è sempre stata al centro degli interessi, delle speranze e dei problemi degli immigrati italiani in Svizzera. Nel tempo, però, la centralità della famiglia è cambiata nella società e di conseguenza anche negli immigrati. Si può essere d’accordo o meno sui cambiamenti che hanno finito per trasformarla, ma non si può dimenticare che milioni di immigrati italiani hanno orientato la loro esistenza al benessere della famiglia cosiddetta tradizionale: padre e madre e uno o più figli. Si deve anche aggiungere che, in generale, questo tipo di famiglia lasciato in eredità alla seconda generazione non veniva considerato solo il più comune e il più «naturale» tra persone adulte, ma anche il pilastro più solido della società, un autentico patrimonio dell’umanità, un’istituzione alla quale tutti si aggrappano anche per sopravvivere nel ricordo dei posteri.

Tutto cambia, anche il concetto di famiglia

Il Dio dei cristiani, incarnandosi, ha voluto
nascere in una famiglia (Lorenzo Lotto)
L’idea di famiglia che avevano gli immigrati italiani della prima generazione era semplice, non abbisognava di elaborazioni mentali particolari perché era «naturale» che tutti da grandi desiderassero sposarsi e avere una famiglia. Erano considerate eccezioni le persone che non riuscivano a realizzare quell'idea e suscitavano più compassione che comprensione. Generalmente non veniva nemmeno contestato il principio giuridico della famiglia fondata sul «matrimonio», anche perché il giorno della sua celebrazione era solitamente uno dei pochi di cui gli sposi si sarebbero ricordati fin nei particolari per tutta la vita.

Non a tutti evidentemente garbava che la famiglia si fondasse sul matrimonio, come voleva la tradizione e pure il diritto civile fondato sulla Costituzione (art. 29), anche se dagli anni Settanta tutti gli italiani sapevano che in Italia, come in molte altre parti del mondo, c’era la possibilità di divorziare se il matrimonio non era più sostenibile. Lo sapevano evidentemente anche gli immigrati in Svizzera, ma era considerata solitamente una possibilità remota, perché, si diceva, ci si sposa per sempre. E gli italiani si sposavano e facevano figli.

Nel 1970, quando gli italiani residenti erano oltre mezzo milione, fu registrato il numero massimo di matrimoni in cui almeno uno dei coniugi era di nazionalità italiana (4227) e anche il numero più elevato dei figli di madre italiana (18.452). Da allora, però, non solo cominciarono a diminuire i matrimoni e le nascite di italiani, ma cominciarono ad aumentare i divorzi (record nel 1999 con 1655 casi) e, soprattutto, altre forme di convivenza diverse dal matrimonio. Stava cambiando anche tra gli italiani l’idea della famiglia? Ebbene sì. Anche tra gli italiani, accanto alle famiglie regolari cominciarono a diffondersi dapprima le convivenze prematrimoniali e poi le convivenze tout court.

Della famiglia descritta dalla Costituzione italiana all'articolo 29 come «società naturale fondata sul matrimonio» andavano scomparendo nel sentire pubblico entrambi gli elementi di «società naturale» e «fondata sul matrimonio» (primo comma), mentre si rafforzava la parte in cui si dice che «il matrimonio è ordinato sull'uguaglianza morale e giuridica dei coniugi» (secondo comma).

Eredità o compito permanente?

Poiché entrambi gli aspetti dell’articolo 29 vanno modificandosi incessantemente dagli anni Settanta del secolo scorso anche tra gli italiani residenti in Svizzera, essi meritano qualche considerazione per capire se davvero la prima generazione lascia alla seconda e alla terza una buona eredità immediatamente spendibile o un compito permanente.

Non c’è dubbio che le concezioni sulla famiglia com'era intesa in passato in questi ultimi decenni si sono notevolmente modificate nell'opinione pubblica, nei media e persino nel diritto. Basti pensare all'introduzione del divorzio, alle «famiglie monoparentali» (di un solo genitore), alle «famiglie di fatto» (convivenze di due persone adulte non unite dal vincolo matrimoniale e talvolta nemmeno dai loro figli) o alle «famiglie omosessuali» (con possibili genitore A e genitore B) per rendersi conto che la famiglia tradizionale a cui era legata profondamente l’immigrazione italiana in Svizzera del dopoguerra oggi è pressoché scomparsa, almeno in alcune sue espressioni tipiche (matrimonio indissolubile, genitore capofamiglia, obbligo reciproco alla fedeltà e alla coabitazione, figli da «mantenere, istruire ed educare»).

Eppure sarebbe superficiale e sbagliato considerare quell'idea di famiglia tradizionale liquidata per sempre, proprio pensando al significato ch'essa ha rappresentato almeno per la stragrande maggioranza degli emigrati, ossia «il senso della vita», il bene supremo, lo scopo primario dell’emigrazione, forse ignorando, i primi emigranti, che avrebbe potuto comportare difficoltà inimmaginabili, incomprensioni, frustrazione, separazioni, privazioni, sofferenze fisiche e morali, rinunce importanti.

Oggi si può disquisire se la famiglia tradizione vada considerata superata perché le nuove forme di convivenza pure etichettate come «famiglie» si stanno affermando anche legalmente o se alcuni elementi della famiglia fondata sul matrimonio meritano di essere conservati e addirittura rafforzati. Tutte le opinioni sono legittime e rispettabili, ma bisogna chiedersi seriamente se la famiglia degli emigrati del dopoguerra non meriti di essere considerata comunque una preziosa eredità e quindi da preservare e difendere, perché forse può ancora esprimere valori irrinunciabili.

Famiglia tradizionale tra dubbi e certezze

Quando, trattando in generale della famiglia, si cerca di esaltarne le caratteristiche che l’hanno resa la cellula della società umana, patrimonio dell’umanità e nella sostanza insostituibile, inevitabilmente intervengono gli scettici per obiettare che non sempre la famiglia è il luogo della felicità, dell’armonia, dello sviluppo sano dei figli e pensano magari proprio alla famiglia di molti immigrati del dopoguerra. Hanno ragione, perché la famiglia «non sempre» garantisce tutto ciò e talvolta naufraga in un mare di guai. Anche per molti emigrati essa è stata fonte di grandi sofferenze e oggi nessuno può sostenere che sia un’istituzione perfetta. Non lo è mai stata. Eppure, come si vedrà meglio più avanti, anche la famiglia emigrata consente di affermare che, al momento, non ne esiste una migliore. Del resto, qui in Svizzera, la famiglia, nonostante i mutamenti sociali, resta ancora la forma di vita predominante degli adulti, anche stranieri.

Tondo Doni, Michelangelo
L’imperfezione della famiglia era palese anche tra gli immigrati italiani del dopoguerra. Per esempio, l’uguaglianza morale e giuridica tra i coniugi apparteneva più al mondo dei desideri (soprattutto da parte delle donne) che alla realtà. La dipendenza della donna (moglie e madre) dal «capofamiglia» (normalmente il marito e padre) era una condizione non solo diffusa ma ritenuta quasi «normale» in molti ambiti familiari, persino in Italia anche dopo la riforma del diritto di famiglia del 1975. I figli, poi, erano considerati sovente più fonti di preoccupazioni che motivi di gioia. Nei loro confronti i genitori hanno talvolta interpretato persino male il loro ruolo, specialmente nei campi dell’educazione, della formazione e della socialità.

Non si vuole riaprire qui il capitolo delle famiglie separate, ma si sa con quanta sofferenza è stata vissuta, soprattutto dalle madri, la separazione dai figli quando non potevano essere accuditi adeguatamente. Se ne parla poco, tranne che in alcune pubblicazioni volutamente polemiche e poco oggettive, ma è facile capire la sofferenza e l’umiliazione di genitori, e soprattutto di madri, costretti (e non certo inconsapevoli dei rischi) ad affidare i loro figli a parenti lontani, sapere che si affezionavano ai nonni che facevano loro da padre e da madre e che chiamavano papà e mamma, visto che quelli veri non li vedevano mai, rinunciare a vederli crescere, a iniziarli alla lettura e alla scrittura, ad avviarli nella vita.

Si può anche immagine con quanta gioia e quanta voglia di rimuovere evidenti sensi di colpa provavano questi genitori quando rientravano per le ferie, soprattutto a Natale, con valige stracolme di regali. Si può, invece, essere certi che anche questi immigrati con la loro vita testimoniavano che per il bene della famiglia, magari non nell'immediato, si potevano affrontare persino cammini di vita oltremodo difficili da percorrere senza badare a sofferenze, pericoli, privazioni, rinunce e persino sensi di colpa.

Valori da preservare

D’altra parte, se l’istituzione familiare è diffusa nel mondo intero, se è sopravvissuta attraverso le interminabili trasformazioni della società, se persino le «non-famiglie» vogliono essere considerate «famiglie» alla pari di quelle tradizionali, vuol dire che in queste ci sono delle qualità introvabili altrove, almeno tutte insieme. Il fatto che non siano perfette non significa che non siano perfettibili. Gli emigrati lo sapevano e per questo erano saldamente attaccati alla famiglia, che consideravano allo stesso tempo un fine e una tutela.

Alle nuove generazioni spetta il compito anzitutto di epurare i difetti della concezione del matrimonio e della famiglia che avevano genitori e nonni, ma soprattutto di conservare e sviluppare i valori che pure contenevano: la loro centralità nella vita individuale e sociale, il luogo privilegiato degli affetti più puri e sinceri, il sostegno reciproco anche nelle prove più difficili, il piacere dei migliori rapporti interpersonali.

Giovanni Longu
Berna, 16.11.2022

09 novembre 2022

Immigrazione italiana 1991-2000: 21. L’eredità degli immigrati italiani: oggetti e documenti


Se ne parla poco, ma la prima generazione di immigrati italiani giunti in Svizzera nei primi decenni del dopoguerra ha lasciato in eredità alla seconda e terza generazione un ricco patrimonio di oggetti e di ricordi tramandati soprattutto oralmente ma anche in forma scritta e video. La memorialistica è immensa, ma dispersa, in gran parte nascosta e ad alto rischio di sparizione. Infatti non c’è nessuno che la consideri un’eredità preziosa e, soprattutto, si preoccupi di conservarla, inventariarla, valorizzarla e renderla disponibile non solo per gli studiosi ma anche per discendenti alla ricerca delle proprie origini, per gli storici della migrazione, per gli studiosi dell’italianità in Svizzera, per chiunque. E’ realizzabile in questo Paese un museo della memoria dell’immigrazione? Chi dovrebbe o potrebbe farsene carico?

Domande in attesa di risposte

Appunti di un emigrato (1974)
Non è facile rispondere a queste domande, ma alcune considerazioni possono facilitare le risposte. I
musei hanno non solo la funzione della conservazione, ma anche quella di stimolare e facilitare la ricerca. In Svizzera, a conoscenza di chi scrive, non ci sono musei dell’immigrazione italiana (anche se di tanto in tanto si organizzano esposizioni particolari), non esiste nessuna raccolta sistematica e accessibile di oggetti, documenti, statuti societari, album fotografici, diari riconducibili a immigrati italiani. Esiste solo un reparto della sezione d’italiano dell’università di Losanna che raccoglie scritti letterari di italiani e italo-svizzeri, ma si tratta, com’è facile capire, di elaborati, non di originali, e hanno un carattere specificamente letterario e non documentale.

Eppure in Svizzera l’immigrazione italiana ha una storia ultracentenaria. Qui hanno vissuto e lasciato tracce indelebili milioni di italiani. Dall'Unità d’Italia ad oggi hanno partecipato allo sviluppo di questo Paese, per qualche stagione o per anni, non meno di 4 milioni di persone. E’ vero che, tradizionalmente, si emigrava per lavorare o per stare vicini a chi era già emigrato o emigrata e non si pensava a conservare appunti, a registrare sensazioni e fatti quotidiani e tantomeno a raccoglierli in volumi, eppure soprattutto molte immigrate hanno tenuto diari, conservato lettere e fotografie, si confidavano con amici e amiche, raccontavano sentimenti ed esperienze nella corrispondenza con i parenti rimasti in Italia. Esiste certamente, racchiusa in molti cassetti, una massa di documenti che, sfoltiti, esaminati e raccolti sistematicamente, potrebbero aiutare gli studiosi ad animare le aride cifre delle statistiche.

In epoca più recente, col progredire della capacità di scrittura di numerosi immigrati e del desiderio di conoscere le proprie origini da parte della seconda e terza generazione, le pubblicazioni si sono moltiplicate: diari, racconti autobiografici, tesine di maturità, tesi di laurea, ricerche, raccolte di articoli e di interviste, studi scientifici, saggi documentati, ecc.

Peccato che questa fonte d’informazioni preziose per la conservazione della memoria storica dell’immigrazione italiana in Svizzera non sia stata raccolta e resa accessibile al pubblico. Non potrebbe l’Ambasciata d’Italia promuovere la costituzione di un gruppo di lavoro con l’incarico di studiare la creazione di almeno un museo dell’immigrazione e della raccolta delle più significative opere cartacee, sonore e video in materia?

Fattibilità del museo degli italiani in Svizzera

In linea di principio sarebbe sbagliato sottovalutare le difficoltà organizzative, logistiche e finanziarie di un museo dell’immigrazione italiana in Svizzera, ma non sarebbe corretto nemmeno rinunciare all'idea di realizzarlo senza aver esaminato dettagliatamente alcun progetto. Pertanto è auspicabile che venga costituito il suddetto gruppo di lavoro ad hoc, non ignorando che di musei della migrazione ne esistono ormai in tutto il mondo.

Sistema di traduzione simultanea ideato dal Cisap 
Perché non realizzarne uno anche in questo Paese, tanto più che la Svizzera non sarebbe quella che è senza l’immigrazione, quella italiana in particolare. Poiché alcuni musei hanno già allestito esposizioni sugli immigrati italiani (per esempio a Zurigo, Losanna, Grenchen) basterebbe ispirarsi a quelle esperienze per idearne uno, magari di dimensioni ridotte.

Gli oggetti da esporre non farebbero certo difetto e sarebbe un peccato non raccogliere almeno quelli più significativi. Esiste, disperso in tutta la Svizzera, un ricco patrimonio di oggetti capaci di evocare le molteplici attività svolte dagli italiani. Si pensi ad alcuni strumenti di lavoro usati in alcuni comparti (edilizia, meccanica, automeccanica, elettronica, riparazioni, taglio e cucito, cura della persona, ecc.), ma anche a realizzazioni di pregio (per es. alcuni prototipi geniali di elettronica realizzati al CISAP fin dagli anni Settanta: orologio digitale, diversi alimentatori di corrente, mini-laboratori digitali, amplificatori per sale di conferenze, sistemi di traduzione simultanea, ecc.), opere d’arte (quadri, sculture, ceramiche), ecc.

Problemi logistici, finanziari e organizzativi costituirebbero senz’altro l’ostacolo maggiore, ma non insuperabile se ci fosse la ferma convinzione dell’utilità e dell’opportunità del museo. E’ anche su questi aspetti che il suddetto gruppo di lavoro dovrebbe concentrare l’attenzione.

Raccolta di documenti sull'immigrazione

Interessante testimonianza degli anni '50-70.
Meno problematica dovrebbe apparire la raccolta della documentazione sull'immigrazione italiana in Svizzera, perché i risvolti logistici, finanziari e organizzati sarebbero certamente minori rispetto alla realizzazione di un museo. Anche al riguardo, tuttavia, non si può fare a meno di sottolineare che gli inevitabili problemi potrebbero essere superati più facilmente se ci fosse alla base la convinzione dell’utilità e dell’opportunità della raccolta. Inoltre non va dimenticato che pure in proposito esistono già buone esperienze a cui ci si potrebbe ispirare.

La banca dati sopraccennata dell’Università di Losanna potrebbe costituire un buon punto di partenza. Utili fonti d’informazione sono anche i riferimenti bibliografici contenuti in alcune opere, per esempio tesi di laurea (già numerose soprattutto in Italia), cataloghi, opere collettive («Scrittori allo specchio» a cura di Giovanna Meyer Sabino del 1996, ecc.), recensioni sulla stampa d’emigrazione che riferisce spesso di opere d’immigrati.

Poiché le opere a carattere autobiografico sono ormai numerose, si tratterà anche di stabilire alcuni criteri essenziali per essere inserite nella raccolta. Modelli a cui ispirarsi potrebbero essere, giusto per fare qualche esempio in ordine cronologico di pubblicazione: F. Venturini, Nudi col passaporto (1969), L. Moraschinelli, L’albero che piange (1994), R. Ferrarese e M. Schiavone (a cura di), Storie di italiani nella Svizzera Orientale (2001), M. Schirone (a cura di), Storie di donne lucane (2001), F. Zosso e G.E. Marsico, Les bâtisseurs d’espoir, (2002), O. Grava, Diario di un emigrante friulano (2003), R. Ambrosi, Tra due culture, Otto ritratti di donne italiane in Svizzera (2004), B. Cappai, Autobiografia di un emigrato sardo in Svizzera (2018), S. Pinto, Un albero… un amore per un uomo qualunque (2022).

Anche per la raccolta fotografica, sonora e video dovranno essere elaborati analoghi criteri selettivi, in maniera che il materiale raccolto risponda alla finalità essenziale di documentare e stimolare la ricerca.

Una questione morale e di opportunità

Nell'affrontare questa tematica non dovrebbe sfuggire a nessuno che a ben vedere si tratta innanzitutto di una questione morale. Con la raccolta e la conservazione di un tesoro lasciato in eredità dalle prime generazioni di immigrati italiani alle successive si tratta anzitutto dell’opportunità di soddisfare un debito di riconoscenza e di rispetto nei loro confronti. Dietro ogni manufatto, ogni racconto, ogni libro di ricordi si celano vite di uomini e donne che hanno voluto dare un senso profondo alla loro esistenza, ma anche una speranza ai loro figli, affrontando con coraggio e ottimismo ogni sorta di difficoltà, pericoli, sofferenze, umiliazioni.

Sostenere questi progetti dovrebbe essere anche un segno di riconoscenza da parte dell’Italia, perché gli emigrati hanno contribuito direttamente o indirettamente a far crescere l’economia italiana e a diffondere in Svizzera il «made in Italy», le sue bellezze naturali e artistiche, la sua potente attrazione turistica. Dedicare loro un museo e una raccolta di documenti non dovrebbe essere un atto dovuto e un minimo segno di riconoscenza? Saprà farsene interprete autorevole l’Ambasciatore d’Italia in Svizzera Silvio Mignano?

Anche la Svizzera, tuttavia, non dovrebbe sottrarsi a questo debito di riconoscenza, perché, come ebbe a dire nel 1972 l’allora presidente della Confederazione Nello Celio, il saldo tra quello che gli immigrati italiani hanno dato e quello che hanno ricevuto è sempre a loro favore.

Infine, poiché i primi eredi delle prime generazioni sono sempre la seconda e la terza, sarebbe imperdonabile che queste non si facessero carico per prime della memoria di quanti le hanno precedute con tanto coraggio, infaticabile lavoro e grandi sacrifici.

Giovanni Longu
Berna 9.11.2022

02 novembre 2022

Immigrazione italiana 1991-2000: 20. L’eredità degli immigrati italiani: un modello d’integrazione

In questi articoli, il punto di vista temporale di chi scrive concerne sia il passato che il futuro. Si tratta infatti di un modello d’integrazione lasciato in eredità dalla prima generazione di immigrati in Svizzera alla seconda, con un potenziale di sviluppo che potrebbe pacificare e trasformare l’intera Europa. Spetta soprattutto ai giovani beneficiari implementarlo a livello europeo, dandone testimonianza e impulsi. Il compito non si presenta difficile perché il modello esiste, è ampiamente collaudato, è efficace, è vincente.

Un modello vincente

Il modello d’integrazione sviluppato in Svizzera può essere definito «vincente» perché è riuscito a conciliare in maniera generalmente armoniosa esigenze per molti versi contrastanti, quelle del Paese ospitante, che aveva bisogno di Gastarbeiter, e quelle dei diretti interessati, che volevano essere considerati persone e non solo come forza lavoro.

Senza la volontà comune di trovare un compromesso soddisfacente per entrambe le parti, le esigenze dell’economia e la destra nazionalistica avrebbero stravinto nella votazione del 1970 sull'iniziativa antistranieri di Schwarzenbach e la storia non solo dell’immigrazione italiana ma pure della Svizzera avrebbe avuto uno sviluppo alquanto diverso. Verosimilmente gli italiani non avrebbero resistito a lungo a quelle forme benché attenuate di sfruttamento, discriminazione, limitazione dei diritti civili oltre che politici, che subivano nei primi decenni del secondo dopoguerra e la Svizzera si sarebbe ulteriormente isolata in Europa e nel mondo.

Va anche sottolineato che per raggiungere il compromesso in questione ciascuna delle parti in causa ha dovuto fare delle rinunce, soprattutto di tipo culturale e comportamentale, ben soppesando tuttavia svantaggi e vantaggi. Che questi abbiano finito per prevalere lo dimostra il fatto che il numero complessivo degli italiani residenti in Svizzera (compresi quelli con la doppia nazionalità) è rimasto a lungo stabile, nonostante il saldo migratorio negativo dagli anni Settanta fino al 2006, ed è cresciuto negli ultimi decenni. La Svizzera ha continuato a sviluppare la sua economia in termini di innovazione, ricchezza prodotta e prosperità.

Integrazione e libera circolazione

Con molta semplificazione si può pensare che l’integrazione sia venuta con l’istruzione, l’apprendimento delle lingue e l’inserimento professionale ed è verissimo, ma il suo coronamento è venuto dalla libera circolazione di cui la seconda generazione e ancor più la terza beneficiano ampiamente. E’ stato un processo lungo e complesso, ma ne è valsa la pena.

Una delle condizioni iniziali poste dagli stranieri (e in particolare dagli italiani) era di essere accettati e riconosciuti non solo come bravi lavoratori (di cui si sentiva il bisogno), ma anche come residenti stabili (domiciliati) e come persone, con gli stessi diritti degli svizzeri, salvo quelli legati alla cittadinanza. Non è stato facile raggiungere l’obiettivo, anche se sarebbe bastato rifarsi alla storia delle relazioni italo-svizzere in materia immigratoria e in particolare al Trattato di domicilio e consolare del 1868.

Infatti quell'accordo, benché caduto presto in disuso sebbene sia tuttora valido (!), prevedeva all'articolo 1 che «gli Italiani saranno in ogni Cantone della Confederazione Svizzera ricevuti e trattati, riguardo alle persone e proprietà loro, sul medesimo piede e alla medesima maniera come lo sono o potranno esserlo in avvenire gli attinenti degli altri Cantoni» e che «i cittadini di ciascuno dei due Stati non meno che le loro famiglie, quando si uniformino alle leggi del paese, potranno liberamente entrare, viaggiare, soggiornare e stabilirsi in qualsivoglia parte dei territorio, senza che per i passaporti e per i permessi di dimora e per l’esercizio di loro professione siano sottoposti a tassa».

Ci sono voluti 134 anni fino a quando la Svizzera, per accettare gli Accordi bilaterali I con l’Unione Europea (UE), ha dovuto reintrodurre la libera circolazione delle persone. Nel frattempo, gli immigrati, soprattutto quelli italiani, hanno dovuto fare tanti sacrifici, lavorare sodo, comportarsi in maniera esemplare (pena l’espulsione), sforzarsi di vincere non solo la paura, la precarietà e talvolta persino l’odio, ma anche il desiderio insopprimibile del ritorno, sostenuti dalla speranza e dalla volontà di creare le premesse giuste per un’integrazione equa e rispettosa della personalità e dei diritti individuali almeno per le seconde generazioni.

Un modello per l’Europa

Le premesse sono state soddisfatte e oggi, in Svizzera, l’integrazione è in massima parte riuscita. Le condizioni di partenza (come si diceva nell'articolo precedente) sono pressoché uguali per svizzeri e stranieri (italiani), non si parla più di discriminazioni strutturali, di sfruttamento, di preclusioni ideologiche o di acculturazione forzata. Non solo la convivenza, ma anche lo sviluppo comune, la crescita armoniosa sono possibili. I valori sono condivisi e i pregiudizi messi al bando. Non potrebbe essere un modello vincente anche per l’Europa?

Per la seconda generazione l’integrazione, la libera circolazione, il benessere condiviso dovrebbero rappresentare non solo un traguardo raggiunto ma anche un impegno. Spesso si rimprovera ai giovani di non partecipare alle attività delle associazioni tradizionali, di non andare a votare (come hanno dimostrato anche recentemente), di non battersi per i valori della democrazia, ecc.; ma forse non meritano alcun rimprovero perché non rinnegano i valori e gli ideali del passato, semplicemente ne hanno altri. Basterebbe lasciare loro maggiore spazio per mettersi alla prova e dimostrare che la loro visione del mondo è non solo diversa ma anche migliore di quella dei loro genitori e di quella dell’establishment che oggi governa il mondo, come dimostra il loro atteggiamento di fronte alla guerra e alla pace.

Da mesi i grandi media trattano diffusamente temi legati alla guerra in Ucraina. Dubito che vengano seguiti dai giovani perché non possono condividerne l’impostazione pregiudiziale, ritenendo fuorviante la contrapposizione proposta tra valori e disvalori (bene e male, civiltà e barbarie, occidente e oriente, libertà e oppressione, democrazia e autocrazia, guerra difensiva e aggressione, morti eroiche e uccisioni indiscriminate di civili, ecc.), ignorando il dubbio che potrebbe anche trattarsi di una lotta senza esclusione di colpi tra le grandi potenze per il predominio del mondo, il controllo delle materie prime e dei mercati, la produzione e la vendita degli armamenti, la difesa di interessi materiali e immateriali esistenti o possibili.

La visione del mondo dei giovani (e quindi anche della seconda generazione di italiani in Svizzera) è diversa perché orientata decisamente verso la pace. Non esistono ragioni valide per scatenare una guerra e per non fermarla se già avviata. Nemmeno la «patria» è più sentita come un valore per cui morire, quando può essere meglio difesa col dialogo, con accordi bilaterali e internazionali, con compromessi, con le autonomie locali, con la libera circolazione delle persone, con la collaborazione a più livelli, ecc.

Italiani per la pace

Soprattutto i giovani italiani, per principio, ripudiano la guerra «come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali» (art. 11 della Costituzione italiana). Sono contrari, fra l’altro per considerazioni di opportunità e di risparmio, al rafforzamento dei confini, degli armamenti, delle coalizioni militari, delle contrapposizioni ideologiche e delle condanne indiscriminate di intere popolazioni. Anche per questo la riuscita della seconda generazione dovrebbe rappresentare un modello in Europa.

Non va infine dimenticato che i giovani di oggi non amano i confini e preferiscono viaggiare liberamente, fare esperienze, conoscere popoli e mondi diversi. Sono la generazione «Erasmus». E benché questo nome sia in realtà un acronimo (EuRopean Community Action Scheme for the Mobility of University Students), nei giovani richiama facilmente il grande umanista Erasmo da Rotterdam, irriducibile avversario della guerra e sostenitore della pace.

Considerava la guerra una follia, un oltraggio alla ragione, «una cosa tanto crudele da convenire alle belve più che agli uomini», una pazzia, «così rovinosa da portare con sé la totale corruzione dei costumi, tanto ingiusta da offrire ai peggiori predoni la migliore occasione di affermarsi, tanto empia da non avere nulla in comune con Cristo». (Elogio della follia).

I giovani di oggi, magari non cattolici né cristiani, sono anche più dalla parte di papa Francesco che dalla parte dei sostenitori della «guerra giusta» che vorrebbero prolungarla fino alla vittoria finale degli ucraini. No, per papa Francesco la guerra è una sconfitta per l’umanità, è una vergogna che venga sostenuta con una crescente produzione di armi sempre più sofisticate e micidiali, è inaccettabile consentire che ogni giorno aggiunga altre morti e distruzioni.

I giovani della seconda generazione conoscono bene la differenza tra guerra e pace, morte e vita, distruzione e sviluppo. Dovrebbero forse renderlo ancor più evidente, al mondo intero.

Giovanni Longu
Berna 2 novembre 2022