In Italia, la discussione sulle riforme, di per sé molto complessa, si fa sempre più accesa e nessuno è in grado di prevederne il risultato finale. A furia di parlarne, spesso disordinatamente e sotto la minaccia «o si cambia o si muore», senza domandarsi mai se le singole proposte siano ragionevoli e non vi siano alternative valide, c’è il rischio che il tentativo del governo Renzi faccia la stessa fine di altri del passato. Tanto più che le forze in campo sono molte e i vari attori non hanno unanimità di vedute né una vera legittimazione popolare per agire con scienza e coscienza. Inoltre non va dimenticato che l’Italia è un Paese demograficamente vecchio e quindi «per natura» piuttosto conservatore.
Italia, Paese conservatore
Che l’Italia sia tra i Paesi
più vecchi al mondo lo conferma l’Istituto nazionale di statistica (Istat), secondo
cui l’indice di vecchiaia (ossia il rapporto tra anziani e giovani) è di 148,6
anziani ogni 100 giovani. In Europa solo la Germania ce l’ha più elevato (155,8).
Anche la speranza di vita in Italia è tra le più alte del mondo: 79,4 anni per
gli uomini e 84,4 anni per le donne.
Che sia un Paese conservatore
lo dimostra ormai da molti anni la stabilità del panorama politico nazionale,
sostanzialmente bloccato perché lo zoccolo duro dei principali partiti è molto
solido e non consente un vero bipolarismo con ampie maggioranze. In questa situazione,
con maggioranze spesso raffazzonate, nessun governo è riuscito finora a realizzare
importanti (ossia efficaci) riforme strutturali, soprattutto di rango
costituzionale.
Vi riuscirà il governo Renzi?
Mi sembra ragionevole dubitarne,
sia per la strana maggioranza parlamentare che lo sostiene e sia perché non ha
una vera e propria legittimazione popolare, non essendo il risultato diretto di
elezioni politiche, ma di decisioni del partito di maggioranza. Inoltre,
nemmeno il Parlamento è pienamente legittimato ad apportare all’impianto dello
Stato riforme strutturali importanti sia per la mancanza, anche nei suoi
confronti, di una chiara legittimazione popolare e sia perché non ha ricevuto
dall’elettorato un mandato preciso per modificare la costituzione in questo o
quel punto.
E’ vero che anche l’attuale
Parlamento è giuridicamente legittimato a svolgere tutte le sue funzioni, come
ha affermato la Corte costituzionale, ma nell’opinione pubblica resta qualche
dubbio in quanto la stessa Corte ha dichiarato incostituzionali e quindi illegittimi
alcuni aspetti della legge elettorale in base alla quale sono stati eletti,
anzi nominati (!), quasi tutti gli attuali parlamentari. Andrebbe infatti
ricordato che, eccettuati quelli eletti nella Circoscrizione Estero, non si
tratta propriamente di eletti (ossia scelti; eleggere vuol dire scegliere!) ma
di «nominati», in quanto gli elettori non hanno avuto la possibilità di
scegliere i candidati preferiti, ma solo la lista in cui erano già indicati gli
eleggibili.
Già per queste ragioni mi
sembra fondato il dubbio che l’attuale governo possa attuare le riforme presentate
dal suo instancabile capo in tutte le tribune come se fossero davvero a portata
di mano e realizzabili in tempi certi e prestabiliti. Qualche osservatore ha
visto in questa insistenza una sorta di ansia di Matteo Renzi per ricevere a
posteriori, ossia visti i risultati, la legittimazione che non ha avuto
all’inizio del mandato.
Sia ben chiaro, sono anch’io
convinto che l’Italia abbia bisogno di riforme strutturali importanti e quanto
prima si realizzano meglio è per gli italiani. Siccome però mi sembra azzardato
pensare che in pochi mesi il governo riesca ad ottenere ciò che spera da un
Parlamento molto frazionato (e per di più minacciato proprio dalle riforme, se
attuate, di essere decimato alle prossime elezioni), tanto varrebbe dedicarsi
con lo stesso entusiasmo e la stessa energia che ha dimostrato finora ai
problemi più urgenti degli italiani.
Le priorità degli italiani
Stando a numerosi sondaggi,
agli italiani di quel che stanno discutendo in questi tempi il governo e il
parlamento interessa relativamente poco. Non li appassiona né la legge
elettorale né la riforma o l’abolizione delle province e men che meno quella del
Senato o il riordino del Titolo V della Costituzione. Agli italiani interessa che
lo Stato funzioni bene (senza i privilegi della casta e l’eccessiva burocrazia)
e intervenga efficacemente e presto nei settori vitali dell’occupazione
(riconducendo la disoccupazione, soprattutto quella giovanile, ai valori della media
europea), del reddito minimo garantito (busta paga più sostanziosa o
assegno di disoccupazione o inoccupazione), della pressione fiscale, della
legalità, della giustizia sociale.
A questo punto è facile
l’obiezione: per rendere possibili e immediati questi interventi dello Stato sono
indispensabili prima le riforme strutturali del Paese, richieste fra l’altro con
(eccessiva) insistenza dall’Europa che conta. Ma si tratta di un’obiezione da
respingere, almeno in questi termini, perché intanto il governo dovrebbe
intervenire subito utilizzando i molti strumenti che ha già ora a disposizione
e poi perché le riforme di cui tanto si discute non hanno la stessa urgenza
degli altri interventi menzionati, per cui potrebbero essere lasciate alla
libera discussione del Parlamento. Oltretutto la fretta è sempre una cattiva
consigliera.
E la riforma elettorale?
Delle grandi riforme
riguardanti il funzionamento dello Stato, a mio parere, di urgente ce n’è solo
una: l’approvazione di una buona legge elettorale. Purtroppo quella (provvisoria)
approvata dalla Camera dei deputati non mi pare soddisfacente perché anche in
questa versione gli elettori non hanno ancora la possibilità di scegliere tra
persone ma solo tra liste. L’impostazione della legge contiene inoltre il rischio
di un eccessivo accentramento dei poteri in un unico partito e un’unica
persona. Sarebbe grave se per garantire la governabilità si sacrificasse
proprio la democrazia.
E’ sintomatico che il disegno
di legge non sia il frutto di uno studio pluridisciplinare ma il risultato di
un accordo tra due capipartito, Renzi e Berlusconi, ossia due avversari
politici, l’un contro l’altro armati (parafrasando Alessandro Manzoni) per la
presa del potere, da esercitare possibilmente senza tanti ostacoli.
Non mi ha sorpreso, invece,
che sia stata concepita una legge elettorale valida solo per la Camera dei
deputati. Nel disegno complessivo di riforma dello Stato proposto dal governo,
infatti, il Senato, se mai continuasse ad esistere, non sarebbe più «elettivo»
(secondo le affermazioni martellanti di Matteo Renzi).
A questo punto però il
discorso si complica e qualche sospetto avanza. Il governo, o Renzi che è la
stessa cosa, sembrerebbe agganciare la legge elettorale alla riforma del
Senato, a tal punto da escludere nuove elezioni fin quando non sarà approvata
in via definitiva la riforma costituzionale del Senato nei termini da lui
fissati (un punto fermo è appunto la sua non elezione). Ossia, non prima della
fine della legislatura, salvo che la riforma venga bocciata, perché allora, ha
ripetuto il Premier in più occasioni, «si va tutti a casa». Ma c’è da crederci?
Riforma del Senato
Sta di fatto che la riforma (in
un primo tempo si parlava addirittura di abolizione) del Senato appare anche a
Renzi più difficile del previsto, viste le perplessità all’interno del suo
stesso partito, da parte del presidente del Senato Pietro Grasso, di insigni
costituzionalisti e di numerose altre personalità.
Alla base dei contrasti c’è a
mio parere soprattutto una mancanza di chiarezza di pensiero e d’informazione.
Se infatti l’obiettivo, su cui più o meno tutti i protagonisti concordano, è
chiaro, ossia il superamento del «bicameralismo perfetto», le divergenze
aumentano su tutto il resto. Accenno solo ad alcune.
Anzitutto non è chiara
l’attribuzione principale del nuovo Senato. Chi sa esattamente cosa significa «Camera
delle autonomie»? Non ho sentito finora alcuna risposta soddisfacente, perché
in Italia i livelli di «autonomia» sono molteplici e di portata assai differente.
Basti pensare anche solo alle differenze esistenti tra Comuni, Province (posto
che non si riesca ad eliminarle) e Regioni, Regioni ordinarie e Regioni a
Statuto speciale, ecc.). Come verrebbero rappresentate le varie autonomie? Né
sono chiare le competenze che avrebbe questo organismo, soprattutto se venisse
privato totalmente della potestà legislativa o del potere di controllo
sull'operato dell’esecutivo (ad esempio nel campo della gestione finanziaria).
Mancanza di chiarezza e semplicità
Seguendo alcuni dibattiti
televisivi mi sono reso conto di quanto poco possano interessare le discussioni
tra «addetti ai lavori», i quali non sembrano avere le idee chiare nemmeno loro.
Secondo qualcuno, ad esempio, il bicameralismo perfetto (due Camere con gli
stessi poteri) sembrerebbe la causa di tutti i mali d’Italia, senza essere
nemmeno sfiorato dal dubbio che i mali o almeno molti di essi possono dipendere
anche dal cattivo funzionamento delle istituzioni.
Ho sentito persino il
costituzionalista Michele Ainis (ma potrei citare anche altre personalità) affermare
che il bicameralismo perfetto esiste praticamente solo in Italia, ignorando che
esiste, per esempio, anche in Svizzera. Lo stesso Ainis mi ha inoltre sorpreso quando,
in una trasmissione televisiva, parlando del suo modello di riferimento per il
nuovo Senato, ossia il Bundesrat tedesco, ha aggiunto «notoriamente non
eletto», senza specificare come viene costituito. Eppure non occorre essere
costituzionalisti per sapere che negli Stati federali i componenti della cosiddetta
«Camera alta» (spesso chiamato Senato) non sono eletti a suffragio universale
ma solo dagli elettori dello Stato di cui diventano rappresentanti. Sono
comunque pur sempre eletti per quella funzione.
Tornando alla legge
elettorale, se la si volesse rendere applicabile in tempi brevi, basterebbe
integrarla con un articolo che preveda l’elezione dei membri del Senato con
modalità differenti in base agli ordinamenti delle varie entità autonome. Perché,
invece, si insiste sul suo aggancio alla riforma del Senato? E perché, per
riformare il Senato non si comincia a precisare quali sono le sue competenze e
come deve espletarle? E in generale, per risparmiare costi ed accrescere
efficienza, perché non si dimezza il numero dei parlamentari e le loro
indennità, cominciando con l’eliminazione dei senatori a vita nominati? E
quando si comincia a responsabilizzare, anche finanziariamente, gli enti
autonomi, cominciando dalla Regioni?
Evidentemente chiarezza, semplicità,
responsabilità… non sono tipiche virtù italiche.
Giovanni Longu
Berna, 9.4.2014
Berna, 9.4.2014
Nessun commento:
Posta un commento