31 gennaio 2012

Cittadinanza automatica priva di senso?

E’ tornata a infuriare sui media italiani la disputa sulla cittadinanza ai figli degli stranieri. A dar fuoco alle polveri è stato Beppe Grillo che sul suo blog aveva scritto, per provocazione o convinzione non si sa, visto il personaggio: «Priva di senso la cittadinanza a chi nasce in Italia, anche se i genitori non ne dispongono: è una questione utile solo a fomentare lo scontro…».

La stragrande maggioranza degli intervenuti al dibattito si è schierata nettamente contro il comico del Movimento a cinque stelle. Non mi sembra, tuttavia, che la valanga d’interventi abbia apportato chiarezza all’intricata questione. Direi, anzi, che la confusione è aumentata perché il tema continua ad essere affrontato in termini molto generici e ideologici. Infatti, non vengono mai definiti chiaramente i termini del problema, né si affronta mai la questione di fondo del valore stesso della cittadinanza italiana in un’Europa sempre più integrata. Ancora, non vengono mai esaminate le modalità di ottenimento della cittadinanza: deve trattarsi di un atto dovuto (per il semplice fatto di nascere in territorio italiano) o di una concessione a richiesta o di una naturalizzazione condizionata (per es. all’integrazione dei genitori)?

In Italia: molta confusione
Il tema è visto spesso come uno dei tanti terreni di scontro ideologico tra fautori legati prevalentemente ai partiti di centro-sinistra e oppositori collocati soprattutto tra i partiti di centro-destra. Tra i favorevoli c’è poi una parte che invoca a sostegno della propria tesi considerazioni di tipo strumentale, ad esempio, per non alimentare la xenofobia, per evitare le discriminazioni di altre persone «come noi», ma anche per non apparire fiancheggiatori della Lega Nord. Tra i contrari ci sono evidentemente coloro per i quali qualunque cambiamento rappresenta sempre un rischio e altri che considerano la naturalizzazione al massimo un atto di liberalità da parte dello Stato, non un atto dovuto.
A conferma della mancanza di chiarezza in questa discussione si potrebbero citare molte affermazioni che per la loro genericità non dovrebbero essere usate in un dibattito serio. Non ha senso, ad esempio, affermare che «chi nasce in Italia è italiano» oppure che la cittadinanza per un figlio di immigrati che nasce in Italia è un «diritto sacrosanto», perché un tale diritto non è previsto né dalla costituzione né da una legge dello Stato. Più corretta, invece, è l’affermazione del Quirinale che auspica «l’effettivo riconoscimento della cittadinanza italiana a quanti nascono nel nostro Paese da genitori stabilmente residenti». In questo caso infatti si tratta di un auspicio, un desiderio, legittimo, che ovviamente andrà esaminato alla luce di altre considerazioni di tipo giuridico, politico, sociale. Dire che la cittadinanza ai figli di stranieri è una «questione di giustizia e di civiltà» può essere un’opinione rispettabilissima, ma deve poter essere discussa insieme ad altre opinioni diverse.

In Svizzera: una legge mai applicata
Quanto la questione della cittadinanza «automatica» dei figli di immigrati sia delicata e complessa lo dimostra la storia più che secolare e non ancora conclusa della legislazione svizzera in materia. Ricordarla può essere utile alla discussione in Italia.
In Svizzera se ne cominciò a parlare all’inizio del secolo scorso, in un contesto migratorio simile a quello dell’Italia di oggi, ma con alcune differenze sostanziali. La percentuale di stranieri, in costante aumento a causa dei grandi lavori ferroviari, era di poco superiore a quella che si registra oggi in Italia; la natalità tra gli stranieri era più alta di quella degli indigeni (come accade oggi in Italia); nella vita quotidiana, i figli degli stranieri non si distinguevano granché da quelli svizzeri.
La differenza più importante è forse rappresentata dal fatto che in alcune città elvetiche la percentuale di stranieri attorno al 1910 era così alta (fra il 30 e il 50%) da far paura, mentre in Italia resta comunque assai modesta. Un’altra grande differenza è data dal fatto che allora la Svizzera era ancora un Paese con una forte corrente emigratoria. Si parlava addirittura di «pericolo nazionale» che andava ovviato naturalizzando «obbligatoriamente» gli stranieri nati in Svizzera. Sembrava vitale compensare le partenze dei giovani emigranti svizzeri con «nuovi svizzeri» fin dalla nascita.
Una legge federale che procurasse alla Patria nuovi cittadini, già assimilati o assimilabili, sembrava la soluzione del problema, tanto più che avrebbe contribuito ad abbassare la percentuale degli stranieri, destinata altrimenti a crescere pericolosamente in maniera esponenziale. La legge fu approvata nel 1903. Essa consentiva ai Cantoni (sovrani in materia civile) di applicare una sorta di «jus soli», cioè il diritto alla cittadinanza a quanti nascevano nel proprio territorio da genitori stranieri immigrati purché ivi residenti da almeno cinque anni. Sembrava fatta apposta per agevolare non solo l’accesso alla cittadinanza in modo da ridurre la percentuale di stranieri, soprattutto nei Cantoni con un tasso particolarmente elevato, ma anche a debellare in tempo la nascente xenofobia legata alla paura dell’«inforestierimento».
L’esito fu catastrofico perché nessun Cantone applicò mai quella legge. Non piaceva «questo sistema di fabbricare svizzeri» e nessuno dava per scontato che chi nasceva in Svizzera fosse «assimilabile». Tutti i Cantoni preferirono continuare a naturalizzare solo quegli stranieri che dimostravano di essersi «assimilati» e ne facevano richiesta dando prova della loro libera scelta e della «spontanea rinuncia alla patria originaria».

Problema più culturale che giuridico o politico
La richiesta di una legge che rendesse possibile la «cittadinanza automatica» agli stranieri di seconda generazione venne avanzata più volte durante tutto il secolo scorso, ma ogni tentativo di soluzione fu sbarrato dal voto popolare. Il tema non è stato tuttavia abbandonato. Resta ancora pendente, da alcuni anni, una proposta legislativa di una parlamentare italo-svizzera, Ada Marra, per la concessione della cittadinanza automatica almeno agli stranieri di terza generazione. Non è ancora approdata alla discussione generale, ma l’esito è incerto perché in Svizzera un «diritto» alla cittadinanza automatica fa paura.
Non si tratta evidentemente di un problema solo giuridico o politico (nemmeno in Italia), ma culturale. Tanto varrebbe impegnarsi maggiormente sul terreno dell’integrazione e facilitare l’acquisizione della cittadinanza a coloro che la richiedono e intendono rispettarla.

Giovanni Longu
Berna 31.1.2012

25 gennaio 2012

La crisi italiana vista dalla Svizzera

Per evidenti ragioni non solo di prossimità, ma anche d’interesse, la Svizzera segue con grande attenzione l’evolversi della situazione nell’Eurozona. Un euro debole rafforza il franco e questo non giova all’economia svizzera di esportazione nel mercato europeo, soprattutto se la situazione attuale dovesse peggiorare.

Per quel che concerne in particolare l’Italia, i media svizzeri si sforzano in generale di registrare obiettivamente quel che sta succedendo, sia le misure per contenere il debito pubblico e stimolare lo sviluppo e sia le reazioni ch’esse suscitano in campo politico e soprattutto sociale. Indirettamente, però, molti servizi lasciano trasparire un quadro piuttosto negativo della situazione italiana, paragonata talvolta persino a quella della Grecia, salvo poi ad affermare che mai e poi mai l’Italia potrebbe andare in default, cioè in fallimento. Spesso sono invece i lettori dei grandi quotidiani che tendono a generalizzare alcune situazioni di evasione fiscale (ad es. ristoranti e negozi specializzati), antipolitica, leggi esistenti e non osservate, ecc.

I rapporti bilaterali
I temi sui quali si focalizza maggiormente l’attenzione dei media svizzeri, in particolare di quelli ticinesi, sono tuttavia quelli che in qualche modo hanno un rapporto con la Svizzera, soprattutto fiscalità e frontalieri. All’indomani dell’approvazione del decreto legge «salva Italia», che obbliga, fra l’altro, banche, poste e altri intermediari finanziari a comunicare alle autorità fiscali tutti i movimenti effettuati dai propri clienti, un quotidiano ticinese intitolava un articolo «Addio alla sfera privata». Sempre in tema di fiscalità, alcuni media ticinesi deplorano che siano ancora in funzione ai passaggi doganali i cosiddetti «fiscovelox» che registrano le targhe delle auto in transito.
Un altro tema sul quale i media ticinesi si soffermano molto riguarda l’accordo fiscale bilaterale che la Svizzera vorrebbe rinegoziare sul «modello Rubik» e che invece il governo Monti considera non prioritario. Il fatto che ripetutamente Monti abbia dichiarato che sta ancora valutando un accordo con la Svizzera, ma non subito, perché forse non è compatibile con le direttive dell’Unione Europea, preoccupa gli ambienti interessati svizzeri (soprattutto ticinesi).
I motivi di preoccupazione, accompagnata spesso da indignazione, sono essenzialmente due. Il primo è l’idea attribuita a Monti di considerare ancora la Svizzera una specie di «paradiso fiscale» perché in nome del segreto bancario (vitale per la piazza finanziaria svizzera) rifiuta lo scambio «automatico» di informazioni. Il secondo è che l’esitazione di Monti possa avere conseguenze a livello dell’UE e vanificare anche i due accordi già conclusi con la Germania e la Gran Bretagna, che hanno di fatto accettato l’anonimato dei capitali depositati in Svizzera. Con vivo disappunto un giornalista ha fatto notare, citando un ex consigliere federale, che i paradisi fiscali non ci sarebbero se non ci fossero gli inferni fiscali e l’Italia è uno di questi.

Nuove opportunità per la Svizzera
Ma per la Svizzera la situazione italiana non è solo fonte di preoccupazione. Più di un osservatore ha fatto presente che in questo periodo, soprattutto dopo l’insediamento del governo Monti, stanno rientrando in Svizzera molti capitali già «scudati» dal precedente governo. Gli investimenti italiani nel settore immobiliare, specialmente nel Ticino e nei Grigioni, sono in aumento. A fuggire non sarebbero, sembra, solo capitali, ma intere aziende favorite dalla stabilità svizzera e dal favorevole sistema di tassazione qui esistente. La Svizzera potrebbe anche approfittare dei «cervelli in fuga» dagli atenei italiani «poco abili nel valorizzare il merito e incapaci di fornire prospettive lavorative adeguate».
Insomma, non è vero che l’Italia, come vorrebbe qualche forza politica aggressiva ma poco attenta, è solo fonte di preoccupazione, perché dalla vicina Penisola arrivano anche nuove opportunità e in Ticino sono certamente molti a poter ancora dire «tutto bene nel nostro Cantone, anche grazie agli italiani».

Giovanni Longu
Berna, 24.01.2012

La crisi italiana vissuta dagli italiani

Mi è capitato di leggere che la crisi italiana non sarebbe altro che un’espressione della crisi più generale dell’Eurozona, dovuta alla fragilità dell’euro. Mi pare un errore grossolano imputare all’euro la difficile situazione che attraversano alcuni Paesi compresa l’Italia, perché una moneta non ha mai colpa, semmai sono colpevoli coloro che non la sanno usare o la usano male, per esempio speculandoci. Tanto è vero che ad alcuni Paesi che l’hanno adottata ha portato sicuramente bene e meno bene ad altri. Alla Germania, ad esempio, l’euro ha certamente giovato, favorendo il suo sviluppo dopo la riunificazione, l’alto tenore di vita dei suoi cittadini e la sua consacrazione del Paese come indiscussa superpotenza europea, che cresce persino nei periodi di crisi internazionale e fa diminuire la sua quota di disoccupati quando altrove aumenta.

Tutta colpa dell’euro?
Mi è capitato anche di leggere che per alcuni Paesi sarebbe addirittura conveniente uscire dall’euro: per i più deboli perché non riescono a mantenere il ritmo dei primi della classe, per i più forti perché stando in cordata con i pericolanti potrebbero finire anch’essi nel burrone. Difficile, credo per chiunque, avere certezze in questo momento. Dipenderà da come evolverà la situazione nei prossimi mesi, da una parte se la Germania e pochi altri Paesi forti saranno ancora disposti a sostenere l’euro a tutti i costi per favorire il risanamento dei conti pubblici di Paesi fortemente indebitati come l’Italia e la Grecia, e dall’altra se questi ultimi riusciranno a sopportare a lungo la terapia dell’austerità e del rigore imposta dai primi.
Il meno che si possa dire è che l’Italia del governo Monti sta assaporando in questi mesi l’amarezza della medicina confezionata soprattutto in Germania. Quel che non si sa è se le misure recessive finora adottate potranno essere sopportate a lungo, visto che l’Italia è già in recessione e avrebbe bisogno invece di crescere.
Invano anche il governo Monti, come aveva già tentato quello precedente, ha chiesto l’aiuto dell’Unione Europea, perché anche l’economia dell’Eurozona è in recessione o cresce pochissimo. Di più, l’Unione Europea è sotto questo aspetto debole, perché non ha una politica economica, monetaria e fiscale unitaria e non ha nemmeno una banca centrale come prestatore di ultima istanza. In questa situazione, il dubbio sulla solvibilità (cioè la capacità di far fronte ai propri debiti pubblici) di Paesi come la Grecia, ma anche della Spagna e dell’Italia permane.

Cresce il disagio
Questa situazione è vissuta drammaticamente da moltissimi italiani, che di tutti i provvedimenti adottati finora dal governo finalizzati all’equità e allo sviluppo colgono solo l’aspetto penalizzante dell’aumento delle tasse e dei sacrifici imposti alle famiglie meno agiate. Soprattutto il ceto medio si trova in grave difficoltà.
Molti contribuenti sono esasperati e se finora hanno trovato una sorta di via d’uscita nell’evasione fiscale, d’ora in poi questa via sarà loro preclusa, grazie alla lotta intransigente del governo Monti di far pagare le tasse a tutti. Forse proprio a causa dei drastici provvedimenti antievasione la rabbia di molti contribuenti cresce ulteriormente, perché a fronte di un prelievo fiscale ritenuto eccessivo (che si sta avvicinando al 50% della produzione interna lorda) non vedono affatto crescere l’equità fiscale, per cui tutti dovrebbero pagare in proporzione al loro reddito e al capitale posseduto e lo Stato dovrebbe ridurre notevolmente le proprie spese.

Urge la crescita
Non è giustificato, ma è un fatto, che dall’insediamento del governo Monti, la fuga di capitali all’estero, soprattutto in Svizzera, è in costante aumento. E’ un vero peccato che all’Italia vengano così a mancare ulteriori risorse utilissime all’indispensabile crescita, ma bisognerebbe anche chiedersi onestamente se al riguardo la cura Monti sia stata finora azzeccata. Solo la crescita economica è infatti in grado non solo di rassicurare i mercati internazionali sulla solvibilità dell’Italia, ma anche di consentire una diminuzione significativa del debito pubblico.
Nemmeno le recenti misure adottate per favorire la crescita attraverso le liberalizzazioni sembrano appropriate. Per quanto giustificate esse non produrranno infatti i loro effetti che sul lungo periodo. Eppure alcuni incentivi alla crescita avrebbero potuto essere reperiti subito tagliando gli sprechi, vendendo beni inutilizzati dello Stato, dando una decisa sforbiciata ai costi della politica. Gli italiani avrebbero visto in queste misure segnali di ottimismo e il disagio sociale, invece di aumentare, sarebbe forse diminuito.

Giovanni Longu
Berna 25.01.2012

18 gennaio 2012

L’elezione di Motta in Consiglio federale e l’italianità

Cent’anni fa, il 14 dicembre 1911 veniva eletto consigliere federale Giuseppe Motta, uno dei politici più importanti del periodo che precedette la grande guerra fino alla seconda guerra mondiale. Cent’anni più tardi, ancora il 14 dicembre, è stato (ri)eletto a Berna il Consiglio federale. Molti italofoni avevano sperato invano che questo centenario fosse di buon auspicio per la Svizzera italiana, ma così non è stato. Sarà per questa delusione o per altri motivi, fatto sta che nell’opinione pubblica è passato in secondo piano il ricordo dell’elezione brillante (184 voti favorevoli su 199 voti validi e 206 votanti) di Giuseppe Motta tra i sette saggi.

Consigliere federale. Giuseppe Motta
Può essere illuminante, nell’ottica dei rapporti italo-svizzeri e della recente discussione sull’italianità in Svizzera, ricordare il momento storico di quell’elezione, perché avvenne al termine del risorgimento italiano (a cui parteciparono anche numerosi ticinesi) e alla vigilia dell’avvento del fascismo, che creerà non pochi problemi anche in Ticino. Per valutarne l’importanza è necessario anzitutto ricordare che la Svizzera italiana stava per precipitare in quel momento in una grave crisi sia per ragioni interne (lotte intestine tra partiti e correnti politiche) e internazionali. Basti pensare che da pochi anni era stato chiuso il più grave incidente diplomatico tra l’Italia e la Svizzera (il caso Silvestrelli), ma rigurgiti d’irredentismo giungevano ancora in un Ticino che si sentiva ben poco considerato a livello federale.

Il disagio dei ticinesi…
Profondamente intrisi di italianità e al tempo stesso convinti svizzeri, i ticinesi provavano un disagio crescente nei confronti dei «confederati», che in Ticino, pur essendo una esigua minoranza, si comportavano sempre più da padroni (conducevano aziende industriali e commerciali, esercitavano numerose attività turistiche, dirigevano gran parte dei servizi federali dislocati in Ticino; avevano le loro associazioni, le loro scuole, i loro giornali) e non mostravano alcun interesse a integrarsi. Gli intellettuali ticinesi lamentavano anche un imbastardimento linguistico e culturale del Ticino e accusavano la Confederazione di non aver alcun riguardo della terza lingua nemmeno nei servizi federali presenti in Ticino e nella corrispondenza con le autorità cantonali. La Svizzera italiana era inoltre sottorappresentata ai vertici dell’amministrazione federale e assente ormai dal 1864 dal Consiglio federale.
Come se ciò non bastasse, i ticinesi venivano accusati dai confederati di prestare il fianco con la loro arrendevolezza alla propaganda nazionalista e irredentista italiana e all’attivismo in questo senso della numerosa colonia italiana presente in Ticino.

… tra italianità e…
In effetti, in questa difficile situazione, molti ticinesi sentivano ancor più forti i vincoli che li legavano all’Italia e apprezzavano la solidarietà degli italiani. Quando nel settembre 1911 fu organizzata dagli italiani residenti nel Ticino una grande manifestazione a Lugano per ringraziare i ticinesi che combatterono per l’Italia il successo fu enorme. Scrisse al riguardo il Corriere del Ticino: «la popolazione luganese ha partecipato in massa al comune tripudio, sentendosi lusingata dalla prova di internazionale gratitudine tributata dai figli d’Italia a quei Ticinesi che hanno pugnato per la redenzione del grande Paese amico». E la Gazzetta Ticinese non esitava a qualificare la manifestazione «pro Ticinesi» come «un avvenimento storico!», che contribuiva a rafforzare l’amicizia e la fratellanza dei due popoli.
Come detto, non tutti, soprattutto nella Svizzera tedesca ma anche nel Ticino, apprezzavano questo atteggiamento dei ticinesi. Contro gli «italofobi», guidati in Ticino dal bisettimanale in lingua tedesca Tessiner Zeitung, la Gazzetta Ticinese ritenne utile ripubblicare un articolo apparso sul Corriere della Sera nel novembre 1911, «dovuto alla penna autorevole d'una fra le più eminenti personalità del mondo politico ed intellettuale, non pure d'Italia, ma del mondo: Luigi Luzzatti». Questi lamentava una sorta di insurrezione di tanti giornali soprattutto svizzero-tedeschi, che irridevano all’Italia, che si auguravano una «vittoria turca ai nostri danni e persino a nostra umiliazione» [il riferimento è alla guerra italo-turca per la conquista della Tripolitania], che raccoglievano «tutte le false notizie a nostro detrimento» e inventavano perfino«la fiaba che l’Italia con le sue presuntuose ambizioni militari voglia annettersi al Cantone Ticino…».
Com’è possibile, si domandava Luzzatti, «insorgere così contro un popolo vicino, che non ha mai usato né abusato della sua forza, e a cui la Svizzera seriamente non può rimproverare né un atto né un cenno di scortesia?». E affermava che gli italiani sono pieni di ammirazione per la Svizzera, per il suo patriottismo, per le sue istituzioni, per la sua economia, per il suo federalismo «che stringe e non allenta il vincolo comune», per le sue forme di democrazia (rappresentanza proporzionale, referendum e iniziativa popolare), ecc. E poi, «mai l’Italia ha pensato a offendere la sua indipendenza, a menomare la sua dignità, a oltraggiarla con parole ambigue, a sfidarla con disegni di annessione sul vicino Cantone ticinese».

… elvetismo
Tant’è che nel Ticino, mentre cresceva lo scoramento nei confronti della Confederazione, cresceva anche la consapevolezza del pericolo rappresentato dai rigurgiti del nazionalismo italiano post-risorgimentale e di un possibile irredentismo ticinese. E’ vero che il rappresentante della Svizzera a Roma, Giovanni Battista Pioda, riteneva ingiustificato parlare di «irredentismo nel Ticino» perché «noi siamo svizzeri e nessuno crede che si starebbe meglio altrimenti», ma i confederati e anche molti ticinesi non erano dello stesso avviso.
Lo storico Marcacci ha riassunto bene lo spirito di quei tempi con queste parole: «negli anni precedenti la prima guerra mondiale i ticinesi si sentivano come accerchiati e minacciati dal pangermanesimo a nord e dall'irredentismo a sud, con una popolazione autoctona in declino e con i confederati da una parte e gli italiani dall’altra che si arrogavano il diritto di dibattere dell’identità e degli interessi del Ticino».
Per attenuare il forte sentimento d’italianità e, soprattutto, stemperare le critiche dei confederati circa la fedeltà dei ticinesi alla Confederazione, in alcuni ambienti si cercò allora di mettere in luce l’«elvetismo» del Ticino. Il Pioda invitava i corregionali anche a non dubitare delle «buone intenzioni» del Consiglio federale rispetto al Ticino, sebbene in quel momento nessun consigliere federale conosce così bene la lingua italiana «da rendersi conto di ciò che è e desidera il Ticino». Ciononostante «nel nostro Cantone si dubita talvolta dei sentimenti dei confederati d’oltre Gottardo. E per questo è bene che il Ticino abbia un rappresentante nel supremo potere federale».

L’elezione di Giuseppe Motta e l’italianità
In questa situazione, la candidatura e la successiva elezione in Consiglio federale del ticinese Giuseppe Motta fu provvidenziale. Già la sua candidatura, subito dopo la morte (27.11.1911) del predecessore Josef Anton Schobinger, esponente della destra cattolica, fu sostenuta ampiamente non solo dall’opinione pubblica ticinese e confederata, ma dalla stragrande maggioranza della classe politica. Ma soprattutto la sua elezione fu interpretata unanimemente come un segno importante dell’attenzione della Confederazione alla Svizzera italiana e come una garanzia di fedeltà di quest’ultima alla patria comune.
I giornali confederati e ticinesi dell’epoca, oltre a riconoscere all’avvocato e consigliere nazionale di Airolo Giuseppe Motta le qualità tipiche di un ottimo uomo di Stato, vedevano in lui anche la personalità giusta in grado di stringere i legami tra il Ticino e la Confederazione.
Il 1° dicembre 1911, Popolo e Libertà, il quotidiano del Partito conservatore ticinese, nel proporre una specie di rassegna stampa dei principali quotidiani confederati riassumeva l’opinione generale in questo titolo: «La candidatura “ticinese” al Consiglio Federale si impone come atto di saggezza e di politica nazionale».
Oltre alle motivazioni di carattere personale e di politica interna, la candidatura di Motta assumeva in quel momento anche un significato di politica internazionale, sottolineato dal già ricordato Pioda a Roma: «Altro fattore militante a favore della candidatura Motta si è che ci troviamo alla vigilia dei trattati coll’Italia a proposito della linea del Gottardo. L’on. Giolitti convocherà probabilmente le Camere verso la fine del gennaio o al principio di febbraio, per discutere la convenzione. La presenza di uno svizzero italiano nel governo federale è di capitale importanza».
Quando il 14 dicembre 1911 Giuseppe Motta venne eletto brillantemente in Consiglio federale, soprattutto per la stampa ticinese si trattò non solo di «un fausto evento», ma di un «momento storico». Anche la stampa italiana salutò con soddisfazione l’elezione del ticinese. Il Corriere della Sera di Milano ricordò, che il Motta (uomo di profonda coltura, brillante intelligenza, energia eccezionale, attività indefessa ed eccellente oratore) «in questi ultimi tempi, in special modo ha condotto un'intensa campagna a difesa dell’italianità nel Ticino».
Anche il Secolo di Milano sottolineò come l’elezione del ticinese costituisse «un atto di saggezza politica nazionale, in quanto rende più saldi i vincoli che legano il Ticino alla madre patria, ed al tempo stesso salvaguarda il popolo ticinese - oltreché i suoi interessi – i diritti della sua lingua, l’italiana, e della sua schiatta italica».
Purtroppo un simile evento non si è ripetuto cento anni più tardi. Ma ripensare al contesto storico interno e internazionale dell’elezione di Motta, alla profonda convinzione e all’ampio sostegno che ebbe la sua candidatura per il Consiglio federale potrebbe essere utile perché si capisca finalmente quanto già sostenuto 100 anni fa, ossia che la rappresentanza nel Consiglio federale della Svizzera di cultura italiana è indispensabile per salvaguardare non solo i diritti della lingua e della cultura italiana ma anche la stessa coesione nazionale.

Giovanni Longu
Berna, 18.12.2012

11 gennaio 2012

Passare il Rubik…one

Da oltre un anno le relazioni tra la Svizzera e l’Italia sono bloccate attorno alla spinosa questione della doppia imposizione. Trattandosi di un argomento difficile sotto l’aspetto tecnico-giuridico, in questo articolo si prescinderà dagli aspetti più specifici per soffermarsi principalmente sull’aspetto generale.

Per una questione di giustizia, quasi tutti gli Stati adottano convenzioni internazionali per evitare che i propri cittadini vengano tassati due volte per lo stesso bene soggetto a imposizione fiscale. Altrimenti detto, per fare un esempio, un cittadino italiano che possiede un reddito o un capitale mobile (denaro) o immobile (per es. una casa) in Svizzera non dev’essere tassato due volte, ma solo una volta nell’uno o nell’altro Paese. Per evitare la doppia imposizione, tra la Svizzera e l’Italia esiste una convenzione entrata in vigore nel 1979, ma non più attuale. Da allora, infatti, specialmente a livello europeo, è mutato notevolmente il contesto generale, basti pensare alla libera circolazione dei capitali e alla lotta contro il riciclaggio di denaro sporco e contro la frode fiscale. Per questo molti Paesi, tra cui l’Italia e la Svizzera, hanno adeguato o stanno adeguando in questi anni precedenti accordi internazionali per evitare la doppia imposizione.

Accordi con Gran Bretagna e Germania
La Svizzera ha già concluso convenzioni bilaterali con numerosi Paesi. Due in particolare corrispondono maggiormente al caso italiano, la Gran Bretagna e la Germania, perché molti cittadini britannici e tedeschi, come molti italiani, detengono capitali in Svizzera. Questi due accordi in particolare sono stati conclusi sulla base di un piano chiamato «Rubik». Poiché la Svizzera non intende violare in alcun modo le regole internazionali contro il riciclaggio di denaro sporco e contro la corruzione, ma nemmeno il segreto bancario, ha proposto a vari Stati europei di prelevare alla fonte una «imposta liberatoria», ossia l’imposta a cui sarebbero sottoposti i capitali per esempio in Gran Bretagna, in Germania o in Italia, e restituirla rispettivamente al fisco britannico, tedesco o italiano, ma senza comunicare i nomi dei legittimi proprietari. Solo con l’Italia non è riuscita ancora nemmeno ad avviare una trattativa, soprattutto per l’intransigenza del precedente ministro delle finanze Tremonti (che considerava la Svizzera un paradiso fiscale) e nonostante che il Parlamento italiano avesse adottato diverse mozioni favorevoli alla ripresa delle trattative.
Caduto il governo Berlusconi, la Svizzera sperava di riaprire più facilmente il dialogo col nuovo governo Monti. Invece, a tutt’oggi, si è ancora al punto di partenza in quanto Monti, che è anche ministro del tesoro, non ha ritenuto il tema prioritario. E come non dargli ragione, se davvero doveva pensare finora a mettere in salvo l’Italia dal rischio di bancarotta, a rimpinguare le casse dello Stato con nuove tasse e recuperi di evasione fiscale e soprattutto a ricreare in Europa un clima di fiducia nei confronti dell’Italia? Non va infatti dimenticato che nei prossimi mesi l’Italia deve rifinanziare circa 200 miliardi di euro del suo debito pubblico e altri 130 miliardi entro la fine dell’anno.
Poiché la questione è bloccata da tempo, sarebbe stato opportuno che il nuovo governo Monti avesse ripreso subito il dialogo con la Svizzera, tenendo conto delle numerose e intense relazioni bilaterali in tutti i campi, ma ha preferito aspettare di vederci più chiaro, non essendo convinto (al pari dei francesi e di molti europei) che in materia fiscale il segreto bancario svizzero sia ancora giustificato e che l’anonimato corrisponda alle regole comunitarie. Monti si è detto comunque disposto a studiare la questione al fine di trovare un accordo con la Svizzera, probabilmente proprio sul modello dell’accordo con la Germania.

Monti non è Cesare?
D’altra parte, se nell’Unione Europea due grandi Paesi come la Gran Bretagna e la Germania hanno già concluso un accordo soddisfacente con la Svizzera, non si vede perché Monti non possa superare le sue perplessità e fare altrettanto. Oltretutto il beneficio che ne riceverebbe l’Italia sarebbe secondo alcune fonti un gruzzolo da almeno 9 miliardi di euro, che in tempi di crisi come questi sarebbe estremamente utile. E poi non si vede perché ciò che ha sottoscritto la signora Merkel non possa essere sottoscritto anche dal prof. Monti.
Non resta che aspettare, ma si può star certi che la Svizzera non rinuncerà facilmente al segreto bancario (metterebbe in pericolo la sua piazza finanziaria, che è una delle più importanti al mondo per la gestione dei patrimoni) pur essendo molto aperta alla collaborazione nel campo della lotta al riciclaggio e della lotta alla frode fiscale. Il cosiddetto «piano Rubik» è un tentativo di salvare molteplici interessi. Molti lo ritengono soddisfacente.
Per assonanza mi viene in mente il Rubicone della storia romana e mi viene spontanea la domanda: passerà anche Monti il Rubik..one come Cesare passò nel 49 a.C. quel fiumiciattolo che separava la Gallia Cisalpina dall’Italia con un semplice «i dadi sono tratti»? Certo, Monti non è Cesare, ma il coraggio non si può negare per principio ad alcuno.

Giovanni Longu
Berna, 11.01.2012

2012: anno decisivo per l’Italia e per l’Europa

Ci sono nella storia di tanto in tanto anni memorabili perché segnano per una nazione o più nazioni o addirittura per il mondo intero una svolta importante e addirittura decisiva. Il 2012 potrebbe esserlo per l’Italia e forse per l’Unione Europea.
Da diversi decenni, in Italia, si naviga ormai a vista, senza una meta precisa perché i poteri istituzionali (parlamento e governo) non sembrano in grado di indicarla e tanto meno di raggiungerla. Non va meglio in Europa perché l’Unione Europea non è una federazione e non dispone di poteri «reali» per elaborare e realizzare una politica generale, economica, finanziaria e fiscale veramente «comunitaria». Inoltre l’Unione è fortemente sbilanciata tra i vari Paesi membri in base al prodotto interno lordo (PIL), all’indebitamento pubblico, al tasso di occupazione/disoccupazione, al tasso d’inflazione, alla soglia di povertà, ecc.
In questa situazione di grande disparità e incertezza, il fatto di avere una moneta comune, l’euro, non aiuta molto, anzi può essere un ostacolo. Per alcuni Paesi, il rischio di essere schiacciati da quelli più forti e marginalizzati in un’Europa a velocità di crescita diverse è reale.

Cresce l’urgenza di una svolta
Uno dei Paesi maggiormente a rischio è l’Italia. Per allontanare lo spettro della bancarotta (evocato all’inizio del suo mandato dal capo del governo Monti) non sono bastate le celebrazioni del 150° dell’unità d’Italia e la retorica dei celebranti tendente a rafforzare il senso di una patria coesa «una e indivisibile». Non sono bastate, finora, nemmeno le prime misure del governo Monti in aggiunta alle manovre del precedente governo. La situazione, infatti, non solo non è migliorata ma rischia di peggiorare. L’Italia sarà pure «una e indivisibile», ma il senso dell’unità è della solidarietà è fortemente carente, le disparità sociali restano enormi, la distanza tra Nord e Sud (in termini economici, culturali, sociali) aumenta invece di diminuire. Diventa perciò sempre più urgente invertire la tendenza e far sì che al Sud si produca altrettanto PIL (prodotto interno lordo, ossia ricchezza) che al Nord, che venga abbattuta la disoccupazione giovanile e generale, che i servizi pubblici funzionino come al Nord (sanità, trasporti, istruzione, burocrazia), che i cittadini del Sud si sentano finalmente responsabili del proprio destino.
Poiché è cresciuta la consapevolezza che se il fossato tra Nord e Sud si allarga rischia di venir meno non solo la coesione nazionale ma anche l’aggancio ai Paesi trainanti dell’Unione Europea, quest’anno potrebbe essere l’anno della svolta. Sarà così? Dipenderà sicuramente da molti fattori sia a Sud che a Nord, ma è indubbio che le attese principali sono poste nella capacità del governo Monti di avviare un autentico «federalismo» responsabile e solidale e una effettiva politica di sviluppo. E’ necessario e urgente che la politica per il Mezzogiorno fornisca sì risorse sufficienti e incentivi mirati alla crescita, ma faccia anche capire che la risorsa principale è la volontà di riscatto degli stessi meridionali, che il tempo dell’assistenzialismo è finito e il diritto al lavoro deve accompagnarsi sempre col dovere di cercare e creare da sé stessi le opportunità di lavoro sul territorio.

Responsabilità politiche enormi
Se questa politica non verrà avviata in tempi brevi il governo Monti perderà la sua sfida più importante. Il riaggancio al resto dell’Europa, soprattutto ai principali Paesi con cui l’Italia deve confrontarsi, Germania, Francia e Gran Bretagna, non dipenderà tanto dall’allungamento dell’età pensionabile e dal recupero dell’evasione fiscale (entrambi necessari) quanto piuttosto dalla capacità del Sud di produrre altrettanta ricchezza della media europea. Se le guardie di finanza vanno a Cortina o a Portofino per scovare gli evasori fiscali fanno bene, ma se il governo Monti non riuscirà a neutralizzare la criminalità organizzata del Sud e a imporre la legalità, a ridurre gli sprechi delle amministrazioni pubbliche, a sconfiggere la diffusa rassegnazione e il pessimismo dei meridionali, a ridare fiducia agli investitori e a sconfiggere anche lì la flagrante evasione fiscale, non ci sarà alcuna svolta significativa per l’Italia.
Non mi sembra che il nuovo governo si sia mosso finora con decisione in questa direzione e purtroppo né il Presidente della Repubblica, uomo del Sud e deus ex machina del governo Monti, né i grandi partiti che siedono (utilmente?) in Parlamento sono stati capaci di modificare in questo senso la cosiddetta manovra «salva-Italia», ritenuta da molti osservatori addirittura recessiva. Eppure è abbastanza evidente che senza crescita nel Mezzogiorno (il Nord cresce a sufficienza) non c’è crescita in Italia, non c’è possibilità di ridurre l’enorme debito pubblico e non c’è alcuna possibilità di competere con i Paesi europei più forti trainati dalla Germania. E’ dunque auspicabile che arrivino presto le giuste manovre: taglio degli sprechi e del superfluo, cominciando dalla politica, e incentivi per l’occupazione (con annessi e connessi come l’introduzione senza tentennamenti della flessibilità del lavoro) soprattutto giovanile e nel Mezzogiorno.

Giovanni Longu
Berna, 11.01.2012

28 dicembre 2011

Dieci anni fa il CISAP

Dieci anni fa si chiudeva ufficialmente l’ultimo capitolo della lunga storia del CISAP, un’istituzione italo-svizzera che ha contribuito a traghettare l’immigrazione italiana nella fase più difficile della sua presenza in Svizzera. Mi sembra utile ricordare il «Centro italo-svizzero di formazione professionale», conosciuto con la sua sigla originaria CISAP, perché ogni anno che passa anche i ricordi più belli tendono a sbiadire. Non dovrebbe essere così nei confronti del CISAP, perché è entrato di diritto nella storia dell’immigrazione italiana in Svizzera.

Il CISAP era stato fondato attorno alla metà degli anni Sessanta da Giorgio Cenni e alcuni amici come lui immigrati in Svizzera nel dopoguerra, provenienti soprattutto dal Nord Italia. Si erano subito ben inseriti nelle fabbriche svizzere grazie alle loro provate capacità professionali e al loro spirito di adattamento. Negli anni Sessanta, con l’arrivo in massa di immigrati italiani soprattutto dal Mezzogiorno, quelle capacità e quello spirito erano fortemente carenti. Il rischio di restare tutta la vita manovali e di essere espulsi dal mercato del lavoro in periodi di crisi era molto alto. Va aggiunto che contro questo rischio non prevedevano antidoti né le autorità italiane né quelle svizzere. Nel recente accordo italo-svizzero di emigrazione del 1964 non era stato previsto assolutamente nulla per la formazione professionale di questa nuova manodopera impreparata ad affrontare le problematiche di un mondo della produzione industriale evoluto.

Un centro pionieristico per l’integrazione professionale
Il CISAP, una scuola serale e del fine settimana, orientata all’integrazione nel mondo del lavoro svizzero attraverso la formazione e il perfezionamento professionale fu la risposta confezionata e gestita con spirito pionieristico e volontaristico all’interno dell’immigrazione stessa. Convinti dell’utilità e della validità dei corsi offerti per tornitori, fresatori, aggiustatori, saldatori, automeccanici, disegnatori, montatori, muratori, falegnami, elettricisti, installatori, elettronici, informatici, ecc. sostennero la scuola i sindacati svizzeri, gli imprenditori, le autorità cantonali e federali e specialmente le autorità italiane. Vennero aperti centri affiliati in tutto il Cantone di Berna ma anche in altri Cantoni. Del metodo formativo adottato dal CISAP s’interessarono psicologi, pedagoghi, insegnanti e persino l’Organizzazione internazionale del lavoro.
Negli anni Settanta e Ottanta il CISAP era diventato per migliaia di italiani ma in seguito anche spagnoli, portoghesi, albanesi, turchi, e altri immigrati stranieri una sorte di faro che attirava lo sguardo e segnalava un percorso che avrebbe potuto portare al successo. Molti lo seguirono. Sui suoi banchi, nei laboratori e nelle officine dei centri CISAP si formarono migliaia di lavoratori e lavoratrici desiderosi di migliorare le proprie conoscenze e competenze professionali e di trasformare possibilmente la propria dipendenza in autostima e capacità imprenditoriali inizialmente inimmaginabili.

Il CISAP, come una stella…

1972: il presidente della Confederazione Nello Celio visita il CISAP

Nel 1990 un rappresentante degli industriali scrisse che il CISAP brillava come una stella in mezzo all’Europa, «comme une étoile au milieu de l’Europe…». Già, questa istituzione, sebbene fortemente radicata in Svizzera, aveva maturato negli anni anche una vocazione europea e intensificato i contatti non solo con i Paesi comunitari, soprattutto Spagna e Portogallo, ma anche con Paesi allora extracomunitari come l’Albania, la Cecoslovacchia, la Bulgaria e l’Ungheria.
Sul finire degli anni Novanta, tuttavia, quel faro e quella stella cominciarono a offuscarsi, non già perché il CISAP avesse perso luminosità, ma perché erano sempre meno coloro che li guardavano. L’immigrazione italiana era finita e secondo i dirigenti del CISAP, ma anche i sindacati svizzeri, l’associazionismo e le autorità italiane era inevitabile che anche l’esperienza del CISAP stesse per concludersi, come appunto avvenne dieci anni fa.
Resta e deve restare invece il ricordo di questa pagina memorabile della storia dell’immigrazione italiana in Svizzera perché rappresentò per molti versi un’esperienza eccezionale. Eccezionale fu l’intuizione del percorso che avrebbe potuto garantire il futuro professionale di molte persone; eccezionale il metodo che consentiva di acquisire conoscenze e competenze in tempi molto più stretti di quelli abituali; eccezionale l’organizzazione della scuola diretta da immigrati, mossi soprattutto da spirito di solidarietà e di volontariato; eccezionale l’equipaggiamento del centro di Berna, ricco non solo di aule e laboratori, ma anche di una vasta collezione di opere d’arte; eccezionale la volontà di riuscita tanto degli organizzatori quanto dei frequentatori dell’istituzione; eccezionale, soprattutto negli anni Sessanta e Settanta, fu anche la collaborazione istituzionale italo-svizzera suscitata dal CISAP. Per questo il ricordo del CISAP deve restare!

Giovanni Longu
Berna, 28.12.2011

SVIZZERA: nel segno della continuità e qualche strappo

Alla vigilia delle elezioni del Consiglio federale del 14 dicembre scorso c’era molta incertezza sull’esito di ben tre o addirittura quattro incognite: chi sarebbe succeduto alla dimissionaria socialista Micheline Calmy-Rey, se l’uscente Eveline Widmer-Schlumpf sarebbe stata rieletta e se il partito di Blocher, l’Unione democratica di centro (UDC), avrebbe riacquistato il secondo seggio perso quattro anni fa.

Le incognite sono state risolte con grande facilità nel segno della continuità. Infatti tutti i consiglieri federali non dimissionari sono stati rieletti, come vuole la consuetudine, rotta solo poche volte nella storia della Confederazione, l’ultima delle quali, di quattro anni fa, sancì la non rielezione di Blocher a vantaggio della dissidente dell’UDC Eveline Widmer-Schlumpf. Con la rielezione di quest’ultima, anche l’incognita del secondo seggio all’UDC in Consiglio federale si è risolta all’insegna della continuità con la situazione precedente. Quanto alla successione di Micheline Calmy-Rey, l’elezione del friburghese Alain Berset già al secondo turno è avvenuta secondo copione.
Il risultato più clamoroso è stato sicuramente la bocciatura delle ambizioni dell’UDC, di gran lunga il maggior partito politico svizzero. Alla vigilia dell’elezione infatti non vi era praticamente politico che non riconoscesse all’UDC, il diritto di essere rappresentato in governo con due consiglieri federali. Le opinioni divergevano quando si trattava di indicare al posto di chi avrebbe dovuto essere eletto il secondo rappresentante. Al posto della Widmer-Schlumpf, del Partito borghese democratico (PBD), un partito di centro con un peso di poco superiore al 5%, o di Johann N. Schneider-Ammann del Partito liberale radicale, il più vicino all’UDC, oppure di uno dei due rappresentanti socialisti?

Rotta la rigidità della formula magica
Collegata a questi interrogativi era anche la questione legata alla tenuta del principio della «concordanza», dipendente a sua volta dalla cosiddetta «formula magica», che tradizionalmente assegnava due rappresentanti ai tre partiti maggiori e uno al terzo partito. I vari rappresentanti eletti in base a tale formula erano tenuti a «concordare» la politica del Collegio, ossia del Consiglio federale. Ora, nella situazione attuale, che vede non più applicata la formula «magica», alcuni (pochi, in verità) s’interrogano se verrà meno anche il principio della concordanza. La maggioranza risponde tuttavia tranquillamente di no, anzi, con un solo rappresentante UDC il Consiglio federale dovrebbe funzionare meglio perché, senza una netta prevalenza né del centro-destra né del centro-sinistra, è quasi obbligato a cercare sempre la massima concordanza possibile. Anche al riguardo, pertanto, la continuità del sistema di governo svizzero è garantita.
Si può rilevare tuttavia una novità più che una rottura rispetto al passato. Poiché le elezioni di ottobre per il rinnovo del Parlamento avevano premiato i partiti minori di centro, la nuova Assemblea federale ha voluto in un certo senso rompere la rigidità della «formula magica» nella composizione del Consiglio federale a vantaggio di una più equa rappresentanza degli schieramenti eleggendo un rappresentante in più dei partiti di centro. Se questo orientamento sarà confermato si dovrà dire addio definitivamente alla formula che ormai da qualche tempo magica non lo è più.

Continua l’esclusione della rappresentanza italofona
Un altro elemento di continuità delle recenti elezioni del Consiglio federale è purtroppo l’ulteriore esclusione della rappresentanza italofona. Non è stato bello (per usare un eufemismo) vedere i socialisti romandi escludere quasi a priori la candidatura di Marina Carobbio rivendicando una sorta di diritto della Svizzera romanda ad almeno due rappresentanti in Consiglio federale. E’ invece decisamente triste, almeno per chi scrive, costatare la scarsa sensibilità generale nella politica e nella società per la realtà umana e socio-culturale italofona. Dispiace anche che nello stesso Ticino stia venendo meno la consapevolezza che la presenza italofona nel governo nazionale va preparata e voluta, anche senza un allargamento del Consiglio federale a 9 membri.
L’idea di costituire a Berna un Gruppo parlamentare per l’italianità, da me auspicato già alcuni anni fa e ora, a quanto sembra, in via di realizzazione, può rappresentare uno strumento di sensibilizzazione importante a livello politico, ma dovrebbe risultare chiaro che l’opera di sensibilizzazione dovrà uscire fuori dal Palazzo e coinvolgere tutte quelle forze, organizzazioni e persone che ritengono l’italianità una componente essenziale e irrinunciabile del patrimonio storico, culturale e istituzionale della Svizzera.

Giovanni Longu
Berna, 28.12.2011

ITALIA: discontinuità con qualche perplessità


Sta per concludersi uno degli anni più difficili per l’Italia. Dodici mesi fa osservavo che «la situazione non fa che peggiorare», soprattutto dopo la fuoruscita dei dissidenti finiani dal Popolo della Libertà e dalla maggioranza. Da allora la politica italiana è stata, per usare una metafora del Sommo Poeta «nave sanza nocchiere in gran tempesta», praticamente senza meta se non quella di sopravvivere.
Nonostante si celebrasse quest’anno il 150° anniversario dell’unità d’Italia, che avrebbe dovuto suggerire un maggiore senso dello Stato e del bene comune tra le forze politiche di governo e d’opposizione, la situazione è degenerata al punto da far dire a un attento osservatore come Piero Ostellino che «l’Italia è in guerra civile …. destinata ad avere conseguenze rovinose».
E’ dovuta intervenire l’Unione Europea (UE) per mettere in guardia l’Italia sui pericoli (fallimento) a cui andava incontro se non avesse adottato urgentemente riforme strutturali adeguate. Ma appariva sempre più evidente che il governo Berlusconi non sarebbe stato in grado di realizzarle, sia per la debolezza della sua maggioranza e sia per la pervicacia delle opposizioni che cercavano con ogni mezzo e in ogni occasione la sua caduta, nell’illusoria convinzione che essa bastasse da sola a salvare l’Italia dal presunto pericolo imminente.

L’intervento risolutivo di Re Giorgio
L’aggravarsi della crisi finanziaria internazionale, che sembrava trascinare nel baratro i Paesi più deboli della zona euro, Italia compresa, e l’insistenza delle opposizioni a una discontinuità col governo in carica hanno indotto il Capo dello Stato a sollecitare le dimissioni di Berlusconi e a dare l’incarico di formare un nuovo governo a un tecnocrate, Mario Monti, senza passare per la strada maestra delle elezioni.
Saggezza, precipitazione, illusione in questo susseguirsi di eventi che hanno poi segnato sicuramente una discontinuità col governo precedente? Solo il tempo darà una risposta conclusiva a questa domanda, anche se già a poche settimane dal suo insediamento si deve registrare un significativo calo di consensi alle misure approvate nel frattempo dal governo Monti, basate principalmente su nuove tasse, ritenute fra l’altro da molti poco eque.
Anche l’attivismo del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano non ha suscitato solo entusiasmi nell’opinione pubblica che l’ha definito Presidentissimo e addirittura «Re Giorgio» (New York Times), ma anche qualche perplessità nei palazzi della politica. Il fatto che, come ha scritto il quotidiano americano, Giorgio Napolitano abbia «orchestrato uno dei più complessi trasferimenti politici dell’Italia del dopoguerra» e che «ora gli italiani guardano a Napolitano perché guidi la nave dello Stato con la sua tranquilla abilità» ripropone in effetti il problema dell’architettura dello Stato italiano. In un mondo allo stesso tempo globalizzato e fortemente integrato (come dimostra anche l’attuale crisi internazionale) sembra ormai improcrastinabile che si affronti senza tabu il problema dei ruoli del Presidente della Repubblica, del capo del Governo e del Parlamento.

Nel segno della discontinuità
L’espressione più evidente della discontinuità col governo Berlusconi è senza dubbio la natura stessa del governo Monti, definito «tecnico» perché non è emanazione dei partiti politici e non ha la legittimazione democratica tipica dei governi che scaturiscono da un preciso esito elettorale, ma solo parlamentare, e perché chiamato a risolvere i problemi che per la loro gravità e urgenza il governo precedente e forse nessun altro governo «politico» sarebbe stato in grado di affrontare.
Un ulteriore elemento della discontinuità col Governo Berlusconi è dato anche dalla trasversalità delle forze politiche che sostengono l’attuale governo. Sono infatti saltate le coalizioni della situazione precedente tanto è vero che a sostenerlo sono oggi soprattutto i due principali partiti antagonisti di prima.
La discontinuità tra Monti e Berlusconi risulta evidente anche nel programma di governo, non tanto nelle finalità generali (molto simili) quanto nei tempi e nella misura del loro raggiungimento. Monti ha voluto imprimere un’accelerazione rispetto ai tempi lunghi della «politica», intervenendo in poche settimane su alcune riforme importanti e impopolari (ad es. imposta sulla casa, pensioni, patrimoniale) rinviandone altre ad una seconda e terza fase.
Purtroppo questa impostazione temporale ha scontentato gli ambienti maggiormente colpiti dalle nuove tasse suscitando qualche perplessità sulla medicina Monti negli ambienti sindacali e negli stessi partiti che sostengono il governo. Dopo l’approvazione del prima decreto «salva-Italia» l’ottimismo generale iniziale risulta fortemente ridimensionato. Secondo molti analisti, si sarebbe potuto e dovuto iniziare dai tagli agli sprechi (ponendo finalmente mano a un dimagrimento del costosissimo apparato statale), dalla riduzione dei costi della politica, dalle liberalizzazioni, dalla vendita del patrimonio dello Stato inutilizzato, dagli incentivi mirati e intelligenti agli investimenti soprattutto nel Mezzogiorno, ecc.
Ma bisognava pur cominciare da qualche parte. Il governo Monti non ha molto tempo per riuscire totalmente nella difficile impresa, ma potrebbe preparare il terreno perché altri dopo di lui raccolgano maggiori frutti.

Giovanni Longu
Berna, 28.12.2011


14 dicembre 2011

Corsi di lingua e cultura in Svizzera: errore micidiale!

Da anni ormai si organizzano tavole rotonde, incontri e convegni per discutere del futuro dei corsi di lingua e cultura in Svizzera. A intervenire, denunciare e implorare aiuto sono soprattutto gli insegnanti, i dirigenti dei cosiddetti enti gestori (Casci, Fopras, Ecap, ecc.) e qualche timido rappresentante dei genitori. Per avere ascolto cercano di coinvolgere non solo le autorità diplomatiche e consolari ma anche i parlamentari eletti all’estero, rappresentanti di partiti e sindacati, esponenti dell’associazionismo e dei cosiddetti organismi di rappresentanza, affinché si adoperino a Roma per trovare una soluzione. Ma i loro discorsi, invece di apportare lumi e infondere speranza, lasciano il tempo che trovano perché sostanzialmente vuoti, spesso autoreferenziali, inevitabilmente terminati col retorico appello a «non mollare», «restare uniti», «non lasciar morire i corsi».
Ho seguito uno di questi incontri, quello organizzato a Berna il 3 dicembre scorso, e mi sono reso conto della gravità della situazione almeno in alcune circoscrizioni consolari. Sentendo i vari interventi, per lo più fuori tema perché non tentavano nemmeno di rispondere al quesito del convegno («Quale futuro per i corsi di lingua e cultura italiana in Svizzera?»), mi sono anche reso conto che attorno a questo tema si sta compiendo un errore micidiale.

Errore micidiale guardare solo a Roma
Sebbene consapevoli della gravità della situazione, le organizzazioni degli insegnanti e gli enti gestori continuano a vedere la soluzione solo in una sorta di intervento salvifico (soprattutto finanziario) di Roma. E qui sta il primo aspetto dell’errore micidiale: ritenere che il problema dei corsi di lingua e cultura destinati agli italiani in età scolastica sia risolvibile solo a Roma e non (anche) in Svizzera.
Eppure alcuni degli intervenuti hanno messo in chiaro che la crisi finanziaria ed economica italiana ha spostato le priorità del governo altrove e con l’imperativo dei tagli non c’è spazio alle illusioni. La tendenza al risparmio anche nel Ministero degli affari esteri e nei capitoli riguardanti la cultura e la lingua italiane all’estero andrà accentuandosi, non riducendosi. Nell’editoriale della Rivista del novembre scorso, il direttore Giangi Cretti poneva la domanda secondo lui ormai indifferibile: «A chi interessa davvero l’italiano fuori d’Italia?». E rispondeva: «Poco o nulla allo Stato italiano».
Di fronte a una tale evidenza, a quanti sta davvero a cuore la sorte non tanto della lingua italiana in Svizzera ma della lingua e della cultura dei figli degli italiani in Svizzera, dovrebbe nascere spontaneo lo stimolo per cercare alternative valide al minor finanziamento da parte dello Stato italiano. In realtà ne sono state avanzate alcune, dal risparmio nell’organizzazione e nel riordino del personale insegnante a una maggiore responsabilizzazione finanziaria dei genitori degli allievi e persino a una parziale o totale privatizzazione dei corsi, ma non mi sono sembrate benaccolte. Soprattutto la prospettiva di una privatizzazione dei corsi mi è parsa scartata senza dibattito, perché, si dice, ne andrebbe della qualità dell’insegnamento e solo pochi enti gestori e pochi corsi riuscirebbero a sopravvivere! Eppure la via privatistica non andrebbe esclusa a priori. Proprio a Berna in molti ricordano ancora la storia pionieristica e volontaristica della scuola di formazione professionale CISAP, di diritto privato, che ha consentito per oltre trent’anni a migliaia di italiani non solo di imparare un mestiere ma anche di riappropriarsi di una cultura e di una dignità minacciate.

Errore micidiale non coinvolgere la Svizzera
Il secondo aspetto di questo errore micidiale è che, individuando l’unica possibile soluzione in un intervento salvifico di Roma, non si prendono nemmeno in considerazione altre possibilità, né quella della privatizzazione con un sostegno sussidiario dello Stato italiano né quella di un coinvolgimento delle autorità scolastiche locali. Incredibile ma vero, nell’incontro di Berna non solo mancava qualsiasi interlocutore svizzero ma non c’è mai stato nemmeno un accenno all’idea che la Svizzera potesse essere interessata ad intervenire in questo campo. Non va infatti dimenticato che l’italiano in questo Paese è lingua nazionale e ufficiale.
Ovviamente questo interesse è ancora da dimostrare, ma ritengo un grave errore escluderlo in partenza. La recente legge federale sulle lingue e la relativa ordinanza d’applicazione offrono almeno in punto di diritto alcune possibilità che andrebbero approfondite. Penso per esempio all’impegno della Confederazione e dei Cantoni a promuovere «il plurilinguismo degli allievi e dei docenti» e adoperarsi «per un insegnamento delle lingue straniere che assicuri agli allievi, alla fine della scuola dell’obbligo, competenze linguistiche in almeno una seconda lingua nazionale e in un’altra lingua straniera», ricordando che «l’insegnamento delle lingue nazionali tiene conto degli aspetti culturali di un paese plurilingue». Si deve anche sapere che «la Confederazione può concedere aiuti finanziari ai Cantoni per creare i presupposti per l’insegnamento di una seconda e di una terza lingua nazionale, […] promuovere la conoscenza della loro prima lingua da parte degli alloglotti».
Sono convinto, come ho già scritto in altre occasioni, che per l’italiano occorre agire maggiormente sui Cantoni. Non esplorare anche questa possibilità mi pare un errore micidiale.

Giovanni Longu
Berna, 14.12.2011