03 marzo 2010

Quarant’anni fa, 1970, anno cerniera per l’immigrazione italiana in Svizzera

Il 1970 sarà ricordato nella storia dell’immigrazione italiana in Svizzera probabilmente come l’anno del più forte attacco politico contro gli italiani residenti in Svizzera provocato dall’iniziativa xenofoba di James Schwarzenbach. Quell’attacco, tuttavia, non fu improvvisato né ebbe motivazioni solo contingenti. La xenofobia (in senso largo) della destra nazionalistica ha origini molto lontane.
Il 1970, tuttavia, è stato anche un anno fondamentale nella storia della collettività italiana in Svizzera per un vasto cambio di paradigma nella politica migratoria sia da parte delle autorità federali svizzere che di quelle italiane, come pure per una nuova presa di coscienza delle organizzazioni degli immigrati italiani sulle loro responsabilità.
Questi due elementi hanno influito in misura determinante sulla politica migratoria sia italiana che svizzera, ma soprattutto sulla transizione della collettività italiana da popolazione di immigrati a componente stabile della popolazione residente. Per la prima volta dal dopoguerra, nel 1970 s’interrompeva la lunga tradizione del saldo migratorio positivo con la Svizzera e il numero degli italiani rientrati in Italia superava quello dei nuovi arrivi. Era un segnale molto chiaro del cambiamento che si stava producendo sia in Italia che in Svizzera.
Per una parte importante della collettività italiana in Svizzera si chiudeva, per lo più inconsapevolmente, il capitolo dominato dalla nostalgia del luogo di partenza e del mito del ritorno, e se ne apriva un altro orientato a una lunga permanenza nel Paese ospite e alla possibilità di costruirvi il proprio avvenire o quantomeno quello dei propri figli. Il nuovo capitolo si apriva con molte incertezze, ma anche con molte speranze.
Il 1970 può essere considerato anche un anno simbolo per i giovani della seconda generazione. Sono infatti essi che romperanno definitivamente la catena che voleva l’immigrazione italiana una serie ininterrotta di presenze temporanee e provvisorie di prestatori d’opera più o meno a buon mercato (politica di rotazione) e finiranno per imporre una nuova politica di stabilità e d’integrazione. Da allora e sempre più saranno i giovani al centro della politica migratoria, anche se la prima generazione continuerà ancora per almeno due decenni ad essere protagonista sotto molti aspetti.
Il compito che le circostanze assegnavano a tutti, alle autorità italiane e svizzere, alle forze sociali, alle associazioni, all’intera collettività italiana, era estremamente delicato e difficile. Dalla maniera con cui sarebbe stata impostata e avviata la soluzione sarebbe dipeso, forse, il futuro della collettività italiana in Svizzera. Non tutti, nel 1970, potevano essere consapevoli della posta in gioco, tutti però si rendevano conto che il mondo della migrazione stava cambiando.
Data l’importanza di quell’anno, alla rievocazione degli avvenimenti di quel periodo sarà dedicata una serie di articoli, per metterne in luce la collocazione storico-politica e l’impatto sulla collettività italiana di allora.
Giovanni Longu
Berna 03.03.2010

Tagli e sprechi

Non passa giorno che nella stampa e nei portali online destinati agli italiani all’estero non si leggano lamentale, recriminazioni e invettive all’indirizzo del governo italiano per i tagli praticati alle rappresentanze consolari, ai corsi di lingua e cultura, alla stampa italiana all’estero, alle attività culturali e persino all’assistenza.
I tagli, secondo l’on. Narducci sarebbero «particolarmente drammatici in Svizzera, dove è previsto un intervento di “razionalizzazione” che non ha precedenti nella storia delle nostre istituzioni scolastiche, tant’è vero che sarebbe completamente azzerato l’Ufficio scolastico del Cantone di Berna, con la soppressione dell’intera struttura amministrativa e dirigenziale, abbandonando a se stessi decine di insegnanti MAE e del CASCI, e centinaia di corsi di lingua italiana frequentati da migliaia di figli dei nostri connazionali residenti in detto Cantone».
Secondo il segretario del PD in Svizzera e consigliere del CGIE M. Schiavone, i tagli starebbero addirittura provocando il declino dell’italianità in questo Paese, per cui «non possiamo assistere inerti e subire pavidamente le sorti del destino».
Poiché non credo nel destino e non so cosa c’entri in queste faccende tipicamente umane, di fronte ai tagli di cui si parla, prima di emettere giudizi avventati, mi preoccuperei piuttosto di conoscerne l’entità, il reale impatto e se siano giustificati. Questo approccio è anche suggerito indirettamente dallo stesso Narducci quando parla di «razionalizzazione».
I punti di partenza mi sembrano due. Anzitutto occorre rendersi conto che lo Stato italiano è così mal messo che rischia di schiantare sotto il massiccio debito pubblico e sarebbe da incoscienti aumentare la spesa pubblica. In secondo luogo, la collettività italiana in Svizzera si è così trasformata negli ultimi quarant’anni che non è più possibile evitare la questione dell’adeguatezza delle strutture che la riguardano.
Partendo da queste premesse e dando per scontato che nessun governo tagli a cuor leggero o, peggio, mosso da una sorta di volontà distruttrice, occorrerebbe chiedersi, ad esempio, se è ancora sostenibile una rete consolare così capillare come quella presente in Svizzera, se è ancora possibile sovvenzionare tutte le attività che fino a non molto tempo fa sembravano necessarie per venire incontro ai bisogni della prima e della seconda generazione e se è ancora opportuno tenere in piedi un sistema assistenziale e clientelare apparentemente esorbitante sia rispetto alle esigenze reali e sia di fronte alle effettive possibilità di finanziamento.
Senza un’approfondita analisi di questi problemi rischiano di apparire unilaterali e ingiustificati i giudizi perentori che capita di leggere in questi tempi e che possono generare inutilmente panico (come è già accaduto ad esempio in occasione della trasformazione del Consolato di Berna in cancelleria consolare, a parità di servizi).
Invece di etichettare senza discussione le decisioni del governo come «inique e arbitrarie» e vedervi «provvedimenti normativi che mirano alla frantumazione del sistema formativo ed educativo e all’alienazione dei diritti della persona», troverei più ragionevole esaminare se e in quale misura tutte le voci di spesa attuali sono giustificate e se non vi siano addirittura sprechi da eliminare.
Dire aprioristicamente no ai tagli mi sembra irresponsabile, soprattutto da parte di chi ritiene di conoscere la realtà e di rappresentare gli interessi dei cittadini italiani all’estero. Se proprio non si vogliono i tagli alla rete consolare, ai corsi, alla stampa e a quant’altro, bisognerebbe per lo meno avere il coraggio di dire dove andare a prendere le risorse mancanti. Riducendo gli stipendi dei funzionari? Eliminando i costi di Comites e CGIE e trasformando eventualmente questi organismi in pure e semplici associazioni di volontariato? Dimezzando le indennità ai patronati? Tagliando i fondi a quei tanti «carrozzoni» di cui parla spesso Zulian del PdL in Svizzera? Non è una risposta dire semplicemente «eliminando gli sprechi» perché siamo punto e a capo. Gli sprechi vanno anzitutto individuati e denunciati come tali.
Il problema dei tagli, tuttavia, non andrebbe visto tanto in termini di sì o no, quanto in termini di quantità e di qualità. Per esempio: con le poche risorse disponibili, è preferibile continuare a sostenere i corsi di lingua e cultura introdotti per esigenze lontanissime da quelle attuali o andrebbero di preferenza sostenute attività mirate nel campo della formazione e della ricerca? Hanno una giustificazione, in un Paese come la Svizzera, dove la collettività italiana è ormai integrata da decenni, corsi «totalmente gratuiti» (come dice la pubblicità) d’integrazione o di reinserimento professionale o di improbabili attività per custode d’immobile, network manager, web creator, addirittura neoimprenditore, gestione e marketing d’impresa, retravailler (ossia reinserimento professionale per donne), comunicazione redazionale «informediale», scrittura giornalistica ecc.?
In conclusione, se i tagli sono necessari, è forse venuto il momento di chiederci tutti non solo cosa e quanto tagliare, ma anche dove e quanto investire per averne un sicuro beneficio. Le difese corporative ad oltranza sono solo dannose.
Giovanni Longu
Berna, 03.03.2010 (L'ECO)

24 febbraio 2010

Naturalizzazione agevolata e partecipazione

Non dovrebbero più esservi difficoltà per riconoscere agli stranieri di terza generazione quel che da oltre un secolo si rivendica in generale per tutti gli stranieri nati in Svizzera (seconda generazione) e che hanno di fatto adottato questo Paese come loro vera patria.
Quando nel 2004 il popolo svizzero fu chiamato a pronunciarsi su due progetti distinti, concedere ai giovani di seconda generazione la naturalizzazione agevolata e ai giovani di terza generazione la naturalizzazione automatica, speravo (v. L’ECO del 22.9.2004) in un’approvazione netta di entrambe le richieste. Il sì avrebbe risolto in maniera definitiva un problema ormai più che secolare. Le richieste mi parevano assolutamente giustificate e ritenevo un errore rimandare ulteriormente una decisione che a molti, anche in seno al governo e al parlamento, appariva matura.
Questi giovani, ritenevo, andrebbero considerati in linea di principio pienamente integrati linguisticamente, scolasticamente, culturalmente e socialmente. Per dirla con il Consigliere federale Moritz Leuenberger essi sono solo «stranieri di carta» (Papier-Ausländerinnen und –Ausländer), di fatto sono svizzeri e tali si sentono. Negar loro la cittadinanza dovrebbe apparire dunque a chiunque illogico e ingiusto.
Purtroppo la storia non segue sempre il filo della logica, né tutto quel che è auspicabile si realizza. Di fatto, l’elettorato respinse entrambi i progetti, decretando così l’esclusione a tempo indeterminato di qualsiasi tentativo d’introdurre nella legislazione svizzera la naturalizzazione «automatica».
Nel 2008, tuttavia, la consigliera nazionale italo-svizzera Ada Marra (PS/VD) ritenne che esistesse ancora uno spiraglio per la naturalizzazione agevolata se non per i giovani di seconda generazione almeno per quelli di terza generazione. A tale scopo, nel giugno 2008 presentò al Consiglio nazionale una iniziativa, sottoscritta da altri 49 consiglieri, precisando che «la terza generazione di stranieri stabilitisi in Svizzera deve poter ottenere la cittadinanza su richiesta dei genitori o dei diretti interessati». In tal modo, superato l’ostacolo dell’automatismo (escluso dal voto popolare nel 2004), la naturalizzazione avrebbe potuto avvenire a semplice richiesta, sia pure a determinate condizioni generalmente soddisfatte dai giovani di terza generazione.
L’iniziativa parlamentare ha seguito il suo iter usuale nelle apposite commissioni parlamentari e nella procedura di consultazione, appena conclusasi, ottenendo ad ogni tappa i più ampi consensi. Solo un partito si è dichiarato in disaccordo, la solita Unione Democratica di Centro (UDC). D’ora in avanti la procedura di trasformazione dell’iniziativa in legge dello Stato previo adeguamento della Costituzione non dovrebbe più incontrare ostacoli, anche se i tempi sembrano ancora lunghi e specialmente in questa materia non si può mai dare nulla per scontato.
Tanta cautela potrebbe apparire esagerata, ma è giustificata alla luce della storia. Non è infatti da pochi anni o da qualche decennio che si parla di naturalizzazione agevolata, sebbene a molti, soprattutto ai giovani, può addirittura apparire anacronistico che si parli ancora di difficoltà a naturalizzare giovani di terza generazione, ossia persone nate e cresciute in questo Paese da genitori a loro volta nati, cresciuti e integrati in questo Paese. Qual è dunque la difficoltà a riconoscerli svizzeri anche «di diritto»?
Problema ultracentenario
Comunque si guardi il problema, l’interrogativo resta, tanto più che in diverse forme è già stato posto da oltre cent’anni e ancora non ha trovato una risposta adeguata. La storia svizzera è costellata di tentativi falliti. Eppure, a ben vedere, gli argomenti che da oltre un secolo a questa parte sono stati continuamente addotti per giustificare la naturalizzazione facilitata o addirittura automatica, non sono privi di logica, anzi tutt’altro.
Già nel 1880, un commento istituzionale ai dati del censimento di quell’anno diceva testualmente: «Il nostro Paese sarà forte soltanto se saprà essere “un popolo unito di fratelli”. Un elemento fondamentale di questa unità è mantener fede a questo principio: a uguali doveri devono corrispondere uguali diritti. Orbene, in Svizzera abbiamo un numero crescente di stranieri che portano gli stessi nostri pesi e (se non vi sono esentati grazie a qualche trattato internazionale) pagano persino la tassa militare, eppure essi restano esclusi da qualsiasi forma di partecipazione all’amministrazione dello Stato e del Comune…».
Nel 1900, un funzionario dell’amministrazione comunale di Zurigo riteneva «deplorevole l’esigua frequenza della naturalizzazione, mentre la nostra cittadinanza ha così urgente bisogno di un regolare maggior aumento». Lamentava che si facesse troppo poco per «promuovere un’aggregazione ancora più stretta col nostro corpo di cittadinanza» e si continuasse a «parlare di “colonie” di tedeschi, italiani ecc., ossia di tanti stranieri che pure sono un elemento integrante della popolazione, di cui non vogliamo né possiamo farne senza». Sosteneva anche che era nell’interesse dei Cantoni facilitare la naturalizzazione di un maggior numero di stranieri tenendo presente «la dimora più lunga, l’esser nato nel Cantone e l’essere ammogliato con un’indigena». Infatti «sarà nell’interesse ben inteso del Cantone di guadagnare alla cittadinanza dette categorie, che sembrano già fortemente acclimatizzate per le suddette circostanze e offrono garanzia di diventare veri cittadini».
All’inizio del secolo scorso, lo stesso Consiglio federale parlò di «rapporto anormale quando una notevole percentuale di un Paese è costituita da stranieri che a causa di questa caratteristica restano esclusi dall’istituzione pubblica».
Fu in quel periodo che venne proposta per la prima volta la soluzione di una sorta di «jus soli» (diritto del suolo in cui si nasce), ossia la concessione automatica della naturalizzazione per tutti i figli di stranieri nati in Svizzera da genitori domiciliati. La proposta fu respinta, o meglio fu lasciato alla discrezione dei Cantoni farne l’uso che volevano, ma nessun Cantone ne approfittò. Da allora si continuò discutendo, tentando e ritentando praticamente fino ai giorni nostri, senza che al problema divenuto nel frattempo ultrasecolare venisse mai data una soluzione equa e definitiva.
Il diritto di voto non è tutto
Che con la proposta Marra sia la volta buona? C’è da augurarselo. A questo punto non resta che aspettare il prosieguo dell’iter legislativo. L’attesa, tuttavia, non deve trasformarsi in un alibi o peggio una scusa per smettere di interessarci al problema di fondo, ossia la partecipazione degli stranieri, di tutti gli stranieri residenti anche di prima e seconda generazione, alla cosa pubblica di questo Paese.
Soprattutto la parte straniera più consistente e più «antica», la componente italiana, non può non rendersi conto che è soprattutto su questo versante che deve impegnare la propria riflessione e le proprie energie. Oltre che discettare d’italianità e brigare per il tipo di rappresentanza in organismi che hanno i loro referenti a Roma, sarebbe forse più opportuno interessarsi ai problemi concreti e risolvibili sul posto e partecipare a quegli organismi e istituzioni che si occupano delle questioni locali nei Comuni e nei Cantoni.
Mi si obietterà che a certi livelli lo straniero non ci può arrivare se non ha la cittadinanza e quindi il diritto di voto. Mi viene facile la risposta: è vero, a qualche livello non può arrivare, ma a molti altri sì. A questi numerosi altri livelli anche lo straniero, tanto più se radicato nel tessuto locale, può dare impulsi e contributi di idee e di azione. Basterebbe pensare ai settori dell’economia, della stampa, della scuola, della ricerca, dell’assistenza, dell’associazionismo. In un Paese fondato sulla libertà d’iniziativa e sul principio di sussidiarietà, almeno al primo livello non ci sono praticamente limiti all’intraprendenza individuale e collettiva, a prescindere dalla nazionalità.
Questo, sia chiaro, non è un invito a dimenticarsi della rivendicazione del diritto di voto amministrativo, a prescindere dalle generazioni e dalle nazionalità. Tutt’altro, è anzi uno di quei terreni su cui conviene tenere sempre alta l’attenzione. Occorre però non enfatizzare il diritto di voto, che del resto nelle società evolute tende a perdere importanza. Per rendersene conto basterebbe chiedere agli italiani residenti in Svizzera quanta importanza attribuiscono davvero al diritto di voto all’estero per l’elezione diretta di alcuni rappresentanti nel parlamento nazionale. Alla luce dei risultati raggiunti, in un’ipotetica scala da 0 a 10, sicuramente tale valore si collocherebbe più vicino allo zero che a 10. Non va inoltre dimenticato che il diritto di voto non è un fine ma un mezzo, uno fra altri, per raggiungere i risultati di una pacifica società alla ricerca del costante benessere.
Giovanni Longu
L'ECO (Berna, 24.02.2010)

17 febbraio 2010

E’ possibile governare senza morale?

Non c’è giorno senza che i media ci propongano esempi di malgoverno, malagiustizia, arroganza politica, malasanità, scandali, loschi affari di ordinaria corruzione, arresti eccellenti, galere che scoppiano, falsi pentiti che tentano di uscirne o di riabilitarsi con calunnie e «verità» inverosimili, abuso d’ufficio e quant’altro.
Il fatto che se ne parli significa che c’è un’attenzione particolare dei cittadini alle manchevolezze dello Stato e l’esigenza di un buon governo. Il fatto che se ne parli quotidianamente indica invece che il malcostume è dilagante perché, si sa, ciò che viene alla luce è solo la punta dell’iceberg.
Molti cittadini sembrano alquanto disorientati, perché si aspettano dalla politica buone leggi, dal governo servizi efficienti e dalla magistratura giudizi imparziali e certi, ed invece la cronaca quotidiana è piena di tutto ciò che in Italia non funziona, soprattutto nella vita pubblica. In certi settori sembrerebbe di avere a che fare non con «servitori dello Stato» ma con «asserviti al potere», persone egoiste, avide, corrotte, dedite più al profitto personale che al bene comune.
Periodicamente, non solo in Italia, ma verrebbe da dire soprattutto in Italia, si ripropone il problema morale all’interno di tutte le istituzioni dello Stato. Nonostante che, dai tempi di Machiavelli, si sia cercato costantemente di espellere la morale dalla politica, inevitabilmente i quotidiani esempi di malfunzionamento delle istituzioni sollecitano una risposta alla questione se è possibile governare (in senso largo) prescindendo dalle norme morali che dovrebbero presiedere a tutti i comportamenti umani, anche in politica.
Si dirà che nella sfera pubblica la legalità basta e avanza, ma non è esattamente così. In molti campi moralità e legalità coincidono, in altri no. Se uno ruba, ad esempio, non viola solo il settimo comandamento della religione cristiana, ma compie anche un reato sanzionato dal codice penale. Se una classe politica, invece, non riesce ad approvare una buona legge nei tempi giusti, pur non violando alcuna legge non è detto che non violi alcuna norma morale.
L’immoralità nel fare e… nel non fare
Certamente è soprattutto nel fare che emerge l’illegalità e l’immoralità, ma c’è molta immoralità anche nel non fare. Qualche esempio per chiarire il concetto.
I lettori probabilmente ricordano il tentativo della magistratura di porre fine a una certa pratica illegale assai diffusa nella Prima repubblica: finanziamento illecito dei partiti, corruzione, commistioni poco chiare tra pubblico e privato, tangenti (da cui è derivato Tangentopoli), ecc. Era l’epoca di «Mani pulite».
Se uno si chiedesse oggi che ne è stata di quella vasta operazione giudiziaria degli anni Novanta, la tentazione di rispondere che è servita a nulla o a ben poco appare scontata, soprattutto alla luce di quel che ogni giorno comunicano i media. Per molti non è stata altro che un tentativo (in buona parte fallito) di porre rimedio a una certa degenerazione della politica, per altri è stata un tentativo (oggi molto controverso) di accreditare la magistratura come potere supremo, garante della legalità e dell’ordine democratico. In effetti l’operazione «Mani pulite» è servita a sanzionare alcuni colpevoli, ma non è servita a modificare i cattivi sentimenti di molte persone, che magari in altre forme hanno proseguito nel malaffare.
Inutile negare che sul banco degli accusati di comportamenti «immorali», nel senso ampio del termine, ci dovrebbero essere molti politici e uomini dello Stato, non tanto per fatti comprovati di illegalità, quanto appunto per comportamenti moralmente inadeguati al ruolo che rivestono. Anche per questi, in molti cittadini, regna un grande disorientamento su ciò che la politica potrebbe o dovrebbe fare e invece non fa.
La politica, l’arte del buon governo per risolvere i problemi di un popolo, sembra spesso regolata non tanto dalla preoccupazione del bene comune, quanto da interessi corporativi e opportunistici, difficilmente sanzionabili legalmente ma sicuramente condannabili moralmente. L’opportunismo (una categoria morale per lo più non sanzionabile legalmente) sembra stabilire non solo le azioni della politica ma anche i tempi e i modi.
Il caso Berlusconi è emblematico. I politici (e i partiti) non riescono a decidere concordemente se è prioritario, per il bene comune, che egli, in quanto capo del governo, continui a governare normalmente (come vorrebbe la maggioranza degli italiani che gli hanno dato fiducia alle ultime elezioni) o debba dimettersi subito per sottoporsi a un giudizio incerto di un tribunale, oppure si possa rinviare il processo alla scadenza del suo mandato. Credo che questa indecisione sia politicamente ma anche moralmente inaccettabile perché i cittadini hanno diritto di chiarezza e di certezza al riguardo.
La giustizia in Italia
La giustizia, in Italia come in ogni Paese, dovrebbe dare il buon esempio. Eppure, anche in questo settore, è evidente che va fatta un’attenta riflessione morale, oltre a quella istituzionale di cui molto si parla in questi ultimi mesi. Qui a dire il vero i casi di illegalità sono piuttosto rari, ma probabilmente non perché siano inesistenti bensì perché è più difficile provarli. Ciononostante, le cronache sono piene di testimonianze di malfunzionamento degli apparati, interventi giudiziari ad orologeria, avvisi di garanzia a pioggia, intercettazioni telefoniche di natura strettamente privata date in pasto ai media senza ritegno alcuno, lentezza dei processi, troppa spettacolarizzazione, detenuti in attesa di giudizio da anni, ecc.
E’ invece rarissimo venire a sapere se qualche magistrato è stato anche solo accusato e chiamato in giudizio per essere stato troppo superficiale nelle indagini o troppo affrettato nelle conclusioni, troppo accondiscendente nei confronti dei media, condizionato nell’emettere una sentenza non sufficientemente motivata, ecc. ecc.
Eppure se un imputato viene assolto nel corso del processo è evidente che qualche errore è stato commesso nelle fasi precedenti. Perché nessuno è mai responsabile e paga per errori del genere? E’ mai possibile che nell’ordine giudiziario la responsabilità sia sempre impersonale (carenza di organici, troppi arretrati, mancanza di risorse, ecc.) o addirittura non esistano affatto responsabilità? Ma che razza di giustizia è mai quella che ammette l’errore senza chiedersi chi l’ha commesso, soprattutto se certi errori pesano gravemente sulla vita delle persone coinvolte.
Nei giorni scorsi è esploso il caso Bertolaso, che si dichiara «servitore dello Stato» eppure indagato per reati gravi che avrebbe commesso nell’esercizio delle sue funzioni. In questo come in migliaia di casi simili, riguardanti magari personaggi di minore notorietà, si dice abitualmente «sarà la magistratura a verificare e a decidere». Un bel dire, senza domandarsi perché mai il cittadino Bertolaso o chiunque nelle stesse condizioni venga mediaticamente umiliato e passato al «tritacarne», condannato prima ancora di essere stato ascoltato da un magistrato per potersi difendere. E se questo cittadino risultasse in definitiva innocente, quale magistrato potrà mai ridargli la serenità o compensarlo per l’umiliazione subita? Ma davvero è accettabile oggi una giustizia così spietata, ossia senza alcuna pietà o, come dicono i dizionari dei sinonimi, «crudele, barbara»? E può la giustizia prescindere dal rispetto della dignità della persona dell’indiziato e persino del condannato? E perché nessun magistrato (la «casta») paga per errori commessi per imprudenza, superficialità e persino voglia di protagonismo?
Anche la Svizzera s’interroga
Non vorrei, a questo punto, che si ritenesse solo lo Stato italiano nella condizione di dover fare un attento esame di coscienza. Ogni Stato ha infatti le proprie carenze e le proprie ipocrisie. La Svizzera non fa eccezione, anche se a livello pubblico, è un Paese che ha meno pecche di altri.
Proprio nelle scorse settimane anche in questo Paese è stata avviata una sorta di esame di coscienza a proposito di una condizione che già in passato aveva suscitato qualche riflessione critica. Mi riferisco in particolare a certi interventi del sociologo e politico Jean Ziegler, uno dei quali portava il titolo «La Svizzera lava più bianco» (1990). Nel frattempo la Svizzera si è data un’ottima legislazione contro il riciclaggio di denaro sporco, ma la riflessione morale continua e sono sempre più numerosi coloro che s’interrogano se sia ancora sostenibile accettare denaro evaso al fisco dei Paesi di provenienza (anche se per la legislazione svizzera l’evasione non è reato). Ormai si dà per certo che presto verrà abbandonata la distinzione tra frode ed evasione fiscale.
L’aspetto morale nella politica in generale è stato sollevato recentemente dalla Svizzera anche a livello internazionale. La Germania si trovava a dover decidere se acquistare o rifiutare un CD contenente un elenco di evasori fiscali tedeschi. Senonché quel CD è stato copiato illegalmente e la Svizzera ha sollevato la questione se uno Stato di diritto come la Germania possa acquistare il frutto evidente di un reato. La Germania, invocando proprio la ragione di Stato, ha acquistato l’elenco, ma per la Svizzera evidentemente il principio machiavellico del fine che giustifica i mezzi non elimina il problema morale anche negli affari fra Stati. Un altro capitolo, dunque, destinato a far discutere.
A mo’ di conclusione si potrebbe dire che prima o poi la questione morale finisce per riguardare non solo gli individui ma anche i corpi sociali, i partiti politici, le banche, i governi, gli Stati. Quando questa consapevolezza sarà maggioritaria in un Paese sarà un buon segno perché stabilirà la preminenza del bene comune su qualunque forma di egoismo, ma farà anche comprendere che a beneficiarne saranno tutti o almeno la stragrande maggioranza.
Giovanni Longu
Berna 14.2.2010

07 febbraio 2010

Corsi e discorsi - Corsi di lingua e cultura italiane in Svizzera

Credo che non ci sia mai stato in Italia un governo che abbia stilato un bilancio di previsione delle spese accettato senza obiezioni da maggioranza e minoranza. E’ una costante del gioco delle parti che l’opposizione al governo si dichiari sempre insoddisfatta della ripartizione delle risorse disponibili tra i vari capitoli di spesa che comporta il bilancio dello Stato. Non fa eccezione a questa regola nemmeno l’attuale opposizione.
Del resto, persino all’interno dello stesso governo (e questo vale in generale per qualsiasi governo in qualunque Paese) c’è sempre questo o quel ministro che non accetta di buon grado che la fetta di risorse assegnata al suo ministero sia inferiore a quanto chiesto. E’ dunque «normale» che il bilancio dello Stato, soprattutto nella parte dei tagli o delle minori risorse disponibili, non soddisfi tutti, non solo nella minoranza ma nemmeno nella stessa maggioranza.
I tagli fanno male
D’altra parte, è inevitabile che ciò accada, soprattutto ora, perché da decenni ormai le entrate degli Stati tendono a diminuire (soprattutto nei periodi di crisi) mentre i bisogni continuano a crescere. Lo scontento da parte di chi non riesce a soddisfarli tutti è dunque comprensibile, anche se dovrebbe risultare accettabile, in linea di principio, che lo Stato non può venire incontro a tutti i richiedenti il suo intervento.
Fatta questa premessa, personalmente non trovo niente di scandaloso che anche in emigrazione (almeno in Svizzera) ci si lamenti dei tagli operati dal governo italiano (anche se il bilancio dello Stato è sempre approvato dal Parlamento, che ne è dunque il vero responsabile) in diversi capitoli di spesa. Trovo anzi legittimo e persino doveroso interrogarsi se certi tagli, ad esempio nel settore della scuola e della cultura in generale, siano opportuni, soprattutto alla luce di principi o idealità più che lodevoli, quali la diffusione nel mondo di una immagine positiva dell’Italia e il rafforzamento della presenza culturale italiana. Chi non vede che ogni volta che si riducono gli investimenti nella scuola e nella cultura si rischia di provocare danni irreparabili? I tagli, si sa, fanno sempre male, anche quando certe amputazioni possono salvare la vita.
In realtà, di fronte a qualunque tipo di riduzione di risorse destinate all’estero, agli interrogativi legittimi vien dato solo un tipo di risposta: è colpa del governo gretto e miope, incapace di valorizzare l’immenso patrimonio di risorse rappresentato dagli italiani all’estero, dalle loro associazioni, dalle loro rappresentanze, dai corsi di lingua e cultura italiane, ecc. Sarebbe invece opportuno più che cercare responsabilità (nel campo politico avverso) sforzarsi di analizzare le situazioni più critiche al fine di individuare vie d’uscita e soluzioni di ampio respiro, senza dover ricorrere sempre e solo all’assistenza dello Stato.
I corsi di lingua e cultura italiane in Svizzera
Prendiamo ad esempio lo stato dei corsi di lingua e cultura italiane in Svizzera, duramente colpiti nell’ultimo anno da importanti tagli, che ha fatto stilare al coordinatore degli Enti gestori Roger Nesti un bilancio poco lusinghiero.
Stando a quanto riportato da alcune agenzie, secondo Nesti, «i tagli ai contributi degli enti gestori hanno destabilizzato il sistema corsi». Più precisamente: «il confronto tra i dati rilevati a inizio dell’anno scolastico 2008/2009 (prima dei tagli) e quelli dell’inizio dell’anno scolastico 2009/2010 (dopo i tagli) evidenzia che in Svizzera sono stati soppressi 164 corsi. Il numero degli alunni è calato da 16.054 a 14.188, con una diminuzione di 1.866 alunni».
Ce n’è quanto basta per far scrivere ai cinque deputati del PD eletti all’estero che «Nesti evidenzia con dati incontrovertibili alcune brucianti verità: la riduzione dei corsi in seguito ai tagli produce una pari riduzione di alunni; l'annuncio dei tagli provoca una disaffezione delle famiglie verso i corsi e una conseguente rinuncia a iscrivere i propri figli; […] la politica dei tagli ha innestato un processo di contrazione degli enti gestori che rischia di essere irreversibile». Inoltre, secondo gli onorevoli Narducci e compagni, «il bilancio del primo anno di tagli sul sistema di insegnamento dell'italiano all'estero offre elementi che vanno al di là della situazione svizzera e riguardano in sostanza l'intera politica di promozione linguistica e culturale dell'Italia nel mondo».
Per fortuna che l’on. Narducci, in premessa di un suo comunicato ammetteva che «valutare lo stato di salute delle scuole italiane all'estero, dopo la batosta dei tagli che nel 2009 ha colpito in particolare i corsi di lingua e cultura italiana, non è certamente opera facile». Ha ragione, è un discorso per nulla facile da affrontare. Ma proprio per questo credo sia opportuno affrontarlo più seriamente, facendo appello anzitutto a un principio di realtà e di razionalità piuttosto che a statistiche, analisi e soprattutto giudizi che rischiano di essere per lo meno affrettati.
Perché diminuiscono gli allievi?
Circa i dati «incontrovertibili» forniti da Nesti non ho ragione alcuna per non ritenerli certi, anche se, per un’analisi approfondita, sono forse insufficienti. Ad esempio, andrebbe vista nel dettaglio la media degli alunni per corso (11,6), perché una cosa è sopprimere un corso con una ventina di allievi e altra sopprimerne due o tre di quattro o cinque allievi ciascuno. Inoltre, quando si parla di allievi, andrebbe anche precisato se si tratta di iscritti o di frequentanti. Una maggiore precisione al riguardo mi pare fondamentale se si vuole affrontare il discorso con un minimo di realismo.
Dell’analisi del Nesti, tuttavia, non sono tanto le cifre presenti o assenti che hanno attirato la mia attenzione quanto il tipo di analisi (oltre alla reazione di alcuni politici dell’opposizione). Ed è su di essa che desidero fare qualche osservazione.
Anzitutto, in generale, noto che manca qualsiasi considerazione sulla «ragionevolezza» o meno dei tagli, alla luce di una visione globale del bilancio dello Stato e dell’esigenza fondamentale di non gravare ulteriormente su un debito pubblico che è già pesantissimo.
Manca anche una visione del problema corsi in un contesto storico, anche solo degli ultimi anni, perché non va dimenticato che da anni ormai se ne parla con toni anche vivaci sia in relazione all’andamento degli alunni e sia all’organizzazione dei corsi e ai relativi costi. Dalla lettura delle agenzie, che sono sempre sommarie, sembrerebbe invece che tutto sia precipitato o stia per precipitare a causa dei tagli dell’attuale governo.
Qualche dettaglio dell’analisi proposta da Nesti mi lascia poi perplesso. Il semplice fatto di costatare tra il 2008/2009 e il 2009/2010 un calo dei corsi e soprattutto degli allievi non autorizza di per sé a stabilire un rapporto di causa effetto tra tagli e riduzione dei corsi. I tagli potrebbero essere eventualmente una concausa e non la causa principale. Senza considerare che gli stessi tagli potrebbero avere una loro giustificazione alla luce anche dell’evoluzione generale degli italiani all’estero e dei bambini in età scolastica.
Per una analisi completa e realistica della situazione svizzera, ritengo che non si possano dimenticare due fenomeni, di cui occorrerebbe tener conto. Il primo è la costante diminuzione dei bambini italiani in età scolastica. Se si considera il gruppo d’età dei cittadini con la sola nazionalità italiana da 0 a 14 anni, si deve costatare una costante diminuzione. Questa classe d’età si è ridotta dal 1998 al 2008 di ben 14.320 persone. Se nel 1998 in questa fascia d’età gli italiani erano 47.020, nel 2008 erano solo 32.700. E la tendenza continua.
Il secondo elemento da tenere in considerazione è che sono sempre più numerosi gli italiani in età scolastica che diventano (anche) cittadini svizzeri, evidenziando in questo modo che la loro prospettiva di vita si situa in Svizzera più che in Italia. Del resto per il 90% i bambini italiani in età scolastica sono nati in Svizzera da genitori generalmente ormai ben integrati. E’ dunque comprensibile che il loro interesse a frequentare i corsi di lingua e cultura italiane tenda a diminuire.
Ripensare la politica culturale italiana all’estero
Anche soltanto sulla base di questi due elementi credo che il sistema dei corsi gestiti direttamente dallo Stato o da Enti Gestori che ne fanno le veci vada ripensato. Non è infatti possibile che un sistema ideato in altri tempi e finalizzato essenzialmente al rientro dei giovani in Italia possa continuare a funzionare sostanzialmente alla stessa maniera.
Si dimentica inoltre che questi corsi erano anche il frutto di un diffuso assistenzialismo dello Stato italiano quando gli emigrati erano di formazione e capacità di reddito ben inferiore a quella di oggi. Credo che una certa «politica culturale» oggi la debbano fare anche gli stessi emigrati e coloro che li rappresentano senza poggiare unicamente sul contributo statale.
Quando si parla di associazionismo attivo e si pretende di valorizzarlo a spese dello Stato, si dimentica che l’essenziale dell’associazionismo è il volontariato, l’intraprendenza e la motivazione. Anche l’italianità, oltre che una caratteristica dello Stato, che ha quindi il compito di proteggere e sviluppare, dovrebbe essere anche sentita come una caratteristica e un bene di tutti gli italiani, compresi quelli che risiedono all’estero, che non meno dello Stato dovrebbero sentire l’obbligo (morale) di difendere e sviluppare, mettendoci magari anche qualcosa di proprio.
Se la lingua e la cultura italiane fossero sentite in questi termini, forse sarebbe più facile trovare soluzioni alternative o complementari anche ai corsi di lingua e cultura, non dimenticando che anche per la Svizzera rappresentano una ricchezza e una risorsa. Trovare sinergie potrebbe rappresentare un’opportunità da studiare e cogliere, tanto più che la nuova legge federale sulle lingue lascia aperto qualche spiraglio in questo senso.
Giovanni Longu
Berna, 7.2.2010

27 gennaio 2010

Il sorpasso: in Svizzera i tedeschi nuovamente primi

Siamo talmente abituati a leggere e scrivere che gli italiani in Svizzera (considerando tali quelli col solo passaporto italiano) sono sempre il gruppo nazionale straniero più numeroso, che potrà apparire sorprendente leggere d’ora in poi che questo primato gli italiani l’hanno perso, almeno in parte. «In parte», conviene subito precisare, perché la collettività italiana continua ad essere saldamente al primo posto tra la popolazione residente straniera, ossia considerando tutte le persone residenti da zero anni in su. Se invece si considera la cosiddetta «popolazione attiva», ossia quella in età lavorativa (occupata e disoccupata), al primo posto sono ormai balzati i tedeschi.
Già negli anni scorsi il tasso di immigrazione in Svizzera dei tedeschi lasciava intuire che si sarebbero assai presto ripreso il tradizionale primato che avevano detenuto ininterrottamente per oltre un secolo, fino alla vigilia della seconda guerra mondiale. Gli italiani, che fino all’ultima decade dell’Ottocento occupavano il terzo posto, dopo i francesi, dal 1900 erano balzati al secondo, per salire incontrastati al primo posto allo scoppio della seconda guerra mondiale.
Quando negli anni Settanta del secolo scorso l’Italia ha cominciato a trasformarsi da tradizionale terra d’emigrazione in Paese d’immigrazione e il saldo migratorio con la Svizzera (espatriati meno rimpatriati) è divenuto negativo, sembrava evidente che prima o poi gli immigrati italiani di prima generazione sarebbero andati esaurendosi. Non solo, in quegli anni caratterizzati, oltre che da un forte rientro in Italia di pensionati non compensato da nuovi arrivi, anche dall’acquisizione della nazionalità svizzera da parte di un numero crescente di giovani di seconda e terza generazione, sembrava che l’intera collettività italiana in Svizzera fosse condannata a ridursi considerevolmente.
In realtà il numero di italiani residenti nella Confederazione è rimasto abbastanza stabile sia perché il flusso dei rientri ha rallentato la sua corsa negli ultimi decenni e molti anziani preferiscono invecchiare in Svizzera e sia perché dal 1992 gli italiani naturalizzati svizzeri possono conservare la nazionalità italiana.
Popolazione residente e popolazione attiva
Per la statistica svizzera sugli stranieri, tuttavia, i doppi cittadini sono considerati unicamente come svizzeri, per cui quando si raffrontano nazionalità diverse sono presi in considerazione unicamente i cittadini con la sola cittadinanza originaria. Se dalla popolazione complessiva italiana si escludono i doppi cittadini, il numero dei residenti italiani si aggira ormai attorno a 295.000 persone (non sono ancora noti i dati precisi per la fine del 2009) con tendenza alla diminuzione. Essa risulta ancora la comunità straniera nazionale più numerosa.
Fino all’anno scorso gli italiani detenevano in Svizzera anche il primato della popolazione attiva, ossia della popolazione in età lavorativa. Oggi questo primato spetta ai tedeschi.
Stando ai dati dell’Ufficio federale di statistica (UST), sottraendo dalla popolazione residente italiana i bambini e i giovani in formazione, gli anziani e quanti altri per diverse ragioni sono fuori del mercato del lavoro, la popolazione attiva italiana si riduce a poco più 164.000 persone. Facendo la stessa operazione con la popolazione complessiva tedesca, che si aggira ormai attorno alle 260.000 persone, si raggiunge e si supera sia pure di poco la cifra degli italiani. Il sorpasso sul filo di lana, per usare un’espressione sportiva, è avvenuto nel corso della prima metà dell’anno scorso ed è destinato con ogni probabilità a confermarsi in questo e nei prossimi anni.
A far diminuire la popolazione complessiva italiana contribuisce non solo il saldo migratorio costantemente negativo (anche se nel 2007 e 2008 è stato positivo, rispettivamente +2213 e +4493), ma anche l’alto numero dei naturalizzati svizzeri (9550 nel biennio 2007-2008). Esattamente l’inverso avviene da alcuni decenni per la popolazione tedesca che cresce ogni anno grazie al saldo migratorio positivo (+30.495 nel 2007 e +34.153 nel 2008), all’incremento naturale (più nascite che decessi) e al modesto numero di naturalizzazioni (4383 nel biennio 2007-2008). Il risultato è stato dapprima il rapido avvicinamento degli «attivi» tedeschi a quelli italiani e poi, l’anno scorso, il loro superamento. E’ interessante notare che un percorso simile, ma a parti inverse, era stato registrato in Svizzera tra le due popolazioni esattamente un secolo fa.
Tedeschi e italiani a confronto
Confrontando la popolazione residente complessiva degli italiani e dei tedeschi, salta facilmente agli occhi la differente piramide dell’età. Mentre quella italiana somiglia ormai a quella svizzera con una ripartizione omogenea tra le differenti classi d’età, quella tedesca è piuttosto tipica di una popolazione di migranti, con un ingrossamento nella fascia centrale dai 25 ai 54 anni e due restringimenti nella classe d’età da 0 a 14 anni e in quella degli ultrasessantacinquenni.
Se invece della popolazione residente si considera la popolazione attiva le differenze che saltano agli occhi tra italiani e tedeschi sono, oltre alla struttura dell’età, il grado di formazione, il settore d’occupazione, la posizione professionale e il tasso di inoccupazione.
I tedeschi che esercitano un’attività lucrativa in Svizzera hanno per il 62,0% una formazione di grado terziario (con titolo universitario o equivalente), mentre tra gli italiani questa percentuale scende al 19,3%. Per gli svizzeri essa si situa al 33,7%. Hanno invece un titolo di scuola media superiore o formazione professionale completa il 35,1% dei tedeschi, il 51,2% degli italiani e il 53,7% degli svizzeri. Sotto questo aspetto, gli italiani rassomigliano ancora una volta più agli svizzeri che ai tedeschi.
Quanto al settore d’occupazione, tanto gli italiani quanto i tedeschi sono più attivi nel terziario che nel secondario, ma con una proporzione differente: per gli italiani è di poco più di due a uno, mentre per i tedeschi di poco più di tre a uno. Per gli svizzeri la proporzione è di quasi quattro a uno.
E’ interessante osservare la posizione che occupano nella professione i tre gruppi di popolazione esaminata. In base alla rilevazione sulle forze di lavoro in Svizzera effettuata dall’UST nel secondo trimestre del 2009, sono dipendenti senza alcuna funzione dirigente circa la metà dei lavoratori tedeschi e italiani e il 46,8% degli svizzeri. Le maggiori differenze si notano nelle posizioni di «indipendenti, familiari coadiuvanti» (svizzeri 17,1%, italiani 12,9%, tedeschi 9,6%), «dipendenti membri della direzione» (rispettivamente: 13,7%, 14,9%, 16,6%) e «dipendenti con funzione dirigente» (16,7%, 25,0% e 14,0%). In questo ambito spiccano soprattutto l’alta percentuale dei quadri tedeschi (25%), ma anche l’elevata percentuale degli italiani nella posizione di membri di direzione (16,6%).
Sono invece nettamente sfavorevoli agli italiani i dati sull’inoccupazione: per loro il tasso era nel 2° trimestre dell’anno scorso del 4,6%, contro il 3,2% degli svizzeri e il 2,9% dei tedeschi.
Sviluppi prevedibili
Sempre più spesso la stampa quotidiana e periodica si occupa della presenza tedesca in Svizzera e sono in molti a interrogarsi se stia tornando la paura dei tedeschi. Le risposte sono quasi tutte tranquillizzanti, ma tra le righe si nota qua e là qualche perplessità. Già il fatto che gli arrivi di germanici siano ogni anno diverse migliaia e che si tratti generalmente di persone con una formazione spesso molto elevata e una qualifica professionale superiore pone qualche interrogativo. Se poi si osserva che tra i nuovi arrivati vi sono molti imprenditori, manager, professori universitari, medici, direttori di banche, ingegneri, ecc., attratti soprattutto dai più elevati salari svizzeri, è facile far ricordare a chi conosce bene la storia patria i tempi in cui le università, la letteratura, la stampa erano impregnate di cultura tedesca.
Un partito di destra, la solita Unione democratica di centro (UDC, il partito di Blocher, tanto per intenderci), l’anno scorso aveva lanciato l’allarme su un grande quotidiano zurighese contro «l’arroganza straniera», perché «i tedeschi preferiscono dare lavoro ad altri tedeschi, nelle università come negli ospedali». Sembrava di leggere uno scritto di quei critici dell’inizio del secolo scorso che sollevarono per primi i problemi dell’inforestierimento (Überfremdung). Senza tener per nulla conto che da allora era passato ormai più di un secolo! Senza tener conto soprattutto che le università sono più aperte di una volta, il lavoro si è internazionalizzato, le economie sono interdipendenti, la libera circolazione delle persone è almeno in Europa un fatto acquisito. Giustamente l’atteggiamento dell’UDC venne stigmatizzato da 200 professori universitari di Zurigo. Non è più il tempo delle paure, ma delle aperture.
Certo, la storia dovrebbe insegnare anche ai tedeschi che in Svizzera, come in ogni Paese con forti tradizioni e un profondo senso di appartenenza, per essere accettati pienamente bisogna integrarsi, rispettare la cultura specifica locale, accettare anche certe regole non scritte ma importanti, com’è per gli svizzeri ad esempio l’uso quotidiano dello «schwyzerdütsch», quando non è necessario il buon tedesco.
I tedeschi, da parte loro, si dichiarano ben disposti verso l’integrazione e non c’è ragione per dubitarne. A garantirne il risultato credo tuttavia che occorra non solo una certa vigilanza, ma anche la presenza costante e forte delle altre culture che hanno fatto la Svizzera. La presenza «latina» in particolare, attiva e riconosciuta, potrà garantire meglio la coesione nazionale e la sopravvivenza della Confederazione nel suo attuale equilibrio. E poiché un po’ di ottimismo non guasta, anche la prospettiva di una maggiore integrazione europea, dovrebbe sgomberare il campo e la fantasia da qualsiasi paura del passato, ormai remoto e definitivamente sepolto.
Giovanni Longu
Il sorpasso: in Svizzera i tedeschi nuovamente primi
Siamo talmente abituati a leggere e scrivere che gli italiani in Svizzera (considerando tali quelli col solo passaporto italiano) sono sempre il gruppo nazionale straniero più numeroso, che potrà apparire sorprendente leggere d’ora in poi che questo primato gli italiani l’hanno perso, almeno in parte. «In parte», conviene subito precisare, perché la collettività italiana continua ad essere saldamente al primo posto tra la popolazione residente straniera, ossia considerando tutte le persone residenti da zero anni in su. Se invece si considera la cosiddetta «popolazione attiva», ossia quella in età lavorativa (occupata e disoccupata), al primo posto sono ormai balzati i tedeschi.
Già negli anni scorsi il tasso di immigrazione in Svizzera dei tedeschi lasciava intuire che si sarebbero assai presto ripreso il tradizionale primato che avevano detenuto ininterrottamente per oltre un secolo, fino alla vigilia della seconda guerra mondiale. Gli italiani, che fino all’ultima decade dell’Ottocento occupavano il terzo posto, dopo i francesi, dal 1900 erano balzati al secondo, per salire incontrastati al primo posto allo scoppio della seconda guerra mondiale.
Quando negli anni Settanta del secolo scorso l’Italia ha cominciato a trasformarsi da tradizionale terra d’emigrazione in Paese d’immigrazione e il saldo migratorio con la Svizzera (espatriati meno rimpatriati) è divenuto negativo, sembrava evidente che prima o poi gli immigrati italiani di prima generazione sarebbero andati esaurendosi. Non solo, in quegli anni caratterizzati, oltre che da un forte rientro in Italia di pensionati non compensato da nuovi arrivi, anche dall’acquisizione della nazionalità svizzera da parte di un numero crescente di giovani di seconda e terza generazione, sembrava che l’intera collettività italiana in Svizzera fosse condannata a ridursi considerevolmente.
In realtà il numero di italiani residenti nella Confederazione è rimasto abbastanza stabile sia perché il flusso dei rientri ha rallentato la sua corsa negli ultimi decenni e molti anziani preferiscono invecchiare in Svizzera e sia perché dal 1992 gli italiani naturalizzati svizzeri possono conservare la nazionalità italiana.
Popolazione residente e popolazione attiva
Per la statistica svizzera sugli stranieri, tuttavia, i doppi cittadini sono considerati unicamente come svizzeri, per cui quando si raffrontano nazionalità diverse sono presi in considerazione unicamente i cittadini con la sola cittadinanza originaria. Se dalla popolazione complessiva italiana si escludono i doppi cittadini, il numero dei residenti italiani si aggira ormai attorno a 295.000 persone (non sono ancora noti i dati precisi per la fine del 2009) con tendenza alla diminuzione. Essa risulta ancora la comunità straniera nazionale più numerosa.
Fino all’anno scorso gli italiani detenevano in Svizzera anche il primato della popolazione attiva, ossia della popolazione in età lavorativa. Oggi questo primato spetta ai tedeschi.
Stando ai dati dell’Ufficio federale di statistica (UST), sottraendo dalla popolazione residente italiana i bambini e i giovani in formazione, gli anziani e quanti altri per diverse ragioni sono fuori del mercato del lavoro, la popolazione attiva italiana si riduce a poco più 164.000 persone. Facendo la stessa operazione con la popolazione complessiva tedesca, che si aggira ormai attorno alle 260.000 persone, si raggiunge e si supera sia pure di poco la cifra degli italiani. Il sorpasso sul filo di lana, per usare un’espressione sportiva, è avvenuto nel corso della prima metà dell’anno scorso ed è destinato con ogni probabilità a confermarsi in questo e nei prossimi anni.
A far diminuire la popolazione complessiva italiana contribuisce non solo il saldo migratorio costantemente negativo (anche se nel 2007 e 2008 è stato positivo, rispettivamente +2213 e +4493), ma anche l’alto numero dei naturalizzati svizzeri (9550 nel biennio 2007-2008). Esattamente l’inverso avviene da alcuni decenni per la popolazione tedesca che cresce ogni anno grazie al saldo migratorio positivo (+30.495 nel 2007 e +34.153 nel 2008), all’incremento naturale (più nascite che decessi) e al modesto numero di naturalizzazioni (4383 nel biennio 2007-2008). Il risultato è stato dapprima il rapido avvicinamento degli «attivi» tedeschi a quelli italiani e poi, l’anno scorso, il loro superamento. E’ interessante notare che un percorso simile, ma a parti inverse, era stato registrato in Svizzera tra le due popolazioni esattamente un secolo fa.
Tedeschi e italiani a confronto
Confrontando la popolazione residente complessiva degli italiani e dei tedeschi, salta facilmente agli occhi la differente piramide dell’età. Mentre quella italiana somiglia ormai a quella svizzera con una ripartizione omogenea tra le differenti classi d’età, quella tedesca è piuttosto tipica di una popolazione di migranti, con un ingrossamento nella fascia centrale dai 25 ai 54 anni e due restringimenti nella classe d’età da 0 a 14 anni e in quella degli ultrasessantacinquenni.
Se invece della popolazione residente si considera la popolazione attiva le differenze che saltano agli occhi tra italiani e tedeschi sono, oltre alla struttura dell’età, il grado di formazione, il settore d’occupazione, la posizione professionale e il tasso di inoccupazione.
I tedeschi che esercitano un’attività lucrativa in Svizzera hanno per il 62,0% una formazione di grado terziario (con titolo universitario o equivalente), mentre tra gli italiani questa percentuale scende al 19,3%. Per gli svizzeri essa si situa al 33,7%. Hanno invece un titolo di scuola media superiore o formazione professionale completa il 35,1% dei tedeschi, il 51,2% degli italiani e il 53,7% degli svizzeri. Sotto questo aspetto, gli italiani rassomigliano ancora una volta più agli svizzeri che ai tedeschi.
Quanto al settore d’occupazione, tanto gli italiani quanto i tedeschi sono più attivi nel terziario che nel secondario, ma con una proporzione differente: per gli italiani è di poco più di due a uno, mentre per i tedeschi di poco più di tre a uno. Per gli svizzeri la proporzione è di quasi quattro a uno.
E’ interessante osservare la posizione che occupano nella professione i tre gruppi di popolazione esaminata. In base alla rilevazione sulle forze di lavoro in Svizzera effettuata dall’UST nel secondo trimestre del 2009, sono dipendenti senza alcuna funzione dirigente circa la metà dei lavoratori tedeschi e italiani e il 46,8% degli svizzeri. Le maggiori differenze si notano nelle posizioni di «indipendenti, familiari coadiuvanti» (svizzeri 17,1%, italiani 12,9%, tedeschi 9,6%), «dipendenti membri della direzione» (rispettivamente: 13,7%, 14,9%, 16,6%) e «dipendenti con funzione dirigente» (16,7%, 25,0% e 14,0%). In questo ambito spiccano soprattutto l’alta percentuale dei quadri tedeschi (25%), ma anche l’elevata percentuale degli italiani nella posizione di membri di direzione (16,6%).
Sono invece nettamente sfavorevoli agli italiani i dati sull’inoccupazione: per loro il tasso era nel 2° trimestre dell’anno scorso del 4,6%, contro il 3,2% degli svizzeri e il 2,9% dei tedeschi.
Sviluppi prevedibili
Sempre più spesso la stampa quotidiana e periodica si occupa della presenza tedesca in Svizzera e sono in molti a interrogarsi se stia tornando la paura dei tedeschi. Le risposte sono quasi tutte tranquillizzanti, ma tra le righe si nota qua e là qualche perplessità. Già il fatto che gli arrivi di germanici siano ogni anno diverse migliaia e che si tratti generalmente di persone con una formazione spesso molto elevata e una qualifica professionale superiore pone qualche interrogativo. Se poi si osserva che tra i nuovi arrivati vi sono molti imprenditori, manager, professori universitari, medici, direttori di banche, ingegneri, ecc., attratti soprattutto dai più elevati salari svizzeri, è facile far ricordare a chi conosce bene la storia patria i tempi in cui le università, la letteratura, la stampa erano impregnate di cultura tedesca.
Un partito di destra, la solita Unione democratica di centro (UDC, il partito di Blocher, tanto per intenderci), l’anno scorso aveva lanciato l’allarme su un grande quotidiano zurighese contro «l’arroganza straniera», perché «i tedeschi preferiscono dare lavoro ad altri tedeschi, nelle università come negli ospedali». Sembrava di leggere uno scritto di quei critici dell’inizio del secolo scorso che sollevarono per primi i problemi dell’inforestierimento (Überfremdung). Senza tener per nulla conto che da allora era passato ormai più di un secolo! Senza tener conto soprattutto che le università sono più aperte di una volta, il lavoro si è internazionalizzato, le economie sono interdipendenti, la libera circolazione delle persone è almeno in Europa un fatto acquisito. Giustamente l’atteggiamento dell’UDC venne stigmatizzato da 200 professori universitari di Zurigo. Non è più il tempo delle paure, ma delle aperture.
Certo, la storia dovrebbe insegnare anche ai tedeschi che in Svizzera, come in ogni Paese con forti tradizioni e un profondo senso di appartenenza, per essere accettati pienamente bisogna integrarsi, rispettare la cultura specifica locale, accettare anche certe regole non scritte ma importanti, com’è per gli svizzeri ad esempio l’uso quotidiano dello «schwyzerdütsch», quando non è necessario il buon tedesco.
I tedeschi, da parte loro, si dichiarano ben disposti verso l’integrazione e non c’è ragione per dubitarne. A garantirne il risultato credo tuttavia che occorra non solo una certa vigilanza, ma anche la presenza costante e forte delle altre culture che hanno fatto la Svizzera. La presenza «latina» in particolare, attiva e riconosciuta, potrà garantire meglio la coesione nazionale e la sopravvivenza della Confederazione nel suo attuale equilibrio. E poiché un po’ di ottimismo non guasta, anche la prospettiva di una maggiore integrazione europea, dovrebbe sgomberare il campo e la fantasia da qualsiasi paura del passato, ormai remoto e definitivamente sepolto.
Giovanni Longu
Berna,24.01.2010 (L'ECO, 27.01.2010)

20 gennaio 2010

Lo scandalo vergognoso di Rosarno

(L'ECO, 20.1.2010) Le immagini delle violenze subite dagli africani a Rosarno sono di quelle che non possono lasciare indifferenti. E quelle videate sui capannoni abbandonati in cui quei poveracci cucinavano, dormivano e passavano il tempo libero fanno semplicemente ribrezzo.
Vedendo quelle immagini mi sono venute spontaneamente alla mente certe descrizioni sulle condizioni di vita e di alloggio degli italiani immigrati in Svizzera in alcuni cantieri all’epoca della costruzione delle ferrovie e nelle periferie delle grandi città in cui costruivano strade, fabbriche e palazzi all’inizio del secolo scorso.
In un saggio del 1907 sulla «questione degli italiani», lo storico Jacob Lorenz esponeva senza pietà le misere condizioni degli italiani nelle principali città svizzere, dove abitavano in stamberghe squallide e insane e dove si nutrivano miseramente. «Le abitazioni degli italiani sono da cercare in quelle case che per la loro sporcizia e la loro mancanza d’igiene sarebbero da abbandonare al più presto possibile […]. Nelle stanze si trovano dappertutto letti e panconi. La latrina che viene usata da un gran numero di persone si trova in condizioni raccapriccianti […]. Ogni letto è occupato da 2, 3 o più persone. Senza differenza d’età, spesso senza quella del sesso. Genitori e bambini, coppie sposate e affittuari coabitano insieme nelle stesse camere, che vengono ventilate raramente e sono sovraffollate del doppio e del triplo».
Un altro storico, Hektor Amman, così scriveva degli italiani in Svizzera nel 1917: «In genere appartengono ai ceti più poveri e meno colti della popolazione italiana. Tra di loro gli analfabeti sono numerosi. Di conseguenza anche le loro pretese nei confronti della vita sono le più modeste ipotizzabili. Per mangiare spendono poco […]. Molti non mangiano assolutamente nulla di caldo durante l’intera giornata, solo pane e salsiccia o formaggio e birra. Inoltre spesso cucinano assieme in una qualche baracca, alle cui pareti sono appese su grossi chiodi le pagnotte iniziate. Si bevono poche bevande alcoliche. Apparentemente lo sporco e i buchi nei vestiti non danno loro alcun fastidio. Per questo motivo sono pochissimi quelli che possiedono indumenti da lavoro o tute. A contrastare con le nostre idee sono però soprattutto le loro condizioni di alloggio. Gli italiani che lavorano a progetti ferroviari ecc. vivono lontano dagli insediamenti umani e quelli che lavorano in campagna solitamente in particolari baracche di legno, nelle città nei quartieri più miseri. L’abitazione di un italiano è riconoscibile da lontano per la sporcizia e il degrado, come vetri infranti, porte rotte ecc. Si cucina, si mangia e si dorme nello stesso locale, e in ogni locale dormono tante persone quante possono stendersi su materassi per terra o simili.[…] Tutto ciò consente loro naturalmente di mettere da parte buona parte dei loro guadagni».
Si dirà, forse, quelli erano altri tempi. Già, da allora è passato un secolo, ma per molti sembra passato inutilmente, perché se Lorenz o Amman dovessero descrivere le condizioni di alloggio degli extracomunitari di Rosarno (e probabilmente di molte altre località simili) userebbero le stesse parole e proverebbero lo stesso disgusto.
Le responsabilità
Un sentimento che non ho notato nelle reazioni degli abitanti di Rosarno e nemmeno degli uomini politici che sono intervenuti sulla vicenda. O fa differenza che cento anni fa i protagonisti fossero italiani e oggi siano africani? O sono forse cambiate le responsabilità? Evidentemente, la storia dell’emigrazione italiana ha insegnato poco, forse perché troppo in fretta dimenticata.
Potrebbe aiutare la nostra riflessione quanto ha scritto un altro storico, Peter Manz, un italo-svizzero che si è occupato intensamente delle pessime condizioni igienico-sanitarie delle miserrime abitazioni spesso improvvisate degli immigrati italiani a Basilea agli inizi del secolo scorso. Dopo aver raccolto le testimonianze dell’epoca sull’indecenza di quelle abitazioni pietose, Manz confessa che a colpirlo è stato «innanzitutto il silenzio e la noncuranza della maggior parte degli osservatori: qui, anche nel [primo] dopoguerra, autorità ed imprenditori ma anche sindacati ed operai, si distinguono spesso per un vistoso ritardo, per una scarsa sensibilità e per una complice indifferenza, per arretratezza, impreparazione e disinformazione», ma «soprattutto il disinteresse degli ambienti padronali e la complicità delle autorità competenti, ma anche la debolezza e l’incoscienza, la rassegnazione e la miopia di larghi strati di lavoratori, soprattutto se stagionali».
La costatazione fatta da Manz mi sembra in buona parte applicabile anche alla situazione registrata un secolo più tardi a Rosarno e regione. Anche in questo caso, infatti, la situazione non era nascosta o isolata, ma sotto gli occhi di tutti, che hanno fatto finta di non vedere e non conoscere. La gente del posto, provava solo fastidio, ma probabilmente non ha reagito nella maniera propria di uno Stato di diritto. Per paura? E’ probabile, ma insufficiente a giustificare l’accettazione di uno stato d’illegalità e di degrado tale.
E’ risaputo che molte responsabilità vanno cercate nella sete di guadagno di avidi padroni e nello strapotere della «’ndrangheta». Ma a fallire in questa vicenda è stato un sistema diffuso di illegalità, indifferenza, ipocrisia, irresponsabilità. Dovrebbe essere intollerabile per tutti, in un Paese civile, accettare situazioni di degrado e di sfruttamento come quelle ampiamente e tragicamente documentate!
In Italia si discute molto, forse perfino troppo, di giustizia, mentre la giustizia applicata fa spesso cilecca, più che bendata sembra cieca. Come si fa a parlare apertamente di ‘ndrangheta, di cosche, di mandanti e di esecutori con tanto di nomi e cognomi e non riuscire a renderli innocui? Come si fa ad accettare senza indignarsi e senza reagire un vero e proprio atto di schiavitù come quello perpetrato nei confronti di esseri umani, sfruttati all’inverosimile, «colpevoli» solo di non disporre dei permessi di residenza giusti e di non avere sindacati a loro difesa?
Soprattutto la politica ha le sue colpe. Se uno Stato fa una legge, dev’essere anche in grado di osservarla e farla osservare, altrimenti è preferibile che non la faccia. Non è degno di uno Stato di diritto tollerare così tanti clandestini come sembrerebbe ne circolino liberamente soprattutto nel Meridione. E per favore, ogni governo si prenda le proprie responsabilità e non si faccia a scarica barile. Non ha senso che il ministro degli interni in carica e la maggioranza che lo sostiene cerchino di addossare le responsabilità dell’immigrazione clandestina al lassismo dei precedenti governi per non aver sorvegliato a dovere tutti gli ingressi e aver tollerato sul territorio nazionale chiunque fosse riuscito a mettervi piede, anche illegalmente. Le leggi sono dello Stato e ogni governo è tenuto a farle rispettare tutte. Oggi è in gioco la credibilità dell’attuale governo.
Legalità e integrazione
Mi hanno colpito anche alcuni commenti della gente comune, secondo cui lo scoppio della violenza a Rosarno era «inevitabile». Come se le condizioni che provocano la violenza non dipendessero dalla volontà delle persone e non potessero essere modificate. Come se all’illegalità non ci fosse rimedio. Come se la malavita organizzata fosse più forte dello Stato e lo Stato impotente di fronte alle forze del male. Forse è proprio questo il punto: occorre una presa di coscienza collettiva, Stato compreso, che il bene (comune) può vincere il male e ciascuno, nessuno escluso, deve dare il proprio contributo.
Ma è evidente che il compito più importante e più difficile spetta allo Stato. Sarebbe superficiale ignorare le difficoltà, ma non sarebbe nemmeno più tollerabile l’indecisione. L’immigrazione, quella regolare come quella clandestina, è un problema politico, nazionale e sociale che non è possibile – Rosarno insegna – affrontare senza che lo Stato scenda in prima linea.
Due mi sembrano le linee guida che dovrebbe seguire il governo: da una parte la fermezza nell’applicazione delle leggi, compresa quella sull’immigrazione clandestina, e dall’altra impostando e realizzando una politica d’integrazione che concili gli interessi della popolazione locale e gli interessi degli immigrati. Le due linee non sono divergenti ma convergenti, portano solo a un buon risultato.
Purtroppo non esistono scorciatoie. La lunga storia della politica migratoria svizzera, che ha coinvolto nel bene e nel male centinaia di migliaia di italiani immigrati, m’insegna che la migliore integrazione non la si fa con le leggi ma con la pratica: nella scuola, sul posto di lavoro, in chiesa, per strada, in televisione, nell’associazionismo, nello sport.
L’immigrazione è soprattutto un problema sociale, perché ne va dell’equilibrio dell’intera collettività. L’ingovernabilità e il degrado di un sottogruppo di popolazione potrebbe provocare il collasso dell’intera società.
La storia e la memoria dell’emigrazione di milioni di italiani dovrebbe agevolare il compito che aspetta oggi l’Italia in questa materia. Gli italiani, ovunque, anche in Svizzera, hanno dovuto sopportare le cosiddette pene dell’inferno prima di affermarsi come una componente sana, produttiva e importante, in tutti i Paesi dove ha messo radici. Oggi quel che conta è il risultato. E la riuscita degli italiani all’estero dovrebbe insegnare che anche in Italia gli immigrati possono diventare una componente utile e importante. Per questo devono essere rispettati ed esigere da loro rispetto, nello spirito di una comunità che deve crescere insieme.
Giovanni Longu
Berna 17.01.2010

13 gennaio 2010

Buon Anno, Italia e Svizzera

(L'ECO, 13.01.2010)
Il passaggio dall’anno vecchio a quello nuovo è tradizionalmente l’occasione più generale per farsi reciprocamente i migliori auguri, per esprimere desideri e abbozzare qualche buon proposito. Lo fanno tutte le persone normali, ma non sfuggono alla tradizione nemmeno i capi di Stato e di governo.
In Italia, a formulare i migliori auspici per l’intera nazione è stato il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in Svizzera la Presidente della Confederazione Doris Leuthard. Nonostante i contesti assai diversi, generalmente questi discorsi augurali si rassomigliano a tal punto che molti li danno per scontati prima ancora di sentiti o leggerli. Non dovrebbe essere così, perché offrono talvolta utili spunti di riflessione, come quest’anno.
Sovente l’attesa dei cittadini è molto bassa, perché sanno in partenza che questi discorsi non contengono risposte alle loro domande e ai loro problemi. Essi vorrebbero soluzioni o almeno promesse rincuoranti e qualche buon proposito. Invece questi discorsi ufficiali si limitano per lo più a passare in rassegna i principali problemi della nazione, ad indicare qualche via di soluzione e a formulare i soli buoni auspici, invocando magari, come ha fatto la Presidente della Confederazione, «la benedizione di Dio». Ma dove sono i buoni propositi? Semplicemente non ci sono.
In Italia, è vero, il Presidente della Repubblica si è impegnato ad esercitare fino in fondo il suo dovere di richiamare i contendenti alla moderazione dei toni e al dialogo costruttivo. Non c’è motivo per non ritenere che onorerà l’impegno. Ma quanto vale? Ben poco, perché il dialogo non dipende certo da lui e non può certo obbligare maggioranza ed opposizione a smetterla di litigare e cominciare a collaborare, come i cittadini italiani si attendono ormai da mesi e da anni. I buoni propositi avrebbero dovuto farli loro, i responsabili della politica, ma evidentemente non se la sono sentita di impegnarsi in quella che è la vera democrazia: contribuire tutti insieme al benessere generale.
E’ vero, Berlusconi ha annunciato come capo del governo che il 2010 sarà l’anno delle grandi riforme. Ma questo è un buon proposito? Niente affatto, perché le riforme non dipenderanno solo dal governo, ma anche dal parlamento e soprattutto dalla capacità d’intesa tra maggioranza e opposizione. Per di più, Berlusconi non si è nemmeno impegnato a cercare il dialogo a tutti i costi, anzi ha detto chiaro e tondo che, se la minoranza non la smetterà di correre appresso a Di Pietro in un’opposizione oltranzista e miope, la maggioranza correrà da sola. Che tipo di riforme è lecito attendersi senza un autentico confronto democratico e un’ampia convergenza parlamentare?
L’opposizione, per bocca di Bersani, non è da meno. Dichiara a parole di essere pronta al dialogo, ma in realtà lo subordina a tutta una serie di condizioni pregiudiziali. Nel clima politico in cui è precipitata l’Italia, il principale partito d’opposizione è ancora troppo condizionato dalla paura di perdere consensi di fronte all’incalzare delle forze più antiberlusconiane e, forse, antidemocratiche che puntano decise a costituire la vera opposizione.
Insomma, anche quest’anno gli italiani si dovranno accontentare di qualche buona intenzione, ma nulla di più? Oppure si può ancora sperare? Ebbene sì, c’è da sperare che di fronte alla gravità dei problemi che sta attraversando l’Italia, istituzioni e cittadini si rendano conto che la crisi può essere superata solo dialogando e collaborando. Non c’è scampo, o si supera la logica delle contrapposizioni (vincitori/vinti, maggioranza/minoranza, destra/sinistra, buoni/cattivi, ecc.) e dei veti incrociati, o c’è il caos e il declino. Una vera democrazia non si basa solo sul potere della maggioranza, ma anche sul rispetto reciproco, sulla condivisione dei problemi e sulla collaborazione.
Solo a queste condizioni tutto potrebbe cambiare e l’Italia potrebbe superare la crisi profonda che rischia di strangolarla (debito pubblico, crisi economica, crisi finanziaria, perdita di valori, disparità sociali in aumento, difficoltà evidenti nella gestione del problema migratorio, disorientamento generale, ecc.). Solo raccogliendo le forze, non dissipando energie in logoranti guerre «ad personam», non perdendo tempo in sterili contrapposizioni, l’Italia riuscirà a dare ai propri cittadini un’amministrazione più giusta e più efficiente e soprattutto ai giovani e ai più deboli, serenità e speranza.
A queste condizioni, l’Italia può farcela. Dunque: BUON ANNO, ITALIA!
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Anche per la Svizzera la situazione non è facile. A mettere in difficoltà le istituzioni e i cittadini di questo Paese non è stata solo la crisi economica e finanziaria. La Svizzera già da qualche decennio sta ormai perdendo fiducia in sé stessa perché il mito dell’isola felice è tramontato e la difesa ad oltranza delle proprie tradizioni non regge più. Basti pensare che per ogni nuova legge deve fare i conti con il diritto comunitario.
In un mondo sempre più globalizzato, anche la florida economia svizzera comincia a registrare le sue debolezze, un numero crescente d’imprese in fallimento e una disoccupazione da record. La piazza finanziaria non è più una fortezza inespugnabile, il mitico segreto bancario è sempre meno segreto, soprattutto di fronte ai potenti vicini che per colpa sua si sentono in qualche modo defraudati e ora pretendono più trasparenza.
A causa delle note vicende con gli Stati Uniti, con la Germania, con la Francia, con l’Italia, con la Libia e altri Paesi, la Svizzera è alquanto disorientata nello scacchiere internazionale. Anche il federalismo mostra le sue debolezze, il governo manca talvolta di lucidità, i giovani hanno paura del futuro, la rete di protezione sociale si allenta, gli squilibri sociali non si attenuano.
Ai problemi della nazione ha accennato la Presidente della Confederazione nella sua allocuzione di capodanno, ma più che soffermarsi su ciò che non va, ha voluto suscitare fiducia nella possibilità di risolvere i problemi, perché ci sono sempre vie d’uscita e perché il popolo svizzero ha sempre molte risorse («so quanta forza il nostro Paese sa sviluppare»). La Presidente Leuthard ne ha ricordate alcune in particolare, a cominciare dalla coesione nazionale, elemento fondante della Svizzera quale «Willensnation», ossia una nazione basata sul consenso e sulla volontà di stare insieme.
Su questo fondamento si è sviluppato uno Stato di diritto (che intende rispettare «la dignità dell’essere umano»), uno Stato democratico (in cui «democrazia non significa soltanto la vittoria della maggioranza ma anche il rispetto della minoranza, la quotidiana convivenza di quelli che una volta han vinto con quelli che una volta han perso»), uno Stato sociale e solidale (in cui «la solidarietà non è una parola priva di senso» e ognuno è responsabile «per il proprio futuro e per il futuro del Paese»), uno Stato la cui identità «si commisura al benessere dei singoli suoi membri».
Certamente, dopo la crisi niente sarà più come prima, ma c’è da scommettere che i cittadini di questo Paese sapranno ritrovare in sé stessi, nella loro storia e nelle istituzioni la forza per riportare la Svizzera al posto che merita nel contesto internazionale e rivitalizzare quelle caratteristiche che li hanno sempre contraddistinti. Mi riferisco in particolare al senso profondo della libertà e della democrazia, alla capacità d’integrare lingue, culture e religioni diverse, alla tolleranza (nonostante vistose eccezioni) nei confronti dello straniero e del diverso, alla solidarietà nazionale e internazionale, alla disponibilità all’apporto economico e culturale di popolazioni di altri Paesi, soprattutto di quelli confinanti, superando malintesi e diffidenze.
Perché tutto questo si avveri: BUON ANNO, SVIZZERA!

In vigore la legge federale sulle lingue

(L'ECO, 13.01.2010)
Dopo una pluriennale gestazione, il 1° gennaio 2010 è entrata in vigore in vigore la legge federale sulle lingue. La legge era già stata approvata il 5 ottobre 2007, ma è mancata finora la volontà politica di applicarla, anzi manca ancora l’ordinanza di applicazione. Anche per questo, quando nel dicembre scorso il Consiglio federale ne ha dato l’annuncio, la notizia non ha suscitato alcun entusiasmo nemmeno tra coloro che l’attendevano da anni.
Eppure si tratta di una legge importante perché fornisce la base legale per tutte quelle misure che mirano a «rafforzare il quadrilinguismo quale elemento essenziale della Svizzera, consolidare la coesione interna del Paese, promuovere il plurilinguismo individuale e il plurilinguismo istituzionale nell’uso delle lingue nazionali, salvaguardare e promuovere il romancio e l’italiano in quanto lingue nazionali».
Sarà opportuno, fra qualche settimana o mese, osservare più da vicino i singoli elementi riguardanti in particolare l’italiano, ma conviene sottolineare da subito che le istituzioni italiane che operano nel settore, soprattutto nei corsi di lingua e cultura, dovrebbero approfondire la portata di questa legge ed in particolare dell’articolo 22, che prevede crediti della Confederazione ai Cantoni dei Grigioni e Ticino «per il sostegno di: a. misure destinate a salvaguardare e promuovere le lingue e culture romancia e italiana; b. organizzazioni e istituzioni che si impegnano a livello sovraregionale per la salvaguardia e la promozione delle lingue e culture romancia e italiana; c. attività editoriali nella Svizzera romancia e italiana».
Purtroppo questa legge interviene con molto ritardo sul problema delle lingue e a soffrirne è soprattutto l’italiano, in costante perdita di parlanti e soprattutto di scriventi. Sarebbe tuttavia un peccato non rendersi conto che agli italofoni oggi è data forse l’ultima occasione per una presa di coscienza generale sull’importanza dell’italiano come lingua nazionale ed elemento determinante della coesione del Paese.
Questa presa di coscienza dovrebbe tuttavia comportare anche l’impegno di unire le forze, senza distinzione di nazionalità, tra tutti gli italofoni, istituzioni e individui, per difendere il carattere nazionale e ufficiale della lingua italiana in Svizzera, promuoverne l’apprendimento soprattutto nelle scuole di ogni ordine e grado, diffonderne l’uso nelle comunicazioni ufficiali (Confederazione, Cantoni, Città principali, uffici pubblici, musei, ecc.) e nell’informazione generale.
Se invece si continuerà a procedere in ordine sparso e ogni istituzione brigherà per conto suo non ci sarà scampo: l’italiano continuerà il suo inesorabile declino, con buona pace degli estimatori dell’idioma dantesco e del Paese dove il «sì» suona.
Giovanni Longu
Berna 10.01.2010

04 gennaio 2010

Italiano federale senza illusioni

Il 1° gennaio 2010 entrerà in vigore la legge sulle lingue, ma non produrrà quegli effetti benefici che qualcuno si aspetta, soprattutto tra gli italofoni.
A dubitarne sono in tanti, dall’on. Simoneschi Cortesi, che si chiedeva qualche giorno se esiste ancora la Svizzera plurilingue, all’on. Cassis, per il quale l’italiano rimane in serie B o all’on. Marina Carobbio (ma non è l’unica) che per essere più convincente tra i colleghi del Palazzo deve sacrificare l’italiano a vantaggio del tedesco.
Sono in molti a sostenere che nell’amministrazione federale lo spazio per l’italiano è sempre più ristretto. Non esiste affatto (e non potrebbe esistere) come lingua di lavoro e nemmeno come lingua parlata, anche se nei contatti col pubblico molti servizi d’informazione sono dotati di persone che parlano anche l’italiano. L’italiano è presente quasi esclusivamente come lingua di traduzione e con molti limiti. La nuova legge non migliorerà la situazione.
Anche sulla rappresentanza degli italofoni non bisogna farsi troppe illusioni. Saranno sempre pochi. Negli ultimi dieci anni è ulteriormente peggiorata e dubito che migliorerà dopo l’entrata in vigore della legge sulle lingue. Soprattutto per due ragioni.
La prima: si continua a prendere come riferimento per la rappresentanza delle comunità linguistiche i soli cittadini svizzeri e non l’intera popolazione residente. Errore gravissimo perché in questo modo diventa «equa» una rappresentanza del 4,3% (dato dell’ultimo censimento del 2000) e non superiore come sarebbe se si considerasse l’intera popolazione italofona residente. Ma il 4,3% non potrà mai costituire, in un ufficio federale di dimensioni medie, un gruppo significativo. Anche per questo le istruzioni sul plurilinguismo del 1997 e del 2003 sono rimaste a questo riguardo inapplicate (e inapplicabili).
La seconda ragione per cui non bisogna farsi troppe illusioni è la mancanza di un’autorità indipendente di controllo sul rispetto del plurilinguismo nell’Amministrazione federale. Una proposta in tal senso non è mai stata presa in considerazione. Oggi la Deputazione ticinese rivendica solo un ombudsman, un mediatore, ma non un garante, e intanto ci si deve accontentare di un semplice «consulente per la politica delle lingue nell’amministrazione», il pur bravo Verio Pini.
Mi rendo conto che non è facile chiedere e soprattutto ottenere un’autorità di garanzia, perché creerebbe non poche difficoltà in più di un Dipartimento. Ma è forse più facile accettare l’ipocrisia di avere sotto gli occhi una realtà che non corrisponde alle norme stabilite sul plurilinguismo? E non è forse un’ipocrisia continuare a proclamare l’italiano lingua di lavoro, ben sapendo che non potrà mai esserlo? Quanto potrà fare Verio Pini, a cui faccio i migliori auguri? Non resta che sperare, ma senza illusioni!
Giovanni Longu
LaRegioneTicino, 4.1.2010