01 luglio 2009

Per la rete consolare in Svizzera è tempo di ristrutturazione

Quando Enrico Letta (Pd) dava al suo ultimo libro il titolo «Costruire una cattedrale. Perché l’Italia deve tornare a pensare in grande», aveva sicuramente presenti anche tanti suoi compagni di partito bloccati da una pregiudiziale opposizione al governo e incapaci di guardare oltre. Non so se tra questi ci fosse anche l’on. Garavini (Pd), che a me sembra un classico esempio di chi, per partito preso, dice sistematicamente «no». Mi riferisco ad alcuni suoi interventi recenti (ripresi da alcune agenzie di stampa) a proposito del piano del governo per razionalizzare la rete consolare ed in particolare al suo ultimo intervento di Berna all’Intercomites Svizzera.
Che la Garavini si compiaccia di osservare la contrarietà dell’Intercomites al piano governativo di ridisegnare anche in Svizzera la rete consolare non è una notizia. Basterebbe chiedersi da chi è costituito questo organismo assolutamente sconosciuto alla collettività. Non è nemmeno una notizia che l’Intercomites esprima «una denuncia chiara della comunità italiana contro il piano di smantellare la rete consolare». In realtà è solo l’ennesima prova di arroganza e presunzione di alcuni personaggi di rappresentare e interpretare l’opinione dell’intera comunità italiana, un antico vizio, consolidatosi soprattutto negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, per cui chiunque avesse una qualche funzione, in ambito associazionistico, si sentiva autorizzato a parlare in nome del popolo emigrato.
L’on. Garavini dovrebbe stare attenta tuttavia a non scambiare l’insoddisfazione di pochi con una sorta di protesta collettiva, addirittura «a livello europeo» e non limitata alle sole circoscrizioni minacciate di chiusura. Crede davvero che gli italiani in Europa si preoccupino di com’è e come sarà organizzata la rete consolare italiana? Per quanto concerne la Svizzera, francamente non ho notizia né di grandi manifestazioni di protesta né di mobilitazioni di massa.
Il problema della rete consolare italiana in Svizzera è oggetto di discussioni da decenni, ma non è mai stato affrontato radicalmente. Per mancanza di convinzione e del sostegno necessario nessuna grande riforma è andata in porto. Questo governo sembra ora deciso a trovare una soluzione, anche se non dovesse incontrare l’unanimità dei consensi. Gli si possono muovere certo molti rimproveri, primo fra tutti di non coinvolgere gli esperti del settore e i diretti interessati tramite i loro rappresentanti ufficiali, come pure di non tenere in gran conto le voci discordanti, ma non certo di restare indifferente e inattivo.
Se è deplorevole che il governo sembri ignorare l’utilità del dialogo aperto e finalizzato a ricercare soluzioni eque e accettabili, dispiace che come la Garavini molti altri scambino la volontà di agire del governo con una sorta di «disinteresse e disprezzo nei confronti della collettività italiana all’estero». Dispiace soprattutto la disinformazione che si sta facendo al riguardo. Si confonde, ad esempio, la chiusura di una sede con l’azzeramento dei servizi, si scambia una proposta di razionalizzazione con una sorta di «piano di macellazione», un tentativo di riordino e riduzione di costi è visto da taluni come «uno smantellamento ed un degrado inarrestabili della rete diplomatica e consolare», addirittura «un affronto alla dignità della comunità italiana all’estero». Mi fermo qui, perché tanta superficialità non merita altro spazio.
Più delle polemiche inutili (per altro già sentite in occasione della trasformazione del consolato di Berna in cancelleria consolare) servirebbe una discussione appropriata e realistica, ma ho l’impressione che in molti non la vogliano per lasciare le cose come sono. Invece di entrare nel merito, per esaminare senza pregiudizi i pro e i contro della riforma, si preferisce rimandare al mittente l’intero pacchetto e reagire con slogan e frasi insulse, pur sapendo che in questa maniera i problemi invece di trovare una soluzione soddisfacente, che non dev’essere necessariamente la migliore, rischiano di aggravarsi.
Per la rete consolare in Svizzera sembra venuto il tempo di una ristrutturazione. Non è infatti possibile che essa continui ad essere (quasi) la stessa di un’epoca ormai lontana, in cui l’immigrazione era massiccia, a carattere soprattutto stagionale, e richiedeva molti visti e documenti. Oggi questa realtà migratoria non esiste più, con buona pace di chi sembra far finta di non accorgersene, e le distanze si possono superare più facilmente che in passato grazie all’accresciuta mobilità e alla telematica.
Sotto questo profilo non mi sembra una proposta indifendibile l’unificazione dei consolati di Ginevra e Losanna, che hanno insieme un bacino di utenza teorica di circa 100.000 connazionali, ossia meno degli italiani del Consolato di Zurigo. Capisco che per le persone maggiormente toccate dal provvedimento affrontare una distanza più lunga possa rappresentare un problema, ma questo non significa, come mi è capitato di leggere, che con un tale accorpamento «59.201 emigrati di Losanna dovranno farsi da 60 a 100 km per recarsi a Ginevra». In realtà, a doversi spostare, sarebbe comunque sempre una minima parte degli utenti potenziali e solo saltuariamente. Non si possono confondere gli utenti potenziali dei consolati con gli utenti effettivi. Per rendersene conto basterebbe che ogni lettore si domandasse quante volte ha dovuto recarsi al consolato negli ultimi 5 anni. Quindi si eviti per piacere la demagogia.
Va da sé che qualunque ristrutturazione di questa portata va adeguatamente preparata e possibilmente concordata, ma dovrebbe risultare evidente, soprattutto a chi ha la responsabilità della rappresentanza ufficiale, che l’opposizione non si fa soltanto dicendo «no» ma anche migliorando le proposte esistenti o proponendone altre ritenute migliori e sostenibili.
Giovanni Longu
1.7.2009

23 giugno 2009

E’ ancora possibile «pensare in grande» nel Bel Paese?

E’ ancora possibile «pensare in grande» nel Bel Paese?
Non ho letto il libro di Enrico Letta «Costruire una cattedrale. Perché l'Italia deve tornare a pensare in grande» e quindi le osservazioni che seguono non hanno alcun riferimento al contenuto dell’opera dell’esponente del Partito democratico italiano. Se vi accenno è unicamente per il titolo, che trovo molto suggestivo.
Già la metafora della costruzione di una cattedrale (oggetto sacro e simbolo di un’intera comunità che vi si riunisce nella fede, nella speranza e nella carità cristiana) mi fa pensare che per superare l’immanenza (in termini laici, il pantano in cui l’Italia si sta invischiando) per aprirsi alla trascendenza (che laicamente potrebbe chiamarsi: nuovi orizzonti, nuovi valori, maggiore giustizia, solidarietà, sviluppo, ecc.) occorre realizzare opere non solo grandiose e complesse come una cattedrale, ma anche evocative per loro natura della necessità per l’uomo d’oggi di osare, di andare oltre, di superare le crisi, la povertà, l’insicurezza, l’isolamento, l’ignoranza ecc.
Il titolo del libro di Enrico Letta, non si limita tuttavia ad enunciare la tesi (costruire una cattedrale), ma, nella seconda parte, ne dà anche una motivazione che appare profonda e sufficiente («perché l’Italia deve tornare a pensare in grande»). Implicitamente la motivazione è anche il metodo con cui raggiungere l’obiettivo e, se interpreto bene l’espressione, mi pare un metodo risolutivo.
In contrasto con una corrente di pensiero che intende privilegiare il fare al pensare, Letta sembra suggerire che l’Italia può uscire dalla crisi profonda in cui si trova (non solo finanziaria o economica, dico io, ma anche politica, sociale, culturale, valoriale) solo se si torna a «pensare», anzi a «pensare in grande». Che cosa intenda esattamente Enrico Letta con questa espressione non lo so, ma condivido l’idea che in Italia sia quanto mai necessario «pensare» e possibilmente «pensare in grande».
Anzitutto, «pensare», perché si pensa poco. Da numerosi indizi (non solo gli indicatori dell’insegnamento dell’OCSE che collocano le prestazioni degli scolari italiani in fondo alla classifica internazionale) si direbbe, parafrasando la celebre espressione di Cesare Pavese «lavorare stanca», che in Italia «pensare» sia più arduo che «lavorare». Per cui si cede facilmente alla tentazione di non pensare con la propria testa, consentendo così a pochi «maîtres à penser» e «opinion leader» di influenzare e condizionare le masse. Per rendersene conto basta osservare quel che sta succedendo sulla scena politica (ormai in balia a pochissimi personaggi, intenti soprattutto a ostacolarsi e delegittimarsi a vicenda), nel paesaggio culturale (dove sono sempre meno i personaggi di spicco a livello internazionale e nazionale), nella grande stampa (dove pochi quotidiani e pochi settimanali, generalmente «orientati», si contendono l’esclusiva di una presunta obiettività) e nei media radiotelevisivi (dove pochi giornalisti, ufficialmente indipendenti ma di fatto «schierati», mirano soprattutto a fare «audience»).
A prescindere dal significato che Letta ha inteso dare al titolo del suo libro e che ignoro, quelle parole mi suggeriscono alcune conclusioni, che vogliono essere anche auspici.
Primo. In Italia, ritengo urgente anzitutto una forte presa d’atto dei rischi del «pensiero delegato», dell’«omologazione culturale», del «pensiero unico». L’idea stessa di non dover più pensare perché altri pensano per noi dovrebbe provocare una ribellione contro ogni forma di totalitarismo ideologico, di visione del mondo monocroma, di egemonia mediatica.
Secondo. «Pensare» è coltivare, fin dalla scuola, un sano spirito critico e l’abitudine al ragionamento e alla verifica. Oggi non è più sufficiente, come ai tempi di mia nonna, che questa o quella «verità» l’abbia detta la radio o l’abbia scritta il giornale. Ogni lettore dovrebbe sentirsi responsabile dell’affidabilità della fonte e della notizia, perché i media, soprattutto in Internet, raccolgono ormai tutto, fatti, opinioni (per loro natura soggettive) e persino spazzatura.
Terzo. «Pensare in grande» significa anzitutto ripudiare la decadenza del discorso politico, nel migliore dei casi confuso (basti pensare alla propaganda sul referendum, ai commenti del dopoelezioni, alle riforme annunciate), sempre più spesso infarcito di pettegolezzi e veleni, con la complicità di molta stampa che sembra profittare dello squallore sbattuto in prima pagina. E’ come se al cittadino indifeso si cercasse di far credere che quel che avviene a Villa Certosa sia più importante di quel che si decide a Palazzo Chigi. Le «notizie» non sono tanto le decisioni prese o le leggi approvate (chi le conosce?) quanto le «rivelazioni» di donnine compiacenti e prezzolate e di qualche fotografo in cerca di gloria e di soldi. I cittadini pensanti dovrebbero ripudiare questo modo di fare pseudo informazione.
«Pensare in grande» è guardare decisamente al futuro, avere il coraggio di sotterrare l’ascia di guerra, ripristinare il dialogo, affrontare seriamente i problemi del Paese, discutere le proposte da qualunque parte provengano nel merito e senza pregiudizi, contribuire a trovare le migliori soluzioni possibili e lasciare a chi ne ha il diritto e il dovere di decidere.
Quarto. «Pensare in grande» è contribuire alla crescita del proprio Paese e provare piacere per ogni passo in avanti compiuto sulla via del diritto, della legalità, dell’uguaglianza, del progresso culturale, del benessere. Sono convinto che quando ciò avvenisse, finirebbero per perdere gli attuali significati le tradizionali distinzioni di destra e sinistra, maggioranza e opposizione, progressisti e conservatori, e l’Italia tornerebbe ad essere un Bel Paese.
Ma è ancora possibile in Italia «pensare in grande»?
Giovanni Longu
Berna 23.6.2009

17 giugno 2009

L’UNITRE Svizzera esempio di innovazione e di riuscita

Per l’UNITRE Svizzera è tempo di bilanci. In tutte le sedi si è chiuso o sta per chiudersi l’anno accademico 2008/2009. E il bilancio è senz’altro positivo, sia per numero di corsi offerti che per partecipazione.
Quando venne avviata la prima struttura operativa dell’UNITRE Svizzera, nel 2005 a Lucerna, scrissi che questa istituzione doveva considerarsi «una pietra miliare nella storia della collettività italiana in Svizzera, che s’iscrive a buon diritto nell’albo d’oro delle più importanti realizzazioni socioculturali dell’immigrazione italiana in Svizzera».
A distanza di qualche anno confermo quel giudizio perché l’UNITRE si è affermata in tutta la Svizzera come una delle innovazioni culturali più importanti e dinamiche degli ultimi decenni. Il moltiplicarsi delle sedi, l’interesse suscitato in diverse parti della Svizzera e la riuscita dei corsi testimoniano che la formula adottata risponde bene agli interessi degli utenti.
Le attività dell’UNITRE si svolgono ormai in 9 località, tra sedi principali e sedi distaccate, che diventeranno 11 questo autunno. Il numero dei corsi offerti è impressionante: ben 168 nel 2008/2009, tenuti generalmente da professionisti qualificati. La progressione delle adesioni (organizzatori, insegnanti e allievi) non lascia dubbio sulla dinamica dell’istituzione: sono infatti passate da 230 (2005/2006) e 1230 (2008/2009) e se ne prevedono circa 1400 nel prossimo anno accademico.
La riuscita dell’UNITRE è stata confermata l’anno scorso anche da un importante riconoscimento nel quadro dei progetti di formazione continua per persone giovani, adulte e della terza età. In un concorso federale organizzato dalla «Federazione svizzera per la formazione continua» (SVEB), su un centinaio di progetti presentati, quello dell’UNITRE è stato ritenuto il più meritevole. Un bel riconoscimento!
Il riconoscimento più ambito e raggiunto è tuttavia quello della soddisfazione non solo degli organizzatori, ma anche degli insegnanti, tutti volontari, e specialmente degli allievi dei corsi. Ben a ragione si registra in tutta la Svizzera un grande interesse per questa istituzione che cerca di coniugare al meglio l’incontro tra sapere, apprendimento e socialità.
L’UNITRE Svizzera smentisce così clamorosamente il pessimismo di chi negli anni scorsi riteneva esaurita la spinta creativa e solidale della collettività italiana in Svizzera e testimonia la capacità del volontariato di rispondere adeguatamente agli interessi immateriali di molte persone, anche al di fuori delle grandi istituzioni cosiddette di «rappresentanza» e senza la spinta e l’intervento dello Stato.
Giovanni Longu
Berna 17.6.2009

15 giugno 2009

L’UNITRE Svizzera si consolida e si sviluppa

Ho visto nascere la prima sede dell’UNITRE a Lucerna nel 2005. In occasione dell’inaugurazione ufficiale dell’anno accademico 2005-2006, l’8 ottobre 2005, scrissi che questa istituzione doveva considerarsi «una pietra miliare nella storia della collettività italiana in Svizzera, che s’iscrive a buon diritto nell’albo d’oro delle più importanti realizzazioni socioculturali dell’immigrazione italiana in Svizzera».
A distanza di qualche anno confermo quel giudizio perché l’UNITRE si è affermata in tutta la Svizzera ed è ancora in espansione. Il moltiplicarsi delle sedi e la riuscita dei corsi da una parte smentiscono il pessimismo di chi riteneva esaurita la spinta creativa e solidale della collettività italiana in Svizzera e dall’altra testimoniano la capacità del volontariato di rispondere concretamente agli interessi immateriali di molte persone, anche al di fuori delle grandi istituzioni tradizionali.
Le sedi dell’UNITRE sono oggi 5 (Lucerna, Basilea, Winterthur, Zurigo, Berna), a cui vanno aggiunte 4 sezioni distaccate (Möhlin, Soletta, Zugo Bienne). Questo autunno saranno avviati corsi anche a Thun e a Olten. Il numero complessivo delle adesioni (tra allievi, insegnanti, relatori e organizzatori) è enormemente cresciuto, passando in pochi anni da 230 (2005/2006) a 1230 (2008/2009), con una previsione di 1400 il prossimo anno. Nell’anno accademico 2008/2009 sono stati organizzati complessivamente 168 corsi, frequentati da ben 946 partecipanti, in maggioranza ultrasessantenni (53%) e donne (66%). Ha ragione Michelangelo Penticorbo, coordinatore nazionale dell’UNITRE Svizzera, di osservare con molta soddisfazione gli sviluppi di questa importante istituzione.
La riuscita dell’UNITRE è stata confermata l’anno scorso anche da un importante riconoscimento nel quadro dei progetti di formazione continua per persone giovani, adulte e della terza età. In un concorso federale organizzato dalla «Federazione svizzera per la formazione continua» (SVEB), su un centinaio di progetti presentati, quello dell’UNITRE è stato ritenuto il più meritevole. Un bel riconoscimento!
Il riconoscimento più ambito e raggiunto è stato tuttavia, per quanto a mia conoscenza, soprattutto quello della soddisfazione non solo degli organizzatori, ma anche degli insegnanti, tutti volontari, e specialmente degli allievi dei corsi. Ben a ragione si registra in tutta la Svizzera un grande interesse per questa istituzione che cerca di coniugare al meglio l’incontro tra sapere, apprendimento e socialità.
Ho partecipato, in qualità di insegnante, alla chiusura dell’anno accademico di una delle più giovani sedi dell’UNITRE, quella di Soletta, e posso confermare quanto appena detto. La soddisfazione degli organizzatori, degli insegnanti e degli allievi era «palpabile» nella grande sala della scuola Hermesbühl, nella cornice di una festa accuratamente preparata e rallegrata da una band di giovani musicisti e cantanti.
Dagli interventi, non di circostanza, della presidente Nella Sempio dell’UNITRE di Basilea (da cui dipende la sezione di Soletta), della coordinatrice dei corsi di Soletta Lorenza Ranfaldi e di due rappresentanti degli allievi emergeva chiaramente non solo la gratificazione degli organizzatori per aver realizzato quel che solo un anno prima sembrava un sogno, ma anche la gioia dei partecipanti per aver appreso tanto, aver rinfrescato la curiosità di sapere e aver vissuto un’interessante esperienza umana.
Che l’iniziativa di Soletta sia stata coronata dal successo lo dimostrano anche alcune cifre. Su un centinaio di iscritti iniziali, i ritirati sono stati relativamente pochi perché il tasso di partecipazione è risultato alla fine altissimo, circa il 75%. Tutti i corsi hanno avuto un alto gradimento, come risulta dalla distribuzione degli allievi per corso: 55 al corso di psicologia, 51 a educazione civica, 45 a italiano II, 37 a geografia e storia delle regioni italiane a statuto speciale, 35 a italiano I, 32 a teologia generale, 32 a origine delle lingue del mondo, 27 a educazione alimentare e laboratorio di cucina, 13 a laboratorio sartoriale.
Va inoltre aggiunto che l’UNITRE di Soletta ha saputo organizzare anche un bel numero di altre iniziative culturali ben seguite, tra le quali merita ricordare una conferenza sulla crisi finanziaria (80 presenze), un concerto del coro dell’Accademia musicale pescarese (40), due visite guidate alla città di Soletta con due gruppi di 25 persone, una pièce della Filodrammatica «La Scintilla» di Basilea (80).
Un aspetto interessante dell’UNITRE solettese (che rispecchia per altro una situazione comune a tutte le sedi e sezioni) è quello di aver suscitato l’interesse anche di 19 corsisti non italiani, di cui 13 svizzeri o svizzere. Evidentemente la lingua e la cultura italiana e l’italianità in generale attira e fa ben sperare.
Con queste premesse, l’UNITRE di Soletta non potrà che consolidarsi e fare addirittura meglio. Più in generale, l’esempio di questo tipo di iniziative dimostra che quando si affrontano i problemi reali in maniera non ideologica ma con senso pratico e soprattutto con una buona dosa di generosità e spirito creativo, le soluzioni si trovano e sono per chi le realizza e per chi ne usufruisce gratificanti.
Giovanni Longu
Berna 15.6.2009



Partecipanti alla festa di chiusura dell’anno scolastico 2008-2009 dell’UNITRE di Soletta (Foto Iaccarino)


Foto ricordo di un gruppo di insegnanti dell’UNITRE di Soletta (Foto Iaccarino)

11 giugno 2009

Se le parole hanno ancora un senso…!

Passando in rassegna alcune agenzie di stampa sul dibattito alla Camera dei deputati in relazione al disegno di legge sulle intercettazioni, mi ha colpito l’intervento dell’on. Laura Garavini, deputata del Pd eletta nella circoscrizione Estero, soprattutto per il tono del suo linguaggio (in linea del resto con molti suoi interventi contro il governo per la sua politica nei confronti degli italiani all’estero, che lei considera nient’altro che «operazioni punitive a danno dei connazionali»).
Capisco che in Parlamento chi è all’opposizione debba fare l’opposizione, ma non capisco che si limiti solo a dire no, senza motivarlo con argomenti convincenti. Quelli espressi dalla Garavini nel suo intervento alla Camera sulle intercettazioni sono addirittura contradditori. Da una parte riconosce che «formalmente i reati di mafia sono esclusi dalle restrizioni che il Governo vuole introdurre» e dall’altra afferma che «di fatto la riforma impedisce intercettazioni per tutta una serie di reati cosiddetti satelliti - come, ad esempio, l’usura, il traffico di droga, il traffico di rifiuti - che servono alle mafie per rafforzare il loro potere sul territorio». Eppure sembrerebbe evidente che se le intercettazioni sono ammesse per mafia e terrorismo lo saranno anche per tutti quei reati direttamente connessi.
Mi sorprende, inoltre, la Garavini quando sembra scandalizzata che il ddl preveda per l’autorizzazione delle intercettazioni per altri reati, «evidenti indizi di colpevolezza» per poi asserire, giocando sulle parole (ma le parole non si lasciano manipolare a piacere!), che in realtà «il provvedimento in esame obbliga gli inquirenti ad intercettare solo dopo aver acquisito le prove della colpevolezza di una persona». Davvero sorprendente: il ddl parla di «indizi di colpevolezza» e la Garavini legge «prove della colpevolezza», come se non conoscesse la differenza tra «indizio» e «prova». E’ dunque ragionevole autorizzare le intercettazioni in presenza di «evidenti indizi», mentre sarebbe inutile se esistesse già la prova provata.
Per quanto riguarda la tutela della privacy, ritengo fuori posto l’ironia (ma si tratta di ironia o di malafede?) della Garavini quando afferma che «con questa legge sulle intercettazioni il Governo non tutela la privacy dei cittadini, ma quella dei criminali, impedendo, di fatto, ai magistrati di intercettare e ai giornalisti di pubblicare le intercettazioni, pena il carcere». Non credo che le intercettazioni siano l’unico mezzo a disposizione degli inquirenti per trovare i criminali e non credo che il diritto di cronaca valga più del diritto alla riservatezza.
Purtroppo in Italia l’uso delle intercettazioni è divenuto esorbitante e dev’essere limitato. Bisogna anche stare attenti a non rendere l’Italia un Paese d’inquisiti perché se è vero che lo Stato ha il dovere di reprimere ogni forma di criminalità, ha anche il dovere di tutelare i cittadini nelle loro libertà fondamentali che la Costituzione dichiara «inviolabili», tra le quali figurano «la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione». Trattandosi di beni preziosi e «inviolabili», «la loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell'autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge» (art. 15 della Costituzione).
Detto ciò, a prescindere dall’oggetto in discussione su cui è lecito esprimere opinioni differenti, auspicherei che anche in politica ci fosse un uso più garbato e corretto delle parole, anche per non dare l’impressione, soprattutto all’estero, di un Paese in cui il diritto di opinione e di parola è usato e abusato senza alcun autocontrollo e alcun limite, nemmeno quello della logica e del buon senso.
Giovanni Longu
Berna, 11.6.2009

09 giugno 2009

A quando un cambiamento della politica italiana?

Mentre scrivo sono noti solo i dati definitivi delle elezioni europee, ma non quelli delle amministrative italiane. A prescindere dai risultati credo che si possa sostenere che la campagna elettorale è stata – per quanto è possibile giudicare da chi osserva sommariamente le cose italiane dall’estero – di pessima qualità. Mi auguro che il popolo italiano provi un senso di ribellione alla maniera con cui è stato trattato.
E’ stato ricordato qualche settimana fa quanto aspra sia stata la contrapposizione tra monarchici e repubblicani per il referendum del 2 giugno 1946 e sono state evocate altre importanti votazioni, da cui sembrava dipendere il futuro dell’Italia. Ebbene, in tutte queste contese a dominare era sempre la passione politica per un ideale di buon governo, benché inteso in maniera diversa dai vari contendenti.
Questa campagna elettorale è stata invece combattuta all’insegna dell’antipolitica. La passione dei combattenti era solo viscerale e personale più simile a una voglia distruttrice (degli avversari) che al desiderio di mettere in campo soluzioni efficaci alle varie crisi che stanno mortificando l’Europa e l’Italia. E’ stata una campagna elettorale frustrante e disorientante.
Frustrante perché gli elettori si aspettavano indicazioni su un progetto politico per l’Europa dei prossimi anni e indicazioni su un progetto di amministrazione orientata alla soluzione dei problemi reali a livello comunale e provinciale. Invece è stata per gli uni (maggioranza governativa) una sorta di autocelebrazione e per gli altri (opposizioni) un vano tentativo a tutto campo di sgretolare il vasto sostegno popolare di cui godeva il principale avversario dopo le prove di efficienza dimostrate con la rimozione forzata della spazzatura in Campania, la gestione dell’emergenza terremoto in Abruzzo, il deciso contrasto alla malavita organizzata, il respingimento dei clandestini.
La campagna elettorale è stata anche fuorviante perché invece di focalizzarsi sui temi veri della politica, soprattutto in un momento di profonda crisi come quello attuale, si è incentrata sul pettegolezzo, su presunte storie di amori proibiti, di amanti, di festini disinvolti e persino su presunte corruzioni, detrazione di fondi pubblici, macchinazioni sovversive ecc.
Invece di dire agli italiani quale progetto di Europa dovrebbero contribuire a realizzare gli eletti, i big della politica non hanno fatto altro che attaccarsi come iene affamate, dando l’impressione, in sostanza, di credere ben poco in un’Europa in grado di dare regole comuni ai cittadini europei e impartire direttive precise per combattere la crisi, affrontare nella stessa maniera il problema degli immigrati, stabilire politiche comuni in campo energetico, militare, culturale, assistenziale, ecc.
Se la partecipazione al voto è stata così bassa (non solo in Italia) non dev’essere addebitata tanto al popolo italiano disinteressato alle questioni europee, ma alla meschinità dei politici italiani che hanno consumato le loro energie a denigrarsi a vicenda e rivendicare solo per sé il «voto utile». Ma quelli che hanno votato, stando ai risultati delle elezioni europee, hanno dato un chiaro segnale soprattutto ai partiti maggiori, privandoli di quel consenso a cui aspiravano. Il loro modo di fare politica deve considerarsi insoddisfacente.
I pochi accenni alla crisi imperante in Italia (come altrove) sono stati assolutamente contradditori: per gli uni c’è e si vede con chiusure di aziende, disoccupati in aumento, precari abbandonati a sé stessi, gente che muore di fame, milioni di italiani che stentano ad arrivare alla fine del mese; per gli altri, invece, la crisi c’è, ma il peggio è passato, per i disoccupati ci sono gli ammortizzatori sociali, nessun precario è lasciato solo, nessuno muore di fame e tutti possono arrivare alla fine del mese grazie agli aiuti sociali. A chi credere? Probabilmente a nessuno.
La campagna elettorale ha pure dimostrato che in Italia c’è, oltre a una grave crisi occupazione e sociale, anche una grave crisi di credibilità nelle istituzioni e soprattutto nella «casta» dei politici. Lo ha dimostrato proprio nell’affrontare la crisi, anzi nel non affrontarla con interventi e strumenti adeguati. Non che in altri Paesi sia stata affrontata meglio e risolta: gli Stati Uniti, da dove si è propagata al mondo interno, sono ancora in mezzo al guado; i Paesi europei, Svizzera compresa, non stanno certo meglio dell’Italia e anch’essi si dibattono contro una disoccupazione in aumento, la produzione in calo, la diminuzione delle esportazioni, il costo della vita che aumenta.
L’Italia, tuttavia, avrebbe potuto far meglio se solo avesse voluto attingere all’enorme risparmio privato, una montagna di denaro affidato alle banche e che avrebbe potuto essere immesso nell’economia per evitare il rallentamento della produzione, incentivare i consumi, mantenere a livelli accettabili la disoccupazione. L’Italia avrebbe fatto certamente meglio se le principali forze politiche di centrodestra e di centrosinistra si fossero coalizzate, anche solo temporaneamente, per individuare e adottare le soluzioni più idonee non solo per uscire dalla crisi, ma per trasformarla in una grande opportunità.
I politici italiani hanno invece preferito logorarsi a vicenda. Per questo sono colpevoli, perché avrebbero potuto stimolare la produzione e i consumi, avrebbero potuto avviare le grandi opere, avrebbero potuto mantenere alta l’occupazione, magari lavorando meno, e tutelare meglio chi perde il lavoro, avrebbero potuto prelevare un supplemento d’imposta, magari per una durata limitata, dagli alti redditi per favorire quelli più bassi.
Il fatto che in Italia, a livello politico, si stia combattendo una guerra di logoramento continuo dovrebbe far aprire gli occhi a quanti ancora si ostinano a non vedere che occorre davvero metter mano a importanti riforme costituzionali, lasciando intatto l’equilibrio dei poteri, ma ammodernando decisamente la struttura dello Stato, a cominciare dal Parlamento e dal Governo, e precisando meglio i ruoli della maggioranza e dell’opposizione.
A lungo andare, se il cambiamento non interverrà già in questa legislatura, ne risentiranno non solo la politica, ma anche l’economia, la qualità della vita degli italiani, il prestigio dell’Italia nel mondo. Per dare una spintarella è auspicabile un’ampia presa di coscienza da parte degli italiani, compresi quelli che stanno all’estero, superando almeno al riguardo, quell’eccesso di partigianeria legata a ideologie tramontate.
Giovanni Longu
Berna, 8.6.2009

08 giugno 2009

Se Berlusconi piange, Franceschini non ride!

Comunque si vogliano leggere i risultati delle elezioni europee in Italia, non c’è dubbio che si tratta di un cartellino giallo dato dagli elettori ai due principali antagonisti, Berlusconi e Franceschini. Se il primo piange, perché rimane lontano dagli obiettivi che si era posto, il secondo non ride perché è solo riuscito a evitare il crollo del suo partito.
Per far capire meglio la volontà popolare ai due partiti maggiori, che restano comunque gli unici veri candidati a determinare la politica italiana ancora per molti anni, gli elettori hanno dato un significativo premio ai partiti minori dei due schieramenti. Della Lega Nord, con oltre il 10% di consensi, sono stati premiati soprattutto l’attaccamento al territorio e la vicinanza ai problemi della gente; dell’Italia dei Valori è stata premiata, a mio parere, non tanto l’aggressività nei confronti del leader del Popolo della Libertà e della maggioranza, quanto piuttosto il forte richiamo ai «valori» morali e civici che dovrebbero caratterizzare anche la politica; dell’Unione democratica di centro, infine, è stato premiato l’equilibrio tra i due principali schieramenti e la moderazione dei toni nel dibattito politico, anche se la pochezza dei consensi non la legittimano a proporsi come terza forza.
In questa analisi parto dal presupposto che gli italiani diano per scontato che i principali attori politici alternativi devono essere due, con uno o due comprimari in ciascuno schieramento. I voti dati agli attuali comprimari in occasione di queste elezioni denotano a mio parere non un ripensamento del bipolarismo e bipartitismo, quanto la sottolineatura delle vistose lacune che caratterizzano i maggiori partiti. I cittadini italiani vogliono una politica più vicina ai problemi reali e meno legata all’ideologia, più concentrata sulle soluzioni efficaci che sulle grandi analisi, più collaborativa e meno litigiosa.
Non c’è dubbio che molti cittadini vorrebbero anche una maggiore attenzione dei partiti e dei politici ai valori morali, non tanto a quelli che concernono la sfera privata di ciascuno, quanto quelli che dovrebbero caratterizzare la vita pubblica, cominciando dai massimi livelli istituzionali. Nella politica non ci dovrebbe essere alcuno spazio per la corruzione, il clientelismo, i favoritismi, le raccomandazioni, le conversioni repentine vistosamente interessate, l’illegalità.
Ad essere brutali si potrebbe concludere che per raggiungere tali obiettivi bisognerebbe spazzar via un’intera classe politica o quanto meno decapitare la «casta». Ma oggi come oggi si correrebbe il rischio di veder presto risorgere dalle proprie ceneri non una nuova classe politica rigenerata, ma una classe politica trasformata solo superficialmente. Una vera rigenerazione comporta inesorabilmente nuove regole e dubito che l'attuale Parlamento sia intenzionato a volerle.
Volendo essere realisti ci si potrebbe accontentare di una presa di coscienza dei principali leader politici a lasciar fuori dal dibattito politico tutto ciò che è strettamente personale e cercare la massima convergenza possibile per dare immediatamente soluzione ai numerosi problemi economici e sociali posti dalla crisi e avviare le riforme istituzionali. Per queste ultime occorrerà più tempo, anche perché il popolo sovrano dovrà approvarle. Ma bisogna almeno impostarle, avviando anche nell’opinione pubblica un ampio dibattito.
Se l’intera classe politica dimostrerà nel breve e medio termine di non aver imparato nulla dalla lezione delle europee, sarebbe bene che il popolo italiano s’incaricasse di trovare soluzioni radicali alla prossima tornata elettorale.
Giovanni Longu
Berna 7.6.2009

02 giugno 2009

2 giugno, festa degli italiani?

Gli italiani festeggiano il 2 giugno la nascita della Repubblica. Quel che non è stato ancora possibile per la Resistenza è divenuto da decenni per la Festa della Repubblica una celebrazione corale, almeno apparentemente. Tutti gli italiani indistintamente si riconoscono ormai figli della Repubblica. Eppure le divisioni sui grandi problemi del Paese permangono.
Quel 2 giugno 1946, in cui la maggioranza degli italiani decise le sorti della monarchia e l’avvento della repubblica, non fu un giorno tranquillo. Un’accesa campagna referendaria aveva diviso il popolo italiano chiamato a una scelta difficile. Anche nei giorni successivi, l’attesa del risultato fu drammatica, come registrano le cronache, sia per l’incertezza del voto, sia per le accuse di brogli, e sia per la paura che il destino della forma di governo dell’Italia potesse decidersi con le armi e persino con l’intervento di qualche potenza straniera.
Solo il 10 giugno 1946 la Corte di Cassazione riuscì a proclamare i risultati del referendum, ma furono contestati. Si dovette attendere fino al 18 giugno per averne la conferma definitiva (12.718.641 voti per la repubblica e 10.718.502 per la monarchia) e proclamare ufficialmente la Repubblica. L’Italia si scoprì divisa quasi a metà tra nord e sud, non solo fisicamente ed economicamente: se al nord aveva nettamente prevalso la repubblica, al sud la preferenza dei votanti era andata a favore della monarchia.
Il 2 giugno 1946, oltre al referendum istituzionale tra monarchia e repubblica, si svolsero anche le elezioni dei 556 deputati dell'Assemblea Costituente incaricata di redigere una nuova Costituzione. In attesa che terminassero i lavori, si tentò, fino al maggio 1947, una riconciliazione tra tutte le forze politiche costituendo governi di unità nazionale, ma fu solo una tregua nella tradizionale lotta politica italiana.
Il 22 dicembre 1947 venne approvata la nuova Costituzione con 453 voti a favore e 62 contrari. Il 27 dicembre venne promulgata dal Capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola ed entrò in vigore il 1° gennaio 1948.
Sembrava che la nuova Costituzione, una delle più belle del mondo, né troppo rigida né troppo flessibile, potesse aggregare i sentimenti di tutti gli italiani e garantire il funzionamento dello Stato in maniera equilibrata ed efficiente. Ma già le elezioni del 1948 misero in evidenza le divisioni politiche del popolo italiano.
Per favorire il sentimento di identità e unità nazionale, nel 1949 la giornata del 2 giugno fu dichiarata festa nazionale. Per circa un trentennio svolse questa funzione, ma dal 1977 le celebrazioni vennero spostate alla prima domenica di giugno. Inutile dire che la Festa perse d’interesse popolare, finché nel 2001, il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi e il Parlamento decisero di ripristinare il 2 giugno come festa nazionale.
Oggi, il ricordo delle divisioni di 63 anni fa è affidato essenzialmente ai libri di storia, ma non si può dire che il popolo italiano si ritrovi finalmente unito a celebrare con spirito unitario la Repubblica come una sorta di casa comune in cui «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali» (art. 3 comma 1 della Costituzione). Non tutti, purtroppo, possono dare alla Repubblica un voto sufficiente nello svolgimento di uno dei suoi compiti essenziali: «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (art. 3, comma 2).
Divisioni e delusioni
A dividere e a deludere gli italiani, oggi, non è però la Repubblica, ma i suoi organismi, che continuano a rivelarsi incapaci di rinnovarsi e di rispondere pienamente alle esigenze di una modernità che sembra irraggiungibile.
Forse uno degli impedimenti è legato proprio alla Costituzione italiana, concepita in maniera quasi perfetta per i tempi in cui è stata elaborata e per questo ritenuta quasi immodificabile. A giudizio di molti, il perfetto equilibrio tra i poteri dello Stato voluto dai Costituenti andrebbe ripensato alla luce di nuove esigenze.
Non si tratta certamente di riscrivere l’intera Costituzione, ma è sotto gli occhi di tutti che i principali organi dello Stato, a cominciare dal Parlamento, danno segni di inefficienza. Che tra Governo, Parlamento e Magistratura ci possa e persino ci debba essere una certa dialettica è vitale per una democrazia, ma in uno Stato di diritto la collaborazione dovrebbe essere la regola. Invece sembrano predominare le contestazioni, le interferenze, la confusione dei ruoli, l’ingovernabilità. Basta pensare alle polemiche in gran parte strumentali di queste settimane tra maggioranza e opposizione. La complessa macchina dello Stato ne risulta fortemente indebolita e inefficiente. Anche per questo la riforma dell’architettura dello Stato è ineludibile.
Se è vero che «la sovranità appartiene al popolo» (art. 1 comma 2), non dev’essere ritenuto scandaloso rivolgersi al popolo anche in materia elettorale o di composizione del Parlamento, o del ruolo del Capo del Governo o del Presidente della Repubblica o della Magistratura. Anzi, il ricorso al popolo potrebbe sbloccare la situazione di stallo che si è venuta a creare con la riduzione della politica a due soli schieramenti, una situazione non prevista dai Costituenti.
In ogni caso è auspicabile che i politici italiani, piuttosto che specializzarsi nella contrapposizione e nello scontro, si rendano conto che per loro vale l’obbligo di «concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale» (art. 49). Con metodo democratico, non con armi improprie tipo calunnie, maldicenze, accuse provocatorie e simili. Spesso si dimentica che il metodo democratico presuppone il rispetto delle istituzioni e delle persone, anche se avversarie.
Giovanni Longu
Berna 2.6.2009

01 giugno 2009

1° giugno, festa del beato Scalabrini «Padre dei migranti»

Il 1° giugno i missionari Scalabriniani ricordano ogni anno il loro fondatore, il Beato Giovanni Battista Scalabrini, «Padre dei migranti», morto a Piacenza il 1° giugno 1905. Se viene ricordato anche qui è per rendere omaggio a una figura carismatica che ha contribuito molto, col suo impegno personale e attraverso la sua Congregazione, a dare dignità agli emigranti italiani dalla seconda metà dell’Ottocento in poi.
Nelle ricostruzioni storiche dell’emigrazione italiana, si mette giustamente in rilievo il contributo dato all’elevazione sociale ed economica delle collettività italiane emigrate dalle società di mutuo soccorso, da alcuni movimenti politici e sindacali, dall’associazionismo. Spesso tuttavia si dimentica di sottolineare il fondamentale contributo dei missionari, che hanno accompagnato i grandi flussi migratori nelle Americhe e in Europa.
Figure come quelle di monsignor Geremia Bonomelli (fondatore dell’Opera di assistenza per gli italiani emigrati in Europa), del beato Giovanni Battista Scalabrini (fondatore della Congregazione dei Missionari di San Carlo Borromeo, conosciuti come Scalabriniani) o di santa Francesca Saverio Cabrini (fondatrice dell’Istituto delle Missionarie del Sacratissimo Cuore di Gesù) meriterebbero maggiore attenzione. E’ vero, essi si occupavano principalmente della cura delle anime, ma sono stati per decenni anche in prima linea nella lotta contro il sottosviluppo, l’analfabetismo, l’emarginazione, l’umiliazione, la povertà degli emigrati.
Del beato Scalabrini vorrei ricordare qui non tanto il suo contributo indiretto nel campo dell’assistenza - attraverso la sua Congregazione, attiva per altro ancor oggi in molte Missioni, anche in Svizzera - quanto il suo contributo diretto per conferire al problema dell’emigrazione italiana un carattere politico e nazionale.
Prima però vorrei ricordare che la realtà migratoria a cui si riferiva il vescovo Scalabrini era ben peggiore di quella che nemmeno i più anziani immigrati in Svizzera hanno conosciuto. Per questa ragione avrebbe voluto porre un freno al flusso migratorio, benché ritenesse l’emigrazione un diritto. In uno scritto del 1887 osservava: «Le cause che determinano l’emigrazione e la fanno aumentare di anno in anno, altre sono di ordine morale, altre di ordine economico, generali e particolari, e riflettono il benessere fisico e quella smania tormentosa di subiti guadagni, che ha invasa la fibra italiana dalle classi più alte a quella che sta al piede della scala sociale, formata dalla immensa turba dei diseredati».
Per questo denunciava lo Stato di non fare abbastanza per trattenere in patria i migranti ed estirpare alla radice le cause generali dell’emigrazione, che erano secondo lui soprattutto: «le mutate condizioni dei tempi e del vivere civile, i bisogni aumentati non in rapporto alle ricchezze, il desiderio naturale di migliorare la propria posizione, la crisi agraria che pesa da anni sui nostri agricoltori come una cappa di piombo, il carico veramente enorme dei pubblici balzelli, che gravita sull’agricoltura e sulle piccole industrie e le schiaccia; a tutto questo si aggiunga il fuoco che le tre male faville [superbia, invidia ed avarizia], di cui parla Dante, hanno acceso nei cuori, e avremo appunto le cause della emigrazione…».
Rientrava nella strategia del vescovo di Piacenza anche il miglioramento della normativa sull’emigrazione. E quando nel 1887, sotto il primo governo Crispi, si pose mano a una legge organica per regolare l’intera materia, monsignor Scalabrini intervenne per denunciare l’effetto nocivo della figura dell’«agente di emigrazione» prevista nel disegno di legge. Egli riteneva infatti che gli intermediari, ritenuti veri e propri «lenocinî degli impresari di braccia umane»,«sensali di carne umana», interessati più al profitto personale e dei mandanti che dei poveri emigranti, fossero una causa ulteriore e legalizzata dell’emigrazione.
Per essere facilmente compreso, Scalabrini faceva un esempio. «Un agente ha incarico da una Società di imprenditori o da un governo di arruolare 2, 3, 4, 10 mila operai o contadini. L’agente compie la sua operazione e li spedisce nei modi e colle garanzie volute dalla legge. Ora, il Governo sa che il paese ove sono diretti quegli infelici è, per condizioni climatiche o per altra ragione qualunque, inabitabile; sa che quei poveri pionieri non sono condotti a far fortuna ma a quasi sicura morte. Eppure il Governo, dato che il nuovo disegno abbia sanzione di legge, non potrebbe né punire, né impedire tanta catastrofe. E si noti che l’agente può, nella miglior buona fede, mandare alla rovina tanta gente, non essendo egli obbligato ad avere cognizioni su questo punto, come vi sono obbligati p. es. gli agenti Svizzeri».
Consapevole di non poter impedire l’emigrazione, l’intenzione esplicita di monsignor Scalabrini era quella «di sorreggerla, di illuminarla, di dirigerla coll’opera e col consiglio». Uomo di chiesa, vescovo e pastore di anime, egli era preoccupato soprattutto di salvare la loro fede, spesso messa a dura prova in ambienti talvolta dichiaratamente ostili.
Passando dalla storia alla cronaca, soprattutto italiana, mi viene da osservare che i problemi migratori, lungi dall’essere scomparsi dal nostro mondo, sono sempre attuali e talvolta ancora in forma drammatica. Basti pensare alla situazione che ruota attorno ai cosiddetti «respingimenti» sia prima che dopo.
Quale sarebbe oggi l’atteggiamento di Giovanni Battista Scalabrini? Probabilmente lo stesso assunto oltre un secolo fa, soprattutto nel richiamare la responsabilità dei governi e delle organizzazioni internazionali a eliminare nei Paesi di provenienza le ragioni dell’emigrazione forzata, a regolarne i flussi, a condannare quelle losche figure d’intermediari che non esitano ad abbandonare in mare barconi strapieni di esseri umani. Ma soprattutto, sarebbe stato dalla parte dei migranti, in un autentico spirito evangelico di accoglienza, rispetto e solidarietà.
Giovanni Longu
1° giugno 2009

25 maggio 2009

Collettività italiana componente stabile della società multiculturale svizzera

Quando agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso, in seguito alle difficoltà dell’economia svizzera e alla crescente ostilità verso gli stranieri (istigata da potenti movimenti xenofobi, guidati all’epoca da J. Schwarzenbach), i rientri in patria degli immigrati italiani cominciarono a superare gli arrivi, si disse che ormai il flusso migratorio dall’Italia verso la Svizzera si sarebbe presto esaurito.
Le statistiche parlavano chiaro. Se nel 1961 il saldo migratorio italiano in Svizzera (differenza tra arrivi e partenze) era di +45.414 persone, dieci anni più tardi, nel 1971 era sceso a +8218, ma già l’anno precedente era diventato negativo (-1438), per proseguire col segno meno per tutti gli anni Settanta. In cifre assolute la popolazione italiana era scesa da 583.855 (1970) a 418'989 persone. Anche conteggiando i doppi cittadini, era evidente che la collettività italiana andava diminuendo a vista d’occhio, anche perché veniva meno il tradizionale approvvigionamento dall’Italia.
Questa tendenza indusse pian piano la collettività italiana a modificare radicalmente la tradizionale prospettiva di lavorare qualche anno in questo Paese e rientrare con l’intera famiglia al più tardi non appena raggiunta l’età della pensione.
Ad agevolare questo cambio di orientamento erano intervenuti soprattutto due elementi: l’avvio da parte della Confederazione di una nuova politica migratoria orientata all’integrazione degli stranieri e la crescente facilitazione della naturalizzazione soprattutto per le giovani generazioni.
La politica d’integrazione
La politica d’integrazione si era resa necessaria perché ci si rese conto che gli stranieri, soprattutto gli italiani, restavano sempre più a lungo in Svizzera. Questa loro permanenza a tempo indeterminato rendeva acuto il problema della scolarizzazione dei figli dei migranti. Con fermezza le autorità svizzere pretesero l’inserimento dei bambini stranieri nella scuola svizzera e la chiusura una dopo l’altra delle numerose scuole italiane, tranne poche eccezioni che sopravvivono ancora oggi grazie ad alcune caratteristiche particolari.
Le conseguenze positive non tardarono ad arrivare quando inevitabilmente, al termine della scolarità obbligatoria, si aprirono praticamente tutte le porte dell’apprendistato anche agli stranieri. Se oggi non c’è praticamente alcun ramo economico in cui non si trovano figli di emigrati italiani collocati a tutti i livelli gerarchici è grazie a quel processo d’integrazione avviato negli anni Settanta.
Nella convinzione che ormai l’immigrazione dall’Italia era finita ed era sempre più una chimera il rientro definitivo in patria, molti italiani, giovani in particolare e interi nuclei familiari, optarono per la naturalizzazione svizzera.
Da sempre restii a intraprendere questa decisione fino agli anni Sessanta, dagli anni Settanta in poi la naturalizzazione divenne per molti italiani una conseguenza «naturale» sia per i presupposti linguistici e culturali che per le conseguenze, soprattutto dopo che dal 1992 fu resa possibile la doppia cittadinanza. Divennero cittadini svizzeri oltre 33 mila italiani negli anni Settanta, più di 28 mila negli anni Ottanta e quasi 40 mila negli anni Novanta. In questo decennio si sono già naturalizzate oltre 46 mila persone col passaporto italiano.
La prospettiva del progressivo esaurimento del flusso migratorio dall’Italia venne ampiamente confermata, come pure la costante diminuzione della collettività col solo passaporto italiano. Rispetto al 1970 gli italiani in possesso della sola cittadinanza italiana si sono ridotti della metà (290.020 persone nel 2008).
In realtà, la collettività italiana è rimasta numericamente molto stabile, tanto è vero che, stando alle statistiche del Ministero degli affari esteri italiano, gli italiani presenti nella Confederazione (compresi i doppi cittadini) superano abbondantemente il mezzo milione. Eppure le differenze qualitative tra la collettività degli anni Settanta e quella odierna sono enormi. Non tenerne conto significherebbe non aver capito nulla del lungo processo d’integrazione che ha reso la componente italiana una delle più importanti della moderna società elvetica.
I matrimoni misti
Un indicatore significativo della riuscita integrazione della collettività italiana è quello dei matrimoni misti. Questo fenomeno va visto sia come risultato delle mutate condizioni ambientali, da alcuni decenni più favorevoli agli immigrati in generale e agli italiani in particolare, e sia come causa di un ulteriore slancio verso l’integrazione. Per capirne la portata, si potrebbe dire, senza pretesa di darne una dimostrazione scientifica, che quel che non accadde alla collettività italiana in Svizzera in oltre cent’anni della sua storia (se questa la si fa iniziare ufficialmente dal primo trattato bilaterale in materia del 1868), le riuscì in pochi decenni, grazie anche ai matrimoni misti.
Tradizionalmente gli italiani non volevano «mescolarsi» con gli svizzeri, per cui erano rari i matrimoni misti, soprattutto quando si frapponevano difficoltà di ordine religioso e l’obbligo della rinuncia ad una nazionalità per prenderne un’altra. Di fatto, fino agli anni Sessanta e parte degli anni Settanta, gli italiani si sentivano ed erano in gran parte estranei alla vita sociale svizzera. Nel frattempo, occorre ricordare, gli italiani si erano talmente abituati a vivere per conto proprio che avevano i loro ritrovi, i loro giornali, le loro feste, le loro scuole, i loro piatti preferiti, le loro associazioni, le loro «famiglie regionali», i loro negozi, i loro ristoranti e via discorrendo.
Col riorientamento dell’atteggiamento sia svizzero che italiano in materia d’integrazione avvenuto negli anni Settanta, a dare un forte impulso al cambiamento intervennero anche i sempre più numerosi matrimoni misti. Fino ad allora la maggioranza dei matrimoni degli italiani avveniva tra connazionali secondo la tradizione «moglie e buoi dei paesi tuoi». Ma già dal 1970 la tendenza s’invertì e i matrimoni misti superarono quelli tra connazionali (51,3% contro il 48,7%). Nel 1980 la tendenza si confermò con proporzioni rispettivamente del 66,5% e 33,5%.
Gli anni Novanta rappresentarono gli anni più intensi del processo integrativo degli italiani. La vecchia immigrazione stava per concludere il suo corso. La nuova è meglio qualificata (il 30 per cento degli italiani immigrati dopo il 1995 ha una formazione di grado universitario), l’integrazione dei giovani di seconda generazione nel mondo della formazione e del lavoro è quasi completa. I matrimoni misti sono ormai decisamente in aumento rispetto a quelli tra connazionali: se nel 1990 le percentuali erano ancora rispettivamente del 67,2% e 32,8%, nel 2000 erano ormai dell’ordine del 76% e 24%. La tendenza si conferma in questo decennio, con la punta dell’83% e del 17% nel 2007.
Per capire l’importanza dei matrimoni misti nel processo integrativo della collettività italiana in Svizzera non va dimenticato che i dati si riferiscono agli italiani con la sola cittadinanza italiana. Alla statistica sfuggono infatti i doppi cittadini. Considerando anche questi, il fenomeno dei matrimoni misti diventerebbe ben più rilevante non solo nell’ottica dell’integrazione della collettività italiana, ma anche nel panorama della multiculturalità svizzera. Esso sta ad indicare che ormai nella società svizzera odierna l’elemento etnico italiano in quanto tale è pressoché irrilevante.
Anche i dati di questi ultimi anni vanno letti in questa ottica. Sebbene continui, ad esempio, la tradizionale preferenza delle donne svizzere a sposare cittadini italiani, l’elemento «nazionale» è un aspetto molto secondario. Ed è altrettanto poco significativo il fatto che le donne italiane, fino al 2000 detentrici della seconda posizione dopo le tedesche nelle preferenze degli svizzeri, dal 2001 hanno ceduto il posto a brasiliane e tailandesi. In realtà, le donne italiane figurerebbero ancora al secondo posto se si considerassero anche le giovani italiane con la doppia nazionalità, che tradizionalmente sono state sempre più numerose dei giovani italiani a richiedere la cittadinanza svizzera.
In conclusione
I dati fin qui citati si commentano da sé e non lasciano dubbi sulla reale integrazione della collettività italiana, anche soltanto quella con la sola cittadinanza italiana.
Un approfondimento di questo fenomeno potrebbe essere interessante per una riconsiderazione degli «italiani all’estero», un’espressione onnicomprensiva, che in realtà andrebbe coniugata Paese per Paese. In Svizzera, questi italiani, a prescindere dal loro passaporto unico o plurimo, sono nella stragrande maggioranza cittadini integrati pienamente in questo Paese.
Nell’attuale e spesso distorta discussione sulle vecchie e nuove forme di rappresentanza degli «italiani all’estero» bisognerebbe tener presente questa realtà che ormai di «migratorio» ha sempre meno e non ha bisogno di forme di rappresentanza basate su presupposti inesistenti.
D’altra parte, se davvero, soprattutto in Italia, si vogliono raggiungere obiettivi d’integrazione sul tipo di quelli raggiunti dagli italiani in Svizzera, il clima politico e sociale dev’essere migliorato. Allo straniero che ha deciso di mettere radici in Italia va data l’opportunità di piantare queste radici in un terreno accogliente e fertile. Una volta che queste radici sono attecchite solidamente, i contributi che possono dare gli stranieri (quanto prima naturalizzati) sono straordinari e nell’interesse di tutta la società. Quel che si diceva (e in parte si continua ancora a dire) degli italiani all’estero, che sono una risorsa, va detto con la stessa convinzione anche degli stranieri in Italia. Ma bisogna cominciare subito, nell’interesse di tutti.
Giovanni Longu
Berna 24.5.2009