25 maggio 2009

Collettività italiana componente stabile della società multiculturale svizzera

Quando agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso, in seguito alle difficoltà dell’economia svizzera e alla crescente ostilità verso gli stranieri (istigata da potenti movimenti xenofobi, guidati all’epoca da J. Schwarzenbach), i rientri in patria degli immigrati italiani cominciarono a superare gli arrivi, si disse che ormai il flusso migratorio dall’Italia verso la Svizzera si sarebbe presto esaurito.
Le statistiche parlavano chiaro. Se nel 1961 il saldo migratorio italiano in Svizzera (differenza tra arrivi e partenze) era di +45.414 persone, dieci anni più tardi, nel 1971 era sceso a +8218, ma già l’anno precedente era diventato negativo (-1438), per proseguire col segno meno per tutti gli anni Settanta. In cifre assolute la popolazione italiana era scesa da 583.855 (1970) a 418'989 persone. Anche conteggiando i doppi cittadini, era evidente che la collettività italiana andava diminuendo a vista d’occhio, anche perché veniva meno il tradizionale approvvigionamento dall’Italia.
Questa tendenza indusse pian piano la collettività italiana a modificare radicalmente la tradizionale prospettiva di lavorare qualche anno in questo Paese e rientrare con l’intera famiglia al più tardi non appena raggiunta l’età della pensione.
Ad agevolare questo cambio di orientamento erano intervenuti soprattutto due elementi: l’avvio da parte della Confederazione di una nuova politica migratoria orientata all’integrazione degli stranieri e la crescente facilitazione della naturalizzazione soprattutto per le giovani generazioni.
La politica d’integrazione
La politica d’integrazione si era resa necessaria perché ci si rese conto che gli stranieri, soprattutto gli italiani, restavano sempre più a lungo in Svizzera. Questa loro permanenza a tempo indeterminato rendeva acuto il problema della scolarizzazione dei figli dei migranti. Con fermezza le autorità svizzere pretesero l’inserimento dei bambini stranieri nella scuola svizzera e la chiusura una dopo l’altra delle numerose scuole italiane, tranne poche eccezioni che sopravvivono ancora oggi grazie ad alcune caratteristiche particolari.
Le conseguenze positive non tardarono ad arrivare quando inevitabilmente, al termine della scolarità obbligatoria, si aprirono praticamente tutte le porte dell’apprendistato anche agli stranieri. Se oggi non c’è praticamente alcun ramo economico in cui non si trovano figli di emigrati italiani collocati a tutti i livelli gerarchici è grazie a quel processo d’integrazione avviato negli anni Settanta.
Nella convinzione che ormai l’immigrazione dall’Italia era finita ed era sempre più una chimera il rientro definitivo in patria, molti italiani, giovani in particolare e interi nuclei familiari, optarono per la naturalizzazione svizzera.
Da sempre restii a intraprendere questa decisione fino agli anni Sessanta, dagli anni Settanta in poi la naturalizzazione divenne per molti italiani una conseguenza «naturale» sia per i presupposti linguistici e culturali che per le conseguenze, soprattutto dopo che dal 1992 fu resa possibile la doppia cittadinanza. Divennero cittadini svizzeri oltre 33 mila italiani negli anni Settanta, più di 28 mila negli anni Ottanta e quasi 40 mila negli anni Novanta. In questo decennio si sono già naturalizzate oltre 46 mila persone col passaporto italiano.
La prospettiva del progressivo esaurimento del flusso migratorio dall’Italia venne ampiamente confermata, come pure la costante diminuzione della collettività col solo passaporto italiano. Rispetto al 1970 gli italiani in possesso della sola cittadinanza italiana si sono ridotti della metà (290.020 persone nel 2008).
In realtà, la collettività italiana è rimasta numericamente molto stabile, tanto è vero che, stando alle statistiche del Ministero degli affari esteri italiano, gli italiani presenti nella Confederazione (compresi i doppi cittadini) superano abbondantemente il mezzo milione. Eppure le differenze qualitative tra la collettività degli anni Settanta e quella odierna sono enormi. Non tenerne conto significherebbe non aver capito nulla del lungo processo d’integrazione che ha reso la componente italiana una delle più importanti della moderna società elvetica.
I matrimoni misti
Un indicatore significativo della riuscita integrazione della collettività italiana è quello dei matrimoni misti. Questo fenomeno va visto sia come risultato delle mutate condizioni ambientali, da alcuni decenni più favorevoli agli immigrati in generale e agli italiani in particolare, e sia come causa di un ulteriore slancio verso l’integrazione. Per capirne la portata, si potrebbe dire, senza pretesa di darne una dimostrazione scientifica, che quel che non accadde alla collettività italiana in Svizzera in oltre cent’anni della sua storia (se questa la si fa iniziare ufficialmente dal primo trattato bilaterale in materia del 1868), le riuscì in pochi decenni, grazie anche ai matrimoni misti.
Tradizionalmente gli italiani non volevano «mescolarsi» con gli svizzeri, per cui erano rari i matrimoni misti, soprattutto quando si frapponevano difficoltà di ordine religioso e l’obbligo della rinuncia ad una nazionalità per prenderne un’altra. Di fatto, fino agli anni Sessanta e parte degli anni Settanta, gli italiani si sentivano ed erano in gran parte estranei alla vita sociale svizzera. Nel frattempo, occorre ricordare, gli italiani si erano talmente abituati a vivere per conto proprio che avevano i loro ritrovi, i loro giornali, le loro feste, le loro scuole, i loro piatti preferiti, le loro associazioni, le loro «famiglie regionali», i loro negozi, i loro ristoranti e via discorrendo.
Col riorientamento dell’atteggiamento sia svizzero che italiano in materia d’integrazione avvenuto negli anni Settanta, a dare un forte impulso al cambiamento intervennero anche i sempre più numerosi matrimoni misti. Fino ad allora la maggioranza dei matrimoni degli italiani avveniva tra connazionali secondo la tradizione «moglie e buoi dei paesi tuoi». Ma già dal 1970 la tendenza s’invertì e i matrimoni misti superarono quelli tra connazionali (51,3% contro il 48,7%). Nel 1980 la tendenza si confermò con proporzioni rispettivamente del 66,5% e 33,5%.
Gli anni Novanta rappresentarono gli anni più intensi del processo integrativo degli italiani. La vecchia immigrazione stava per concludere il suo corso. La nuova è meglio qualificata (il 30 per cento degli italiani immigrati dopo il 1995 ha una formazione di grado universitario), l’integrazione dei giovani di seconda generazione nel mondo della formazione e del lavoro è quasi completa. I matrimoni misti sono ormai decisamente in aumento rispetto a quelli tra connazionali: se nel 1990 le percentuali erano ancora rispettivamente del 67,2% e 32,8%, nel 2000 erano ormai dell’ordine del 76% e 24%. La tendenza si conferma in questo decennio, con la punta dell’83% e del 17% nel 2007.
Per capire l’importanza dei matrimoni misti nel processo integrativo della collettività italiana in Svizzera non va dimenticato che i dati si riferiscono agli italiani con la sola cittadinanza italiana. Alla statistica sfuggono infatti i doppi cittadini. Considerando anche questi, il fenomeno dei matrimoni misti diventerebbe ben più rilevante non solo nell’ottica dell’integrazione della collettività italiana, ma anche nel panorama della multiculturalità svizzera. Esso sta ad indicare che ormai nella società svizzera odierna l’elemento etnico italiano in quanto tale è pressoché irrilevante.
Anche i dati di questi ultimi anni vanno letti in questa ottica. Sebbene continui, ad esempio, la tradizionale preferenza delle donne svizzere a sposare cittadini italiani, l’elemento «nazionale» è un aspetto molto secondario. Ed è altrettanto poco significativo il fatto che le donne italiane, fino al 2000 detentrici della seconda posizione dopo le tedesche nelle preferenze degli svizzeri, dal 2001 hanno ceduto il posto a brasiliane e tailandesi. In realtà, le donne italiane figurerebbero ancora al secondo posto se si considerassero anche le giovani italiane con la doppia nazionalità, che tradizionalmente sono state sempre più numerose dei giovani italiani a richiedere la cittadinanza svizzera.
In conclusione
I dati fin qui citati si commentano da sé e non lasciano dubbi sulla reale integrazione della collettività italiana, anche soltanto quella con la sola cittadinanza italiana.
Un approfondimento di questo fenomeno potrebbe essere interessante per una riconsiderazione degli «italiani all’estero», un’espressione onnicomprensiva, che in realtà andrebbe coniugata Paese per Paese. In Svizzera, questi italiani, a prescindere dal loro passaporto unico o plurimo, sono nella stragrande maggioranza cittadini integrati pienamente in questo Paese.
Nell’attuale e spesso distorta discussione sulle vecchie e nuove forme di rappresentanza degli «italiani all’estero» bisognerebbe tener presente questa realtà che ormai di «migratorio» ha sempre meno e non ha bisogno di forme di rappresentanza basate su presupposti inesistenti.
D’altra parte, se davvero, soprattutto in Italia, si vogliono raggiungere obiettivi d’integrazione sul tipo di quelli raggiunti dagli italiani in Svizzera, il clima politico e sociale dev’essere migliorato. Allo straniero che ha deciso di mettere radici in Italia va data l’opportunità di piantare queste radici in un terreno accogliente e fertile. Una volta che queste radici sono attecchite solidamente, i contributi che possono dare gli stranieri (quanto prima naturalizzati) sono straordinari e nell’interesse di tutta la società. Quel che si diceva (e in parte si continua ancora a dire) degli italiani all’estero, che sono una risorsa, va detto con la stessa convinzione anche degli stranieri in Italia. Ma bisogna cominciare subito, nell’interesse di tutti.
Giovanni Longu
Berna 24.5.2009

22 maggio 2009

Italofoni discriminati

Quando il 7.5.2009 ho letto sul CdT la notizia col titolo tranquillizzante «Nell’amministrazione lingue nazionali o.k.» ho sperato che qualcuno o qualche istituzione reagisse. La dichiarazione del Consiglio federale secondo cui gli obiettivi di un’equa rappresentanza linguistica sono «ampiamente raggiunti» andava contestata alla radice perché tali obiettivi sono minimalisti e poggiano su un presupposto contestabile.
L’equa rappresentanza linguistica per il Consiglio federale si riferisce ai soli cittadini svizzeri, mentre dovrebbe riferirsi alla popolazione residente. L’amministrazione non è infatti un organo politico elettivo, ma appunto solo amministrativo. Ai fini di una «equa ripartizione» dei suoi membri non è tanto importante la cittadinanza quanto l’appartenenza a una delle quattro comunità linguistiche nazionali (compresi gli stranieri). Se così fosse, l’ottimismo dell’Ufficio federale del personale (e del Governo) secondo cui gli italofoni, con il 6%, superano di ben l’1,7% la quota fissata, non avrebbe ragion d’essere. La quota del 6% è infatti ancora al di sotto di quella della popolazione residente italofona (6,5%, nel 2000).
Ancor meno ragione di gioire per il Consiglio federale dovrebbe essere la costatazione che, esaminata nei dettagli la ripartizione degli italofoni ai vari livelli di responsabilità e di salario, «i latini sono discriminati», come ha dimostrato anche un recente studio (cfr. CdT del 16.5.2009).
Mi auguro che i parlamentari italofoni, ticinesi in primis, ne tengano conto per incalzare continuamente il governo anzitutto per modificare gli obiettivi e poi per farli rispettare non solo quantitativamente, ma anche qualitativamente. Già le istruzioni federali del 2003, ancora attuali, prescrivono infatti che i Dipartimenti federali assicurino un’equa rappresentanza delle comunità linguistiche «a ogni livello gerarchico». E’ evidente che sotto questo aspetto gli italofoni nell’amministrazione federale non sono ben rappresentati.
Giovanni Longu
(Corriere del Ticino del 22.05.2009)

20 maggio 2009

Quale futuro per il CGIE?

Abbiamo letto nella stampa scritta e in Internet diversi resoconti dei lavori della recente assemblea plenaria del CGIE (Consiglio generale degli italiani all’estero). Ciascun lettore si sarà fatta la sua idea. Anch’io ne ho una.
Dai resoconti, l’aspetto più grave che emerge è il porsi del CGIE in rotta di collisione col governo e con la maggioranza parlamentare. Apparentemente questo atteggiamento sembra motivato dal taglio alle spese per gli italiani all’estero e agli organismi di rappresentanza. In realtà si tratta di una vera e propria opposizione politica (basterebbe vedere la composizione dell’attuale CGIE), che nulla ha a che fare con la natura stessa del Consiglio, che è appunto essenzialmente quella di consigliare, esprimere pareri («su richiesta del Governo e dei Presidenti dei due rami del Parlamento»), formulare proposte e raccomandazioni.
La sicurezza (o sicumera?) del CGIE nell’affrontare i problemi e nel confronto col Governo e col Parlamento gli proviene da una sopravvalutazione del suo ruolo, che fa dire al senatore del Pd Randazzo (che raccoglieva verosimilmente un’opinione molto diffusa all’interno dell’organismo in questione) che il CGIE è «un organo dello Stato e non un’associazione». Certo, il CGIE è istituito per legge; ma di qui a considerarlo «un organo dello Stato» ce ne corre.
Questo atteggiamento autoreferenziale induce il sen. Randazzo (ma non solo lui) a considerare con disprezzo non solo le iniziative del governo, ma «la volontà politica di questo Governo», «che non solo ignora gli italiani all’estero, ma cerca di isolarli e di delegittimarne gli organi di rappresentanza».
Il CGIE è ancora un organo di rappresentanza?
In realtà, il vero problema di cui molti come Randazzo non si rendono ben conto non è tanto la delegittimazione del CGIE da parte del Governo, ma è proprio il CGIE, che dopo l’introduzione dell’elezione diretta di 18 parlamentari «esteri», ha di fatto perso la sua legittimazione. E’ rimasto organo di rappresentanza solo sulla carta, ma non nella realtà. Del resto, osservando l’orientamento politico dei membri del CGIE (nella stragrande maggioranza collocabili tra i ranghi dell’attuale opposizione) e i parlamentari eletti, risulta evidente che i primi (non eletti direttamente) non godono della stessa rappresentatività dei secondi.
Il Governo prende solo atto, pur senza molto coraggio, che di due organismi di rappresentanza politica uno è di troppo, ossia inutile, anche sotto il profilo della rappresentatività. O si rinuncia all’elezione dei 18 parlamentari «esteri» oppure si rinuncia al CGIE.
In altre occasioni avevo intravisto, in alternativa, di mantenere il CGIE, ridimensionato e spoliticizzato, unicamente come un organismo tecnico di consulenza, costituito di esperti e non più di rappresentanti politici, com’è attualmente.
La continua autodifesa e autogiustificazione del CGIE potrebbe far pensare che veramente le motivazioni per un suo mantenimento scarseggino. Tanto più che gli italiani all’estero sono «coperti» da un buon numero di forme di rappresentanza legittime e utili come le ambasciate, i consolati, le camere di commercio, le associazioni, i Comites, ecc. per non parlare degli unici rappresentanti «esteri» diretti degli italiani residenti all’estero, ossia i 18 parlamentari eletti nella Circoscrizione Estero.
L’utilità di un’altra rappresentanza, il CGIE nell’attuale forma e composizione, può essere legittimamente messa in dubbio, anche alla luce di quel che costa (perché costa e come!) e produce (poco).
Associazionismo
Mi riferisco, giusto per fare un esempio, a come ha trattato nella recente assemblea generale il tema dell’associazionismo, che è un cavallo di battaglia del CGE, se non altro perché ne è l’espressione politica.
Anzitutto una considerazione generale. E’ vero, la storia dell’immigrazione italiana in tutti i continenti ha avuto nell’associazionismo uno degli elementi costitutivi e vitali più importanti per il suo sviluppo e la sua affermazione. Il CGIE, tuttavia, dovrebbe rendersi conto che l’associazionismo più recente è completamente diverso da quello tradizionale per il semplice fatto che l’emigrazione italiana di massa è cessata da decenni.
Non mi pare che i documenti prodotti dal CGIE sull’associazionismo tengano conto dell’attuale situazione, sebbene uno di essi porti il titolo: «Associazioni italiane nel mondo: realtà in evoluzione». In altro documento che dovrebbe contenere «analisi, considerazioni e proposte», è difficile (almeno dai resoconti giornalistici) capire dove stanno le analisi e soprattutto le proposte o forse non ve ne sono proprio. Molte frasi sono semplici giri di parole povere di contenuto e persino contraddittorie.
Da una parte si dice che «questo associazionismo non chiede soldi, ma solo un riconoscimento istituzionale», per poi dire in altra parte che esso «va aiutato anche finanziariamente». Si vorrebbe, ad esempio, che l’ente pubblico sostenga «la nascita di associazioni» (soprattutto di giovani) e promuova (senza soldi?) l’associazionismo esistente perché in questo momento è in profonda crisi.
La conclusione non è da meno: «la mancanza di una lettura aperta ed evolutiva, l'insufficienza di azioni lungimiranti che sostengano il processo di rinnovamento interno al mondo associazionistico e l'assenza di valide misure finalizzate alla sua valorizzazione e a nuove forme di attrazione verso l'Italia delle sue migliori energie, questa "storica risorsa" andrà progressivamente e forse irrimediabilmente perduta per il nostro Paese». E questa sarebbe una conclusione?
Orbene, che l’ente pubblico debba intervenire per sostenere (non per finanziare) iniziative ben precise e particolarmente utili mi sembra giusto, ma non dovrebbe spingersi oltre per non snaturare il carattere spontaneo e solidaristico dell’associazionismo. Le associazioni nascono dalla base, non dall’alto, ed è bene che muovano almeno i primi passi basandosi sul volontariato e sull’autofinanziamento. Il ruolo dello Stato dev’essere solo sussidiario.
A questo punto, la mia opinione sul CGIE dovrebbe apparire chiara. E la vostra?
Giovanni Longu
Berna 18.5.2009
L'ECO del 20.5.2009
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15 maggio 2009

Quanta confusione nella politica verso gli stranieri!

Quanta confusione nella politica verso gli stranieri!
Il tema dell’immigrazione, in Italia, sta diventando una sorta di guerra di religione. In comune tutte le posizioni hanno la confusione delle parole o meglio dei significati attribuiti alle stesse.
Il termine emigrante - che dovrebbe fare accapponare la pelle perché nella storia d’Italia ha significato per oltre un secolo sradicamento, ingiustizie, sofferenze materiali e morali – dovrebbe essere trattato con cautela e con grande rispetto. Invece è bistrattato.
Nella discussione parlamentare di questi giorni sulla sicurezza, i fautori di una politica rigida hanno dato talvolta l’impressione di confondere i «migranti» con «clandestini», e questi con i «delinquenti» comuni. Di più, per certuni, il semplice avvistamento in acque internazionali di un barcone con molte persone a bordo equivale a una minaccia alla sovranità nazionale da respingere facendo intervenire la marina militare. Per poi vantarsi di averne respinti tanti, come se si trattasse di una vittoria contro pericolosi invasori! Ad accrescere la confusione è intervenuta anche la nozione di «reato di clandestinità» (mentre forse sarebbe bastata quella di «infrazione» amministrativa), inducendo facilmente l’opinione pubblica a criminalizzare chiunque tenti di entrare in Italia senza i documenti in regola al solo scopo di trovare un lavoro.
Sul versante degli oppositori alla politica della fermezza perseguita dal governo, i «clandestini» appaiono invece come i paria degli emigranti, doppiamente discriminati, perché perseguitati (almeno dalla miseria) nel loro Paese di provenienza e perché respinti dai Paesi ricchi gelosi del proprio benessere. A loro difesa s’invocano norme internazionali, richiami delle nazioni Unite, la tradizione umanitaria italiana, l’obbligo internazionale a rispettare il diritto d’asilo. Per qualcuno, l’approvazione delle nuove misure di sicurezza «introduce nell’ordinamento italiano una serie di misure restrittive nei confronti dei cittadini immigrati, che agiscono nella sfera dei diritti fondamentali e della dignità umana».
Quanta confusione! Eppure almeno la distinzione tra «cittadini immigrati», «immigrati clandestini» e «richiedenti l’asilo» dovrebbe essere chiara a tutti. Non tenerne conto significa fare della demagogia e allontanare le possibilità di dialogo tra maggioranza e opposizione, che sarebbe stato quanto mai utile per approvare un provvedimento legislativo sicuramente migliorabile. Ma significa anche accomunare, almeno in molti settori dell’opinione pubblica, stranieri immigrati nella legalità e stranieri «clandestini» che di per sé non hanno i requisiti per essere considerati «immigrati regolari».
Trattandosi di una materia complicata e delicata, sarebbe stato preferibile un approccio realistico e non ideologico. Sarebbe bastato ispirarsi al «Patto europeo sull’immigrazione e l’asilo», dove è detto chiaramente che l’Europa non può accogliere «degnamente» tutti coloro che sperano di trovare in essa una vita migliore.
Il Patto europeo avverte che «un'immigrazione mal controllata può pregiudicare la coesione sociale dei paesi di destinazione. L'organizzazione dell'immigrazione deve pertanto tener conto delle capacità d'accoglienza dell'Europa sul piano del mercato del lavoro, degli alloggi, dei servizi sanitari, scolastici e sociali nonché proteggere i migranti dal rischio di sfruttamento da parte di reti criminali». Pertanto occorre «organizzare l'immigrazione legale tenendo conto delle priorità, delle esigenze e delle capacità d'accoglienza stabilite da ciascuno Stato membro e favorire l'integrazione; combattere l'immigrazione clandestina, in particolare assicurando il ritorno nel loro paese di origine o in un paese di transito, degli stranieri in posizione irregolare; - rafforzare l'efficacia dei controlli alle frontiere; costruire un'Europa dell'asilo».
La scelta del governo italiano, vista in quest’ottica, può essere ritenuta ineccepibile, ma con l’apporto delle opposizioni avrebbe potuto essere diversa nei modi e nei contenuti, pur mantenendo fermi gli obiettivi.
Personalmente mi sarei anche aspettato un sostanziale contributo in questa direzione da parte dei parlamentari eletti all’estero. Essi sanno bene quanto è costato, qui in Svizzera, l’arrivo in massa di immigrati italiani sul finire dell’Ottocento e poi negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. Benché si trattasse di flussi regolari e «controllati», la loro presenza massiccia, giustificata solo da motivi economici, ma non sopportata dal contesto sociale, provocò vasti movimenti xenofobi e aspri contrasti. In certi periodi gli italiani erano mal visti, disprezzati, marginalizzati, evitati, segregati. Con nessuna componente etnica si è registrato in questo Paese un ritardo così importante nel processo d’integrazione.
Lungi da me giustificare i soprusi e i torti subiti dai nostri immigrati, ma la storia dovrebbe insegnare che per evitare il rifiuto sociale degli stranieri l’immigrazione va «governata» al fine di renderla non solo accettabile ma anche elemento vitale dell’economia e della società italiana, che è con buona pace di Berlusconi, almeno tendenzialmente multietnica.
E’ sul fronte dell’integrazione, che maggioranza e opposizione dovrebbero trovare un ampio consenso, in modo che si diffonda nel Paese un atteggiamento di apertura e di accoglienza verso gli immigrati e in questi il senso del rispetto non solo delle leggi, ma anche dei costumi della società ospite, e la volontà di contribuire al bene comune. In questo campo, i parlamentari eletti all’estero possono senz’altro dare molto. Speriamo!
Giovanni Longu
Berna 15.5.2009
Inform / Aise / italiachiamaitalia / politicamentecorretto / Calabresi

14 maggio 2009

Ex allievi del Cisap - Gran bell'incontro a Berna

Nessuna soddisfazione è più grande per un insegnante di quella di vedere i propri allievi realizzare i propri sogni, superando le più rosee previsioni. E’ vero, la riuscita professionale di una persona non dipende solo dalla scuola, ma questa può rappresentare talvolta un trampolino di lancio se oltre ai traguardi immediati sa rendere appetibili e raggiungibili obiettivi più lontani e apparentemente impossibili.
Una scuola particolare
A Berna e in altre località della Svizzera, è stata attiva fino al 2001 una scuola particolare, il CISAP (un nome che forse molti lettori ricordano, anche se è ormai scomparso dalle cronache da quasi un decennio), che ha immesso nel mercato del lavoro svizzero per circa quarant’anni (dal 1966 al 2001) alcune migliaia di giovani qualificati in diverse professioni dell’industria e dell’artigianato. Ma la sua particolarità non derivava da questa caratteristica.
Il CISAP era una scuola particolare perché era nata a metà degli anni Sessanta all’interno del mondo migratorio, per sopperire ad alcune gravi deficienze della politica tanto italiana che svizzera in materia di emigrazione/immigrazione. Era il periodo in cui i «Gastarbeiter» (lavoratori ospiti!) arrivavano in massa dall’Italia, senza un’adeguata informazione e preparazione. Gli accordi tra i due Paesi, che regolavano l’arrivo e il soggiorno di questi lavoratori, ignoravano qualsiasi possibilità di recupero del deficit scolastico, linguistico e formativo di molti di essi. Non era prevista alcuna forma di perfezionamento professionale, perché mancavano del naturale presupposto, ossia la formazione di base.
Nessuno, a livello politico e persino sindacale, si rendeva conto che era indispensabile dare a questi immigrati la possibilità di apprendere un mestiere secondo il paradigma collaudatissimo svizzero e per questa strada una possibilità di riuscita professionale (nell’interesse dell’economia) e sociale (nell’interesse di una sana e proficua integrazione).
Il CISAP come una «stella»
Per circa quarant’anni, surrogando le istituzioni ma fortunatamente col loro sostegno quasi dall’inizio, il CISAP (inizialmente acronimo di «Centro italo-svizzero di addestramento professionale») ha svolto egregiamente questa funzione di recupero e di perfezionamento. Attraverso una strutturata formazione teorica e pratica, questa scuola trasformava in pochi anni manovali e aiutanti in tornitori, fresatori, attrezzisti, congegnatori meccanici, automeccanici, elettrauto, installatori, disegnatori tecnici, elettronici, informatici qualificati. Anche in questo consisteva la particolarità di questa scuola.
Per molti lavoratori emigrati la qualifica professionale rappresentava una riuscita strepitosa. Non va dimenticato che soprattutto negli anni Sessanta e Settanta la stragrande maggioranza dei nuovi immigrati, provenienti prevalentemente dal Sud Italia, non possedeva alcuna qualifica professionale, certamente non del tipo richiesto dall’economia svizzera. Raggiungere il traguardo della qualifica professionale significava allora molto più che adesso conseguire lo stato sociale condiviso dalla maggior parte degli svizzeri.
Per la capacità con cui riusciva a formare in pochi anni abili lavoratori qualificati, comparabili a quelli che avevano seguito il tradizionale apprendistato svizzero, il CISAP otteneva da ogni parte ampi riconoscimenti. Per molti immigrati era divenuto come una «stella» (così disse nel 1990 un rappresentante dell’industria svizzera), che irradiava luce, sapere e speranza.
Quando, sul finire degli anni Novanta, si era definitivamente esaurito il tradizionale filone migratorio dall’Italia, anche per il CISAP venne meno la sua originaria funzione e la scuola chiuse i battenti, mettendo i sigilli praticamente ad una delle pagine più interessanti, più creative e più belle della storia dell’immigrazione italiana in Svizzera. Una pagina che ancora vive nel ricordo di chi l’ha scritta e soprattutto l’ha vissuta.
Incontro di ex allievi del CISAP
L’8 maggio scorso, alla Casa d’Italia di Berna, si è tenuto un primo incontro informale di ex allievi del CISAP, una trentina, forse un campione senza alcuna validità statistica, ma ugualmente ricco di significato. Si trattava di un incontro aperto a tutti gli ex allievi che ne fossero venuti a conoscenza attraverso l’efficace sistema del passaparola o di cui era noto ai promotori un indirizzo di posta elettronica. Si sapeva che solo una minima parte dei potenziali interessati sarebbe stata raggiunta, ma non si voleva di più, perché lo scopo era quello di testare, anche in un piccolo gruppo, l’interesse a creare una sorta di rete di AMICIS (Amici del Cisap).
In realtà era fortissimo in tutti anche l’interesse a conoscere che risultati avesse prodotto l’esperienza al CISAP. Per questo, all’invito rivolto principalmente agli ex allievi, hanno aderito anche alcuni ex insegnanti residenti nella regione di Berna. Per loro era più che legittima la curiosità di verificare il grado di riuscita dei loro allievi. Ma anche a questi non sembrava vero poter incontrare vecchi compagni di corso e mettere a confronto la propria carriera professionale con la loro.
Inutile dire che l’incontro ha avuto un grande successo, forse al di là delle aspettative. Poiché si pensava che le conoscenze tra gli ex allievi sarebbero state limitate a due o tre persone, era stato previsto che ciascuno dei partecipanti si presentasse, partendo dall’esperienza «cisappina» per continuare con le attività professionali successive e attuali. L’attenzione con cui ciascuno seguiva l’autobiografia professionale degli altri era impressionante. Ne è scaturito un forte desiderio di ritrovarsi ancora, magari in una cornice diversa ma ugualmente suggestiva, caratterizzata da uno spirito gioviale e amichevole.
Una grande emozione
In qualità di ex insegnante di cultura generale (che amava ricordare i famosi versi di Dante messi in bocca al naufrago Ulisse per motivare i suoi compagni e sottrarli alla disperazione: «Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e conoscenza») devo confessare di aver provato una grande emozione nel sentire che praticamente tutti gli ex allievi presenti avevano trovato subito dopo la scuola un’occupazione corrispondente alla qualifica raggiunta e che molti di essi avevano potuto proseguire la formazione e migliorare la propria posizione professionale.
Avevo contribuito, insieme ad altri, a formare semplici lavoratori qualificati e l’8 maggio scorso ho ritrovato, dopo oltre vent’anni, alcuni ex allievi divenuti nel frattempo quadri medi e superiori di piccole e medie imprese, product manager, ingegneri, architetti, responsabili di settore, addetti alle vendite, consulenti, designer, piccoli imprenditori. Che emozione!
Durante la formazione al CISAP era forse prevedibile che alcuni ex allievi non si sarebbero fermati alla semplice (si fa per dire!) qualifica, ma nessuno probabilmente immaginava i livelli che molti di essi avrebbero effettivamente raggiunto. Per realizzare i loro sogni molti hanno frequentato istituti tecnici, università professionali, corsi di specializzazione in Svizzera e all’estero (alcuni negli Stati Uniti), accademie, ecc.
A queste persone va riconosciuto il merito delle loro scelte, del loro impegno, dei sacrifici che hanno dovuto affrontare (spesso insieme alle loro famiglie) e pertanto del loro successo. Eppure, tutti i partecipanti all’incontro dell’8 maggio si sono sentiti in dovere di riconoscere il contributo importante che ha avuto il CISAP nella loro carriera professionale.
Ma se questi giovani, indubbiamente motivati e volenterosi, sono andati ben oltre il certificato conseguito in quella scuola, si deve anche dire ch’essa aveva dell’eccezionale, non solo come scialuppa di salvataggio, ma come centro d’integrazione e di promozione. Un esempio, il CISAP, da tener presente anche nei discorsi, talvolta vuoti di contenuto, sull’integrazione. A questo traguardo ci si può arrivare in tanti modi, ma quello forse più sicuro è una formazione scolastica e professionale conforme alle esigenze della società in cui si vive.
Giovanni Longu
Berna, 15.5.2009 (Rinascita)

12 maggio 2009

Ex allievi del CISAP: una riuscita al di là delle aspettative!

Nessuna soddisfazione è più grande per un insegnante di quella di vedere i propri allievi realizzare i propri sogni, magari al di là delle previsioni. E’ vero, la riuscita professionale di una persona dipende da molteplici fattori, ma uno di questi è indubbiamente la scuola frequentata.
A Berna e in altre località della Svizzera, è stata attiva fino al 2001 una scuola particolare, il CISAP (un nome che forse molti lettori ricordano, anche se è ormai scomparso dalle cronache da quasi un decennio), che ha immesso nel mercato del lavoro svizzero per circa quarant’anni (dal 1966 al 2001) alcune migliaia di giovani qualificati in diverse professioni dell’industria e dell’artigianato. Ma la sua particolarità non derivava da questa caratteristica.
Il CISAP era una scuola particolare perché era nata a metà degli anni Sessanta all’interno del mondo migratorio, per sopperire ad alcune gravi deficienze della politica tanto italiana che svizzera in materia di emigrazione/immigrazione. Era il periodo in cui i «Gastarbeiter» (lavoratori ospiti!) arrivavano in massa dall’Italia, senza un’adeguata informazione e preparazione. Gli accordi tra i due Paesi, che regolavano l’arrivo e il soggiorno di questi lavoratori, ignoravano qualsiasi possibilità di recupero del deficit scolastico, linguistico e formativo di molti di essi. Non era prevista alcuna forma di perfezionamento professionale, perché mancavano del naturale presupposto, ossia la formazione di base.
Nessuno, a livello politico e persino sindacale, si rendeva conto che era indispensabile dare a questi immigrati la possibilità di apprendere un mestiere secondo il paradigma collaudatissimo svizzero e per questa strada una possibilità di riuscita professionale (nell’interesse dell’economia) e sociale (nell’interesse di una sana e proficua integrazione).
Per circa quarant’anni, surrogando le istituzioni ma fortunatamente col loro sostegno quasi dall’inizio, il CISAP (inizialmente acronimo di «Centro italo-svizzero di addestramento professionale») ha svolto egregiamente questa funzione di recupero e di perfezionamento. Attraverso una strutturata formazione teorica e pratica, questa scuola trasformava in pochi anni manovali e aiutanti in tornitori, fresatori, attrezzisti, congegnatori meccanici, automeccanici, elettrauto, installatori, disegnatori tecnici, elettronici, informatici qualificati. Anche in questo consisteva la particolarità di questa scuola.
Per la capacità con cui riusciva a formare in poco tempo abili professionisti comparabili a quelli che avevano seguito il tradizionale apprendistato, il CISAP otteneva da ogni parte ampi riconoscimenti. Per molti immigrati era divenuto come una «stella» (così disse nel 1990 un rappresentante dell’industria svizzera), che irradiava luce, sapere e speranza. Poi, col venir meno della sua originaria missione per l’esaurirsi del filone migratorio italiano, la scuola chiuse i battenti, mettendo i sigilli praticamente ad una delle pagine più interessanti, più creative e più belle, della storia dell’immigrazione italiana in Svizzera.
Incontro di ex allievi del CISAP
L’8 maggio scorso se n’è avuta un’ulteriore conferma. Alla Casa d’Italia di Berna si è tenuto un primo incontro informale di ex allievi del CISAP, una trentina, forse un campione senza alcuna validità statistica, ma obiettivamente significativo. Si trattava di un incontro aperto a tutti gli ex allievi che ne fossero venuti a conoscenza attraverso l’efficace sistema del passaparola o di cui era noto ai promotori un indirizzo di posta elettronica. Si sapeva che solo una minima parte dei potenziali interessati sarebbe stata raggiunta, ma non si voleva di più, perché lo scopo era quello di testare, anche in un piccolo gruppo, l’interesse a creare una sorta di rete di AMICIS (Amici del Cisap). Per l’occasione erano stati invitati anche alcuni ex insegnanti residenti nella regione di Berna.
Inutile dire che l’incontro ha avuto un grande successo, forse al di là delle aspettative. Poiché ci si conosceva solo a gruppetti di due o tre, era stato previsto che ciascuno dei partecipanti si presentasse, partendo dall’esperienza «cisappina» per continuare con le attività professionali successive e attuali. L’interesse di ciascuno a conoscere la biografia professionale degli altri era evidente.
In qualità di ex insegnante di cultura generale (che amava ricordare i famosi versi di Dante messi in bocca al naufrago Ulisse per motivare i suoi compagni e sottrarli alla disperazione: «Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e conoscenza») devo confessare di aver provato una grande emozione nel sentire che praticamente tutti gli ex allievi presenti avevano trovato subito dopo la scuola un’occupazione conforme alla qualifica raggiunta e che molti di essi avevano potuto proseguire la formazione e migliorare la propria posizione professionale.
Avevo contribuito, insieme ad altri, a formare semplici lavoratori qualificati e l’8 maggio scorso ho ritrovato, dopo oltre vent’anni, alcuni ex allievi divenuti nel frattempo quadri medi e superiori di piccole e medie imprese, product manager, ingegneri, architetti, responsabili di settore, addetti alle vendite, consulenti, designer, piccoli imprenditori. Che emozione!
Durante la formazione al CISAP era forse prevedibile che alcuni ex allievi non si sarebbero fermati alla semplice (si fa per dire!) qualifica, ma nessuno probabilmente immaginava i livelli che molti di essi avrebbero effettivamente raggiunto. Per realizzare i loro sogni molti hanno frequentato istituti tecnici, università professionali, corsi di specializzazione in Svizzera e all’estero (alcuni negli Stati Uniti), accademie, ecc.
A queste persone va riconosciuto il merito delle loro scelte, del loro impegno, dei sacrifici che hanno dovuto affrontare (spesso insieme alle loro famiglie) e pertanto del loro successo. Eppure, tutti i partecipanti all’incontro dell’8 maggio si sono sentiti in dovere di riconoscere il contributo importante che ha avuto il CISAP nella loro carriera professionale.
Ma se quei giovani, indubbiamente motivati e volenterosi, sono andati ben oltre il certificato conseguito in quella scuola, si deve anche dire ch’essa aveva dell’eccezionale, non solo come ancora di salvataggio, ma come centro d’integrazione e di promozione.
Giovanni Longu
Berna, 13.5.2009 (L'ECO)

07 maggio 2009

Sicurezza e integrazione per una nuova politica migratoria italiana

Molti lettori avranno sicuramente seguito sulla stampa e in televisione, ma anche in qualche rubrica di questa rivista, la discussione parlamentare dapprima sul cosiddetto decreto sicurezza e ora sul disegno di legge sulla sicurezza, ossia gli strumenti giuridici che devono permettere allo Stato di garantire una maggiore sicurezza a tutti i cittadini italiani. Sovente l’accento è stato posto sull’insicurezza degli italiani a causa della presunta diffusa criminalità dovuta a stranieri, soprattutto «clandestini».
In realtà l’Italia è uno dei Paesi più sicuri al mondo e la criminalità degli stranieri non è significativamente superiore a quella che si registra in altri Paesi d’immigrazione paragonabili al nostro. Perché dunque dai media l’accento è posto soprattutto sulla criminalità degli stranieri e soprattutto sui clandestini? E perché governo e parlamento rispondono con interventi legislativi nuovi e molto contestati?
Non è facile rispondere a queste domande, ma che l’influsso mediatico giochi un fattore importante e forse determinante è fuori dubbio. Se un telegiornale annuncia un delitto, anche grave, senza precisare la nazionalità del delinquente passa quasi inosservato. Se invece si dice che l’autore del delitto è uno straniero o, peggio ancora, un clandestino, la notizia acquista nell’immaginario collettivo un’altra rilevanza. Se questo tipo di notizia si ripete frequentemente è facile che nell’opinione pubblica si faciliti quel processo di generalizzazione che porta a concludere che i clandestini sono (quasi) tutti criminali e che gli stranieri sono (molto) spesso criminali. E’ facile che questa esigenza di sicurezza dei cittadini sia colta da questa o quella forza politica in particolare e ne faccia magari un punto programmatico.
In un Paese «normale» dovrebbe esistere un Codice penale «normale» e una Giustizia «ordinaria» che punisca allo stesso modo chi viola le leggi. In Italia è come se per certi crimini, commessi soprattutto da stranieri, debbano esistere leggi speciali. Di qui dapprima un «decreto-legge» sulla sicurezza come se l’Italia dovesse affrontare una specie di epidemia grave da insicurezza e ora un più ampio disegno di legge sulla sicurezza per introdurre nello strumentario misure anticrimine (straniero) non previste nel decreto-legge, ad es. le ronde.
Non senza ragione sono insorte in Italia contro questa voglia giustizialista i partiti della sinistra, ma anche ampi settori del mondo cattolico e in genere dell’associazionismo vicino al complesso mondo degli immigrati. Con la ragione dei numeri (quella che in una democrazia conta più di tutto) più che con argomenti forti la maggioranza governativa ha fatto approvare il decreto-legge e ora sta per approvare il disegno di legge sulla sicurezza.
Non entro nel merito dei provvedimenti in questione, anche perché la loro efficacia è ancora tutta da provare. Dirò invece qualcosa in merito ad alcune prese di posizione che ho avuto modo di leggere su questa materia e, indirettamente, alla debolezza delle argomentazioni dell’opposizione parlamentare.
Mi riferisco in particolare ad alcuni interventi dell’on. Narducci (deputato PD eletto all’estero), molto sensibile alla problematica degli stranieri, ma talvolta disattento all’uso del linguaggio, che anche in politica dovrebbe rispondere al senso di concretezza e di misura, senza forzature e soprattutto senza demagogia.
Intanto l’on. Narducci, in quanto residente in Svizzera, sa bene che i problemi non vanno confusi: un conto è parlare di sicurezza in generale, un altro parlare degli stranieri immigrati regolarmente e altro ancora affrontare il complesso e delicato problema dei clandestini. Pertanto non è accettabile, in un contesto in cui si parla legittimamente del reato di clandestinità, l’insinuazione che si tratti di un «accanimento contro gli immigrati».
Non giova a nessuno giuocare sulle parole. Confondere l’immigrazione «regolare» con l’immigrazione «clandestina» è un errore non solo di terminologia ma di sostanza. Mentre si sa in partenza chi sono gli immigrati «regolari», non è possibile sapere chi sono i «clandestini», che potrebbero rivelarsi poveri cristi in cerca di fortuna ma anche criminali patentati. E’ evidente che nessuno Stato di diritto può tollerare sul proprio territorio persone senza identità e senza riferimenti certi. Tanto più che in effetti certa criminalità è favorita dalla clandestinità.
Trovo pertanto un’esagerazione dell’on. Narducci ritenere che i «Centri di identificazione» diventino delle «carceri» per il solo fatto di poter trattenere più a lungo i clandestini. Senza dimenticare che in Italia persino i detenuti nei penitenziari devono essere trattati con «senso di umanità» (art. 27 Cost.), a maggior ragione nei centri d’identificazione. Ma se si tratta di clandestini, si dovrà ben identificarli o devono essere lasciati a piede libero?
Non capisco quindi l’indignazione di Narducci quando ritiene che con l'introduzione del reato di clandestinità si creeranno non poche difficoltà ai clandestini riguardo ai ricongiungimenti familiari, al contrarre matrimonio, alla registrazione dei figli degli immigrati irregolari immediatamente al momento della nascita, ecc. Mi pare che queste e simili difficoltà siano ovvie finché dura lo stato di «clandestinità».
Arrivare poi a ritenere, come fa Narducci, che «donne immigrate irregolari, incinte, abortiscano perché spinte a ciò da una legge che le perseguita» mi pare una illogicità e una forzatura che non rendono affatto giustizia né al buon senso dei parlamentari né alla tradizione giuridica dell’Italia.
Chi conosce la storia dell’immigrazione italiana in Svizzera sa benissimo che la Confederazione non ha mai tollerato l’immigrazione clandestina, ma non si è limitata a stroncarla. L’on. Narducci e gli altri parlamentari eletti in Svizzera sanno infatti che una buona politica migratoria non si limita a disciplinare le modalità d’ingresso nel Paese, ma va oltre. Per gli immigrati italiani in Svizzera i miglioramenti delle condizioni di vita sono iniziati quando è mutato l’approccio nei confronti degli stranieri «regolari» e si è imparato a considerarli membri integrati o da integrare nella società locale.
Perché i nostri parlamentari «esteri», invece di giocare con nominalismi inutili e puntare su un’opposizione sterile, non si fanno promotori di una moderna legge sull’integrazione degli stranieri, ispirandosi anche alla recente legislazione svizzera in materia? Ponendo l’accento sull’integrazione, probabilmente l’intera problematica relativa agli stranieri acquisterebbe maggiore umanità e positività anche nell’opinione pubblica.
Giovanni Longu
Berna, 4.5.2009
(L'ECO, 6.5.2009)

Terremoto in Abruzzo, una lezione per tutti

Ha tremato l’Abruzzo, ma dovrebbe tremare tutta l’Italia per i mali che l’affliggono. Il terremoto dell’Abruzzo è l’ennesimo segnale di una situazione fortemente deficitaria non solo in materia di protezione antisismica, ma anche del rispetto delle regole del vivere civile.
Il terremoto della provincia dell’Aquila ha causato 295 morti, centinaia di feriti, decine di migliaia di senza tetto, un enorme patrimonio edilizio, architettonico ed artistico andato in frantumi. L’Italia intera ha partecipato al cordoglio delle vittime e ha dato prova di grande generosità verso i superstiti. Per i morti è stato proclamato il lutto nazionale ed è stata data loro una degna sepoltura con un rito funebre celebrato il Venerdì Santo, per i cristiani giorno della memoria del massimo sacrificio nella storia dell’umanità, ma che prelude alla Pasqua della Resurrezione. Per gli sfollati si è trovato prontamente un riparo in tendopoli funzionali, abitazioni private e alberghi. Per il patrimonio edilizio e architettonico è stata assicurata una pronta ricostruzione.
Raccontato così, l’esito di quella tragedia del 6 aprile scorso sembrerebbe invogliare alla speranza e indirizzare l’attenzione soprattutto alla ricostruzione, con tante grazie alla Protezione civile e ai numerosi volontari che si sono prodigati immediatamente per salvare il salvabile e al governo che è intervenuto prontamente per alleviare i disagi attuali e iniettare fiducia per il futuro.
In realtà le conseguenze del terremoto sono tutt’altro che passate. Continua infatti lo sciame sismico, anche se va attenuandosi, e continuano il dolore e i disagi per chi ha perso familiari, amici, il lavoro e la casa, mentre per molti sopravvissuti la prospettiva del rientro nella normalità e nelle loro abitazioni resta lontana. Molte ferite stentano a rimarginarsi.
Polemiche sterili
Tra le conseguenze del terremoto non va dimenticata, purtroppo, anche l’ondata di polemiche che come da cattivo copione si è aggiunta ai naturali disagi e che non dà segno di stemperarsi. All’indomani del terremoto, sembrava un sogno la gara di solidarietà e di generosità che si era attivata non solo nella regione terremotata ma in tutta l’Italia e che vedeva in prima linea la efficientissima macchina della Protezione civile. Persino i contrasti sempre in prima pagina tra maggioranza e opposizione sembravano attenuarsi di fronte all’emergenza che richiedeva il contributo di tutti.
Ma il sogno è durato poco. E’ bastata una trasmissione televisiva di grande successo, ma a giudizio di molti di pessima conduzione, per scatenare un mare di polemiche, molte delle quali pretestuose, inutili e sicuramente inopportune nel momento in cui sono state sollevate.
Mentre ancora si cercavano eventuali sopravvissuti sotto le macerie, c’è stato chi, in base a semplici congetture, ha alzato il dito contro chi avrebbe dovuto allertare la popolazione prima del disastro e contro chi non avrebbe pianificato a dovere l’emergenza terremoto. «Polemiche sterili e fuori luogo», sono state definite da taluni. Soprattutto dopo che scienziati veri (e non presunti) andavano dichiarando che allo stato attuale della scienza non esistono sistemi in grado di prevenire puntualmente (ossia in tempi e luoghi precisi) i terremoti. Se sono così imprevedibili non era nemmeno possibile predisporre in anticipo un piano di emergenza perfetto. Purtroppo il terremoto è ancora un nemico subdolo.
La polemica, una volta cominciata, è proseguita a valanga, coinvolgendo un po’ tutti, perché certi edifici, soprattutto pubblici, non sarebbero crollati se fossero stati costruiti secondo le norme antisismiche. E mentre il Presidente della Repubblica esprimeva «apprezzamento senza riserve per il governo e per la Protezione civile» certi agitatori della polemica a tutti i costi dissentivano apertamente. L’ammonimento del Presidente «nessuno è senza colpa, dev’esserci un esame di coscienza senza discriminanti né coloriture politiche» si trasformava suo malgrado in un atto d’accusa solo verso alcuni chiamati in causa come pianificatori, architetti, ingegneri, costruttori, verificatori e naturalmente uomini politici più o meno conniventi con associazioni criminali.
Purtroppo in Italia da alcuni anni sembra che i processi con tanto di accusa e difesa si celebrino più in televisione che nelle aule di tribunale, senza rendersi conto che soprattutto in situazioni drammatiche come quelle di un terremoto è per lo meno prudente non pretendere di sostituirsi a giudici, pubblici ministeri e avvocati. E’ compito della giustizia ordinaria e sta ad essa accertare eventuali responsabilità. E poi quando si sollevano certi coperchi si dovrebbe avere il coraggio di indicare tutto quel che emerge nella pentola. In un Paese grande come l’Italia le responsabilità, soprattutto per quel che riguarda il degrado ambientale e l’incuria del patrimonio abitativo e degli edifici pubblici, sono ampiamente ripartite e toccano sia il pubblico che il privato.
Guardare al futuro
Bene ha detto ancora il Presidente della Repubblica in riferimento alle vittime e ai danni provocati dal terremoto in Abruzzo, ma anche alle indagini in corso della magistratura: «non possiamo non ritenere che abbiano contribuito alla gravità del danno umano e del dolore umano comportamenti di disprezzo delle regole, disprezzo dell'interesse generale e dell'interesse dei cittadini».
Parole sagge, difficilmente contestabili, quelle del Presidente Napolitano, da tener presente sia guardando al passato per individuare gli eventuali colpevoli, ma soprattutto guardando al futuro «per evitare che questi fatti si ripetano e perché si possa fare prevenzione, non con fantasiose profezie o impossibili previsioni, ma apprestando mezzi indispensabili perché case ed edifici resistano».
A mio parere, tuttavia, il messaggio del Capo dello Stato va oltre la contingenza del terremoto dell’Abruzzo. L’Italia ha bisogno urgente di cambiare sistema non solo in materia edilizia, ma in generale. Il «pressappochismo» è una palla al piede che priva l’Italia dello slancio che potrebbe e dovrebbe avere per essere competitiva in Europa e nel mondo. Occorrono regole chiare, ma soprattutto che vengano rispettate. E non c’è dubbio che il sistema più efficace per farle osservare è la sanzione certa, effettiva e talvolta esemplare, per evitare che i soliti furbi, avidi, potenti e mascalzoni cadano facilmente in tentazione. Attenti, tuttavia, le regole valgono per tutti, dal semplice cittadino alle più alte cariche dello Stato. Il monito all’esame di coscienza e a comportamenti virtuosi ci riguarda tutti.
Giovanni Longu
Berna 20.4.2009

05 maggio 2009

Il Mito della Resistenza stenta ad affermarsi

Ogni Paese che si rispetti ha i suoi eroi e i suoi miti. La Svizzera, per esempio, ha il mito di Guglielmo Tell. Anche l’Italia non è da meno con il Risorgimento e la Resistenza.
I miti nazionali hanno una funzione importante perché servono a individuare l’«identità nazionale» e i suoi valori fondanti. Questa è la funzione anche del Mito della Resistenza per l’Italia di oggi e questo giustifica la sua celebrazione annuale.
Pur collocandosi in tempi non remoti, per la maggior parte degli italiani la nascita dell’Italia repubblicana appare ormai lontana dalla memoria individuale e comunque in un contesto dai contorni evanescenti e in cui i particolari diventano insignificanti. Sono le condizioni ideali per la formazione dei miti, che si alimentano per un verso dalla realtà storica e per l’altro dalla condivisione di aspirazioni e valori di tutto un popolo in quel momento o in quell’epoca.
Così è nato anche il Mito della Resistenza, in cui si fondono in maniera esemplare e inscindibile una verità storica e una verità ideale. La Resistenza è assurta a mito da quando le due componenti hanno perso per così dire le loro caratteristiche specifiche e hanno assunto una connotazione tipica dei miti, la «sacralità». «Il mito – scriveva lo storico Mircea Eliade - racconta una storia sacra», ossia una storia vera, resa esemplare per i valori e le motivazioni ideali che la sostanziano.
Se fino ad oggi la commemorazione della Resistenza non è mai stata una festa veramente «nazionale», ossia di tutti, lo si deve al fatto che le due componenti essenziali del mito (storia e significato) sono state considerate separatamente, privilegiando certi aspetti e dimenticandone altri. Non solo. Alcuni storici e alcuni politici hanno persino tentato di attribuire a una sola parte (politica) l’eroismo della Resistenza e il merito della Liberazione. Non avevano capito la funzione unificante del mito nella vita delle nazioni.
Qualsiasi celebrazione pubblica della Resistenza solo in termini di verità storica è contestabile, almeno in questo o quel punto, da parte di questo o quel gruppo perché è obiettivamente difficile se non impossibile indicare che cosa è stata davvero la Resistenza (non dimenticando lo strascico della guerra civile) e qual è stato effettivamente il suo contributo alla fine del nazifascismo in Italia. Le due questioni hanno un grande rilievo storico, ma le risposte non potranno mai essere unanimi, anche soltanto nel momento in cui si tenta di definire la stessa parola «Resistenza». Tentare poi di attribuire un «peso» specifico alle organizzazioni partigiane in termini di contributo effettivo alla liberazione dell’Italia dal nazifascismo diventa un’impresa ardua perché andrebbe messo a confronto col contributo effettivo dato dalle armate alleate soprattutto dopo lo sfondamento della Linea Gotica nella prima metà dell’aprile 1945.
Il Mito della Resistenza, invece, per la sua capacità di «sublimazione» della molteplice e controversa realtà storica e per la sua forte componente di «sacralità», che evoca verità indiscutibili, «principi fondamentali», e rende «eroi» tutti coloro che li praticano, non può che unire. L’aspirazione di un popolo a vivere in libertà, senza soprusi e malversazioni (questo è l’aspetto ideale della Resistenza) è anche oggi, come lo fu sul finire della Seconda mondiale, un potente collante per tenere insieme persone e gruppi disuniti su moltissimi aspetti concreti della convivenza sociale.
Va detto che a differenza di molti interpreti di parte della Resistenza, i costituzionalisti ne colsero pienamente il significato generale (e non partigiano), quando scrissero la Costituzione repubblicana. Si continua a dire, talvolta con una certa retorica come anche nelle celebrazioni degli scorsi giorni, che «la Costituzione è nata dalla Resistenza». L’espressione è corretta e pienamente giustificata se ci si riferisce non alla verità storica, ma al Mito della Resistenza, ossia al sistema di valori ch’esso evoca.
Basterebbe leggere i «Principi fondamentali» della Costituzione, o anche uno solo di essi, ad es. quello dell’articolo 3: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
Anche leggendo soltanto questo articolo ci si può rendere conto della stoltezza di aver tante volte in passato e sporadicamente anche di recente strumentalizzato la Resistenza.
Oggi che nel Mito della Resistenza i due elementi storico e ideale sembrano ricomporsi armoniosamente, è stato finalmente possibile per la maggioranza degli italiani ritrovarsi insieme senza difficoltà non solo per celebrare i valori fondamentali della nazione, ma anche per rinnovare l’impegno a combattere i moderni nemici del progresso civile che sono ancora le disuguaglianze, le ingiustizie, le discriminazioni, la povertà, il disimpegno, l’avidità, ecc.
Purtroppo, anche nelle celebrazioni di quest’anno, non sono mancati i tentativi di rompere la magia e la sacralità del Mito pretendendo distinzioni tra combattenti buoni e cattivi, tra partigiani e repubblichini, tra eroi della libertà e liberticidi e altro ancora. Per fortuna si è trattato di tentativi isolati di persone, anche se in vista, che probabilmente non si sono ancora rese ben conto che a sopravvivere è ormai solo il Mito della Resistenza, tradotto in quelle norme giuridiche dei «Principi fondamentali» della Costituzione in cui TUTTI gli italiani si riconoscono.
Giovanni Longu
Berna, 26.4.2009

Casi di malasanità solo in Italia ?

In questi ultimi anni mi è capitato di dover visitare familiari, amici o colleghi in diversi ospedali sia in Italia che in Svizzera. Le mie esperienze, molto limitate e indirette, non mi consentono confronti approfonditi e ancor meno giudizi di valore. Le osservazioni che seguono sono dunque semplici considerazioni soggettive.
In Italia si parla molto di malasanità e le denunce che vengono ampiamente divulgate dai media danno l’impressione che la sanità lasci molto a desiderare. In realtà, le prestazioni al paziente del sistema sanitario nazionale sono considerate, ad esempio dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, tra le più efficienti su scala mondiale. Purtroppo i casi di malasanità gettano ombra sull’intero sistema, che pure vanta numerosi centri di eccellenza a livello internazionale ed è comunque in costante miglioramento.
In Svizzera si ritiene abitualmente che la sanità pubblica sia solo di eccellenza o comunque di alta qualità. In realtà anche in questo Paese non mancano le denunce di malasanità, ma non sono tali da scalfire la fiducia dei cittadini in un sistema sicuramente molto efficiente, ma per certi aspetti collocato su scala internazionale dietro Francia, Spagna e Italia.
Recentemente ho frequentato per alcuni giorni un ospedale di media grandezza, di cui per ovvie ragioni non faccio il nome. Il paziente che visitavo era in una camera comune insieme a due altri degenti, ma ho avuto contatti anche con altri malati e col personale medico e paramedico.
Fin dall’inizio mi ha particolarmente colpito il clima di confidenze che si era creato in quella camera d’ospedale tra i degenti, due dei quali confrontati con operazioni serie. Era come se la malattia li avesse spogliati di quel comune riserbo che caratterizza gran parte dei rapporti interpersonali. Quella camera a tre letti era diventata una specie di confessionale all’aperto. E le confessioni sgorgavano con una naturalezza che non si riscontra solitamente nemmeno tra amici di vecchia data.
Il «mio» paziente era stato sottoposto a una operazione semplice, anche se aveva richiesto l’anestesia totale, e a parere del chirurgo era «ben riuscita». Anche la soddisfazione del malato era totale, perché praticamente non avvertiva nemmeno il dolore delle ferite non ancora rimarginate. Senonché appena un giorno dopo l’operazione si è presentato un «effetto collaterale» fastidioso, del tutto inaspettato. Si dirà che può succedere, e nessuno può affermare il contrario, ma per lo meno il malato avrebbe dovuto essere informato di un tale rischio. Comunque il mio amico non si lamentava, perché in ospedale in genere si sopporta tutto.
Un altro paziente ha raccontato, agli altri degenti ma anche ai loro visitatori, praticamente tutta la sua vita, con i suoi momenti belli e meno belli. Diversamente dagli altri, era molto critico della sanità svizzera. Aveva perso la fiducia da quando sua moglie era morta, anzi, era stata uccisa alcuni anni prima. Sì, ripeteva, l’hanno uccisa perché il medico di famiglia prima e l’ospedale in cui era stata ricoverata poi non avevano individuato prontamente il male che l’aggrediva e l’avevano curata per una malattia che non aveva. Dimessa dopo otto mesi di cure sbagliate, forse perché aveva dato qualche apparente segno di miglioramento, pochi giorni più tardi il povero marito ha dovuto farla ricoverare nuovamente, ma in un altro ospedale e in un’altra città. Purtroppo vi era giunta troppo tardi. Sta di fatto, secondo il racconto del poveruomo, che i medici rinunciarono a curarla e in una stanza isolata la lasciarono morire. Con la sua morte, ripeteva, anche lui in qualche modo aveva cessato di vivere e a tenerlo in vita restavano solo i figli e i nipoti molto affezionati.
Un altro paziente, molto giovane, raccontò di essere venuto per tentare un’operazione che era stata sbagliata in un altro ospedale. Gli chiesi: come sarebbe a dire? Sì, rispose, mi hanno operato pochi mesi fa con un sistema che non si usa più da molto tempo e mi ha provocato continue infezioni senza risolvere il problema. Ma l’avete denunciato quell’ospedale? Sì l’abbiamo già fatto. Ora è stato sottoposto a una nuova operazione, a quanto sembra riuscita.
In genere, comunque, tutti i pazienti con cui ho potuto intrattenermi mostravano una cieca fiducia nei «loro» professori. Questo atteggiamento non mi meraviglia, perché quando un malato entra in ospedale vuole uscirne guarito, grazie alla mano esperta di anestesisti, chirurghi e altro personale sanitario. Nessun malato pensa veramente ai rischi. Ma i rischi, purtroppo, sono sempre in agguato, magari nel decorso postoperatorio, ed è per questo che normalmente chirurghi e anestesisti ne informano i pazienti prima di qualsiasi intervento facendosi rilasciare una specifica dichiarazione di avvenuta informazione.
Queste esperienze in Italia e in Svizzera mi hanno fatto riflettere su un aspetto della malasanità su cui non mi ero mai soffermato. In genere vengono esasperati episodi particolari che non dovrebbero succedere, ma che in fondo possono essere visti come l’eccezione che conferma la regola. Ciò che invece andrebbe sottolineato della malasanità è soprattutto il divario, talvolta abissale, tra la fiducia quasi assoluta del paziente nel suo medico e l’incapacità di questo di rispondere adeguatamente alle attese. Anche quando il medico o il chirurgo sanno che la guarigione non potrà essere garantita, quel rapporto di dipendenza e fiducia col paziente dovrebbe essere ugualmente salvaguardato con spiegazioni semplici e comprensibili, escludendo nella maniera più assoluta la presunzione dell’inutilità delle spiegazioni «perché tanto il malato non capirebbe».
Questo rapporto speciale paziente-medico vale, nelle debite proporzioni, anche nei confronti del personale paramedico, da cui il degente si attende una disponibilità quasi esclusiva. So che si tratta di una pretesa quasi assurda, ma non si può rispondere in malo modo a un malato di trattenersi dal suonare il campanello perché «non è mica l’unico paziente del reparto». Ogni malato è portato a vedere unicamente il proprio male, ma basterebbe assicurargli, gentilmente, che il suo problema sarà risolto appena possibile. Purtroppo la gentilezza non è una qualità che si apprende facilmente, ma soprattutto negli ospedali con malati gravi, il personale paramedico e ausiliario dovrebbe essere meglio preparato anche ad affrontare situazioni di stress.
Certo, rispetto a qualche decina di anni fa, la situazione è notevolmente migliorata. Oggi capita anche di sentire infermieri e assistenti che si scusano col malato per qualche involontaria disattenzione. A un paziente al quale era stata portata via dal suo armadietto, per errore, una giacca contenente portafoglio e documenti personali, una volta ritrovata gliela hanno restituita con tante scuse e un piccolo omaggio. Alcune volte basta poco per soddisfare il malato, che ha soprattutto bisogno di essere considerato e rispettato.
Con l’allungamento della vita e i numerosi problemi sanitari connessi, credo che tutti i sistemi sanitari dovranno investire maggiormente nei servizi paramedici e psicologici per i pazienti, i quali, si sa, sono senza eccezione impazienti di guarire.
Giovanni Longu
Berna, 23.3.2009