23 ottobre 2019

Immigrazione italiana 1950-1970: 31. Gli italiani e i sindacati svizzeri


Nel 1960 i lavoratori immigrati rappresentavano oltre il 20% della popolazione attiva, nel 1970 oltre il 30% e in alcuni rami economici superavano il 50%, ossia una proporzione considerevole. Nonostante questa massa critica teoricamente rilevante, nel periodo considerato (1950-1970) il loro «potere contrattuale» è sempre rimasto quasi nullo. Non riuscivano a partecipare nemmeno alle decisioni riguardanti l’organizzazione del lavoro, i salari, le garanzie assicurative. La spiegazione: «perché gli stranieri non avevano una sufficiente rappresentanza sindacale», è vera, ma insufficiente. Per essere soddisfacente, anche se non esaustiva, è necessario esaminare la complessa situazione degli immigrati italiani nei primi decenni del dopoguerra e il loro difficile rapporto con i sindacati svizzeri.

La situazione generale
Dalla fine della seconda guerra mondiale al 1970 la crescita del numero di stranieri residenti in Svizzera è stata costante. In cifre assolute essi sono passati da 285.446 a 1.080.076, in cifre relative dal 6,1% al 17,2% dell’intera popolazione residente. Allo sviluppo numerico non è però corrisposto un altrettanto sviluppo della loro forza contrattuale e dei loro diritti. Lo statuto di «immigrato» non prevedeva una tale crescita, anzi la impediva. D’altra parte, per lungo tempo gli immigrati non hanno mai cercato di superare con strumenti adeguati gli impedimenti.
Nell'immaginario collettivo svizzero l’immigrato era un lavoratore straniero impiegato provvisoriamente in Svizzera, un lavoratore ospite, un «Gastarbeiter» che prima o poi doveva tornarsene al proprio Paese. Gli unici diritti che aveva erano quelli previsti dal contratto di lavoro e dagli accordi internazionali. Ma non aveva i mezzi, né individualmente né collettivamente, per esigere che almeno quelli fossero pienamente rispettati.
E’ vero che anche i lavoratori immigrati avevano la possibilità di ricorrere ai tribunali, ma come potevano preparare un ricorso e affrontare un giudizio? Si sapeva che i sindacati erano preposti alla difesa dei diritti dei lavoratori, ma nei loro confronti gli immigrati erano scettici e perciò poco sindacalizzati. Gli italiani, che costituivano il gruppo straniero più numeroso, potevano anche riferirsi alle autorità diplomatiche e consolari e ad alcune organizzazioni di tutela, ma già contattarle era problematico e un eventuale loro intervento avrebbe richiesto una documentazione ben circostanziata difficile da fornire. 

La situazione lavorativa
La condizione dell’emigrato era oggettivamente difficile. Del resto non va dimenticato che a quell'epoca le stesse donne svizzere non avevano ancora il diritto di voto a livello federale, che sarà loro concesso solo nel 1971. Ma fu probabilmente un errore fatale non aver aderito in massa ai sindacati. Alle rivendicazioni degli italiani (parità di trattamento salariale rispetto ai colleghi svizzeri, garanzia di non essere licenziati per primi in caso di crisi, migliori condizioni abitative, ricongiungimento familiare, ecc.) difficilmente avrebbero risposto negativamente, anche tenendo conto che la congiuntura economica era allora particolarmente favorevole e si reggeva anche grazie al lavoro degli stranieri.
I sindacati sapevano infatti benissimo che la percentuale degli stranieri addetti all'industria, allora il settore trainante dell’economia svizzera, già elevata nel 1960 (24%), nel 1970 aveva raggiunto il 36% e in alcuni rami economici superava il 50%. Nell'industria tessile, per esempio, la percentuale era poco al di sotto del 50%, ed era particolarmente alta nella ristorazione (75% dei camerieri) e nel ramo alberghiero (75% delle cameriere), con punte dell’86% tra il personale ausiliario di cucina. Nelle costruzioni la percentuale superava il 60% (61% dei muratori, 73% dei manovali). Nell'industria delle macchine era straniero il 70% dei saldatori. Nella metallurgia gli stranieri addetti alle fonderie sfioravano il 100%.
La maggior parte (oltre il 60%) di questi stranieri attivi era rappresentata dagli italiani (1960: 346.223; 1970: 583.855). Sarebbe stato possibile ai sindacati svizzeri non sostenere le loro rivendicazioni se fossero stati iscritti? Certamente no. Perché, dunque, non si iscrissero? E perché i sindacati trascurarono a lungo il potenziale di iscritti stranieri? Perché non si resero conto che la loro adesione andava favorita fin dagli anni Cinquanta, quando molti italiani che avevano conosciuto le lotte sindacali del dopoguerra in Italia, si rendevano certamente conto dell’indispensabile sostegno sindacale per ogni conquista in campo economico e sociale?

Diffidenza verso i sindacati
Non è facile rispondere a simili domande, ma qualche spiegazione è doverosa. In alcuni documenti e in alcune narrazioni si dà come risposta all'esitazione degli italiani ad iscriversi ai sindacati il proverbiale senso del risparmio dell’emigrato, disposto a privarsi anche di cose utili ma non necessarie per accumulare il famoso gruzzolo da portarsi a casa al termine della sua esperienza emigratoria. Si tratta di una risposta plausibile, ma non sufficiente. Il sindacato, infatti, da molti immigrati era ritenuto addirittura inutile e di parte, allineato sulle posizioni padronali, poco interessato alle problematiche dei lavoratori stranieri e propenso a difendere soprattutto i lavoratori svizzeri.
In realtà i sindacati svizzeri non hanno mai escluso esplicitamente dai loro interessi i lavoratori stranieri, anzi, come risulta da un rapporto del 1948, hanno sempre rivendicato ufficialmente di voler rappresentare gli interessi di tutti i lavoratori. Nel 1966, il settimanale FOMO della «Federazione degli operai metallurgici e degli orologiai», in un editoriale intitolato «Fraternità sindacale», lanciava un appello ai militanti per interessarsi maggiormente della «manodopera ospite». Nella pratica, tuttavia, agli occhi degli stranieri i sindacati difendevano sempre prioritariamente gli interessi degli svizzeri.
Del resto, anche quando apparentemente sembravano preoccupati che gli immigrati potessero assumere contratti di lavoro non conformi a quelli stabiliti dai contratti collettivi di lavoro (in relazione soprattutto, al salario minimo, alla durata del lavoro e alle tutele), i sindacati non facevano che difendere gli interessi degli svizzeri. Volevano infatti evitare che i lavoratori stranieri venissero usati per comprimere in generale i salari, anche quelli degli svizzeri.

I sindacati e gli stranieri
L’atteggiamento dei sindacati verso gli stranieri era giustificato, dal loro punto di vista, perché si sentivano obbligati a difendere prioritariamente gli interessi degli affiliati e purtroppo gli stranieri non lo erano perché non pagavano i contributi sindacali. Poiché però le conquiste sociali andavano a beneficio di tutti, i sindacati cercarono di far pagare anche a loro un contributo di solidarietà.
Inoltre, dal 1948 (anno del primo accordo italo-svizzero d’immigrazione) consideravano gli immigrati, in quanto soprattutto stagionali, meno stabili degli operai svizzeri e pertanto anche meno interessati all’azione sindacale. E’ probabile che questa considerazione abbia frenato l’attività di sensibilizzazione e di reclutamento degli stranieri.
E’ possibile ma improbabile che i sindacati svizzeri non si rendessero conto dell’immagine negativa che trasmettevano agli stranieri, soprattutto negli anni Cinquanta e Sessanta, con le loro scelte di evidente difesa prioritaria degli interessi degli svizzeri. Perché dunque, al di là delle affermazioni ufficiali d’interessarsi a tutti, non cercavano almeno di motivare chiaramente tali scelte? Quando i sindacati dichiaravano di voler proteggere il mercato del lavoro svizzero proteggendo in primo luogo i propri membri svizzeri, non si rendevano conto di fare un torto a quella parte importante costituita dagli stranieri, senza la quale anche l’altra parte sarebbe crollata?

Quanto ha pesato la paura della Überfremdung?
E’ difficile dare delle risposte certe, ma non si può escludere che anche nel sindacato si fosse insinuato il pregiudizio che la minaccia più pericolosa potesse venire da un eccesso d’immigrazione. E’ invece certo che in alcuni ambienti sindacali si aveva paura che aprendo facilmente le porte agli stranieri (italiani) si correva il rischio d’infiltrazioni comuniste, per cui era opportuno tenere gli occhi bene aperti e non sollecitare affatto un’adesione in massa degli immigrati.
Questi atteggiamenti, facilmente documentabili, spiegano quanto insistentemente, fin dagli inizi degli anni Sessanta, il sindacato chiedesse al governo federale d’intervenire per limitare l’immigrazione. Del resto anche nel linguaggio sindacale degli anni Sessanta è spesso presente il termine Überfremdung, inforestierimento.
Sorge pertanto il dubbio, a questo punto, se non sarebbe stato più vantaggioso per il sindacato, negli anni Sessanta, più che lottare contro l'inforestierimento contrastare con ogni mezzo la xenofobia crescente perché, quella sì, rappresentava un vero pericolo. Contemporaneamente sarebbe stato certamente utile coinvolgere tutti gli stranieri già iscritti al sindacato in un’azione determinata e mirata alla sindacalizzazione del maggior numero possibile d’immigrati, facendo loro comprendere che la migliore difesa dei propri diritti sociali poteva essere garantita dal sindacato meglio che da qualunque altra organizzazione.
Solo lentamente, negli anni Settanta, l’atteggiamento dei sindacati verso gli stranieri comincerà a mutare radicalmente e anche gli immigrati cominceranno a partecipare più attivamente alla vita sindacale.
Giovanni Longu
Berna 23.10.2019

16 ottobre 2019

Immigrazione italiana 1950-1970: 30. Gli italiani e la politica

Gli immigrati italiani giunti in Svizzera nel periodo considerato (1950-1970) hanno sempre avuto un difficile rapporto con la politica, sia quella svizzera sia quella italiana. Sono stati oggetto di numerose decisioni e accordi politici, ma non sono mai stati protagonisti. In Italia hanno avuto sempre scarsa attenzione e rappresentanza politica, nonostante abbiano goduto fin dal dopoguerra del diritto di voto e dal 2006 della possibilità di eleggere dall’estero propri rappresentanti in Parlamento. In Svizzera, tutti i provvedimenti legislativi e politici sugli stranieri erano basati su una legge del 1931, che garantiva agli immigrati solo pochi diritti fondamentali e alle autorità la massima discrezionalità nella concessione e nella revoca o non rinnovo dei permessi. L’obiettivo della legge era chiaro: impedire l’«inforestierimento» (Überfremdung) e ricorrere alle forze di lavoro straniere solo se necessario.


Disorientamento politico
L'invito più diffuso tra gli immigrati negli anni '60.
Lo sguardo degli immigrati italiani in Svizzera (prima generazione) è stato per molto tempo disorientato e agitato perché rivolto confusamente sia verso l’Italia, Paese da cui gli emigranti erano partiti spesso con rabbia e a cui contavano di ritornare appena possibile, sia verso la Svizzera, dove erano venuti per lavorare e farsi un gruzzolo da portare a casa, ma mal sopportavano di essere considerati quasi usurpatori o al massimo lavoratori «ospiti» (Gastarbeiter), ossia temporanei, da respingere o comunque ostacolare in tutte le maniere, se crescevano troppo e magari pensavano di stabilirsi definitivamente in questo Paese.
I disagi che dovevano sopportare sul lavoro e nella vita quotidiana hanno molti immigrati ad affidare ad alcune organizzazioni e associazioni - specialmente il Partito comunista italiano (PCI) e le Colonie libere italiane (CLI) - la protesta e la rivendicazione dei presunti diritti negati. Esse, infatti, non si facevano scrupolo né di manifestare il dissenso né di avanzare pretese apparentemente legittime, ma ritenute esagerate sia da parte italiana sia da parte svizzera, senza mai prendere in seria considerazione vie alternative e compromessi.
Per alcuni decenni, soprattutto nel periodo considerato (1950-1970), quelle organizzazioni hanno ritenuto di poter modificare, nonostante le forze oggettivamente modeste di cui disponevano, sia la politica emigratoria italiana, fondata su un sostanziale consenso di tutti i partiti e sindacati italiani, sia la politica immigratoria svizzera basata su leggi e regolamenti ufficiali come pure su un ampio sostegno dell’opinione pubblica contraria all’«inforestierimento».
Occorre anche dire che tanto il PCI quanto le CLI non godevano in quel periodo di alcun sostegno reale né da parte delle rappresentanze diplomatiche e consolari italiane né da parte delle istituzioni (politiche, sindacali, ecclesiali) svizzere, per cui le loro principali rivendicazioni non trovavano accoglienza, accrescendo la frustrazione e il disorientamento di numerosi immigrati.

Rivendicazioni dall’Italia
Nei confronti dell’Italia, gli attivisti del PCI in Svizzera e delle CLI hanno cercato per decenni di far pesare la rabbia e la protesta degli emigrati nei dibattiti parlamentari ogniqualvolta se ne presentava l’occasione. Essi avevano infatti ottimi rapporti col principale partito d’opposizione, il PCI, che si ergeva a paladino della difesa dei diritti degli emigrati, senza rendersi conto che la Democrazia cristiana (DC) al potere non avrebbe mai permesso di essere scavalcata dal PCI anche in materia di rivendicazioni in favore dei connazionali all’estero.
Da alcuni resoconti delle trattative italo-svizzere in materia risulta chiaramente che il governo (sempre a guida DC), voleva essere addirittura più efficace del PCI nel raggiungere risultati mirati. Naturalmente la stragrande maggioranza degli immigrati italiani era inconsapevole della lotta politica italiana e poco s’interessava alle trattative internazionali che pure li riguardava, covavano soltanto una grande rabbia per essere dovuti emigrare senza tutele.
La speranza e la convinzione di quelle organizzazioni di poter influire sulla politica italiana rafforzando il PCI si manifestava soprattutto in occasione delle elezioni politiche, quando gli emigrati dovevano recarsi in Italia per esprimere le loro scelte. Decine di treni speciali partivano dalle principali città svizzere nei giorni che precedevano la votazione sventolando dai finestrini centinaia di bandiere rosse. Sembrava che si dovesse andare a votare per poter finalmente ritornare, ma si sapeva benissimo ch'era un'utopia, perché l’Italia non poteva garantire il lavoro a tutti. Si riteneva però utile esprimere col voto comunista il malcontento diffuso e al contempo approfittare del viaggio gratuito per rivedere i famigliari.

Un’opinione
Bene sintetizzò queste sensazioni l’inviato speciale a Berna del Corriere della Sera Mario Cervi in un lungo articolo del 1963 («In Svizzera guadagnano bene ma danno il voto ai comunisti»), in cui cercava di dare una risposta all'«interrogativo inquietante»: «Perché tanti nostri emigrati votano comunista?», nonostante qui partecipino al benessere raggiunto anche «senza il comunismo». Ed ecco la risposta sintetica ed esplicita: «Non lo fanno per motivi economici ma per “vendicarsi” del proprio Paese». E aggiungeva : «stato d'animo esasperato dall'intensa propaganda degli “attivisti”».
La sintesi di Cervi, basata su incontri e conversazioni avute con immigrati di varie parti d’Italia, rivelava anche alcuni aspetti poco noti della vita «politica» degli emigrati/immigrati di quel periodo, cominciando dalla trasformazione della rabbia e dello scontento in propaganda politica: «Questi stati d'animo […] non «esplodono» da soli. C’è chi li rivela e ingigantisce. Gli attivisti del partito comunista, che aspettano, già sui marciapiedi delle stazioni ferroviarie di Milano o di Torino, l’immigrato meridionale, e da quel momento non lo abbandonano più, sono disseminati tra le nostre maestranze in Svizzera. In generale questi attivisti sono anche ottimi operai. Hanno prestigio nei riguardi dei loro compagni, sono apprezzati dagli imprenditori».  Nei confronti del governo italiano, diceva Cervi, gli attivisti non avevano dubbi: «I miglioramenti che gli emigrati ottengono sono merito dei comunisti; i disagi che lamentano sono colpa del governo».
A proposito delle Colonie libere, dopo aver ricordato la loro origine antifascista e la loro diffusione in molte città svizzere, Cervi osservava che «diventano sempre più uno strumento comunista. La loro attrazione si esercita su un numero relativamente esiguo di emigrati, trenta o quarantamila. Ma ogni Colonia conquistata dai comunisti è un nuovo centro di irradiazione propagandistica».

Rivendicazioni dalla Svizzera
Le pretese dalla Svizzera erano più difficili da soddisfare perché tutta la politica immigratoria federale si basava non solo su una legge del 1931, che garantiva agli immigrati pochi diritti fondamentali e alle autorità svizzere la massima discrezionalità, ma anche su un diffuso pregiudizio anticomunista, che rendeva sospette e inaccettabili tutte le rivendicazioni provenienti dagli ambienti vicini al PCI, compreso quello delle CLI. Tanto è vero che l'organizzazione sindacale italiana più rappresentativa, ma vicina al PCI, la Confederazione Generale Italiana del Lavoro (CGIL), e la Federazione delle colonie libere italiane in Svizzera (FCLIS) non furono mai ammesse al tavolo delle trattative bilaterali con l’Italia in materia d’immigrazione.
Le CLI furono considerate a lungo «comuniste»
Il fondamento giuridico della politica immigratoria svizzera risiedeva tuttavia nella legge sugli stranieri del 1931, che all’articolo 4 precisava: «l’autorità decide liberamente, nei limiti delle disposizioni di legge e dei trattati con l’estero, circa la concessione del permesso di dimora o di domicilio, e la tolleranza». Pertanto si stabiliva anche che l’autorità non era obbligata al rinnovo dei permessi, qualora fossero venute meno le condizioni per le quali erano stati rilasciati. Altre misure restrittive all’immigrazione, al rinnovo dei permessi, ai ricongiungimenti familiari, all’acquisizione del diritto di domicilio, ecc. sono note e costituivano materia di contestazione soprattutto da parte delle sinistre.
Il Consiglio federale sapeva comunque che la sua politica verso gli stranieri, anche quando procedeva alle espulsioni dei presunti propagandisti comunisti, era condivisa dalla maggioranza del Parlamento e dall’opinione pubblica. Forse anche per questo si avvalse solo poche volte del potere di espulsione. D’altra parte, sapeva anche, come ebbe ancora a riferire Mario Cervi da Berna nel 1963, che «La massa degli italiani in Svizzera [era] indifferente all'espulsione dei comunisti». In quel momento la preoccupazione maggiore per gli italiani proveniva dai movimenti xenofobi in grande crescita.

La soluzione dei problemi
Osservando la storia dell’immigrazione italiana in Svizzera verrebbe da dire che nel periodo considerato alcuni esponenti delle organizzazioni di immigrati di sinistra hanno forse creduto di lottare per una giusta causa, ma hanno sbagliato tattica, anche se va riconosciuto loro il merito di aver tenuto vivo nelle aule parlamentari italiane l’interesse nei confronti degli emigrati. E’ persino legittimo ritenere che la scarsa flessibilità di molti attivisti del PCI e delle CLI abbiano contribuito ad accrescere la diffidenza verso gli italiani e a rallentare il processo d’integrazione.
Sarà infatti solo a partire dagli anni Settanta che si comincerà a vedere qualche miglioramento significativo nella vita degli immigrati, quando il Comitato Nazionale d’Intesa che raggruppava le principali associazioni d’immigrati italiani, i sindacati svizzeri, le chiese locali e altre organizzazioni pubbliche e private si resero conto che i risultati erano ottenibili solo percorrendo la strada del dialogo, della conoscenza reciproca, del superamento dei pregiudizi e della collaborazione.
Giovanni Longu
Berna 16 ottobre 2019
 

09 ottobre 2019

Immigrazione italiana 1950-1970: 29. Gli italiani e la religione


In una narrazione oggettiva dell’immigrazione italiana in Svizzera nel secondo dopoguerra non si può non ricordare l’importanza che ha avuto la religione nel suo processo identificativo ed evolutivo. Gli immigrati provenienti dall’Italia s’identificarono ed erano identificati per molto tempo dalla popolazione indigena oltre che come lavoratori stranieri «ospiti» (Ausländer, Fremdarbeiter, Gastarbeiter) come italiani (die Italiener) e come cattolici (Katholiken). Con la loro presenza e con la loro appartenenza confessionale hanno contribuito a trasformare il panorama religioso della Svizzera. In questo processo e in questa evoluzione hanno svolto una parte attiva rilevante le Missioni cattoliche italiane.

Importanza della religione in Svizzera
Sede della Missione cattolica di lingua italiana di Berna
La religione ha sempre avuto per la Svizzera una grande importanza, sia prima che dopo la Riforma. Prima perché ha contribuito alla sua identità nazionale, dopo perché, nonostante la divisione introdotta tra Cantoni cattolici e Cantoni protestanti e ben quattro guerre di religione, le radici cristiane comuni hanno contribuito a salvaguardare l’unità nazionale. Tra i due gruppi, tuttavia, i cattolici hanno rappresentato quasi sempre la parte debole nelle relazioni intercantonali, nella politica e nell’economia, anche dopo la costituzione della nuova Confederazione (1848).
I cattolici hanno avuto negli ultimi decenni dell’Ottocento e agli inizi del Novecento fino allo scoppio della prima guerra mondiale un grande aiuto dall’immigrazione dai Paesi confinanti di migliaia di persone, in prevalenza cattoliche, tanto da ridurre considerevolmente il divario ancora notevole tra protestanti e cattolici, soprattutto nei Cantoni più industrializzati. E’ significativo che solo nel 1891 i cattolici conservatori svizzeri abbiano ottenuto il loro primo rappresentante nel Governo federale e nel 1919 un secondo.
La religione degli immigrati del secondo dopoguerra, ancora in prevalenza cattolici, ha modificato ulteriormente il panorama religioso della Svizzera con importanti conseguenze anche sul piano demografico, sociale e culturale. Si pensi all’incremento naturale degli stranieri (inizialmente molto più accentuato di quello degli svizzeri), al moltiplicarsi dei luoghi di culto, alla diffusione dei sacramenti, ai numerosi matrimoni misti, alla facilità di circolazione delle persone e delle idee, ecc. Inizialmente ostacolati nell’esercizio del culto, nella cultura e nella società, i cattolici stranieri hanno via via acquistato spazio e importanza in tutti gli ambiti della vita sociale, culturale ed economica.

Trasformazione del panorama religioso
Sotto il profilo strettamente religioso-confessionale sono significative alcune cifre. Nel 1950, a livello nazionale, il divario tra protestanti (2.655. 375) e cattolici (1.959.046) era ancora significativo perché i primi rappresentavano il 56,3% dell’intera popolazione, mentre i secondi appena il 41,6%, con una differenza di quasi 15 punti percentuali. Senza gli stranieri la differenza sarebbe stata ancora maggiore perché gli svizzeri erano protestanti al 58,9%, mentre gli stranieri erano cattolici al 76%. 
Vent’anni più tardi, i dati del censimento federale della popolazione del 1970 attestarono non solo un’ulteriore riduzione del divario tra protestanti (2.991.674) e cattolici (3.096.654), ma addirittura il sorpasso dei cattolici sui protestanti. La percentuale dei cattolici era salita al 49,1%, quella dei protestanti era scesa al 47,7%. Poiché gli svizzeri conservavano all’incirca le stesse proporzioni, il contributo determinante all’ascesa dei cattolici, soprattutto nelle agglomerazioni urbane, proveniva dagli stranieri, cattolici oltre l’80%. Dal 1970 il panorama religioso muterà ancora, ma dal 1990 si farà sempre più consistente la percentuale dei «senza confessione» a scapito sia dei protestanti che dei cattolici.
E’ interessante osservare che il paesaggio religioso svizzero è mutato nonostante le enormi difficoltà linguistiche, culturali e confessionali incontrate da molti immigrati nel processo integrativo, soprattutto nei Cantoni protestanti di lingua tedesca, dove l’egemonia della cultura protestante non lasciava molto spazio alla minoranza cattolica. E’ probabile che il sentimento religioso delle prime generazioni dipendesse molto dalla tradizione religiosa del Paese di provenienza, ma certamente esprimeva anche un sentimento di autentica spiritualità legato ai gravi rischi della vita lavorativa (soprattutto nei grandi cantieri degli scavi stradali e delle grandi dighe di alta montagna) e alle sofferenze quotidiane dovute all’incomunicabilità e all’isolamento. 

Contributo delle chiese e delle missioni
Negli anni Cinquanta e Sessanta, di fronte al numero crescente di immigrati, le chiese ufficiali cominciarono a interessarsi maggiormente al fenomeno migratorio e ai bisogni religiosi dei nuovi cattolici. Furono costruite non poche nuove chiese e ristrutturate altre, vennero costituite nuove parrocchie e aperte nuove missioni cattoliche per stranieri.

Con l’intensificarsi dei flussi migratori, cresceva tuttavia non solo il bisogno dell’assistenza religiosa, ma anche dell’assistenza sociale, scolastica e professionale degli immigrati. Le Missioni cattoliche italiane (MCI) che venivano implementate un po’ ovunque, oltre ad essere centri di vita religiosa divennero sempre più anche centri d’incontro, di socialità e di assistenza di ogni genere. 



Si segnalarono in particolare i padri Scalabriniani, che sull’esempio del loro fondatore Giovanni Battista Scalabrini (1839-1905), seppero creare attorno alla chiesa tutta una serie di attività sociali e assistenziali che contribuirono non poco a rafforzare sentimenti di identità e di appartenenza a decine di migliaia di immigrati di ogni provenienza e cultura. Poiché i bisogni degli immigrati e dei loro figli erano enormi, aprirono MCI in molte città svizzere (Ginevra, Basilea, Berna, San Gallo, Soletta, Delémont, Thun, Losanna, Friburgo, ecc.).
Nel corso di un dibattito parlamentare in Italia, nel 1954, il deputato Antonio Dazzi ebbe a dire che a suo giudizio «l’unico organismo che ancor oggi segue ed assiste in misura veramente larga, capillare ed umana i nostri emigranti - e lo dico non come cattolico, ma per doverosa obiettività - è quello dei missionari e, in prima linea, dei missionari scalabriniani, sorretti da mezzi materiali modesti, ma da una forza morale immensa loro conferita dall’enciclica papale Exul Familia».

Ruoli delle MCI
Le MCI hanno svolto un ruolo rilevante e innegabile non solo nel campo dell’assistenza, spirituale e sociale, ma anche nel processo identificativo ed evolutivo dell’immigrazione italiana in Svizzera. Ora, però, il futuro è quanto mai incerto non solo perché i flussi immigratori dall’Italia sono ben diversi e alquanto ridotti rispetto a quelli dei primi decenni del dopoguerra, ma anche perché cresce pure tra gli italiani la non appartenenza ad alcuna confessione religiosa (0,4% nel 1970, 2,1% nel 1980, 4,9% nel 1990 e 5,7% nel 2000) e la pratica religiosa è alquanto ridotta.
In ambito ecclesiale si considera talvolta il ruolo svolto dalle MCI come «qualcosa di temporaneo» (etwas Vorübergehendes) e di «postmigrante» (postmigrantisch), legato alle ondate immigratorie del dopoguerra. Resta tuttavia difficile stabilire se il ruolo delle MCI sia veramente finito perché comunque c’è una popolazione italofona che è ancora fortemente legata alla liturgia e all’amministrazione dei sacramenti in lingua italiana e non si troverebbe a proprio agio in un percorso di fede con un accompagnamento in altra lingua.
Prescindendo da considerazioni di tipo prettamente organizzativo-finanziario-ecclesiale, sarebbe una perdita per la collettività di lingua italiana la chiusura delle MCI perché non appare più necessaria e urgente l’assistenza sociale ai nuovi immigrati. Le Missioni di lingua italiana potrebbero infatti continuare a offrire utilmente l’assistenza spirituale e l’attività pastorale alla collettività di lingua italiana, che ne avrebbe tra l’altro il diritto, essendo riconosciuta come tale dalla Costituzione federale. Come lo Stato rispetta l’esistenza e la dignità della lingua italiana così dovrebbe fare anche la Chiesa ufficiale.
Resta comunque scolpita nella storia dell’immigrazione italiana in Svizzera l’impronta indelebile della religiosità dei primi immigrati e del contributo generoso e disinteressato delle MCI.
Giovanni Longu
Berna, 9.10.2019