08 giugno 2011

Tra italianità e attualità italo-svizzera. Intervista al consigliere nazionale Ignazio Cassis

L’onorevole Ignazio Cassis, consigliere nazionale ticinese del Partito liberale radicale (PLR), è uno dei politici più attenti ai problemi dell’italiano e più in generale dell’italianità in Svizzera. Lo fa con passione e convinzione, anche se non si nasconde le difficoltà insite nella difesa delle minoranze, quella ticinese e quella dell’italianità della Svizzera, che intende rappresentare in ambito nazionale.
Già noto nel Ticino per essere stato medico cantonale dal 1996 al 2008, è assurto all’attenzione di tutti i media nazionali quando nel settembre del 2010 venne designato dal PLR come candidato all'elezione in Consiglio federale e dichiarò l’intenzione di voler rappresentare l’intera «italianità» della Svizzera (si veda al riguardo L’ECO del 15.09.2010)
Nei confronti dell’Italia non è sempre tenero, ma nella sua mira non ci sono tanto gli italiani quanto una parte della classe politica e soprattutto il «superministro» Tremonti per le note questioni di natura fiscale. E’ preoccupato che l’attuale crisi tra i due Paesi, che tocca particolarmente il Ticino, possa degenerare e, da buon mediatore, sollecita con insistenza il governo federale ad agire decisamente nei confronti dell’Italia per trovare urgentemente le giuste soluzioni ed evitare che il disagio ticinese possa essere cavalcato dall’estrema destra, in particolare dalla Lega dei Ticinesi, col rischio di provocare danni ancora maggiori.

Onorevole Cassis, prima di porle alcune domande desidero fare una premessa di carattere storico.
Cento anni fa si sviluppava in Ticino nei confronti della Berna federale una forte rivendicazione contro l’«intedeschimento» ma soprattutto in difesa dell’«italianità» di questo Cantone periferico. Negli anni seguenti un gruppo di donne e uomini prestigiosi, ticinesi e italiani (Teresa Bontempi, Rosetta Colombi, Giuseppe Prezzolini, Francesco Chiesa, Carlo Salvioni, Giuseppe Zoppi e altri) diedero vita a una lunga serie di prese di posizione su giornali e riviste (soprattutto l’Adula, fondata nel 1912) e in politica, che culminarono nelle «rivendicazioni ticinesi» del 1924, sostenute da tutti i partiti ticinesi. Per paura che queste rivendicazioni finissero per essere sostenute da Benito Mussolini, da poco asceso al potere in Italia, la Confederazione diede ampia soddisfazione al Ticino. Si sa che questo Cantone periferico soffre ancora di alcune criticità, soprattutto in campo economico, ma ha brillantemente superato la rivendicazione della propria italianità, anche grazie al sostegno dell’Italia. Il Ticino è addirittura uno dei Cantoni in cui l’integrazione linguistica ottiene maggiori successi.
L'on. Ignazio Cassis (d) intervistato da Giovanni Longu

Una prima domanda, on. Cassis: condivide questa rapida sintesi circa il risultato e il metodo delle «rivendicazioni» ticinesi per la difesa dell’«italianità del Ticino»?
Sì, certamente. E’ una sintesi preziosa perché ci ricorda il percorso fatto per emanciparci e consolidare la nostra identità. Con 335'000 abitanti (il 4.3 % della popolazione nazionale) il Ticino è oggi un Cantone di medie dimensioni, nel quale si vive oggettivamente bene. Io non avverto più quella paura della germanizzazione e quel complesso di superiorità verso gli italiani che ho vissuto da ragazzo negli anni’70. I matrimoni misti, l’immigrazione e l’afflusso turistico hanno creato un clima culturale aperto, anche se oggi non manca una certa preoccupazione per la propria identità e una certa sofferenza per l’importante presenza di frontalieri.

A cento anni di distanza dal movimento rivendicativo dell’italianità del Ticino, le sembra possibile e auspicabile una forte rivendicazione a livello federale dell’«italianità della Svizzera»?
Il Ticino si è affrancato in poco tempo dalla povertà. Negli anni successivi alla seconda guerra mondiale lo sviluppo economico – e in particolare quello del settore bancario – ha creato posti di lavoro, dato un buon salario a quasi tutti e permesso allo Stato di estendere la sicurezza sociale e altri servizi. Però fatichiamo tuttora ad essere un Cantone autorevole agli occhi dei Confederati. Lo sguardo che la Svizzera tedesca e francese posano sul nostro Cantone è caratterizzato dalla simpatia che si prova per i parenti poveri: esiste un diffuso e strisciante complesso di superiorità nei nostri confronti, che si manifesta pienamente quando la posta in gioco si fa seria, quando – per esempio – sono in gioco i posti di potere dell’economia o della politica svizzera.
Anche l’italianità c’entra. L’Italia, culla della lingua e delle nostre radici culturali, non gode oggi di una classe politica molto considerata. Il ticinese è, agli occhi di Otto Normalbürger, un po’ come un italiano: dunque ne condivide pregi (pochi) e difetti (tanti). Inoltre – e questa è una caratteristica tutta ticinese – noi siamo un po’ lagnosi, rivendicativi, litigiosi. Soffriamo spesso della sindrome da Calimero e verso la Svizzera siamo più inclini a chiedere che a dare. E’ una caratteristica culturale che ci accompagna dall’epoca dei baliaggi, quando eravamo poveri contadini comandati dai signori di Uri. Fatichiamo a scrollarci di dosso questo passato, malgrado l’esistenza di molti ticinesi brillanti. Insomma, è inutile nasconderlo, abbiamo i pregi e i difetti tipici delle regioni di provincia. Questi sono i nostri tratti e con questo bagaglio tentiamo di affermare la nostra presenza quale terza svizzera, quale parte costituente dell’identità nazionale.

Lei ha già dato un forte segnale con la sua candidatura dello scorso anno per un posto in Consiglio federale, quando rivendicò il diritto della «Svizzera italiana» ad essere rappresentata in Consiglio federale. Non venne eletto perché, si disse, la sua candidatura dava l’impressione di una candidatura di bandiera, una mera «rivendicazione regionale-ticinese». Continuerà a rivendicare i diritti della minoranza italofona?
Avevo affermato alla NZZ am Sonntag del 15.8.2010 che la mia era una candidatura al Servizio della terza Svizzera, della Svizzera italiana. Una Svizzera che esige di essere rappresentata nel Governo federale. Era ovviamente comodo per i confederati minimizzarla a evento folcloristico: non avevano nessuna intenzione di mollare uno dei cinque seggi occupati dagli svizzero-tedeschi. I romandi, dal canto loro, se ne sono stati passivamente a guardare: la loro dispensa era piena e la tanto declamata “solidarietà latina” è un mito da sfoderare quando fa loro comodo. Continuerò certamente a lottare perché la terza Svizzera sia riconosciuta a pieno titolo: sono persuaso che ne va dell’essenza stessa della Svizzera e della coesione nazionale.

Lei attribuì la sua non elezione alla scarsa sensibilità della Svizzera tedesca e francese nei confronti delle esigenze della Svizzera italiana. Ne è ancora convinto e, se sì, ritiene che la Svizzera italiana faccia abbastanza per raggiungere l’obiettivo, ad es. superando l’identificazione tra «Svizzera italiana = Ticino»?
Vede, potrei peccare d’immodestia attribuendo a fattori esterni la mia mancata elezione. Indubbiamente il mio personale profilo politico non è ancora da “pesi massimi” e dunque v’erano dubbi più che legittimi sulla mia capacità di assumere quella sfida. Non contavo naturalmente di essere eletto: in cuor mio sapevo di non avere ancora “i diplomi giusti”. Ma la sufficienza con cui i media svizzero-tedeschi hanno trattato la mia candidatura è indipendente dal mio peso specifico e rientra nella logica esposta sopra. Lo stesso Fulvio Pelli, quando nel 2003 era già un “peso massimo” della politica nazionale, non aveva quasi ottenuto appoggi all’elezione per la successione del Consigliere federale Kaspar Villiger. Riguardando la storia delle elezioni in Consiglio federale, ho notato che l’elezione di ticinesi è praticamente sempre stata un incidente di percorso, frutto del caso e di dissidi tra confederati. Perciò è importante riflettere oggi in modo diverso: occorre promuovere una coalizione nazionale, esterna al Cantone Ticino, che sostenga la terza Svizzera in Governo. Quando il gioco si fa duro, bisogna definire nuove strategie.

Come pensa di coinvolgere gli italofoni non ticinesi, soprattutto quelli fuori del Ticino, nella difesa e nella valorizzazione dell’«italianità» della Svizzera? E’ disposto, in collaborazione con la Deputazione ticinese alle Camere federali, ad incontrare associazioni e gruppi italofoni fuori del Ticino?
La Deputazione Ticinese alla Camere ha avviato un progetto chiamato “Rete Svizzera Italiana” grazie al quale rispondere appunto a queste domande. La necessità di una larga coalizione per entrare in Consiglio federale è chiara, ma solleva anche leciti interrogativi. Come definire la “Svizzera italiana” ? Dal profilo territoriale, linguistico o culturale? Chi sarebbe legittimato a rappresentare chi, una volta eletto? Stiamo lavorando a questo progetto e avvieremo presto azioni concrete, come per esempio l’inventario dei nomi-chiave della “Svizzera italiana” sul piano federale, in collaborazione con altre organizzazioni e con il Governo ticinese. In questo senso ben vengano contatti di vario tipo con tutte le associazioni italofone sul piano nazionale: permetterebbero di rendersi conto e di meglio conoscere questa realtà!

Pensa che per sostenere attività significative di valorizzazione dell’«italianità» si possa attingere al contributo federale a sostegno della lingua italiana?
L’entrata in vigore – lo scorso anno - della nuova legge federale sulle lingue è di grande importanza, sia sul piano simbolico che su quello giuridico e finanziario. A dipendenza delle azioni è certamente immaginabile un finanziamento attraverso questa via. Senza comunque dimenticare che i fondi disponibili sono piuttosto scarsi.

Lei si è battuto in più occasioni per la promozione del plurilinguismo e in particolare dell’italiano nell’amministrazione federale. Dall’introduzione della legge e dell’ordinanza sulle lingue le risultano progressi significativi? Ritiene raggiungibile, soprattutto nelle funzioni quadro l’obiettivo fissato nell’ordinanza del 7% di italofoni?
La nuova legge è troppo giovane per misurarne già gli effetti sul personale. Però ha messo in moto una riorganizzazione sistematica nella gestione del personale che permetterà – ne sono persuaso – di migliorare la convivenza della terza lingua ufficiale con il francese e il tedesco. In risposta alla mia interrogazione 11.3080 (Italianità nell’amministrazione federale) del 9 marzo 2011 il Consiglio federale ha evidenziato come – cifre alla mano – l’italiano nell’amministrazione federale fuori dal Ticino sia molto insufficiente, proprio nelle funzioni dirigenti. Penso che si possa e si debba fare meglio!

Da alcuni mesi, soprattutto in occasione della recente campagna elettorale ticinese, i partiti di destra ticinesi hanno usato toni molto aggressivi nei confronti dei frontalieri italiani (e del governo italiano) e hanno chiesto di rinegoziare immediatamente l’accordo italo-svizzero del 1974 sui frontalieri. Recentemente, rispondendo ad un’interrogazione parlamentare, il governo italiano ha confermato che «il governo federale non ha per il momento intenzione di modificarlo». Perché, dunque continuare, almeno in Ticino, con questa polemica che serve solo ad allontanare la collaborazione?
Questo è un tema complesso, che mescola aspetti economici, politici, giuridici e strategici. Oggi tra Svizzera e Italia c’è crisi. Le ragioni di questa crisi sono essenzialmente di natura finanziaria: l’Italia rimprovera alla Svizzera di nascondere i suoi evasori fiscali, la Svizzera rimprovera all’Italia di non voler nemmeno negoziare una soluzione. I toni della contesa sono esplosi dopo le ennesime dichiarazioni offensive del “superministro” Giulio Tremonti. Ormai non c’è più dialogo, ma solo provocazione. Mentre il Governo Berlusconi tace, il Ministro Tremonti persevera. Purtroppo tace anche il Governo Svizzero, ciò che manda su tutte le furie i Ticinesi, che s’improvvisano quindi giustizieri, con molti effetti collaterali indesiderati. In questo contesto mantenere il sangue freddo è primordiale.
L’accordo sulla doppia imposizione del 1974, la cui appendice regola il versamento ai Comuni limitrofi italiani del 40% ca. delle imposte alla fonte prelevate sui frontalieri (50 Mio Fr.- / anno), va rinegoziato, ma il Governo italiano non vuol sedere al tavolo delle trattative. Tremonti si oppone, perché vorrebbe che la Svizzera elimini il segreto bancario, ciò che tuttavia la Svizzera non è disposta a fare. Ma esistono anche altre soluzioni che possono essere analizzate, basterebbe parlarsi e non spararsi addosso. Lo capirà anche Giulio Tremonti prima o poi.

Per concludere, una domanda sui rapporti italo-svizzeri in generale. Non pensa che si debba superare la situazione di stallo attuale valorizzando maggiormente ciò che unisce e soprattutto la collaborazione sempre più intensa in campo economico, culturale, scientifico, artistico e non da ultimo linguistico?
Tradizionalmente i rapporti tra la Svizzera e l’Italia sono caratterizzati da un grande spirito di collaborazione. Per questo essi sono ancora intensi in tutti i campi e sicuramente possono ancora migliorare. In questo momento è tuttavia urgente e prioritario trovare soluzioni eque ai problemi fiscali. La volontà comune di risolvere i problemi sul tappeto attraverso contatti diretti, emersa nel recente incontro a Roma tra la Presidente della Confederazione Micheline Calmy-Rey e il Presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi, dev’essere confermata con la ripresa al più presto di un dialogo costruttivo. Se invece, malauguratamente, il clima generale dovesse deteriorarsi ulteriormente, esso finirà per incidere negativamente anche su altri campi. E non è davvero ciò che mi auguro.

Grazie on. Cassis e buon lavoro!
Grazie a Lei per l’intervista.



Nell’incontro a Roma il 1° giugno scorso tra la Presidente della Confederazione Micheline Calmy-Rey e il Presidente del Consiglio italiano Silvio Berlusconi è stata affermata la volontà comune di avviare al più presto la discussione per trovare una soluzione costruttiva sulle questioni fiscali, che rischiano di mettere in crisi le relazioni tradizionalmente buone e intense tra la Svizzera e l’Italia.

25 maggio 2011

Tripoli italiana in Svizzera e la cucina mediterranea

Tripoli è oggi una città ferita, bombardata. La guerra imperversa producendo distruzioni e vittime. Le bombe cosiddette «intelligenti» dovrebbero colpire esclusivamente installazioni militari, in realtà colpiscono anche edifici civili. I morti, militari e civili, non si contano più. Ormai si tiene la contabilità solo delle «operazioni» e degli ordigni sganciati dall’alto o di lontano; quella dei morti non la tiene più nessuno. A questo punto farebbe sensazione solo la morte del dittatore Gheddafi, quella delle migliaia di libici uccisi è ormai scomparsa dalla cronaca quotidiana. E’ sempre la solita storia, perché anche questa, come tutte, è una sporca guerra.
Anche cent’anni fa Tripoli era una città bombardata, dal mare, dagli italiani alla ricerca di un territorio dove poter emigrare senza subire angherie e umiliazioni da parte dei datori di lavoro stranieri e discriminazioni dalla società «ospitante» . Le buone intenzioni avevano allora il pieno sostegno anche degli emigrati italiani in Svizzera. Tripoli divenne un simbolo.

Tripoli presso Grenchen
Nel 1911 lavoravano in Svizzera oltre duecentomila italiani, molti addetti al completamento della fitta rete ferroviaria. I grandi trafori alpini erano già terminati o stavano per terminare, ma mancavano ancora alcuni trafori importanti a nord delle Alpi e gli italiani erano necessari.
Al termine dello scavo del Tunnel I del Sempione (il tunnel II verrà iniziato nel 1912) e della galleria del Lötschberg, un migliaio di lavoratori italiani si trasferì (1911) a Grenchen per lo scavo del tunnel Grenchen-Moutier, ma nel Comune non c’erano alloggi per tutti. Si venne così a creare un insediamento di baracche nei pressi del cantiere al quale occorreva dare un nome. Ma quale? In Italia era appena scoppiata l’euforia per la conquista di Tripoli (ottobre 1911) e la ventata di orgoglio nazionale aveva raggiunto anche gli emigrati in Svizzera. Quell’agglomerato di baracche doveva chiamarsi Tripoli (per gli svizzeri: Tripolis).
Ben presto la baraccopoli divenne un luogo di attrazione, visitata dagli abitanti della cittadina, la prima volta come se andassero a visitare un giardino zoologico, poi sempre più attratti dall’atmosfera allegra che vi regnava e soprattutto dalla cucina italiana. A Tripoli, si racconta, c’erano una ventina tra ristoranti e mense. Oltre alle baracche-dormitori e ai ristoranti c’erano anche vari negozi che vendevano prodotti italiani, un ospedale, una scuola, un asilo nido e la Missione cattolica dei Bonomelliani e alcune suore della Congregazione San Giuseppe di Cuneo venuti da Goppenstein al termine della galleria del Lötschberg.

Tripoli presso Olten
La seconda Tripoli italiana in Svizzera sorse nel 1912 presso Olten e accolse un numero ancora maggiore di lavoratori italiani, alcuni persino con famiglia al seguito. Anche questa seconda Tripoli, in tutto simile a quella di Grenchen, divenne un’attrazione per molti svizzeri che soprattutto la domenica andavano alla scoperta di questo strano villaggio italiano, in cui gli sporchi lavoratori della settimana indossavano il vestito buono, mangiavano cibi appetitosi, bevevano vino e poi ballavano e cantavano accompagnati dal suono della chitarra. La curiosità li spingeva anche a provare i cibi degli italiani e dovettero sentirsi presi per la gola se finirono per essere anch’essi grandi frequentatori di quei locali e consumatori di paste, salumi, ortaggi e vini italiani. Sembra anche che fossero attratti non solo dalla buona cucina e dal buon vino, ma anche dagli occhi scuri delle inservienti. Forse attorno a un tavolo e sorseggiando un buon bicchiere di vino rosso avvennero i primi contatti non conflittuali tra svizzeri e italiani. Le risse, le incomprensioni e le diffidenze erano infatti sempre all’ordine del giorno.
Nella Tripoli di Trimbach c’era persino un cinema, una novità anche per gli svizzeri perché nella regione non era ancora arrivato. E siccome gli italiani erano molti, circa duemila, e i risparmi erano tanti, fu necessario anche installarvi un vero e proprio ufficio postale con tanto di timbro «Tripolis bei Olten».

Alle origini della cucina mediterranea
Gli italiani in Svizzera erano spesso chiamati, dalla fine dell’Ottocento, Polentafresser, Spaghettifresser, oltre che Cinkali. In realtà gli immigrati italiani per lungo tempo hanno mangiato poco e male, soprattutto durante la settimana, ed è vero che i loro cibi abituali sono stati per molto tempo polenta e spaghetti. Col tempo però hanno diversificato i prodotti e migliorato le loro abitudini alimentari consumando oltre alla polenta e svariati tipi di pasta anche formaggi a pasta dura (ad esempio parmigiano) e gorgonzola, salami, mortadelle, cotechini, tonno, merluzzo e sardine, fagioli borlotti, il tutto condito con buoni vini.
Già all’inizio del secolo scorso la cucina degli italiani era assai ricca e varia, grazie alla diversa provenienza degli immigrati. Spesso i prodotti venivano acquistati nei sempre più numerosi negozi italiani, che si approvvigionavano direttamente in Italia. Tra i piatti più diffusi, soprattutto nei giorni di festa, predominavano ancora sicuramente le varietà di paste, dagli spaghetti alle lasagne, cucinate in molti modi secondo l’origine degli immigrati; ma si arricchivano sempre più di piatti di carne (bollito misto, ossobuco, costine, fegato, coniglio arrosto, piccata milanese, ecc.) accompagnati da una grande varietà di formaggi (dalla gorgonzola alla mozzarella) e una grande ricchezza di ortaggi.

Abitudini alimentari degli immigrati
La continuità della forte presenza di italiani in Svizzera ha contribuito indubbiamente a diffondere certi consumi alimentari tipicamente italiani, a cominciare dalla pasta: gli svizzeri sono tra i più grandi consumatori di pasta al mondo. Gran parte della pasta consumata in Svizzera proviene dall’Italia. Insieme alla pasta va ricordata la pizza, diffusa ormai in ogni angolo della Svizzera. E quando si parla di pizza non si può non accennare alla mozzarella, il formaggio più amato dagli svizzeri che ne consumo a persona, sembra, più del formaggio da raclette, più dello stesso Greyerzer e molto più del formaggio più famoso della Svizzera ossia l’Emmentaler.
Oltre alla pasta, anzi alle paste di grano duro, gli immigrati italiani hanno contribuito a diffondere tra la popolazione numerosi ortaggi oggi frequenti sui banchi della Migros e della Coop e persino nei mercatini di quartiere, ma rarissimi fino agli anni Sessanta, quando nel reparto verdure non si trovavano che patate, carote, rape e cavoli. Ora le melanzane, i peperoni, i pomodori, le zucchine, i finocchi, i carciofi, i cavolfiori, i fagiolini, i broccoli, i meloni, le angurie non hanno nulla di esotico. Le melanzane, come i pomodori, sono oggi molto coltivati anche in Ticino, ma a diffonderli sono stati soprattutto gli italiani d’oltralpe.

Sapori d’Italia
La cucina mediterranea oggi è diffusa in ogni angolo del Paese come la pizza, la pasta, la mozzarella, l’olio d’oliva, l’aceto balsamico e persino il pesto ligure, ecc. I grandi distributori, i più frequentati anche dagli immigrati, quali Migros e Coop, hanno contribuito a diffondere tra gli svizzeri i «sapori d’Italia» basati su un’infinità di prodotti e di specialità. E non c’è casa svizzera che non conosca e magari sappia anche cucinare la pizza, un piatto di spaghetti «al dente», un piatto di lasagne alla bolognese, una parmigiana di melanzane, ecc.
Si potrà dire che l’intraprendenza dei commercianti oggi non conosce confini e i mercati di approvvigionamento dei prodotti più richiesti dai consumatori possono essere sia vicini che lontanissimi. In Svizzera, tuttavia, non si può dimenticare che i primi ad introdurre la «cucina mediterranea» tanto rinomata sono stati gli immigrati italiani. Un po’ per diffidenza e un po’ per una forma di risparmio, ma soprattutto per una questione di gusto, i lavoratori italiani, addetti generalmente a lavori pesanti e faticosi amavano nutrirsi fin dal secolo scorso con prodotti fatti arrivare appositamente dall’Italia, anzi dalle loro regioni d’origine. Avevano bisogno di sostanze nutrienti, ma anche di soddisfare il palato. E dove trovarle meglio che nella cucina tradizionale italiana, ricca ma non pesante, gustosa e sostanziosa? Il tutto, naturalmente, sempre accompagnato da almeno un buon bicchiere di vino.
Le famose e ormai folcloristiche valige di cartone che per non scoppiare erano tenute da grossi spaghi non contenevano solo effetti personali e tanti sogni, ma anche vettovaglie di ogni genere. Roba buona e gustosa come il provolone piccante, il pecorino sardo, la salsiccia calabrese, il salame nostrano, la mortadella ecc. ecc. Sapori d’Italia che hanno contribuito a cambiare la Svizzera!

Giovanni Longu
Berna 25.5.2011

18 maggio 2011

Max Frisch e i Fremdarbeiter italiani

Ricordando Max Frisch nel centenario della sua nascita e vent’anni dopo la sua morte non si può non sottolineare il suo forte legame con l’Italia e con gli italiani emigrati in Svizzera. Si dirà forse che si tratta di un aspetto marginale della complessa biografia di uno dei massimi scrittori svizzeri del XX secolo, eppure rappresenta nella storiografia dell’emigrazione italiana in Svizzera un elemento centrale. Basterebbe ricordare che una delle sue frasi più celebri si ritrova praticamente in ogni saggio sulle condizioni dei lavoratori italiani immigrati in Svizzera negli anni Sessanta e Settanta: «abbiamo chiamato braccia e sono venuti uomini».
La frase citata sintetizza bene, nella prima parte, la politica migratoria svizzera di quegli anni fondata sulla rotazione della forza lavoro e, nella seconda parte, la drammaticità di un popolo, quello degli immigrati, senza una vera identità e senza il pieno riconoscimento da parte del popolo indigeno. Li si continuerà a chiamare a lungo «lavoratori stranieri» o anche «lavoratori ospiti», in Svizzera solo di passaggio, provvisori e distinti, spesso separati, dai lavoratori indigeni.

Max Frisch era nato il 15 maggio 1911 a Zurigo, già allora la capitale economica della Svizzera. Figlio di un architetto, studiò dapprima germanistica all’università di Zurigo e successivamente, dopo un intermezzo come corrispondente per il giornale Neue Zürcher Zeitung, architettura. La sua vera passione fu tuttavia la letteratura e la scrittura.
Vivendo e studiando a Zurigo non poteva sfuggirgli la presenza di moltissimi italiani in quella città, soprattutto alla stazione, ma probabilmente non aveva avuto modo di osservarli da vicino e soprattutto di frequentarli. Così che, ha raccontato Dario Robbiani in un suo libro, la prima volta che Frisch entrò al Cooperativo della Militärstrasse, il famoso ristorante degli antifascisti italiani, fu sorpreso nel vedere a tavola tanti italiani ben vestiti. Secondo lui «non potevano essere operai italiani, poiché non portavano né canotta né salopette». Nessuno gli aveva detto che anche gli operai italiani, quando pranzano in trattoria si mettono l’abito buono.

Soggiorno romano
Non so se l’episodio raccontato da Robbiani sia stato per Frisch una sorta di folgorazione come per San Paolo sulla via di Damasco, ma è certo che negli anni Cinquanta comincia a interessarsi da vicino alla questione degli italiani e alla politica migratoria svizzera, che non condivide. Per allontanarsi da questa realtà e cercare nuove ispirazioni, nel 1960 decide di trasferirsi per qualche tempo a Roma. Vive dapprima in un grandioso appartamento ai Parioli insieme all’amica scrittrice e poetessa austriaca Ingeborg Bachmann, con cui impara a conoscere la città e un gran numero di artisti, fotografi, giornalisti che lo intervistano e lo presentano al pubblico come il grande scrittore-architetto svizzero, già famoso per alcune sue opere, soprattutto Homo Faber.
A Roma si trova subito a suo agio. Un anno dopo il suo arrivo può scrivere ad un suo amico di conoscere la città quasi come un tassista e di conoscere anche un numero di trattorie sufficiente per una settimana. «Vivo nella città più bella del mondo», dichiara in un’intervista a un giornalista della televisione. La relazione con la Bachmann non dura a lungo. Una volta separati, Frisch va ad abitare con una giovane studentessa, Marianne Oellers, che diverrà in seguito sua moglie, nel cuore della città, nell’esclusiva via Margutta, luogo di ristoranti alla moda e residenza di personaggi famosi dell’arte e dello spettacolo.
Frisch rimane a Roma cinque anni, durante i quali dà alla luce uno dei suoi libri più famosi, Il mio nome sia Gantenbein. Poi la vita romana finisce per stancarlo e decide di rientrare in Svizzera. Del soggiorno romano trarrà qualche anno dopo un bilancio positivo: «sono stati cinque anni interessantissimi». Quanti bastavano per farlo innamorare non solo delle bellezze di Roma, ma in generale della cultura italiana e degli italiani.

La questione dell’«inforestierimento»
Al suo ritorno in Svizzera nel 1965, nonostante avesse di proposito rinunciato a ritornare nella sua Zurigo e avesse preferito un ambiente più tranquillo nel Ticino, ripiomba per così dire nella problematica migratoria che aveva accantonato prima di trasferirsi in Italia e che nel frattempo si era aggravata a causa dei movimenti xenofobi che andavano sempre più estendendosi nella Svizzera tedesca. Su invito dell’amico cineasta Alexander Seiler, autore del libro e del film «Siamo italiani», scrive la vibrante introduzione al libro in cui è contenuta la celebre frase riportata sopra. Dirà al riguardo Frisch: «Quello che Seiler ha scritto, i dati che ha raccolto, mi avevano commosso moltissimo perché amo gli italiani, amo questo popolo e così mi sono ritrovato “in clinch”, di nuovo “contro” questa Svizzera».
Max Frisch sentiva come un enorme peso sullo stomaco il continuo insistere da parte della destra nazionalista sul pericolo dell’«inforestierimento», della Überfremdung e cerca di liberarsene. Lo fa a modo suo, con una denuncia chiara e decisa senza mezzi termini della politica degli stranieri fatta dalle autorità e dell’ingiusto trattamento dei lavoratori italiani da parte degli svizzeri. Lo fa soprattutto con l’autorevolezza che gli danno la sua fama e la sua indipendenza da qualsiasi schieramento partitico. Certamente, ammette Frisch, gli svizzeri hanno una propria identità, diversa da quella degli stranieri e degli italiani in particolare. Ma in questa diversità non vede alcuno scandalo. Perché dunque prendersela con loro? «Non si può prendersela con loro per questo».
Frisch non comprende la paura irrazionale degli stranieri, soprattutto degli italiani, tanto più che sono stati chiamati e sono necessari all’economia, non hanno alcun peso politico e sono senza voce ovunque si prende una decisione. Eppure, scrive Frisch nel 1965, «un piccolo popolo dominatore si vede in pericolo: sono state chiamate forze di lavoro e arrivano persone. Non divorano l’intero benessere, anzi sono indispensabili al benessere».

Gastarbeiter o Fremdarbeiter?
Intanto, si chiede Frisch, dobbiamo chiamarli lavoratori ospiti (Gastarbeiter), come si sente dire spesso, o lavoratori stranieri (Fremdarbeiter)? «Io opto per i secondi: non sono ospiti che serviamo per trarne un guadagno; lavorano – all’estero – perché non riescono a fare fortuna nel loro Paese». E poi approfondisce la questione dell’identità degli svizzeri e della presunta minaccia da parte degli stranieri. Ma parlano un’altra lingua! «Non si può prendersela con loro per questo, tanto più che la loro lingua è una delle quattro lingue nazionali». Ma si lamentano per gli alloggi non dignitosi! «Se il piccolo popolo dominatore non fosse famoso per la sua umanità, tolleranza eccetera, la relazione con le forze di lavoro straniere sarebbe più semplice; si potrebbe alloggiarli in normali accampamenti, dove potrebbero anche cantare e non inforestierirebbero le strade. Ma non è possibile; non sono dei prigionieri, non sono neanche dei rifugiati». Ma ormai sono dappertutto: entrano nei negozi e comprano e se subiscono un infortunio sul lavoro o si ammalano ce li ritroviamo anche negli ospedali! E per questo bisogna prendersela con loro? Risparmiano, si dice, e spediscono a casa un miliardo all’anno! «In realtà non si può prendersela con loro per questo».
Per aiutare i lettori a capire il suo ragionamento, Frisch domanda, se gli svizzeri trovano inquietante che ci siano alla frontiera così tanti italiani che aspettano di entrare, non sarebbe altrettanto inquietante se l’Italia chiudesse le frontiere all’improvviso? Certamente, così tanti italiani in Svizzera sono un problema e bisogna capire il popolo svizzero. D’altra parte, «lavorano bene, sembra, sono addirittura abili» e non si può fare a meno di loro, tranne che per «qualche testa calda che non capisce niente di economia».
Quanto al loro numero, dice Frisch con una punta d’ironia, «sono semplicemente troppi, non sul cantiere né in fabbrica né nella stalla né in cucina, ma dopo il lavoro, soprattutto la domenica, di colpo sono troppi. Balzano all’occhio. Sono diversi. Guardano le ragazze e le signore, a meno che non abbiano potuto portare le loro all’estero». E con questo minacciano la natura del piccolo popolo dominatore?

Odio e pregiudizi
Nell’atteggiamento antistraniero e antitaliano Frisch vede soprattutto molti pregiudizi ma anche un certo odio verso lo straniero: «L’odio verso lo straniero è un fenomeno naturale. Esso nasce fra l’altro dalla paura che altri possano essere più abili in questo o quel campo, in ogni modo il loro impegno è diverso, diverso per esempio nell’assaporare la vita, nell’essere felici. Ciò suscita invidia, anche se ci si trova in una posizione privilegiata, e l’invidia sfocia in atti di disprezzo. Gli svizzeri sono bravi, ma ora scoprono che anche atri lo sono: e senza quel senso di malumore che al nord delle Alpi siamo abituati a considerare la premessa o addirittura la prova medesima della capacità…» (cit. in Fiorenza Venturini: Nudi col passaporto, del 1969).
Nella Premessa dell’opera della Venturini, l’autrice cita una frase di Frisch nei suoi confronti: «Avrei tanto voluto scrivere io stesso un romanzo sull’emigrazione italiana in Svizzera. Ma non mi è stato possibile farlo, perché non riesco ad addentrarmi abbastanza nell’anima della Sua gente. Sono felice che lo faccia Lei per me».
Ritengo che anche senza un libro specifico Max Frisch abbia dato prova in molteplici occasioni non solo di comprendere la problematica degli immigrati italiani in Svizzera negli anni Sessanta e Settanta, ma anche di voler contribuire a favorire un clima favorevole al dialogo e alla reciproca comprensione tra svizzeri e stranieri. Anche per questo, credo, va ricordato.

Giovanni Longu
Berna 18.5.2011

11 maggio 2011

Italia-Libia: ritorno alle origini… pericolose!

Quasi a cento anni di distanza, l’Italia è nuovamente in conflitto con la Libia o meglio col regime libico di Gheddafi. Le motivazioni, le modalità e il contesto internazionale sono completamente diversi. Eppure fa impressione che l’Italia si ritrovi in guerra (anche se a molti benpensanti questo termine può apparire inadeguato) proprio con la Libia, contro la quale sperimentò, fra l’altro, forse per la prima volta nella storia, un rudimentale bombardamento aereo (lancio di alcune granate a mano!), ma con la quale ha avuto anche periodi di pace e di amicizia. Mentre ci si chiede perplessi quando e come andrà a finire questa guerra, può essere interessante rievocare le motivazioni di quella prima inutile e dannosa guerra di un’Italia in cerca di visibilità e incapace di risolvere il problema «vergognoso» dell’emigrazione.

Le ambizioni italiane sulla Libia
Va ricordato innanzitutto che fino al 1890 (conquista dell’Eritrea) l’Italia non possedeva colonie, perché a differenza di altri Paesi colonizzatori aveva ben altri problemi a cui pensare, il sottosviluppo, il ritardo industriale e non da ultimo la persistente emigrazione. La suggestione dell’espansione territoriale era tuttavia da tempo presente soprattutto nei governi Crispi e Giolitti. Con quest’ultimo, ragioni impellenti di prestigio internazionale sembravano spingere verso l’occupazione di quel poco che non era stato ancora conquistato dai grandi Stati europei, Belgio e Olanda compresi, dagli Stati Uniti e dalla Russia.
La vicina Libia, ritenuta ricca di materie prime e dove l’Italia aveva già importanti interessi finanziari e commerciali, sembrava il territorio ideale per la nuova colonia italiana. Per coinvolgere maggiormente il Re, i politici e l’opinione pubblica, il quarto Governo Giolitti mescolò abilmente ragioni di politica internazionale e di politica interna, facendo leva soprattutto sulla necessità per l’Italia di trovare sbocchi convenienti all’inarrestabile flusso migratorio. La propaganda riuscì, tanto è vero che non solo nazionalisti ma anche gran parte della stampa e dell’opinione pubblica erano favorevoli alla conquista libica.
Le ragioni che spingevano in quella direzione mi sembrano ben sintetizzate in un articolo del 13 settembre 1911, pochi giorni prima dell’invasione della Libia, pubblicato sul quotidiano ticinese «Corriere del Ticino». In esso si sosteneva fra l’altro che «l’Italia non può esimersi dal fare della politica coloniale; il suo rapido sviluppo le impone un movimento di espansione; le impone di cercarsi altre terre da colonizzare; d’altra parte è ormai tempo che l’Italia sfrutti a proprio vantaggio il fenomeno dell’emigrazione, dirigendo le correnti emigratorie su proprie terre, tenendosi in casa tutti i valori di produttività che ora si disperdono per vari Stati. Disgraziatamente, l'Italia è giunta un po' tardi ed ha trovato tutti i posti già occupati; uno solo restava libero: la Tripolitania; se l'Italia si lascia sfuggire anche quello, può mettere la pietra sepolcrale sulla sua politica coloniale».
Per non perdere ulteriore tempo, dopo una serie di incidenti abilmente provocati dagli italiani, il 29 settembre 1911 l’Italia dichiarò guerra alla Turchia a cui apparteneva allora la Libia. In pochi giorni l’esercito italiano riuscì ad occupare Tripoli, capitale della Tripolitania, e Bengasi, capitale della Cirenaica, ma non il resto del Paese. La definitiva occupazione dell’intero territorio si rivelò più difficile del previsto e costò decine di migliaia di morti, soprattutto libici, ma anche italiani.

La questione migratoria
L’Italia fu indotta all’avventura coloniale in Libia, secondo la propaganda ufficiale, non tanto per ragioni di prestigio internazionale quanto piuttosto per una questione di politica interna, quella di indirizzare l’inarrestabile flusso migratorio verso terre in qualche modo «italiane» piuttosto che svendere il lavoro italiano ad altri Paesi beneficiari.
Com’è noto, all’indomani dell’unificazione dell’Italia si era avviato soprattutto dal Sud quel fenomeno migratorio che è durato per oltre cento anni e che ha spopolato e impoverito intere regioni. Inizialmente il governo aveva cercato di contrastare il flusso crescente di emigrati, ma non riuscì a impedirlo, nonostante le notizie sulle tristi condizioni degli italiani in America e in Europa. Si sapeva ch’essi erano disprezzati e discriminati un po’ ovunque, negli Stati Uniti, in Francia, in Svizzera e spesso persino aggrediti fisicamente. Lo raccontavano i dispacci delle rappresentanze italiane all’estero, i resoconti dei missionari bonomelliani e scalabriniani e delle suore di Francesca Cabrini. Erano soprattutto gli stessi emigrati che ritornavano a casa a raccontare le penose condizioni di vita e di lavoro all’estero. Quanto bastava per spingere i nazionalisti, ma anche molti cattolici, liberali e persino socialisti, a rivendicare la fine di tale vergogna e una politica di conquista coloniale per dare nuovi sbocchi all’inarrestabile emigrazione delle masse contadine del Sud.

L’esaltazione del Pascoli per la «grande Proletaria» conquistatrice
Uno dei maggiori sostenitori di questa politica coloniale italiana è stato Giovanni Pascoli, che oltre che poeta era anche un fervido socialista, sensibile ai problemi dell’emigrazione. E’ rimasto celebre un suo discorso tenuto il 26 novembre 1911, in cui riconosceva all’Italia di aver finalmente assolto al suo dovere «di contribuire per la sua parte all'umanamento e incivilimento dei popoli; al suo diritto di non essere soffocata e bloccata nei suoi mari; al suo materno ufficio di provvedere ai suoi figli volenterosi quel che sol vogliono, lavoro (…)».

Giovanni Pascoli
Al Pascoli più che la vocazione civilizzatrice dell’Italia interessava l’avvio della soluzione del problema migratorio: «La grande Proletaria si è mossa. Prima ella mandava altrove i suoi lavoratori che in Patria erano troppi e dovevano lavorare per troppo poco. Li mandava oltre alpi e oltre mare a tagliare istmi, a forare monti, ad alzar terrapieni, a gettar moli, a scavar carbone, a scentar [radere] selve, a dissodare campi, a iniziare colture, a erigere edifizi, ad animare officine, a raccoglier sale, a scalpellar pietre; a fare tutto ciò che è più difficile' e faticoso, e tutto ciò che è più umile e perciò più difficile ancora: ad aprire vie nell'inaccessibile, a costruire città dove era la selva vergine, a piantar pometi, agrumeti, vigneti dove era il deserto; e a pulire scarpe al canto della strada. Il mondo li aveva presi a opra [a basso costo] i lavoratori d'Italia; e più ne aveva bisogno, meno mostrava di averne, e li pagava poco e li trattava male e li stranomava [li chiamava con nomignoli spregiativi]. Diceva: Carcamanos! Gringos! Cincali! Degos!
Erano diventati un po' come i negri, in America, questi connazionali di colui che la scoprì; e come i negri', ogni tanto erano messi fuori della legge e della umanità, e si linciavano. Lontani o vicini alla loro Patria, alla Patria loro nobilissima su tutte le altre, che aveva dato i più potenti conquistatori, i più sapienti civilizzatori, i più profondi pensatori, i più ispirati poeti, i più meravigliosi artisti, i più benefici indagatori, scopritori, inventori, del mondo, lontani o vicini che fossero, queste opre erano costrette a mutar patria, a rinnegare la nazione', a non essere più d'Italia. Era una vergogna e un rischio farsi sentire a dir Sì, come Dante, a dir Terra, come Colombo, a dir Avanti!, come Garibaldi.
Si diceva: Dante? Ma voi siete un popolo d'analfabeti! Colombo? Ma la vostra è l'onorata società` della camorra e della mano nera! Garibaldi? Ma il vostro esercito s'è fatto vincere e annientare da Africani scalzi! Viva Menelik!».

Sentimento molto diffuso
Questa era non solo l’opinione di Pascoli, ma un sentimento molto diffuso, abilmente alimentato dalla propaganda del governo. Esso ispirò la canzone «Tripoli bel suol d’amore… Tripoli terra incantata» e fece dire al Pascoli che finalmente «la grande Proletaria» aveva trovato agli italiani bisognosi un luogo dove avrebbero potuto lavorare come a casa propria: «una vasta regione bagnata dal nostro mare (…), che già per opera dei nostri progenitori fu abbondevole d'acque e di messi, e verdeggiante d'alberi e giardini (…)». Là i lavoratori non sarebbero stati sfruttati e mal pagati, ma «agricoltori sul suo, sul terreno della Patria (…) e non saranno rifiutati, come merce avariata, al primo approdo; e non saranno espulsi, come masnadieri, alla prima loro protesta; e non saranno, al primo fallo d'un di loro, braccheggiati inseguiti accoppati tutti, come bestie feroci».
Oggi, un secolo dopo, è troppo facile considerare l’esaltazione pascoliana della conquista libica come esagerata, al limite della glorificazione della guerra giusta, quasi come un’opera civilizzatrice. Eppure, in quel momento, sembrava rappresentare una soluzione giusta e persino doverosa dell’Italia quale «nazione proletaria» nei confronti dei suoi figli erranti per il mondo. Con la conquista libica, riteneva il Pascoli e con lui sicuramente molti altri, l’Italia avrebbe finalmente potuto offrire ai suoi figli volenterosi «quel che sol vogliono, lavoro».
In realtà le possibilità di lavoro offerte dalla Libia, da molti considerata niente più che un grande «scatolone di sabbia», erano scarse e ben presto la conquista della Libia si rivelò un fallimento. Il problema dell’emigrazione non fu risolto. Fu solo rallentato dall’avvento del Fascismo un decennio più tardi, per riprendere più vigoroso che mai subito dopo la seconda guerra mondiale. Solo negli anni Sessanta in Italia si cominciò a capire che la migliore soluzione del problema emigratorio è una efficace politica interna di sviluppo.

Giovanni Longu
Berna 11.05.11

Riuscitissimo concerto a Lucerna per il 150° dell’Unità d’Italia

Si è tenuto il 6 maggio scorso al Centro Culturale e Congressi di Lucerna, uno dei templi della musica più rinomati della Svizzera e d’Europa, un concerto straordinario per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Sotto la direzione del Maestro Emiliano Esposito, il famoso Coro dell’Opera di Parma, composto di circa 50 coristi, ha eseguito per la delizia del pubblico svizzero e italiano che gremiva la grande sala del Centro di Lucerna le più famose arie di Rossini, Bellini, Mascagni e soprattutto Verdi.

Tra i brani verdiani più famosi e sicuramente più apprezzati dal pubblico, come non ricordare «O Signore dal tetto natio» (I Lombardi), «Va pensiero» (Nabucco), «Libiam ne’ lieti calici» (Traviata). Molto gradite e giustamente applaudite anche le esecuzioni di alcuni celebri brani non verdiani quali «Casta Diva» dalla Norma di Bellini, «Regina Coeli» dalla Cavalleria Rusticana di Mascagni, «Dal tuo stellato soglio» dal Mosè di Rossini, nei quali si sono brillantemente espressi oltre alla bravura del Coro anche il talento dei tre solisti, la soprano Paola Sanguinetti, il tenore Luciano Ganci e il basso Luca Gallo, e del pianista Milo Martani. Ha concluso il riuscitissimo concerto, e non poteva essere diversamente, il canto davvero corale, perché ha coinvolto anche il pubblico, dell’Inno di Mameli «Fratelli d’Italia».

La straordinarietà di questa manifestazione , risiede, mi sembra, non solo nell’esibizione del prestigioso Coro dell’Opera di Parma che ha allietato il numeroso pubblico presente in sala, ma anche nella scelta e nell’organizzazione di un evento di così alto livello da parte del Comites di Lucerna. Avvalendosi del sostegno delle autorità italiane e di alcuni sponsor privati, esso ha saputo offrire un contributo di eccellenza alle celebrazioni per il 150° dell’Unità d’Italia in Svizzera, dove risiede oltre mezzo milione di italiani e dove l’opera lirica italiana è molto apprezzata. Esempio da imitare di quanto sa fare e può fare la collettività italiana unita e organizzata.

Giovanni Longu
Berna, 6.5.2011

03 maggio 2011

Beato Giovanni Paolo II: esempio di fede e di testimonianza cristiana

Papa Giovanni Paolo II, ora Beato Giovanni Paolo II, è stato celebrato domenica scorsa e in queste ultime settimane non solo come un grande Pontefice, ma anche come una delle maggiori personalità del nostro tempo. La sua figura è stata studiata nelle sue molteplici dimensioni, come uomo di Chiesa e come uomo di Stato, come filosofo, poeta, teologo, instancabile predicatore e naturalmente papa. Sicuramente non è stato ancora detto tutto. In effetti, la figura umana, morale e spirituale di papa Wojtyla lascia intravedere una grandezza e una profondità che non sono facilmente decifrabili e definibili.

Persino la categoria del santo, almeno nell’idea popolare della santità («Santo subito!»), non è sufficiente a far comprendere la grandezza di quest’uomo che è stato per 27 anni «Vicario di Cristo». Con la sua canonizzazione, domenica scorsa, la Chiesa ha voluto attestare che Giovanni Paolo II ha esercitato nella sua vita le virtù cristiane in una misura straordinaria, ma senza precisarla. Per il Popolo di Dio è sicuramente sufficiente sapere che la santità di Giovanni Paolo II sta nell’aver cercato in tutta la sua vita di conformare i suoi pensieri, i suoi sentimenti, le sue azioni alle esigenze che secondo lui comportava la missione di cristiano, di sacerdote, di vescovo e di papa, ossia Vicario di Cristo assegnatagli dal Padre Eterno.

Grandezza di un santo
Molti commentatori, in questi giorni, hanno sottolineato la portata del pontificato di Giovanni Paolo II in campo non solo ecclesiale, ma anche politico mondiale. Si è messo in luce, ad esempio, il ruolo eccezionale del papa polacco nella caduta del Muro di Berlino e nello sconquasso dell’impero sovietico. Si è evidenziata la sua capacità straordinaria di entrare in sintonia con le masse e in particolare con i giovani. E’ stata giustamente ricordata la sua volontà di dialogo con le altre religioni nel tentativo di superare pregiudizi e steccati. E’ stato ricordato il suo lungo pellegrinaggio nel mondo per predicare il Vangelo e confermare nella fede i cristiani in tutte le parti della Terra. E’ stato anche accennato alla sua ultima fase terrena di grande sofferenza per l’aggressione della malattia e di grande esempio di sopportazione per tutta l’umanità sofferente.
Certamente gli aspetti in cui il papa polacco si è distinto sono molteplici e contribuiscono a fare di questo personaggio, com’è stato da molti affermato, persino dall’attuale Pontefice Benedetto XVI, un gigante della storia moderna. Eppure credo che sia legittima la domanda da dove questo papa traesse la forza necessaria per compiere la sua missione, per parlare con convinzione al mondo intero, per gridare a tutti «non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo»? Si dirà, dalla fede, dalla sua forte spiritualità, dalla preghiera. Verissimo.

Uomo di fede, speranza e carità
Certamente Giovanni Paolo II è stato un credente. Non avrebbe potuto dire ciò che ha detto e fare ciò che ha fatto se non fosse stato mosso da una fede solida come una roccia: una fede nell’uomo migliorabile, una fede nella Chiesa in cammino e purificabile dai suoi errori e dai suoi peccati, ma soprattutto una fede nella Misericordia di Dio e nella sua costante presenza salvifica nella Storia e nella Chiesa. E’ certamente questa fede che gli ha permesso di compiere fino in fondo la sua missione, anche se da più parti gli giungevano voci di «dimissioni auspicabili».
Papa Giovanni Paolo II viveva di speranza, una speranza che unita alla fede era divenuta in lui certezza incrollabile. Pur nella consapevolezza dell’onere arduo di guidare la Chiesa in un momento difficile della sua storia, egli sapeva bene che le forze del male non avrebbero mai prevalso. Ha sicuramente sentito, soprattutto negli ultimi anni della sua vita, il peso di dover rappresentare per i cristiani il punto di riferimento sicuro, la roccia solida su cui Cristo aveva fondato la sua Chiesa; ma non è crollato perché sapeva che la «pietra angolare» di questo edificio per quanto fragile era Cristo stesso, il Figlio del Dio vivente, che aveva assicurato prima di lasciare questa terra: «sarò con voi fino alla fine dei tempi».
Non c’è dubbio che l’azione del Papa Wojtyla era animata da un grande spirito di carità, un amore illimitato verso gli uomini, le donne, gli anziani, i giovani, i bambini di qualunque colore, cultura e religione, di ogni strato sociale. Ricevendo il mandato sacerdotale e soprattutto quello di papa, Giovanni Paolo II non poteva non occuparsi dei suoi fedeli come un pastore che deve accudire le sue pecore. Ma c’è pastore e pastore. Solo il «Buon Pastore» ama le sue pecore, le conduce al pascolo e le fa riposare ed è disposto a dare la vita per le sue pecore. Sicuramente il Beato Giovanni Paolo II ha amato l’umanità come il Buon Pastore, che ha voluto imitare.
In vita, molti critici hanno rimproverato a Papa Wojtyla di non essere stato abbastanza aperto e comprensivo nel campo della morale sessuale, del celibato dei preti, del sacerdozio delle donne. Che cosa il Papa avrebbe potuto fare e dire di diverso al riguardo non lo so. So però che anche su questi temi delicati egli ha detto e scritto riflessioni sublimi che testimoniano non solo il suo amore per la verità e il rispetto della vita, ma anche la sincerità e l’amore di un uomo per tutti gli uomini e le donne della terra, in cui vedeva riflessa l’immagine di Dio e la cui dignità vedeva spesso ingiuriata, calpestata, limitata. Riguardo alle donne in particolare Giovanni Paolo II è stato maestro profetico additando al mondo intero il vero «genio femminile», che si estende ben oltre il tradizionale ambito della famiglia all’impegno nella società, nella cultura, nella politica e alla partecipazione (sicuramente ancora da meglio definire) all’opera di salvezza.
Egli fu particolarmente vicino ai poveri, agli ammalati, ai carcerati, ai perseguitati, agli oppressi. Ma furono probabilmente i giovani i suoi interlocutori più attenti e ricettivi. A loro parlava come un padre, con loro si confidava, come quando a Berna il 5 giugno 2004 ricordò loro che ebbe anch’egli vent’anni e gli piaceva fare sport, recitare, studiava e lavorava, aveva desideri e preoccupazioni, cercava il senso da dare alla sua vita. E diceva a tutti che quel giovane aveva trovato il senso della propria esistenza «nella sequela del Signore Gesù».

Preghiera e testimonianza
Fede, speranza e carità di Giovanni Paolo II trovavano alimento continuo nella preghiera. Le immagini pubbliche del papa lo ritraggono soprattutto nei momenti mediaticamente più esaltanti, quando parla alle folle (talvolta di milioni di persone), quando incontra i cosiddetti Grandi della Terra, quando si lascia come trasportare dall’applauso o dalla musica dei giovani, mentre si rarefanno nei momenti del raccoglimento e della preghiera. Eppure fin da studente Karol Wojtyla era uomo di preghiera, che per lui doveva essere un autentico dialogo con Dio, non solo col Dio di Abramo e di Isacco ma anche col Dio vivente che gli aveva affidato la missione di successore di Pietro in un mondo travagliato e in una Chiesa in crisi.
Il Dio che Wojtyla incontrava nella preghiera sembrava, soprattutto negli ultimi anni della sua vita, sempre più esigente. In chi scrive sono ancora indelebili le immagini di Giovanni Paolo II sofferente. Credo che esse rappresentino, più di qualunque altra, la vera grandezza del Beato che oggi celebriamo, il coronamento di quel disegno divino che lo volle un fedele seguace e servitore di Gesù Cristo, un Pastore di anime ad immagine del Buon Pastore. Come Pietro, che in una lettera si definì «testimone delle sofferenze di Cristo e partecipe della gloria che deve manifestarsi», credo che anche Karol Wojtyla avrebbe potuto dire la stessa cosa. Anch’egli, come Pietro, era plasmato dal Pastore Gesù Cristo, che prima della Pasqua ha dovuto subire l’onta del Venerdì Santo.
Se oggi veneriamo Giovanni Paolo II come beato è solo perché è divenuto grande nell’imitazione del Maestro, anche nella sofferenza, e nella fedeltà al progetto esigente che Dio aveva su di lui.

Giovanni Longu
 Berna 3.5.2011

20 aprile 2011

Disagio italiano, ma senza dimissioni!

Che si possa provare di tanto in tanto un certo disagio ad essere italiano è comprensibile! Di qui a farsi prendere dallo scoramento fino a lasciarsi conquistare dall’idea di «dimettersi da italiano» mi pare una conclusione né logica né responsabile. Un passo del genere supporrebbe da una parte l’inconciliabilità tra un modello di Italia eccessivamente ottimistico e una realtà vista come assolutamente negativa e, dall’altra, l’insopportabilità di una convivenza tra una coscienza di sé integralista e un presunto malcostume generalizzato e insanabile. Una tale visione è però talmente astratta da non poter essere giustificata nemmeno teoricamente.

Io capisco che ad un «italiano vero», soprattutto se vive all’estero, possa dare il voltastomaco il bombardamento quotidiano delle notizie negative provenienti dalla madrepatria. Mi rendo conto che non sia un motivo d’orgoglio appartenere allo stesso popolo che esprime alla grande mafia, 'ndrangheta, evasione fiscale, corruzione e numerose forme d’illegalità. Capisco anche che ogni cittadino italiano vorrebbe essere rappresentato solo da persone integerrime e governato da persone competenti e virtuose. Ma tutto questo è sufficiente per dimettersi da italiano? Non credo.

L’Italia non è ancora perduta!
Intanto va detto che ognuno è responsabile solo delle proprie azioni e non di quelle di altri e non esiste una responsabilità (penale) collettiva ma solo individuale. Diversamente, per un membro di un patronato ladro tutti i colleghi dovrebbero sentirsi ugualmente colpevoli, per un parlamentare che va in galera tutta la classe politica dovrebbe ritenersi delinquente e, massimo dei massimi, per un governante (presunto) corrotto tutti i governati dovrebbero vergognarsi delle cose che gli vengono attribuite e decidere magari di cambiare nazionalità. Una società sostanzialmente sana, come quella italiana, funziona diversamente: manda in galera i delinquenti, incarica i tribunali di verificare se gli indizi di reato sono veri reati o solo accuse infondate e cerca di farsi rappresentare e governare da persone che ritiene adeguate. Non ha senso, dunque, sotto questo profilo, vergognarsi di essere italiano, anche se, vivendo all’estero, non può che dispiacere la perdita di considerazione dell’Italia in Europa e nel mondo.
In secondo luogo, per quanto pessimisti si possa essere sull’Italia, non c’è dubbio che in un ipotetico bilancio il saldo anche morale ne risulterebbe nettamente positivo. Quel che funziona bene è sicuramente superiore a quel che funziona male, l’onestà sopraffà la disonestà, il bene supera il male. La stessa attività di governo, pur nelle sue manchevolezze e nei suoi ritardi, ha dimostrato di saper traghettare il Paese attraverso le tempeste finanziarie, economiche, migratorie, occupazionali, ecc. di questi ultimi anni. Sotto questo profilo, l’ottimismo non dovrebbe essere una forzatura. Del resto, un giornale serio e spesso critico nei confronti della politica italiana come la Neue Zürcher Zeitung proprio la settimana scorsa iniziava un lungo articolo a firma di Hans Woller con queste parole: «Nein, Italien ist noch nicht verloren», no, l’Italia non è ancora perduta!
In terzo luogo, credo che occorra stare attenti a non trasformare un disagio personale in un disagio universale e una coscienza integralista in un’accusa perenne degli altri. Prima di lanciare critiche o salire sulle barricate in nome di presunti principi violati ognuno dovrebbe avere il coraggio e l’onestà di esaminare da dove nasce il proprio disagio. Un italiano vero può sentirsi perfettamente a proprio agio o addirittura fiero di esserlo anche nella costatazione di molti difetti dello Stato, se alla base di questo stato d’animo c’è la consapevolezza della complessità e gravità oggettiva delle situazioni, la coscienza della problematicità delle soluzioni possibili (perché ogni soluzione è una scelta) e la disponibilità a fornire comunque il proprio contributo per migliorare la situazione. Chi è consapevolmente onesto e impegnato per il bene comune non può avere sensi di colpa e di vergogna.

Disagio o presunzione?
Si ha invece l’impressione che chi è sempre pronto all’indignazione, alla denuncia, alla colpevolizzazione e delegittimazione dell’avversario (politico), all’ostruzionismo parlamentare e alle manifestazioni di piazza abbia assunto come metro di paragone una presunta onestà morale, civile e politica posseduta pressoché in esclusiva. Purtroppo questa presunzione ha un difetto radicale: è unilaterale e non regge alla prova dei fatti. Si dà infatti il caso che il popolo sovrano, che in una democrazia matura anche se imperfetta è l’unico a dare patenti di legittimità e assegnare pagelle di efficienza, non si lascia governare solo da quella parte politica che si autocertifica come la più brava e la più onesta. Evidentemente qualcuno sbaglia, ma non può essere il popolo degli elettori.
Un po’ più di modestia, nella valutazione di sé stessi e degli altri, non nuocerebbe ad alcuno e sicuramente se ne avvantaggerebbe la democrazia e lo sviluppo del bene comune. In una barca, quando una parte pretende di sostituire l’equipaggio legittimamente insediato a governarla e per raggiungere l’obiettivo rema contro con tutte le sue forze, forse non riuscirà a farla affondare o a buttare a mare l’equipaggio, ma sicuramente ne rallenterà la corsa. Se, stando alla metafora, qualcuno dovesse provare disagio perché l’equipaggio resiste o dovesse addirittura provare vergogna di stare su quella barca, ebbene in tal caso, fuori metafora, costui farebbe bene a dimissionare da italiano.

Giovanni Longu
Berna, 20.4.2011

Frontalieri: risorsa o pericolo per il Ticino?

In Ticino, soprattutto durante la recente campagna elettorale e all’indomani del voto che ha premiato la destra ticinese, il «tema frontalieri» è tornato di grande attualità e con toni più aggressivi del solito. La Lega dei Ticinesi, vincitrice delle elezioni, sostenuta dall’Unione democratica di centro (un partito ancor più a destra della Lega) e non ostacolata dai partici di centro e di sinistra, non vede l’ora di rinegoziare l’accordo con l’Italia sui frontalieri risalente al 1974. Sembra insostenibile il ristorno da parte del Ticino ai Comuni italiani della zona di frontiera del 38,8% del prelievo fiscale alla fonte sui salari dei frontalieri.
Sui frontalieri si è inoltre innescata con una martellante pubblicità ingiusta e brutale la polemica circa il loro numero, ritenuto eccessivo, e la loro presunta funzione di sostituzione sistematica dei lavoratori indigeni facendo le sui bassi salari loro corrisposti. Come se non bastasse, a rinvigorire la polemica si è aggiunta dall’entrata in vigore degli accordi bilaterali Svizzera-Unione europea la contestazione dell’inosservanza degli accordi da parte dell’Italia sulla libera concorrenza delle imprese e addirittura la discriminazione delle ditte svizzere (ticinesi) in materia di appalti pubblici.
Queste polemiche, in aggiunta alla critica al ministro Tremonti di continuare a mantenere in vita una sorta di lista nera dei paradisi fiscali comprendente, almeno in parte anche la Svizzera, non fanno che contribuire al deterioramento dei rapporti italo-svizzeri almeno sul fronte sud. In queste ultime settimane, la politica ticinese si è spesso interessata al ministro dell’economia italiano, reputato dalla destra come il principale ostacolo alla normalizzazione dei rapporti italo-svizzeri. Ben poco risalto è stato dato, invece, all’unica notizia positiva di questo periodo, la prossima revoca delle discriminazioni nei confronti delle aziende svizzere negli appalti pubblici italiani. Si è addirittura letta questa decisione non tanto come un segnale di apertura del ministro, quanto piuttosto come una obbligata ottemperanza dell’Italia all’Unione europea (UE) a cui la Svizzera si era rivolta denunciando una procedura discriminatoria dell’Italia nei confronti delle ditte svizzere, contraria all’accordo del 1999 sugli appalti pubblici all’interno dell’UE.
Senza Tremonti, sembrerebbe, le relazioni italo-svizzere sarebbero migliori, viste anche le buone intenzioni di collaborazione manifestate dalla consigliera federale Doris Leuthard e dai ministri italiani Paolo Romano (sviluppo economico) e Altero Matteoli (infrastrutture e trasporti) nel loro incontro romano del 4 e 5 aprile scorso.
Per sbrogliare la situazione, la Lega dei Ticinesi, ora più forte di prima, fa appello alla Lega Nord di Umberto Bossi perché faccia anch’egli la sua parte. «Con Tremonti deve sciogliere il nodo dell’accordo sulla doppia imposizione, altrimenti con i frontalieri sarà guerra aperta e sospenderemo i ristorni ai Comuni italiani di confine». Giuliano Bignasca, padre padrone della Lega dei Ticinesi, sa bene che la questione è molto complicata e controversa e per di più è di competenza federale e non cantonale, ma col suo carattere scontroso e populista è capace di procurare danni e peggiorare la situazione. Tanto più che può contare su un alleato sicuro, Pierre Rusconi, presidente dell’Unione democratica di centro ticinese, l’ispiratore della campagna ingiuriosa contro i frontalieri, paragonati a ratti e ladri.

Appianare le divergenze
Per questo è necessario che l’Italia affronti urgentemente la questione e ristabilisca il tradizionale clima di collaborazione e amicizia tra i due Paesi. Non so cosa farà Bossi e cosa farà Tremonti, mi auguro solo che intervengano per chiarire la situazione e risolvere concordemente il contenzioso. Allo stesso tempo però mi auguro anche che il governo italiano intervenga con fermezza denunciando questa campagna ingiuriosa contro i frontalieri, che in queste vicende semmai sono solo vittime.
Trovo anche scandaloso che la politica ticinese, dove non c’è solo Bignasca e Rusconi che contano, non riesca ad affermare la verità sul contributo fondamentale dei frontalieri al benessere ticinese, sulla ininfluenza dei frontalieri sui livelli salariali, sulla grande utilità per il Ticino di avere una forza lavoro disponibile, capace e a basso costo per la cui preparazione non ha dovuto spendere nemmeno un franco, sull’importanza per le imprese ticinesi della libera circolazione non solo delle finanze e dei prodotti ma anche delle persone.
E’ stato dimostrato come due più due fa quattro che i frontalieri non portano via il lavoro ad alcun ticinese eppure li si continua a descrivere come ladri di posti di lavoro soprattutto nel terziario. Trovo particolarmente scandaloso che sotto sotto si considerino ancora i frontalieri come quegli immigrati del secolo scorso, soprattutto all’epoca della costruzione delle ferrovie e delle infrastrutture idroelettriche, che venivano chiamati a svolgere solo lavori snobbati dagli svizzeri perché particolarmente pesanti e pericolosi. La civiltà del lavoro, per fortuna, ne ha fatto di strada da un secolo a questa parte. Essa ha portato alla liberalizzazione del lavoro e alla libera circolazione delle persone, una risorsa più che un pericolo. Occorre tenerne conto oppure decidere di rinchiudersi in una sorta di ridotto ticinese, in cui però si rischierebbe di azzerare in poco tempo tutte le conquiste di un secolo di sviluppo.

Giovanni Longu
Berna, 20.04.2011

13 aprile 2011

Guerra o pace? Una scelta difficile, ma obbligata!

Nell’antichità le guerre si combattevano e si concludevano con un vincitore e un perdente. I perdenti spesso venivano eliminati almeno come identità nazionale. Tutte le civiltà antiche sono scomparse ad opera dei vincitori. Dal 390 a. C. risuona ancora come una tremenda minaccia l’espressione latina «vae vichtis», guai ai vinti, attribuita a Brenno, capo dei Galli Senoni che avevano invaso Roma.
Oggi non si tende più a sterminare i popoli vinti, semmai i loro regimi, ma le conseguenze delle guerre sono comunque sempre tragiche. La «pace» è ancora quella dei vincitori. E ogniqualvolta l’occidente fa una guerra «esterna» nell’intento di ristabilire la pace, pretende sempre che sia una pace alla maniera occidentale e, spesso, nell’interesse dell’occidente.
La civiltà moderna sta cercando faticosamente di uscire da questa logica di guerra-pace e privilegiare la strada della diplomazia e del compromesso fra tutte le parti interessate. Risulta sempre più difficile «giustificare» la guerra di offesa, anche quando si ammanta di buone intenzioni o addirittura di umanitarismo. Per convenzione internazionale si riesce ancora a giustificare una guerra di difesa per salvaguardare la sovranità di un popolo dall’attacco di un aggressore esterno (come nel caso della Guerra del Golfo del 1991 in seguito all’invasione del Kuwait da parte dell’Irak di Saddam Hussein), ma l’opinione pubblica è sempre più avversa agli interventi militari esterni per risolvere questioni interne. Cresce infatti la consapevolezza che nessun conflitto armato produce automaticamente la pace e la giustizia. Basterebbe ricordare la guerra di Corea, del Vietnam, dei Balcani, dell’Irak, dell’Afghanistan.

L’intervento armato in Libia
Perché nel caso dell’intervento armato contro la Libia di una forte coalizione internazionale la reazione dell’opinione pubblica è stata ed è molto tiepida? Forse perché ritiene sacrosanta l’insurrezione di una parte consistente del popolo libico contro il suo tiranno Gheddafi a tal punto da giustificare un intervento armato internazionale contro di lui e i danni «collaterali» che sta provocando? O forse perché in questo caso le coscienze pacifiste hanno fatto pace con sé stesse sapendo che l’intervento armato è stato autorizzato dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite e dalla NATO, sotto la spinta di Paesi «democratici» come la Francia e la Gran Bretagna e soprattutto gli Stati Uniti d’America guidati da un presidente premio Nobel per la pace? Non credo che l’opinione pubblica abbia cambiato idea sulla guerra. E’ probabile che non protesti più perché, soprattutto in questo caso, si sente per così dire sotto tutela in quanto a favore dell’intervento militare si sono pronunciati inspiegabilmente tutti i grandi partiti del centro-destra e del centro-sinistra. Contro chi dovrebbe protestare la gente?
L’opinione pubblica sembra piuttosto frastornata, ma questo non significa che non si ponga alcuni interrogativi fondamentali, proprio sul senso dell’intervento militare in Libia. Sono infatti in molti a chiedersi se la guerra era davvero necessaria. Del resto, è credibile che gli interventisti l’abbiano voluta solo per proteggere la popolazione civile? Se così fosse, perché continuano a morire, persino sotto i bombardamenti degli alleati, tanti civili? Ed è credibile che Paesi come gli Stati Uniti, la Francia, la Gran Bretagna e persino l’Italia stiano pensando davvero solo al benessere della popolazione civile libica e non anche, o piuttosto, alle immense risorse petrolifere di quel Paese e alla funzione che la Libia dovrebbe svolgere nella lotta contro l’immigrazione clandestina verso l’occidente?

Interrogativi senza risposta
Di fronte a qualsiasi guerra, ma soprattutto a quella libica in corso, ci si può anche chiedere perché non tutti i Paesi occidentali, per non parlare di quelli asiatici e africani, sono d’accordo sulla decisione dell’intervento militare voluto soprattutto dall’asse Parigi-Londra col coinvolgimento degli Stati Uniti d’America. Questa mancanza di unanimità, al di là delle motivazioni di ciascun Paese non interventista, insospettisce sulle vere ragioni di questa guerra. Se infatti si voleva proteggere il popolo libico (o una parte di esso) dall’oppressione del tiranno Gheddafi, le Nazioni Unite non avrebbero potuto decidere altre misure, compreso il totale embargo commerciale oltre che politico, forme pacifiche di interdizione per Gheddafi e il suo governo, oppure tentare, come anche da più parti auspicato, la mediazione diplomatica?
Ci vorrà del tempo per trovare le risposte vere a queste come ad altre simili domande, ma sono certo che, quando salterà fuori la verità, l’umanità avrà fatto un passo in avanti sulla via della pace sostenibile e dell’abolizione di qualsiasi intervento armato (a parte forse le interposizioni dei caschi blu dell’ONU e i veri interventi umanitari). Allora, forse, anche i Paesi più guerrafondai si renderanno conto che invece d’investire in strumenti di guerra sempre più sofisticati e costosi è preferibile investire sulla scuola e sullo sviluppo economico. Non esistono nella storia dell’umanità dittature in cui le popolazioni erano istruite e avevano sviluppato sistemi economici progrediti.

Poteva l’Italia non partecipare alla guerra in Libia?
Prima di rispondere a questa domanda occorre ricordare che la decisione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite è stata presa a maggioranza, non all’unanimità. Inoltre, quella decisione non obbliga alcuno Stato a partecipare alle operazioni militari, tanto è vero che solo pochi Stati vi partecipano. La Germania, per esempio, non vi partecipa. Anche l’Italia avrebbe potuto non parteciparvi, pur continuando a ritenere giustificato l’anelito della popolazione libica alla democrazia e quindi al cambiamento di regime e al godimento di maggiore libertà. L’Italia avrebbe potuto giustificare la sua non partecipazione invocando la sua lunga storia di rapporti talvolta conflittuali ma anche pacifici e di collaborazione e persino di amicizia con la Libia.
Perché dunque l’Italia è intervenuta? Si dirà che non poteva certo starsene a guardare, tanto più che la Libia dista poche miglia dall’Italia. Ha avuto paura di restare isolata? Paura forse legittima, perché l’Italia non ha certo la forza della Germania, ma non un motivo sufficiente. E’ probabile che la giustificazione più plausibile siano ancora i forti interessi che l’Italia ha in Libia. Ma anche questi interessi, sicuramente legittimi, giustificano da soli la partecipazione dell’Italia ad un’operazione militare contro un Paese fino alla vigilia «amico»? E non poteva almeno tentare una mediazione tra Gheddafi e ribelli?
Le vere ragioni dell’intervento italiano probabilmente non si conosceranno mai. E pertanto non si conoscerà mai neanche perché l’Italia non ha seguito l’esempio della Germania. A questo punto può risultare illuminante il comportamento della Svizzera in una situazione analoga, sia pure lontana nel tempo. Si era nel 1848 e un Paese che si apprestava a lottare per la libertà e l’indipendenza chiese aiuto alla vicina Svizzera. Quel Paese era l’Italia o meglio il Regno di Sardegna che si proponeva di affrancare la popolazione lombarda dal dominio austriaco e successivamente di unificare sotto un’unica bandiera l’intera Italia. Queste idee di libertà e di unità erano ben viste anche in Svizzera, dove i messaggi di Giuseppe Mazzini e di altri patrioti avevano un grande seguito.

La Svizzera preferì la neutralità
Conoscendo l’atteggiamento favorevole degli svizzeri verso i movimenti libertari del momento, un emissario di Carlo Alberto Re di Sardegna propose alla Dieta federale (antesignana dell’Assemblea federale perché mancava ancora una costituzione federale) un’«alleanza offensiva e difensiva» evidentemente in funzione antiaustriaca. La proposta venne discussa nella Dieta e infine respinta in nome della neutralità svizzera, garantita dal Congresso di Vienna del 1815.
Trovo interessanti le motivazioni della risposta inviata al Re di Sardegna il 25 aprile 1848 (cito da uno studio dello storico Emilio Papa): «La Confederazione, fedele alla propria origine e ai propri principi … riconosce in ciascuna nazione il diritto di costituirsi… ha salutato con la più sincera simpatia gli sforzi che i popoli fanno per distruggere le antiche forme dell’assolutismo… Esistono però ragioni interne ed esterne per le quali non è dato alla Confederazione di contrarre, così come proposta, un’alleanza con uno Stato vicino e prendere parte diretta ad una guerra estera».
Il giorno seguente a quella risposta apparve sul quotidiano «Neue Zürcher Zeitung» un articolo in cui l’autore s’interrogava: «Cosa conviene ora alla Svizzera?» La risposta è secca: «Ora evidentemente la neutralità. Per quanto grande sia la nostra simpatia per l’Italia, non potremmo approvare che la piccola Svizzera debba essere il primo Paese straniero che va in aiuto all’Italia. E’ vero, non lo nascondiamo, un nostro intervento arrecherebbe enorme sviluppo al nostro commercio e alle nostre industrie, perché l’Italia è l’unico Paese vicino che ci può offrire vantaggi commerciali senza un proprio svantaggio; siffatti vantaggi ci appaiono tuttavia di meno difficile peso dei pericoli che si collegano ad una tanto audace impresa…».
Il parlamento di Lucerna aveva dato al suo rappresentante alla Dieta fra l’altro queste istruzioni: «soltanto ove sorgesse una guerra di principi e si dovesse scatenare una guerra frontale fra liberalismo e assolutismo, fra civiltà e barbarie; soltanto se un urto fra Europa orientale ed occidentale si dovesse verificare, non dovrebbe allora essere permesso alla Svizzera di tenersi in disparte quale osservatrice disinteressata».
Persino Cavour, in seguito, ebbe parole di comprensione e di stima per la reazione della Svizzera e ritenne un errore il tentativo di Carlo Alberto.

Tornando all’attualità: non so se l’Italia di oggi avrebbe potuto seguire l’esempio della Svizzera del 1848, ma non avrebbe potuto seguire almeno l’esempio della Germania?

Giovanni Longu
Berna, 13 aprile 2011

06 aprile 2011

Migranti albanesi, nordafricani e italiani: equazioni strampalate

Gli esodi degli ultimi mesi dal Nord Africa rievocano facilmente quelli degli anni Novanta dall’Albania. Le analogie in effetti sono molte. In entrambi i casi si tratta di fughe in massa dopo il crollo di regimi autoritari e corrotti da Paesi schiacciati dalla miseria o dalla povertà, accentuata dal contrasto con un apparente benessere del mondo cosiddetto libero. Nell’epoca della comunicazione (quasi) assoluta, le immagini dell’occidente opulento giungono ormai facilmente anche nei mondi tenuti rigidamente chiusi dai regimi dittatoriali ed è inevitabile che alimentino sentimenti d’insoddisfazione e l’aspirazione irrinunciabile alla libertà e al benessere. In queste condizioni, le difficoltà e i rischi non sono presi in considerazione e l’unico imperativo diventa fuggire, tentare.

Migranti albanesi e nordafricani
La prima nave albanese giunse in Italia vent’anni fa nel 1991 e portava un carico di umanità mai visto prima di allora. In pochi mesi sbarcarono nei vari porti delle Puglie oltre 25.000 persone. Erano giovani tra i 10 e i 35 anni che cercavano in Italia la libertà che non avevano mai conosciuto e l’affrancamento dalla miseria che avevano invece sempre conosciuto. Il flusso delle partenze continuò per mesi e per anni, sebbene in proporzioni molto inferiori a quello del 1991 e oggi non meno di 400 mila albanesi vivono in Italia, in condizioni generalmente regolari.
Ciò che è accaduto agli albanesi si sta ripetendo in questi mesi con i fuggitivi dal Nord Africa. Fino a pochi mesi fa non si registravano importanti flussi dalla sponda meridionale del Mediterraneo perché gli Stati rivieraschi, grazie ad accordi internazionali con i Paesi europei dell’altra sponda, si erano impegnati a impedirli. Si sapeva che prima o poi quelle valvole sarebbero saltate, perché in quell’area si stava agitando da tempo un vento di ribellione contro i vari regimi oppressori e corrotti. L’Europa non ha saputo (o voluto) interpretare correttamente e per tempo i molti segnali che giungevano da tutta la fascia settentrionale del continente africano e ha preferito rafforzare, soprattutto l’Italia, le buone relazioni (d’affari) con quei regimi perché quelle valvole in funzione antimigratoria tenessero.
Quando le rivolte sono scoppiate, le grandi potenze sono state colte impreparate. Le reazioni sono state inizialmente nulle, come se la sorpresa avesse paralizzato qualsiasi capacità d’intervento. Fortunatamente i vari regimi, tranne quello libico, sono caduti senza interventi esterni. Contro quello libico, invece, dopo vari tentennamenti, si è deciso a mio parere avventatamente d’intervenire militarmente senza nemmeno tentare soluzioni diplomatiche o mediazioni interafricane o interarabe. Non so se sarà risolutivo per la caduta del regime di Gheddafi, ma non credo che possa bastare per pacificare la regione e ancor meno per evitare i flussi migratori verso l’Europa.

I doveri dell’accoglienza e della solidarietà
Sta di fatto che, una volta saltate quelle valvole di contenimento della spinta migratoria dalla Tunisia, dall’Egitto e dall’Africa subsahariana, i flussi hanno ripreso forza creando non pochi problemi di accoglienza e di ordine pubblico soprattutto all’Italia, colta ancora una volta impreparata come ai tempi degli sbarchi degli albanesi. Invece di affrontare il problema nella sua tragica realtà, soprattutto i politici si sono lasciati andare nella disputa quasi surreale se le persone sbarcate a Lampedusa siano rifugiati, profughi, migranti normali o immigrati clandestini. Come se non fosse evidente che a queste persone si deve comunque e prima di ogni altra cosa prestare soccorso e assistenza trattandosi di esseri umani bisognosi di tutto, persino di una identità. E’ scandaloso sentire certi dibattiti in cui la provenienza e lo statuto di soggiorno sono anteposti alla stessa dignità propria della persona umana.
Purtroppo, nel disorientamento generale circa la linea di comportamento da tenere da parte dello Stato e della popolazione nei confronti di una massa spinta a migrare dal bisogno (comunque si voglia definire questo bisogno), anche da parte di persone benpensanti e favorevoli all’accoglienza degli sbarcati non tutti gli argomenti a sostegno del dovere dell’assistenza sono stati pertinenti. Mi riferisco in particolare al tentativo di alcune alte personalità della politica e del giornalismo di rafforzare la tesi della dovuta accoglienza e solidarietà richiamando l’epoca in cui anche gli italiani emigravano «clandestinamente». Come se non bastasse un generico dovere umanitario nei confronti di chi sta peggio di noi, queste personalità hanno creduto bene di invocare una sorta di dovere morale collettivo nel senso biblico di non fare agli altri quel che è stato fatto a noi, quando appunto ad emigrare «clandestinamente» eravamo noi.

Equazioni strampalate
Mi sembra un errore storico e politico paragonare i flussi migratori dall’Albania e dal Nord Africa con quelli italiani dell’Ottocento e del Novecento. Intanto non è corretto anche solo lasciar immaginare che ci possa essere un’equazione tra l’immigrazione clandestina moderna e l’emigrazione italiana. Quella attuale è concentrata nel breve periodo, quella italiana nel lungo periodo. Inoltre, l’accoglienza spesso contrastata e negativa nei confronti degli immigrati italiani non era affatto dovuta alla loro (inesistente) clandestinità, quanto piuttosto al loro numero e ai loro comportamenti. L’errore e la confusione mi sembrano tuttavia ancora maggiori proprio sotto il profilo della clandestinità.
Ho già affermato in altre occasioni che non si può qualificare l’emigrazione italiana come «clandestina» perché essa è sempre stata in larghissima misura legittima e regolare. Come non è sostenibile la tesi di una società «delinquenziale» perché ci sono in essa alcuni delinquenti, così non si può generalizzare l’emigrazione italiana sulla base di alcuni emigrati clandestini. Mentre l’immigrazione di questi giorni (come quella degli anni Novanta) è quasi interamente irregolare o clandestina, in tutta la storia ultracentenaria dell’emigrazione italiana i clandestini sono stati una minima parte, eccezioni e non la regola.
Gli italiani non potevano infatti imbarcarsi senza passaporto, neppure quando partivano «clandestinamente» dai porti francesi. In questi casi la «clandestinità» consisteva unicamente nel sottrarsi ad alcune limitazioni di carattere burocratico voluto da alcuni governi italiani per scoraggiare l’emigrazione. Basti pensare alla circolare Lanza del 1873 che imponeva ai prefetti un’attenta vigilanza sulle partenze con regolare passaporto e introduceva una cauzione di quattrocento lire in contanti o di una garanzia da parte di terzi per poter pagare le spese di rimpatrio di chi non fosse in grado di pagarle direttamente. Ma quanti potevano disporre di una tale somma, visto che i salari dell’epoca erano bassissimi? Per questo molti, ma sempre eccezioni, piuttosto che imbarcarsi nei porti italiani, preferivano partire «clandestinamente» dai porti francesi. Ma erano soprattutto clandestini dal punto di vista dell’Italia, non dei Paesi di arrivo.

Inesistente o limitata l’emigrazione «clandestina» verso la Svizzera
Inoltre non va dimenticato che ai tempi della grande emigrazione italiana i Paesi di destinazione erano generalmente carenti di manodopera, per cui soprattutto i giovani erano benvenuti, soprattutto se già pratici di qualche attività professionale. Oggi invece, purtroppo, i Paesi occidentali devono ancora superare la crisi e devono far fronte a una disoccupazione giovanile spesso a due cifre, come in Italia. Per di più l’Italia ha sempre avuto accordi d’emigrazione con quasi tutti i Paesi dov’erano diretti i flussi migratori italiani sia in America (Argentina, Uruguay, Brasile, Canada, ecc.) che in Australia e soprattutto in Europa (Francia, Belgio, Svizzera, Germania, Svezia, Olanda, ecc.). Con la Svizzera, poi, fin dal 1868 vigeva tra l’Italia e la Svizzera una sorta di accordo d’emigrazione che garantiva in sostanza la libera circolazione dei cittadini di entrambi gli Stati.
Durante una riunione italo-svizzera in cui la delegazione italiana si lamentava che la Svizzera lasciasse entrare troppi italiani «clandestini», la delegazione svizzera rispose che era solo una questione italiana se gli espatriati dovevano avere particolari autorizzazioni e timbri perché alla Svizzera era sufficiente un documento di riconoscimento (anche un passaporto turistico) e un contratto di lavoro.

L’immagine distorta di G.A. Stella
L’idea diffusa anche recentemente da Gian Antonio Stella con la sua brutta immagine dell’emigrazione italiana fatta di straccioni e delinquenti, «quando gli albanesi eravamo noi», non aiuta certo a capire quel che è stato il fenomeno migratorio italiano nel suo complesso. Non è pertanto condivisibile l’idea che dà dell’emigrazione italiana sottotitolando un capitolo del suo celebre saggio «L’orda»: «i nostri clandestini: via in massa oltre le Alpi e gli oceani».
L’emigrazione italiana fu ben altra cosa. Basti pensare alle sue realizzazioni anche solo in Svizzera. Proprio qualche giorno fa è stato ricordato il centenario della caduta del diaframma della galleria del Lötschberg. Ma i lavoratori italiani furono i veri protagonisti di tutte le altre grandi gallerie svizzere, a cominciare da quella San Gottardo, delle grandi infrastrutture idroelettriche, della rete autostradale, della grande urbanistica svizzera, della grande industria, ecc. Altro che clandestini!

Giovanni Longu
Berna 6.4.2011