20 ottobre 2010

1. L’Unità d’Italia e la neutralità svizzera

Comincia con questo articolo una serie di brevi presentazioni di momenti della storia d’Italia da un punto di vista inusuale, ossia quello di un immaginario osservatore italiano residente stabilmente in Svizzera, interessato sentimentalmente agli avvenimenti, estraneo ai fatti ma non alle sue conseguenze.
Questo primo articolo verte sugli inizi e intende presentare la scena, che ha come momento culminante la proclamazione del Regno d’Italia il 17 marzo 1861. Nei preparativi di questo evento la Svizzera non è né assente né totalmente disinteressata, se non altro perché le due entità statali hanno in comune una lunga frontiera e importanti relazioni commerciali.


Per capire la portata degli eventi decisivi per l’unità d’Italia è necessario accennare al Congresso di Vienna (1815), che aveva posto fine agli sconvolgimenti intervenuti in Europa con la Rivoluzione francese e con le guerre napoleoniche. Le quattro potenze vincitrici sulla Francia, ossia Austria, Prussia, Russia, Gran Bretagna, decisero dopo la caduta di Napoleone di ridisegnare la carta politica ispirandosi a due principi fondamentali: il principio di equilibrio (nessuna potenza doveva avere la supremazia territoriale in Europa) e il principio di legittimità (il potere tornava a chi lo deteneva prima della Rivoluzione e di Napoleone).
Le decisioni prese a Vienna riguardavano anche il Regno di Sardegna e la Svizzera. L’Italia fu mantenuta divisa in una decina di stati. Solo il Regno di Sardegna ne usciva ingrandito perché riottenne dai francesi il Piemonte e la Savoia (persi con le guerre napoleoniche) e gli venne assegnata come nuovo acquisto la Repubblica di Genova. Per quanto riguardava la Svizzera, riportata ai suoi confini originali (corrispondenti in larga misura a quelli attuali, dopo l’ingresso nella Confederazione dei Cantoni di Neuchâtel, Vallese, Basilea e Ginevra), il Congresso di Vienna ne sancì in forma solenne la neutralità perpetua con la garanzia dell’inviolabilità del suo territorio.

La neutralità svizzera e la Savoia
In funzione chiaramente antifrancese e a garanzia dell’integrità territoriale del Regno di Sardegna, le grandi potenze decisero anche che alcune province «sarde» dell’Alta Savoia (Chablais, Faucilly e Genevois) fossero poste sotto la protezione della neutralità svizzera. Nessuna potenza poteva stazionare truppe in quelle province. Solo la Confederazione Elvetica avrebbe potuto occuparle militarmente per prevenire un’invasione (presumibilmente da parte della Francia).
Molte realtà geopolitiche erano tuttavia in fermento da tempo (aneliti di libertà, avvento della borghesia e del capitalismo industriale, aspirazioni a nuove forme di governo, rivendicazioni territoriali ritenute irrinunciabili, ecc.) e non potevano restare bloccate all’infinito. L’Italia era sicuramente una di queste realtà in fermento. Il movimento risorgimentale mirava a riunire quanto prima sotto un’unica bandiera e un’unica realtà politica tutta l’Italia. Gli ostacoli principali erano rappresentati dal Lombardo-Veneto (sotto il dominio austriaco) e dallo Stato pontificio.
Per garantirsi la vittoria in caso di guerra con l’Austria, Vittorio Emanuele II si era alleato segretamente con i francesi (accordo segreto di Plombiers del 21.7.1858 tra Cavour e Napoleone III), che in caso di successo avrebbero ricevuto Nizza e la Savoia. Nella seconda guerra d’indipendenza (1859) l’Austria fu sconfitta e la Lombardia venne ceduta dapprima alla Francia e successivamente, secondo gli accordi, al Regno di Sardegna, secondo gli accordi.
Quando si sparse la voce che la Savoia sarebbe stata annessa alla Francia, i diretti interessati cominciarono ad agitarsi, perché almeno una parte dell’Alta Savoia sembrava preferire un’altra soluzione, per esempio l’adesione alla Svizzera. A preoccuparsi era anche la Svizzera per il timore che i territori dell’Alta Savoia fossero sottratti prima o poi alla propria neutralità.
Nel febbraio del 1860 il presidente della Confederazione sosteneva che «lo stato attuale della sovranità in Savoia ci converrebbe di più, ma se un cambiamento è in vista, è necessario che noi ci assicuriamo una buona frontiera militare» e riteneva che «se la Savoia è separata dal Piemonte, l’interesse europeo esige che ci venga assegnata la parte che ci occorre per poter difendere questa neutralità». La Svizzera dubitava però che le potenze vedessero di buon occhio l’annessione della Savoia alla Francia per paura che «dopo la Savoia sia la volta del Belgio, poi della frontiera renana e una guerra generale».
Nel dubbio, osservava, il capo del Dipartimento militare, bisognava essere preparati anche a un’azione militare, prima che la Francia stazionasse le sue truppe nella Savoia. E in effetti la Svizzera pensò di fortificare Ginevra e di avviare altri preparativi militari per impedire che la Francia volesse eventualmente assicurarsi il passaggio del Sempione e occupare Ginevra e il Vallese.
Per tranquillizzare i savoiardi la Francia organizzò un plebiscito (22.4.1860), ma venne esclusa la possibilità dell’adesione alla Svizzera. Il plebiscito non lasciò apparentemente dubbi: il 99,8% dei votanti approvarono l’annessione. La Francia assicurò anche la Svizzera che avrebbe rispettato la sua neutralità.

Rapporti tra la Svizzera e l’Italia
I rapporti con l’Italia erano stati sempre corretti e ispirati a reciproco rispetto e collaborazione. A Cavour tuttavia sembrò che durante la guerra del 1859 la Svizzera «avesse mostrato molta più simpatia per gli austriaci che per gli italiani». Impressione sbagliata, rispose subito il presidente della Confederazione attraverso il suo inviato straordinario a Torino: «se la Svizzera avesse avuto delle simpatie, queste sarebbero state certamente in favore della libertà e dell’Italia, ma ha dovuto farsi guidare dall’osservanza della più stretta neutralità».
E in nome della neutralità la Svizzera respinse anche la semplice entrata in materia su alcune proposte allettanti provenienti dall’Italia. In cambio del sostegno svizzero alla conquista del Veneto, l’Italia avrebbe potuto cedere alla Confederazione una parte del Tirolo e persino una parte della Valtellina. La questione dell’alleanza con l’Italia non è attuale – scrisse il capo del Dipartimento militare nel 1860 – ma potrebbe diventarlo.
Secondo l’inviato speciale della Svizzera a Torino (settembre 1860) l’annessione del Veneto, data ormai per certa in un futuro non molto lontano, avrebbe provocato uno squilibrio alle frontiere svizzere. L’Austria avrebbe infatti perso quella sua importante funzione di contrappeso alla posizione formidabile della Francia. Il diplomatico svizzero si augurava perciò di trovare «in un’Italia forte e libera un sostegno serio» alla neutralità svizzera. Un sostegno che Cavour aveva più volte garantito, perché, ebbe a dire nel dicembre del 1860, «la vostra indipendenza è la nostra».
Nell’euforia generale del momento, in un’Italia che con referendum e annessioni si unificava sempre di più, non mancarono voci che auspicavano anche un’annessione volontaria del Ticino. Voci provenienti da «patrioti troppo zelanti» o «teste calde», aveva assicurato lo stesso Cavour in una conversazione col rappresentante svizzero a Torino. E aveva aggiunto: «Ho consultato diversi ticinesi stabilitisi a Torino e in maggioranza divenuti piemontesi di cuore. Tutti mi hanno ripetuto che in Ticino c’erano grandi simpatie per la causa italiana, si potrebbe reclutare, se si volesse, un gran numero di volontari, ma nessuno desiderava cambiare la nazionalità». In altra occasione aveva qualificato quelle voci come «chimeriche».

Interessi reciproci
L’attenzione della Svizzera alle sorti italiane non era dovuta solo a visioni geopolitiche, ma aveva anche motivazioni molto concrete, soprattutto commerciali. La Svizzera, ad esempio, aveva un grande interesse a ripristinare l’asse commerciale privilegiato col porto di Genova, divenuto quasi impraticabile negli ultimi decenni a causa delle complicazioni burocratiche del governo sardo-piemontese. C’era poi la questione dell’attraversamento ferroviario attraverso le Alpi, divenuto di grande attualità fin dal 1860. Le preferenze svizzere andavano a quello del San Gottardo, mentre in Italia si preferiva l’attraversamento del Lucomagno. La Svizzera era consapevole che senza l’Italia nessun progetto si sarebbe potuto realizzare. Era quindi indispensabile che tra la Svizzera e il nuovo potente vicino si instaurassero da subito i migliori rapporti. Ovviamente anche per il nuovo Stato era del massimo interesse avere buoni rapporti con la Svizzera, non solo per questioni di vicinanza geografica, ma anche perché la sua neutralità rappresentava per l’Italia una garanzia.
Era dunque normale che la Svizzera fosse invitata subito a riconosce Vittorio Emanuele II Re d’Italia (proclamato il 17 marzo 1861) e che sia stata effettivamente tra i primi Stati a riconoscerlo. Qualche giorno prima l’incaricato d’affari della Svizzera a Torino aveva informato così il presidente della Confederazione: «credo di sapere che il riconoscimento sarà richiesto all’Inghilterra, alla Svizzera e agli Stati Uniti d’America, trattandosi delle tre nazioni meglio disposte per la causa italiana». Era la verità.
Qualche mese più tardi, in una lettera del 22 maggio 1861 da Torino, l’incaricato d’affari della Svizzera comunicava al presidente della Confederazione che «il signor Cavour desidera ardentemente la nostra amicizia e che considera la nostra integrità territoriale come il palladio [nell’antichità classica si riteneva che la statua di Pallade Atena rendesse inespugnabile la città che la custodiva] dell’indipendenza italiana».
Cavour, morto il 6 giugno 1861, non poté vedere la consacrazione di quell’amicizia ardentemente voluta, ma ne è stato sicuramente uno dei principali ispiratori. Era nel suo animo, piemontese da parte del padre e svizzero da parte della madre (ginevrina), che i due popoli e i due Stati dovessero non solo convivere ma collaborare intensamente. Il «Trattato di domicilio e consolare tra la Svizzera e l’Italia», firmato a Berna il 22 luglio 1868 e tuttora in vigore, è stato per decenni il principale punto di riferimento giuridico per l’immigrazione italiana in Svizzera e per le relazioni italo-svizzere.

Giovanni Longu
Berna 20.10.2010

13 ottobre 2010

Alptransit per unire maggiormente l’Europa

E’ ormai questione di ore: l’ultimo diaframma che ancora separa il versante nord dal versante sud della galleria di base del San Gottardo sta per essere abbattuto dalla tecnologia e dalla spinta unificatrice dell’Europa. Con questo abbattimento la Svizzera aggiunge al suo già lungo palmares un altro record, quello della galleria ferroviaria più lunga del mondo, ben 57 chilometri. Ma il significato di questo evento, programmato da tempo per il 15 ottobre, va ben oltre la conquista di un record che pure fa onore alla Svizzera. Infatti, realizzando con mezzi propri la galleria di base del San Gottardo, la Svizzera contribuisce ad avvicinare in maniera significativa il nord e il sud dell'Europa.
Può sembrare un paradosso che la Svizzera, che non fa parte dell’Unione Europea, contribuisca con un costo ritenuto da taluni esorbitante, a rendere l’Europa più vicina e più unità. Ma non è un paradosso, perché la Svizzera è e si sente una parte imprescindibile dell’Europa. Lo diceva già con una certa fierezza nel 1991, l’anno del 700° della Confederazione, il Presidente del Consiglio nazionale Ulrich Bremi, quando proprio in relazione al progetto ancora indefinito della galleria di base del San Gottardo affermò: «Su questo versante la Svizzera dimostra di essere una parte dell’Europa. La nostra è una strategia d’attacco: abbiamo qualcosa da offrire e ne siamo consapevoli. Realizzeremo il nuovo tunnel con mezzi nostri».
La Svizzera ha mantenuto i suoi impegni, con grande coraggio e grande determinazione, e l’Europa gliene dev’essere grata. Ci vorranno ancora diversi anni prima che la galleria sia terminata e i treni possano circolarvi a grande velocità, ma al ritmo attuale dei lavori non ci sono dubbi sulla riuscita finale e forse sulla riduzione dei tempi della messa in funzione della galleria più lunga del mondo.

Quanta «italianità» nello spirito gottardista!
Ad onor del vero, senza nulla togliere ai meriti della Svizzera, anche questa opera grandiosa di attraversamento delle Alpi s’iscrive in un grande progetto i cui ideatori furono più d’uno e i realizzatori molti. Tra i primi gli italiani furono protagonisti, sostenuti fortemente dai ticinesi.
Tra i fautori dell’attraversamento ferroviario del San Gottardo, fin dalla seconda metà dell’Ottocento, non si può dimenticare il milanese Carlo Cattaneo (1801-1869), allora esiliato in Ticino. Convinse dell’opzione Gottardo, fra le diverse che erano allora in discussione, il suo grande amico e primo consigliere federale ticinese Stefano Franscini (1848-1857), il quale a sua volta passò il testimone al suo successore a Berna, il locarnese Giovanni Battista Pioda (1857). Questi, dopo aver dimissionato dal Consiglio federale (1864), venne inviato come Ministro di Svizzera a Torino e uno dei suoi obiettivi fu proprio quello di convincere il governo italiano sulla giusta causa del Gottardo. E vi riuscì, grazie anche alla preparazione che aveva fatto il Cattaneo, al quale era riuscito di far cambiare idea allo stesso Conte di Cavour, prima favorevole a una ferrovia attraverso il Lucomagno.
E’ forse anche utile ricordare che lo spirito del tempo non era quello che oggi respiriamo mentre ci accingiamo a festeggiare un altro passo in avanti sulla strada dell’abbattimento degli ostacoli alle comunicazioni transfrontaliere. Allora si respirava aria di guerra e di grande diffidenza tra le nazioni europee. La scelta del Gottardo è dovuta anche a quel clima. Il Regno di Sardegna era interessato a un collegamento del porto di Genova con l’Europa centrale, ma voleva evitare assolutamente di passare nel Lombardo-Veneto ancora sotto il dominio austro-ungarico. D’altra parte, anche la Germania era interessata ad un collegamento con l’Italia, ma senza passare per il territorio francese.
A far preferire la ferrovia del Gottardo furono tuttavia soprattutto le considerazione di natura economica. Basti pensare che in Italia si riteneva che con la galleria sotto il San Gottardo «sono accorciate di 36 ore le relazioni tra il settentrione e il mezzogiorno dell’Europa e l’Italia è messa in più facile comunicazione con la Svizzera e la Germania».
Tutto divenne più facile dopo il completamento dell’unità d’Italia. Così il 17 gennaio 1871 venne firmata la Convenzione sul Gottardo tra la Svizzera, l’Italia e la Germania. Quando in Italia l'influente ministro delle finanze Quintino Sella pose la questione di fiducia sul progetto di ferrovia sotto il San Gottardo l’esito fu netto: 161 voti a favore e solo 51 contrari. Il 28 ottobre 1871 venne stipulata a Berlino la Convenzione per la costruzione della ferrovia del Gottardo, le cui ratifiche vennero scambiate a Berna il 31 ottobre 1871. E la ferrovia del Gottardo, con la galleria più lunga del mondo, allora, fu realizzata.
Non furono solo di circostanza i discorsi inneggianti alla fratellanza e alla forza del genio umano che si pronunciarono nei giorni dell’inaugurazione ufficiale. Il 21 maggio 1882, Milano accolse il treno ufficiale proveniente dal Gottardo con queste parole di benvenuto: «Milano, in nome d’Italia, saluta gli ospiti fratelli d’Elvezia e d’Allemagna convenuti per la solenne inaugurazione della Ferrovia del Gottardo». E ancora: «tolte per forza di umano ingegno le naturali barriere che dividevano l’Italia dalla Svizzera, Milano esultante applaude al nuovo trionfo della scienza e dell’industria». Anche la Camera dei deputati italiana non fu da meno nell’esprimere la propria soddisfazione per «l’opera di civiltà» compiuta, non senza tuttavia ricordare, in un ordine del giorno approvato all’unanimità nella seduta del 22 maggio 1882, «la parte efficace in essa avuta dal Parlamento, dal Governo e dalla Nazione italiana» e manifestare «la sua riconoscenza a tutti coloro che promossero ed eseguirono quell’opera».
Si direbbe che il Gottardo è divenuto da allora non solo un simbolo molto amato della Svizzera ma anche un simbolo dell’italianità volta a unificare e ad aprirsi al mondo. Un simbolo, anche, della solidità dei rapporti italo-svizzeri in tutti i campi.

Un’amicizia che continua
Da allora sono trascorsi poco più di 126 anni e ancora si continua a parlare del San Gottardo perché sta per giungere a compimento un’altra realizzazione gigantesca, ancora frutto dell’ingegno e del lavoro umano. Il 15 di ottobre sarà una grande festa per tutti gli operatori di Alptransit, ma dovrebbe esserlo per tutti gli europei e, ancora una volta, soprattutto per gli svizzeri e gli italiani. Nonostante le polemiche, anche di queste settimane tra alcuni gruppi di popolazione al di qua e al di là della frontiera comune, la galleria di base del San Gottardo rappresenterà un ulteriore passo in avanti in quel processo di amicizia e di fratellanza che fu simboleggiato nella famosa statua delle due sorelle, Svizzera e Italia, collocata alla stazione di Chiasso per ricordare la prima grande impresa ferroviaria comune.
La linea veloce sotto il San Gottardo non faciliterà soltanto gli scambi commerciali e la mobilità delle persone, ma renderà più fluidi anche tutti gli altri rapporti sociali e culturali tra l’Italia e la Svizzera e il resto d’Europa.
Sotto il profilo storico, la nuova ferrovia del San Gottardo rappresenterà anche un forte avanzamento di quel processo culturale ormai in atto da decenni in Europa e che mira a superare sempre più facilmente i confini nazionali, quelli che lo storico svizzero Denis De Rougemont chiamava le «cicatrici della storia». Sotto questo aspetto vanno sicuramente relativizzate le recenti polemiche sui frontalieri perché la prospettiva storica le ha già condannate e superate.

Guardare al futuro
Del resto, la galleria del San Gottardo più che un simbolo del presente è un’anticipazione del futuro. Basta fare anche solo una rapida visita in un cantiere di Alptransit per rendersi conto della tecnologia avveniristica utilizzata, dagli impianti per sbriciolare la roccia alla messa in sicurezza del tunnel appena scavato, dalle condizioni generali di lavoro per quanto possibile a misura d’uomo ai sofisticati sistemi di sicurezza, alle precauzioni ambientali.
La presenza impressionante della tecnologia sembra mettere in secondo piano l’uomo, abituati come siamo a vedere secondo l’iconografia tradizionale sempre l’uomo in primo piano negli scavi di gallerie, magari con picco e pala o alla guida di perforatrici che oggi è giusto chiamare «primitive». Un omino costantemente messo in pericolo dalla durezza della roccia, dal caldo, dall’aria insalubre, dall’illuminazione scarsa, dal rumore assordante degli scoppi della dinamite, dalla fatica disumana. Oggi per fortuna non è più così: l’uomo è soprattutto un tecnico, governa le macchine, le fa scorrere sui binari, le dirige, le punta, le fa penetrare nella roccia, osserva l’avanzamento su monitor a cui nulla sfugge, fa in modo che tutto proceda come minuziosamente previsto e programmato.
Anche l’uomo tecnologico, tuttavia, è conscio che i pericoli non sono mai ridotti a zero e purtroppo anche Alptransit deve contare le sue vittime, molto poche rispetto a tutti i grandi lavori ferroviari precedenti, ma sempre troppe, anche italiane, sebbene che in questo cantiere del secolo gli italiani non siano né gli unici (come lo furono nello scavo della prima galleria) né i più numerosi. Oggi nel ventre della montagna oltre agli italiani s’incontrano facilmente tedeschi, austriaci, polacchi, svedesi e persino svizzeri. Anche questa mescolanza è un segno dei tempi. Un’anticipazione del prossimo futuro?
Quel che Willi Hermann, l’autore del film «San Gottardo» (1977), disse della prima galleria ferroviaria e del traforo autostradale è sicuramente ancor più vero oggi e soprattutto domani: «sono buchi che hanno modificato la storia, del Ticino, dell’Europa».

Giovanni Longu
Berna 13.10.2010

06 ottobre 2010

Ricordando il 150° anniversario dell’Unità d’Italia

Per ricordare i 150 anni dell’Unità d’Italia, inizierà prossimamente la pubblicazione di una serie di articoli dedicati ai vari decenni. Il punto di vista del racconto sarà diverso dal solito. L’autore ripercorrerà infatti alcune vicende italiane come si trattasse di un osservatore interessato agli avvenimenti ma esterno alla scena. Il luogo d’osservazione sarà la Svizzera e idealmente l’osservatore rappresenterà la collettività italiana che lungo l’arco di questi 150 anni si è venuta costituendo e rafforzando in questo Paese confinante con l’Italia. Saranno pertanto privilegiati eventi e personaggi della storia italiana che hanno influito su questa sorta di storia parallela della collettività italiana in Svizzera. Anche le fonti di riferimento terranno conto di questa prospettiva.

In nome del popolo italiano?

L’Italia sta sprofondando in una palude, si dice da più parti. Per evitare il peggio, dicono le opposizioni, bisognerebbe cambiare governo e cambiare maggioranza, in nome del popolo italiano e per il suo bene. Ma né il governo né la maggioranza attuali sono dello stesso parere e anch’essi, in nome dello stesso popolo italiano, rivendicano il diritto e il dovere di governare. Per averne la conferma recentemente hanno chiesto e ottenuto la fiducia del Parlamento. Dunque è nuovamente tutto a posto? A seguire i sondaggi e gli opinionisti i dubbi prevalgono nettamente sulle certezze. Molto dipenderà dalle prossime mosse del governo e della sua maggioranza, dando per scontato che le opposizioni continueranno a stare in agguato, pronte a sferrare al momento opportuno l’attacco finale.

Quanta ipocrisia!
Seguendo gli avvenimenti della politica italiana, sia pur di lontano, in questi ultimi mesi ho provato molta pena. Ciò che maggiormente mi ha colpito è l’ipocrisia. Ad esempio quando s’invoca un governo di unità nazionale per risolvere i problemi dell’Italia, mentre in realtà si pensa unicamente a modificare la legge elettorale e andare nuovamente alle urne. Se davvero si volessero affrontare e magari risolvere i problemi del Paese basterebbe che anche le opposizioni sostenessero l’azione del governo, almeno in quelle parti che potrebbero apportare un qualche beneficio. E poco importa se a beneficiarne sarebbero pochi o molti, purché nessuno ne soffra.
E’ emblematico al riguardo l’atteggiamento delle opposizioni e anche di parte della maggioranza sulle riforme della giustizia. Tutti ammettono ch’essa ha bisogno di essere riordinata, rimessa al suo posto previsto dalla Costituzione, adeguata alle dinamiche della società, eppure da troppi anni non si fa che bloccare qualunque tentativo di riforma con la pregiudiziale che a trarne vantaggio sarebbe «anche» Berlusconi. Così, piuttosto che concedere alcunché a una persona si preferisce danneggiarne moltissime altre.
Un altro clamoroso esempio è quello della riforma della scuola. La riforma Gelmini non sarà un capolavoro, ma va nella buona direzione. Punta decisamente sulla responsabilizzazione di tutti gli operatori del sistema e sulla meritocrazia. E’ sotto gli occhi di tutti che la scuola italiana non produce risultati comparabili a livello internazionale. Va assolutamente rinnovata introducendo maggiore efficienza, maggiore responsabilità e meritocrazia. Qualsiasi tentativo che vada in questa direzione andrebbe sostenuto. Si assiste invece ad un fuoco incrociato delle opposizioni che pur di non dare soddisfazione al governo sembrano preferire l’ulteriore franamento del sistema formativo italiano.
Trovo questi atteggiamenti irresponsabili. Non sta scritto da nessuna parte che il compito delle opposizioni sia quella di demolire e ostacolare. Perché dunque non fare uno sforzo comune per trovare una soluzione dignitosa ai precari (ma non gravando ulteriormente sullo striminzito bilancio della scuola), dare nuove opportunità ai ricercatori e concorrere uniti ad eliminare gli sprechi e a far convergere le risorse disponibili dove sarebbero meglio utilizzate?

Troppa demagogia
Purtroppo c’è troppa demagogia tra i politici italiani, sia in quelli che governano che in quelli che non lasciano governare. Gli uni perché per quel poco di buono che riescono a produrre non hanno ragione di menar vanto, soprattutto in relazione a quel che avrebbero potuto fare e non hanno fatto. Le cause? Inutile ricercarle solo nelle crisi internazionali e nella cattiva congiuntura, perché almeno una parte consistente va cercata all’interno del principale partito di maggioranza, logorato da faide interne, invidie, personalismi esasperati, frustrazioni, ripicche, ambizioni sfrenate. Non credo che si sia trattato (uso il passato, ma non so quanto la tregua duri) di dialettica interna in nome della legalità e della moralità, ma saranno come al solito gli elettori che giudicheranno alla prossima occasione.
Ad approfittare della debolezza del governo sono state soprattutto le opposizioni, ergendosi a censori e difensori del popolo italiano. Si credono migliori, anche se nei fatti hanno sempre dimostrato di non esserlo. Oltretutto hanno la memoria corta perché quattro volte di seguito l’elettorato le ha sonoramente bocciate e in democrazia l’unico giudizio che conta è il voto degli elettori. Adesso la loro unica ambizione sembra essere quella di sovvertire il risultato uscito dalle urne senza passare per la strada maestra del voto, facendo leva soprattutto sui fuorusciti dal Popolo della Libertà, i seguaci di Fini, ma non è detto che questi si prestino al gioco.
La recente fiducia del Parlamento al governo Berlusconi non ha risolto i problemi della governabilità del Paese perché si è trattato di una fiducia anomala. Molti l’hanno sicuramente votata con convinzione, altri solo per convenienza e un certo numero con l’intenzione dichiarata di voler condizionare il governo nell’applicazione del programma. E già si parla di ultimatum con scadenza addirittura a settimane! Difficile a questo punto prevedere la durata del governo e soprattutto se sarà in grado di avviare le riforme promesse. Paradossalmente, infatti, nonostante i numeri alti della fiducia, il governo è ora obiettivamente più debole, con una spada di Damocle continuamente sulla testa.

Poco rispetto della democrazia
Nonostante la situazione così precaria e deficiente della politica e il danno gravissimo che ne deriva all’Italia, tutti i big dei partiti sembrano soddisfatti del loro ruolo, che tutti credono di interpretare al meglio in nome del popolo italiano.
Sono ormai in molti a ritenere che la lotta politica in questi ultimi anni si è incattivita. Basta osservare il linguaggio di certi politici, che non si rendono nemmeno più conto di quanto le loro parole e le loro azioni siano lontanissime da quei valori a cui dicono d’ispirarsi. Basta osservare come viene trattato il dissenso in seno ai partiti, tanto di destra che di sinistra o di centro. Anche in occasione del recente voto di fiducia sono stati messi alla gogna mediatica tutti quei parlamentari che in qualche modo hanno dissentito dalla linea del capo. Si è parlato di scomunica, di tradimento, di compravendita di parlamentari, di corruzione, di stupro della democrazia, come se un parlamentare una volta eletto in un partito non avesse più diritto ad avere una sua opinione personale e un’autonomia di giudizio.
C’è in tutti i partiti un irrigidimento pericoloso. Si ammette (magari a denti stretti) che la coalizione che ha ottenuto più voti abbia il diritto e il dovere di governare, ma non si ammette che anche chi è stato relegato in forza dei numeri all’opposizione abbia il diritto e il dovere di contribuire al buon governo. Si dimentica, perché l’imbarbarimento della politica porta anche a questo, che nessun deputato e senatore è eletto per stare all’opposizione, per cui non è di per sé oltraggioso passare dalla minoranza alla maggioranza, se il passaggio avviene per convinzione personale. Naturalmente è valido anche il passaggio inverso, purché non si tratti dei famosi ribaltoni, ormai sconfessati da tutta la cultura politica. Spesso si dimentica anche che i candidati, una volta eletti, non rappresentano i rispettivi partiti d’appartenenza e nemmeno il proprio elettorato, ma tutta la nazione e dovrebbero votare liberamente secondo coscienza.
Concludo con un’ultima costatazione. Purtroppo la litigiosità dei partiti romani ha contagiato anche gli eletti all’estero. Così, invece di avere a Roma un gruppo di difesa dei diritti degli italiani all’estero, abbiamo anche all’estero personaggi legati a doppia mandata ai leader nazionali che finiscono per alimentare tensioni e divisioni inutili e dannose. Sono convinto che una loro collocazione distinta dai gruppi parlamentari dei partiti più litigiosi, ad esempio in un Gruppo Misto, riuscirebbero ad incidere maggiormente su qualunque governo, difenderebbero meglio gli interessi degli italiani all’estero e l’immagine dell’Italia, spesso ingiustamente offesa, e sarebbero molto più stimati dalla collettività che li ha eletti.

Giovanni Longu
Berna, 6.10.2010

29 settembre 2010

Intervista alla consigliera nazionale Ada Marra

Ada Marra è una di quelle persone di cui si dice che «sanno quel che vogliono». E’ cioè una persona che ha le idee chiare su quel che fa e su ciò che vuole. Questa chiarezza e questa determinazione le provengono probabilmente dal fatto di essere figlia di immigrati, venuti in Svizzera per lavorare, guadagnarsi da vivere e consentire ai figli di avere maggiori possibilità di riuscita di quante ne hanno avute loro. Di fatto, sia lei che suo fratello gemello hanno potuto studiare.
Ottenuta la cittadinanza svizzera (1998) e terminati gli studi in scienze politiche, la carriera di Ada Marra è stata lineare. Dopo le prime esperienze in diverse associazioni e soprattutto come segretaria generale del Partito socialista vodese, nel 2007 si è sentita pronta per lanciarsi nella politica federale come consigliere nazionale nelle file del Partito socialista svizzero profilandosi come parlamentare coscienziosa e determinata.
Ciò che maggiormente colpisce nella sua azione politica è la preparazione e la combattività. La competenza le deriva non solo dalla preparazione professionale e dallo studio dei dossier, ma sicuramente anche dall’esperienza e dall’osservazione, soprattutto delle ingiustizie, delle disuguaglianze, delle discriminazioni, delle possibilità negate. Ma è convinta che su questo terreno si può migliorare. Per questo lotta ed è poco disposta ai compromessi.
Ada Marra, porta nella politica anche la sua storia personale di figlia di immigrati pugliesi, con i quali parla ancora dialetto pugliese, ma anche pienamente integrata in questo Paese dove le distinzioni e discriminazioni tra svizzeri e stranieri sono ancora forti per quanto riguarda l’uguaglianza delle possibilità. Per questo uno dei temi che le stanno più a cuore e su cui insiste nei suoi interventi parlamentari è l’integrazione e il riconoscimento dei diritti degli stranieri, soprattutto per quelli di seconda e terza generazione.

Domanda: Un’integrazione riuscita è quella che fa sentire una persona (di origine) straniera a casa propria nel Paese che ha scelto come centro dei suoi interessi principali (pur conservando la ricchezza affettiva e culturale del Paese d’origine) e dove ha le stesse possibilità di riuscita degli autoctoni. Lei si sente un esempio d’integrazione «riuscita»?

Risposta: Io sono una persona che ha avuto la fortuna di crescere in un comune in cui c’era un intreccio di culture e origini. Cioè, dove le diverse fasce socioeconomiche si mescolano e ognuna di loro porta la propria ricchezza. Perciò milito per una politica che faciliti l’integrazione e per una politica dell’alloggio che privilegi questo intreccio socioeconomico.

Domanda: Lei è di origine italiana e mantiene molti legami con l’Italia e soprattutto con la regione da cui provengono i suoi genitori. Qui in Svizzera, quali sono i momenti e i luoghi in cui si sente più italiana?

Risposta: Sicuramente quando sono con i miei genitori. Sono momenti in cui si parla dialetto leccese.

Domanda: In quanto consigliera nazionale Lei è rappresentante del popolo svizzero. Si sente anche rappresentante degli italiani (e in generale degli stranieri) che vivono qui?

Risposta: La mia concezione della politica è quella di fare politica per tutti gli abitanti del Paese. Svizzeri e stranieri. Con una particolare attenzione per le persone in situazione di precarietà. Ma è ovvio che la mia storia personale mi rende più sensibile alla problematica della migrazione.

Domanda: Purtroppo la trattazione della sua iniziativa sulla naturalizzazione agevolata degli stranieri di terza generazione ha avuto proprio nei giorni scorsi uno stop. A che cosa è dovuto?

Risposta: Tutti i partiti tranne l’UDC sono d’accordo sul contenuto dell’iniziativa. La consultazione che ha avuto luogo è stata positiva e la Commissione ha tenuto conto di qualche suggerimento dei Cantoni. Purtroppo, per mancanza di coraggio politico, questa stessa Commissione ha deciso di interrompere momentaneamente i lavori e aspettare che passino le elezioni del 2011 per riprendere poi la discussione in Parlamento. Il centro-destra ha paura di parlare di questo tema prima delle elezioni… Ciò è sintomatico dell’atmosfera particolare in Svizzera per quanto riguarda gli stranieri.

Domanda: Quali sono i vantaggi e gli svantaggi dei giovani di seconda generazione, con particolare riferimento agli italiani? Cosa caratterizza un italiano di seconda o terza generazione?

Risposta: Credo che una seconda e forse anche una terza generazione sia un riferimento per gli svizzeri, sul cosa significhi essere svizzeri. Una seconda generazione è costretta a porsi queste domande. In un certo senso deve creare e inventare la definizione dell’essere svizzero. Ma in un modo reale, non derivato da miti come Guglielmo Tell.

Domanda: Cosa pensa delle forme di rappresentanza degli italiani all’estero? Sono attuali ed efficaci?

Risposta: Credo che sia un modello da seguire per gli svizzeri. E cioè bisognerebbe assegnare un certo numero di posti al Consiglio nazionale e al Consiglio degli Stati per gli svizzeri all’estero.

Domanda: E cosa pensa dell’assenza da molti anni di una rappresentanza «italiana» in Consiglio federale?

Risposta: Ritengo importante la presenza di una rappresentanza «italiana» (e non esclusivamente ticinese) al Consiglio federale. Per dare sicurezza a questa presenza basterebbe aumentare il numero dei Consiglieri federali a 9 e iscrivere nella Costituzione che almeno 2 siano romandi e 1 italofono.

Domanda: Lei si sente rappresentata, in quanto italiana, dal Consolato italiano, dal Comites del sua circoscrizione consolare, dal CGIE, dai politici eletti all’estero?

Risposta: Non mi sento rappresentata, ma sento di essere un’interlocutrice privilegiata di queste persone. Anche per far passare dei messaggi in Consiglio nazionale.

Domanda: In che senso gli italiani all’estero possono essere considerati «una risorsa» per l’Italia? Lo sono per davvero?

Risposta: Sicuramente. Innanzi tutto non dimentichiamo l’immenso apporto economico degli italiani all’estero per l’Italia negli anni 60 per esempio. Gli emigrati lavoravano in Svizzera e spendevano i soldi in Italia, costruendo le loro proprie case, a volte aiutando i propri familiari rimasti in paese. Dovrebbe esserci una grande gratitudine nei confronti degli emigrati. Attualmente sono forse i migliori ambasciatori dell’Italia. Io stessa spero di fare onore all’Italia nella mia attività di parlamentare in questo mio altro Paese.

Grazie on. Marra e tanti auguri per il suo lavoro e le sue aspirazioni.











La consigliera nazionale italo-svizzera Ada Marra intervistata da Giovanni Longu



Berna 29.09.2010



Diritto di voto agli stranieri: andare avanti comunque…!

Lo scorso fine settimana, l'elettorato bernese e basilese hanno rifiutato massicciamente di estendere il diritto di voto e di eleggibilità agli stranieri, come chiedevano due simili iniziative popolari a livello cantonale. Si sa, il tema è molto controverso. In alcuni Cantoni è stato da tempo risolto, in altri evidentemente fa fatica a trovare un’equa soluzione, a causa soprattutto di un partito, l’Unione democratica di centro (UDC), che ha molta presa sul ceto medio e che è decisamente contrario a estendere il diritto di voto, anche solo a livello locale, agli stranieri. Per l’UDC il diritto di voto è legato inscindibilmente alla cittadinanza svizzera, punto e basta.
L’esito negativo di Berna e Basilea Città non dovrebbe tuttavia indurre soprattutto gli stranieri domiciliati in Svizzera da molti anni a rassegnarsi a questa esclusione. Essi devono continuare a sentirsi coinvolti da tutto quello che succede nel proprio Comune e partecipare alla vita pubblica, sfruttando ogni spiraglio di collaborazione offerto in numerosi ambiti (scuola, quartiere, chiesa, stampa, dibattiti pubblici, ecc.). Per convincere i numerosi svizzeri che hanno ancora qualche dubbio sull’equità e sull’utilità del voto degli stranieri la maniera più efficace potrebbe essere l’interesse che gli stranieri riescono a dimostrare per la cosa pubblica, partecipando ai dibattiti, rivolgendo domande pertinenti e motivate alle autorità, avanzando proposte convincenti nell’interesse di tutti.
Contro certe posizioni radicali gli argomenti valgono poco, ma un buon lavoro col tempo finisce sempre per portare i suoi frutti e prima o poi anche il diritto di voto degli stranieri a livello comunale rientrerà nella normalità. Anche l’ostacolo del federalismo, per cui in questa materia ogni Cantone decide autonomamente, finirà per essere travolto dal buon senso che vorrebbe in un piccolo Paese come la Svizzera un’unica politica in materia d’integrazione degli stranieri.
L’importante, a questo punto, è non perdere la fiducia. Forse, dopo le elezioni politiche dell’anno prossimo, che si preannunciano molto combattute, la strada per la conquista del diritto di voto agli stranieri e anche quella della naturalizzazione «semiautomatica» degli stranieri di terza generazione sarà più facilmente percorribile. Al punto in cui ci troviamo, in un mondo caratterizzato da una crescente circolazione della persone e in una Svizzera che non può fare a meno del contributo degli stranieri, nemmeno all’UDC converrà più ostacolare il coinvolgimento diretto degli stranieri in un processo d’integrazione che sarà sempre più la carta vincente della Svizzera.
In questa rubrica si cercherà di offrire ogni volta che se ne presenti l’occasione di tenere alta l’attenzione su questi temi. Cominciamo in questo numero con un’intervista alla giovane consigliera nazionale italo-svizzera Ada Marra.

22 settembre 2010

Il diritto di voto comunale agli stranieri presto anche a Berna?

Mi colpisce, ogni volta che ricevo dalla cancelleria della Città di Berna il materiale informativo sulle votazioni a livello comunale, un’avvertenza contenuta nella lettera d’accompagnamento. Essa ricorda che il fatto di ricevere le informazioni «non comporta il diritto di voto, perché il diritto cantonale vieta (verbietet) alla Città di Berna di concedere il diritto di voto e di eleggibilità agli stranieri». Con questa espressione il Comune di Berna sembrerebbe quasi scusarsi di non poter chiedere anche agli stranieri il proprio contributo elettorale e basterebbe solo il sì del Cantone per invitare anche loro ad esprimere il loro voto. O forse si tratta solo di una mia benevola interpretazione e di un mio auspicio. La verità si conoscerà già a partire dal prossimo 26 settembre.

Materia controversa
Ai cittadini del Cantone di Berna, che hanno già ricevuto il materiale di voto, è stato chiesto di votare l’iniziativa popolare «zäme läbe – zäme schtimme» (vivere insieme – votare insieme), mirante ad abolire il divieto che oggi impedisce ai Comuni di estendere il diritto di voto e di eleggibilità agli stranieri. Occorre dire che in questa materia ci sono ancora, a livello svizzero, molte perplessità, soprattutto nei partiti borghesi, ma si può anche osservare che la tendenza a livello nazionale indica l’estensione di tale diritto anche agli stranieri domiciliati o residenti da un certo numero di anni. La «pecora nera» in questa tendenza è rappresentata soprattutto dall’Unione democratica di centro (UDC), che si ostina a voler riservare il diritto di voto comunque e solo ai cittadini svizzeri.
Sono persuaso che le ragioni a favore del riconoscimento anche agli stranieri del diritto di voto e di eleggibilità a livello comunale prevalgano su quelle contrarie. Per superare molte difficoltà di ordine giuridico o astratto, ad esempio sul rapporto tra diritto di voto e cittadinanza, basterebbe ragionare in termini di ragionevolezza e di opportunità partendo dalla realtà.
La realtà è che moltissimi stranieri da lungo tempo residenti stabilmente nei Comuni bernesi, dove svolgono magari professioni di grande interesse pubblico, nelle votazioni comunali contano meno dell’ultimo confederato arrivato, anzi non contano affatto. Questa disuguaglianza comporta in molti stranieri un senso di frustrazione e di discriminazione, perché appare una specie di punizione ingiustificata del fatto di non essere svizzeri, pur sentendosi (ed essendo) pienamente integrati nella realtà comunale. Per questo tutti gli stranieri del Cantone di Berna, ma anche molti svizzeri, auspicano che prima che cada l’ultimo ostacolo roccioso al tunnel più lungo del mondo sotto il San Gottardo (previsto per il 15 di ottobre) cada questo divieto che ancora li separa sul piano comunale. Ma a volte, si sa, certi pregiudizi sono più duri e resistenti del granito.

Divieto anacronistico
Guardando alla storia, forse la differenziazione tra cittadini e stranieri era pertinente quando l’immigrazione era costituita da flussi irregolari e provvisori, quando in Svizzera l’immigrazione era regolata dal principio di rotazione, per cui lo stabilimento di uno straniero sul territorio era una specie di premio alla (lunga) carriera mentre la regola stabiliva che l’immigrato per eccellenza doveva essere «stagionale» e la permanenza nella Confederazione era misurata in stagioni. Ma questi tempi sono ormai lontani, lo statuto stagionale è stato da tempo abolito e oggi anche la Svizzera ha accettato come gran parte dell’Europa continentale il regime di libera circolazione delle persone. Negare il diritto di voto agli stranieri a livello locale appare pertanto anacronistico.
Tale divieto è ancorato in una concezione degli stranieri stravecchia, risalente alle discussioni della vecchia legge sugli stranieri del 1931, anch’essa abolita, quando dominava la paura dell’«invasione degli stranieri» e dell’inforestierimento. Dal 1970, quando si è cominciato a porre seriamente il problema dell’integrazione degli stranieri residenti stabilmente in Svizzera, ne è passata di acqua sotto i ponti dell’Aare! Eppure molti pregiudizi sono rimasti e rischiano di rimanere, grazie soprattutto a una propaganda miope e poco coraggiosa della destra politica bernese.
Oggi è sotto gli occhi di tutti la crescente mobilità delle persone a livello nazionale e transnazionale. La sfera dei diritti tende sempre più ad essere legata alle persone più che ai territori, tanto è vero che anche lo stesso concetto di cittadinanza legato a un’appartenenza nazionale-territoriale comincia a vacillare. Tendenzialmente mi sembra giusto che ognuno debba potersi sentire «a casa propria», nella pienezza dei diritti individuali e sociali (compresi i diritti civici) ovunque si trovi stabilmente.
Nella ostinazione a non voler concedere agli stranieri quel che sarebbe utile e opportuno concedere si potrebbe vedere persino qualcosa di perverso, una sorta di volontà subdola di voler perpetuare la discriminazione tra ospitanti e ospiti o, peggio, l’idea già evocata negli anni Sessanta da Max Frisch, di un «popolo dominatore» che fa venire un esercito di «lavoratori stranieri», «braccia», «lavoratori ospiti» (Gastarbeiter) quando servono e finché servono, «indispensabili al benessere», di cui anch’essi possono beneficiare, ma non dell’«intero benessere» e all’infinito.
Si vuole davvero che gli stranieri stiano sempre almeno un gradino sotto gli svizzeri e al loro servizio permanente effettivo? E si vuole davvero, come dagli anni Settanta si sta predicando, che gli stranieri s’integrino e si sentano integrati, pienamente riconosciuti ed equiparati, oppure è solo una finzione perché in fondo li si vorrebbe ben assimilati o altrimenti puniti se non lo sono? Ma questa sarebbe un’idea davvero perversa da rigettare, anche perché non avrebbe alcun corso legale in un mondo in cui non ci sono più popoli dominatori e l’uguaglianza dei cittadini dal tempo della Rivoluzione francese avanza sempre più velocemente.

Estendere agli stranieri il diritto di voto è ragionevole e opportuno
E’ ragionevole perché il concetto stesso di Comune, da cui comunità e comunione, vuole che al suo interno tutti i membri abbiano gli stessi diritti e doveri. In questa ottica di partecipazione comunitaria non è possibile giustificare l’esistenza di cittadini di serie A e di serie B. E’ invece ragionevole che tutti indistintamente siano chiamati a partecipare non solo al finanziamento delle varie necessità comuni ma anche alla definizione dei progetti e soprattutto alla loro approvazione.
Giustamente si chiede ai nuovi arrivati uno sforzo per apprendere del luogo in cui vivono usi e costumi e naturalmente la lingua, in modo da «integrarsi» il più presto possibile. Ma che integrazione è se al termine del percorso s’incontra il limite invalicabile del diritto di voto? So benissimo che mi si potrebbe obiettare che per abbattere l’ostacolo basterebbe naturalizzarsi, prendere la nazionalità svizzera. Ma si tratta di un’obiezione che non risponde alla domanda perché dà per scontato che ci possa essere vera integrazione solo naturalizzandosi e che per decidere se vendere o acquistare un immobile o dove far passare una linea del tram o mille altre questioni del genere… occorra essere svizzeri.
Si dovrebbe anche riflettere sul fatto che il diritto di voto a livello comunale è già stato introdotto in altri Cantoni e a quanto sembra non ha provocato alcun scombussolamento tra le forze politiche o alcun senso di privazione nell’elettorato tradizionale. Perché non dovrebbe succedere la stessa cosa anche nel Cantone di Berna? Oltretutto starà poi ai singoli Comuni decidere circa l’opportunità di concedere il diritto di voto ai loro abitanti stranieri.
Non è solo ragionevole ma anche opportuno estendere il diritto di voto e di eleggibilità agli stranieri. In un’epoca in cui i politici lamentano l’allontanamento dei cittadini dalla politica e l’elettorato è sempre meno motivato a recarsi alle urne, un ampliamento della base elettorale dovrebbe essere visto positivamente. Tanto più che molti stranieri sarebbero ben disposti e ben preparati per una partecipazione più diretta alla cosa pubblica. E’ dunque nell’interesse stesso del Comune, ossia della comunità, che anche gli stranieri possano contribuire alla definizione e alla gestione del bene comune. Privarsi di questa risorsa appare insensato.
Bisognerebbe anche rendersi conto che da troppi anni gli stranieri stabiliti in maniera definitiva in questo Paese reclamano la possibilità di votare e a furia di sentirsi dire di no si corre il rischio che finiscano per rassegnarsi, ma anche a disinteressarsi della cosa pubblica. E non sarebbe certo un contributo alla democrazia diretta, già sufficientemente in crisi.
Tocca ora al Cantone di Berna dar prova di coraggio e di apertura, come è già avvenuto in altri Cantoni, non solo in quelli all’avanguardia di Neuchâtel e Giura, ma anche in quelli di Vaud, Friburgo, Turgovia, Zugo, Appenzello Esterno, ecc. Sarebbe un tassello importante per l’estensione a tutta la Svizzera del diritto di voto degli stranieri a livello comunale.

Giovanni Longu
Berna 22 settembre 2010

15 settembre 2010

Rappresentanza «italiana» al Consiglio federale: ma quale?

Il problema della rappresentanza della «Svizzera italiana» nel Consiglio federale viene sollevato anche con toni vivaci ogniqualvolta si sta per eleggere un nuovo consigliere federale, poi viene accantonato fino alla prossima occasione. Così è stato riproposto nei mesi scorsi, visto che il 22 settembre saranno eletti i successori dei due consiglieri federali dimissionari, Leuenberger e Merz. Purtroppo, tra i candidati ufficiali, non figura nemmeno stavolta un rappresentante della «Svizzera italiana», nonostante che il ticinese Ignazio Cassis, consigliere nazionale, si fosse messo a disposizione.
Il problema rischia di acutizzarsi perché un italofono non siede più nel Governo federale dal 1999, ossia dalle dimissioni di Flavio Cotti, e si dovrà ancora attendere non si sa quanti anni prima che un’altra personalità qualificata possa tenere alta la bandiera dell’italianità ai vertici del Paese. Anche la recente bocciatura da parte della Commissione delle istituzioni del Consiglio nazionale di una iniziativa del Cantone Ticino per portare da 7 a 9 il numero dei consiglieri federali non è di buon auspicio. Non per questo, tuttavia, il problema va abbandonato, anzi occorre riesaminarlo alla luce di quanto prevede la Costituzione federale e di quanto è accaduto dal 1999 ad oggi, allo scopo di elaborare una strategia vincente.
I politici ticinesi rivendicano a gran voce un seggio per la «Svizzera italiana» richiamandosi sia all’articolo costituzionale sulla rappresentanza del Consiglio federale e sia all’esigenza della «coesione nazionale». Purtroppo l’interpretazione dell’articolo costituzionale che regola la materia non è univoca. Per taluni, il contenuto dell’articolo 175 capoverso 3 («Le diverse regioni e le componenti linguistiche del Paese devono essere equamente rappresentate») sembra più un auspicio che un dovere. Del resto, in questa direzione sembra orientarsi la versione tedesca, che invece di «devono» utilizza l’espressione meno impegnativa «Dabei ist darauf Rücksicht zu nehmen…» (occorre aver riguardo…).

Superare gli equivoci parlando più chiaro
Bisogna anche osservare che, mentre la componente linguistica tedesca è compresa quasi per intero nella regione denominata «Svizzera tedesca» e la componente francofona nella «Svizzera francese», non altrettanto si può dire per la componente linguistica italofona che non è riferibile se non per poco più della metà alla tradizionale «Svizzera italiana», limitata geograficamente al Ticino e ad alcune vallate italofone dei Grigioni. Questa differenza è evidenziata in tutti i censimenti federali della popolazione dalla seconda metà del secolo scorso in poi. Purtroppo questa differenza non emerge sempre chiaramente, ad esempio quando si rivendica una rappresentanza nel Governo federale della «Svizzera italiana».
Credo pertanto che si debba fare chiarezza al riguardo, per evitare che si travisino anche le migliori intenzioni, com’è accaduto proprio in occasione della candidatura Cassis.
Sicuramente l’on. Cassis, quando ha dato la sua disponibilità per una candidatura al Consiglio federale, era mosso dalla sincera volontà di rappresentare l’intera «italianità» che c’è in Svizzera e non solo in Ticino, ma questa volontà non è emersa chiaramente in pubblico, complice anche una stampa un po’ confusionaria, ma forse per un difetto di precisione da parte dello stesso protagonista. Motivando la sua candidatura con l’esigenza di offrire una rappresentanza della «Svizzera italiana» («La Svizzera italiana vuole essere rappresentata in Governo», aveva dichiarato alla NZZ am Sonntag del 15.8.2010), probabilmente l’on. Cassis non si rendeva conto che il concetto di «Svizzera italiana», in questo contesto, non è univoco, e abbisogna quantomeno di precisazioni.
I politici e i media ticinesi non hanno certo contribuito a portare chiarezza. Infatti la candidatura di Cassis è stata spesso presentata come una specie di rivendicazione ticinese a un posto in Consiglio federale, una candidatura di bandiera, quasi doverosa per un Cantone importante come il Ticino. Così, giusto per citare un esempio, dopo l’esclusione del deputato ticinese dalle candidature ufficiali, il Corriere del Ticino del 4.9.2010 titolava con evidente rammarico «E il Ticino resta a guardare» e nel seguito dell’articolo di Rocco Bianchi si poteva leggere indifferentemente «… il Ticino, che sarà costretto a rimanere fermo ancora un giro e forse più», ma anche «la Svizzera italiana insomma resterà ancora una volta a guardare la stanza dei bottoni da lontano, e per molto tempo».

La «Svizzera italiana» è regionale o nazionale?
Di fatto la disponibilità di Ignazio Cassis è stata interpretata in taluni ambienti come una «candidatura regionale», una rivendicazione «ticinese» o anche della «Svizzera italiana» (ma intesa come «Ticino» o poco più), insomma una «candidatura di bandiera». Contro questo tipo di candidatura si è schierato in particolare il quotidiano zurighese «Blick», provocando fra l’altro una vivace reazione del Partito liberale radicale (PLR), il partito di Cassis.
In realtà, a prescindere dall’attacco del Blick, il problema della «rappresentanza della Svizzera italiana» resta aperto e andrebbe chiarito prima che si riproponga nelle stesse forme in altre occasioni. La risposta del PLR al Blick, affidata ad un comunicato, apporta una certa chiarezza ma non ancora in misura sufficiente. Non basta, infatti, respingere l’attacco del Blick perché «va a minare lo spirito stesso della coesione nazionale», ma bisognerebbe dare spiegazioni plausibili. Non bastano nemmeno affermazioni del tipo: «La Svizzera è una Willensnation e solo se verrà mantenuta la centralità di elementi quali il federalismo e il rispetto e la rappresentanza delle minoranze potrà continuare nella sua strada di successo». E non contribuisce a risolvere una volta per tutte l’annosa questione nemmeno la parte finale del comunicato del PLR ove si tenta di legittimare la candidatura Cassis perché «denigrare il desiderio di essere rappresentata di una delle componenti culturali della Svizzera, bollandolo come “rivendicazione regionale”, significa non aver compreso l’importanza della coesistenza delle tre culture per lo sviluppo e il successo del nostro Paese».
La risposta del PLR giungeva in ogni caso troppo tardi quando la candidatura Cassis era già compromessa. Credo anche che, oggettivamente, il partito di Merz e di Cassis non abbia fatto abbastanza per legittimare non tanto la candidatura del giovane politico ticinese, quanto per rivendicare con forza e convinzione la legittimità e la naturalezza di una valida candidatura di tutta la Svizzera «italiana», ossia di quell’«italianità» che si estende, tanto per intenderci da Chiasso a Basilea, da Ginevra a San Gallo.

Svizzera italiana e italianità della Svizzera
Qui sta probabilmente il nocciolo della questione. Il concetto di «Svizzera italiana» rischia troppo spesso di essere fatto coincidere con quello del «Ticino». Questa coincidenza va superata in ambito politico e soprattutto linguistico-culturale, rivendicando al sostantivo «italianità» e all’aggettivo «italiana» riferiti alla Svizzera un’estensione che superi tutti i confini regionali (anche se ha il suo radicamento storico e la sua massima espressione nel Ticino) e acquisti una valenza «nazionale».
Muovendosi in questa ottica, purtroppo tardivamente quando ormai i giochi erano fatti, l’on. Cassis ha cercato di precisare il senso della sua candidatura in una lettera aperta ai «cari svizzeri», pubblicata dal «Caffè» (anche se non so quanti confederati leggano il Caffè!). Alcuni passaggi meritano particolare attenzione, ad esempio quando afferma che «per molti di voi, "Ticino" è sinonimo di "Svizzera italiana"» (lasciando chiaramente intendere che per lui non lo è), oppure quando sostiene che «la presenza in Governo della cultura italiana non è una rivendicazione cantonale o regionale, come molti media confederati lo pretendono in questi giorni, paragonando p. es. la candidatura ticinese a quella basilese. No, la presenza della cultura italiana in Consiglio federale è una questione nazionale, di primaria importanza, per il bene della Svizzera assai più che per quello del Ticino».

Indispensabile creare la massa critica «italiana»
Credo che abbia fatto bene l’on. Cassis a rivendicare la dignità e l’importanza dell’«italianità» di fronte a molti svizzeri che talvolta si sentono disturbati dalla parola «italianità» e probabilmente pensano che «Roma non c’entra con Svitto, culla del nostro Paese». Mi domando, tuttavia, perché Ignazio Cassis lo stesso discorso non lo ho rivolto anche ai propri concittadini ticinesi, sebbene nella lettera formalmente non li escluda. Sono infatti convinto che siano essi i primi a dover meditare sulle sue affermazioni. Solo un’ampia condivisione di alcuni principi da parte loro potrà far sperare che a livello nazionale si trovi una massa critica tale da rivendicare per tutti coloro che si richiamano all’italianità di cui parla Cassis il sacrosanto diritto di essere rappresentati ai vertici dello Stato. A quel momento sarà anche difficile ai «cari svizzeri confederati» non riconoscere questo diritto.
Per raggiungere una tale massa critica, che dovrà mantenere la sua centralità nel Ticino, mi pare altresì necessario che essa si sviluppi anche fuori Cantone, soprattutto nei grandi centri urbani (Zurigo, Basilea, Berna, Ginevra, Lucerna, ecc.) dove la presenza italofona di ticinesi e italiani è particolarmente significativa. Sarebbe un peccato, anche a prescindere dalla rappresentanza in seno al Consiglio federale, non riuscire a coinvolgere in questo vasto progetto di valorizzazione dell’italianità della Svizzera quel che resta – ed è tanto e prezioso - della massiccia immigrazione italiana nel trentennio 1950-1980. Si tratta di una realtà straordinaria, che vive, pensa, partecipa allo sviluppo di questo Paese.

Giovanni Longu

Berna, 15.09.2010

14 settembre 2010

1970-2010 Quarant’anni di immigrazione italiana in Svizzera

(Comunicato stampa)
Conferenza a Berna sul tema: 1970-2010 Quarant’anni di immigrazione italiana in Svizzera

A quarant'anni di distanza dalla famosa iniziativa antistranieri promossa da James Schwarzenbach (respinta in votazione popolare il 7 giugno 1970) è lecito interrogarsi quali ne furono le cause e quali conseguenze ha prodotto sulla politica svizzera in materia d'immigrazione e soprattutto sulla collettività italiana, allora e anche ora la più numerosa tra le diverse nazionalità presenti in Svizzera, da oltre 120 anni Paese d'immigrazione.
La memoria, coniugata col presente, dà un senso al passato e anticipa il futuro. In questo contesto, il Gruppo promotore dell’ASIB (Assoiazione Serate Italiane a Berna) organizza alla Casa d’Italia di Berna (Bühlstrasse 57), sabato 18 settembre 2010, una conferenza sul tema: «1970-2010: com’è cambiata l’immigrazione italiana in Svizzera!».
In un arco di tempo relativamente lungo, ma anche vicino, è possibile misurare i numerosi cambiamenti che hanno interessato la collettività italiana in Svizzera. Confrontando la situazione di quarant’anni fa con quella di adesso sarà facile capire non solo quanta strada ha percorso la collettività italiana verso la piena integrazione, ma anche a che prezzo sono state pagate le conquiste di oggi, di cui beneficiano soprattutto le seconde e terze generazioni, ma anche le prime che hanno deciso di invecchiare in questa che per molti è divenuta la seconda Patria.
Il relatore dott. Giovanni Longu cercherà di rispondere, avvalendosi anche con grafici e dati statistici, soprattutto alle domande seguenti:
- Com’erano gli italiani e le italiane negli anni Sessanta e Settanta?
- Perché il 1970 è stato un anno fondamentale nella storia dell’immigrazione italiana in Svizzera?
 - Quali fattori hanno determinato la fine di un tipo di immigrazione basato sul principio di rotazione e l’inizio di un lungo processo d’integrazione?
- Com’è cambiata la collettività italiana immigrata dagli anni Settanta ad oggi? Quali problemi dovettero affrontare?
- Quali sono le sue caratteristiche principali?

Al termine della relazione e degli interventi del pubblico seguirà un rinfresco.

08 settembre 2010

Mattmark ricorda!

Sabato 4 settembre sono salito come altre volte in passato al lago di Mattmark, attratto dalla bellezza dei luoghi, ma anche dalla storia di quella diga possente che trattiene nel lago artificiale oltre 100 milioni di metri cubi d’acqua, frutto, in parte, del lavoro italiano e segnato per sempre dalla tragedia che uccise 88 lavoratori di cui ben 56 italiani provenienti da 11 regioni d’Italia (Veneto, Calabria, Trentino, Friuli, Emilia, Abruzzo, Campania, Puglia, Sardegna, Sicilia, Molise). Quest’anno ci sono salito con una guida d’eccezione, Ilario Bagnariol, uno dei pochi sopravvissuti.
Mentre percorriamo la vallata che da Saas Almagell porta alla diga, Ilario mi indica a destra e a sinistra della strada dove erano situate baracche degli operai, le mense, le officine, la direzione generale dei lavori, le abitazioni dei lavoratori con famiglia, dove si trovava la strada allora, in quanto tempo la percorrevano per salire dagli alloggiamenti al cantiere sulla diga, ecc. Giunti quasi in cima all’attuale parcheggio delle automobili mi indica fin dove giungeva allora, 45 anni fa, il ghiacciaio, dov’era piazzato il cantiere, e dove lui si trovava al momento dello staccarsi micidiale del ghiacciaio. Si trattò, mi dice, di pochissimi attimi, ricorda però nitidamente che quella massa enorme di ghiaccio sembrava arrivargli addosso quando improvvisamente, a qualche decina di metri dal punto in cui si trovava col suo mezzo pesante, scontrandosi con la morena, cambiò direzione … e fu salvo.
Non riesco ad immaginare cosa può provare un sopravvissuto nel rivedere quei luoghi dove ha lavorato per alcuni anni, dove ha stretto amicizia con tanti immigrati come lui (perché quando si devono affrontare lavori difficili e pericolosi la solidarietà è un fatto spontaneo!), dove la morte gli è passata a pochi metri. So solo che Ilario, anche a distanza di 45 anni non dimentica mai i compagni di lavoro periti sotto la massa di ghiaccio, non prova più sensi di colpa per essere un sopravvissuto (per vent’anni non mise più piede da quelle parti!), si rende conto di essere una specie di miracolato e per questo non dimentica nulla ed è uno dei protagonisti delle annuali commemorazioni.

Il luogo della disgrazia
Giunti ai piedi della diga, dove numerosi «pellegrini» sono già pronti per la commemorazione religiosa, mi stacco dal gruppo per osservare dall’alto il paesaggio circostante, splendido, soprattutto in una giornata di sole come quella del 4 settembre di quest’anno. Mentre osservo l’enorme sbarramento in pietra e terra provo però un profondo senso di commozione sapendo quanta fatica, quanto sudore e quanto sangue è costato soprattutto ai lavoratori italiani che hanno contribuito a costruirlo tra il 1960 e il 1969. Poi il mio sguardo si fissa su quella che è oggi una enorme parete scoscesa di pietra e sulla quale, invece, si stendeva fino alle ore 17.30 del 30 agosto 1965 il ghiacciaio Allalin.
Resto per qualche tempo immobile, mentre i miei pensieri corrono. Sulla base di fotografie scattate prima della tragedia, di filmati d’epoca e delle testimonianze di alcuni sopravvissuti, cerco di immaginarmi la situazione di 45 anni fa. Il ghiacciaio che si estendeva alcune centinaia di metri più a valle, apparentemente tranquillo, centinaia di lavoratori che prelevavano dalle morene pietre e terra di riempimento della diga (occorrevano complessivamente circa 10 milioni e mezzo di metri cubi di materiale) e poche centinaia di metri sotto il ghiacciaio, su un pianoro, i baraccamenti del cantiere con alcuni magazzini, officine, dormitorio, mensa (gli alloggiamenti principali del personale e le grandi officine, come pure la direzione centrale erano situate a valle ad alcuni chilometri dalla diga). Tutto sembrava tranquillo, tant’è che Ilario Bagnariol avanzava come tutti i giorni col suo bulldozer verso la cresta della morena da cui si prelevava il materiale e l’ingegnere olandese Egbert Roosma stava per iniziare i controlli di routine.

Dubbi e certezze
In realtà, l’unica certezza era che centinaia di persone, per lo più immigrate, in quel momento o erano al lavoro o ancora riposavano perché avevano svolto il turno di notte e tutte, comunque, in quel cantiere cercavano di meritare un giusto salario per le esigenze della propria famiglia. Era invece incerta la tranquillità del ghiacciaio, come dimostrò fragorosamente e tragicamente alle 17.30 di quel lunedì 30 agosto 1965, forse irritato per i continui scoppi di mine o per le mutevoli condizioni del tempo o chi sa? per altre ragioni rimaste sconosciute o comunque non determinanti (anche ai giudici che dovettero pronunciarsi nei successivi processi). Era sicuramente incerta, la stabilità del ghiacciaio, anche per i responsabili del cantiere, tanto è vero che procedevano spesso a sondaggi e negli ultimi giorni prima della catastrofe un elicottero volteggiasse in continuazione lungo le propaggini del ghiacciaio.
I giudici scartarono qualsiasi responsabilità diretta dei responsabili del cantiere e non sta certo a chi scrive rifare processi o emettere sentenze. Qualche dubbio comunque resta, perché è difficile spiegare sia in termini comuni che in termini scientifici, che senza alcun segno premonitore possano sganciarsi improvvisamente e contemporaneamente da un ghiacciaio oltre un milione e mezzo di metri cubi di ghiaccio e detriti, producendo un boato udito a chilometri di distanza e distruggendo un cantiere sicuramente non sufficientemente protetto.
La tragedia, con o senza colpevoli, resta comunque per la storia dell’immigrazione italiana in Svizzera una pagina triste, scritta col sangue. Fu anche una pagina importante per il futuro della collettività italiana, in quegli anni al centro di micidiali attacchi della destra xenofoba che ne chiedeva un drastico ridimensionamento. Data l’eco che la disgrazia di Mattmark ebbe su tutti i mezzi di comunicazione di massa, l’opinione pubblica svizzera si rese conto forse per la prima volta del significato non solo economico ma anche umano della popolazione immigrata. In realtà gli immigrati non portavano via lavoro e soldi agli svizzeri, non inquinavano la loro cultura, ma apportavano ricchezza, contribuivano col loro lavoro, con la loro fatica e talvolta col loro sangue al benessere della Svizzera. I movimenti xenofobi non indietreggiarono in seguito alla tragedia di Mattmark, ma sta di fatto che le loro idee non riuscirono mai a prevalere nell’opinione pubblica e nessuno mai escludere se e quanto possa aver influito sulla decisione di molti svizzeri di respingere negli anni successivi tutte le iniziative antistranieri.

La memoria di Mattmark
Sul posto, prima della cerimonia religiosa, anche altri sopravvissuti rievocano con una straordinaria nitidezza di particolari quel che videro e udirono e soprattutto lo strazio nel non vedere e non udire nemmeno un lamento di tanti amici e colleghi. Invano i superstiti andarono alla ricerca di eventuali feriti. Ne furono trovati pochissimi, la maggior parte era morta sotto diversi metri di ghiaccio e pietre.
Quest’anno, alla commemorazione delle 88 vittime, di cui 56 italiane, è intervenuta anche una folta delegazione di parenti e amici delle vittime bellunesi (ben 17), guidata dal vescovo della diocesi di Belluno-Feltre mons. Giuseppe Andrich. Presenti anche numerosi rappresentanti di associazioni, l’agente consolare Rossana Errico, il senatore G. Vaccari e l’on. F. Narducci.
Così ogni anno si perpetua il ricordo di quell’immane tragedia e si onorano, come vuole la dedica incisa sulla lapide ricordo apposta sulla roccia a loro dedicata, quei «morti sotto il ghiaccio / vivi nella memoria».

Giovanni Longu
Berna, 8.9.2010