17 giugno 2010

Denatalità e «suicidio demografico», in Italia e in Svizzera

[Versione breve]
Qualche settimana fa il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana (CEI), ha ritenuto opportuno richiamare l’attenzione dei poteri pubblici sulla gravità della situazione demografica italiana e sollecitare rimedi adeguati come l’introduzione del quoziente familiare.
Il richiamo del cardinale era motivato dal perdurare della denatalità che sta portando l’Italia «verso un lento suicidio demografico: oltre il cinquanta per cento delle famiglie oggi è senza figli e, tra quelle che ne hanno, quasi la metà ne contemplano uno solo, il resto due, e solamente il 5,1 delle famiglie ha tre o più di tre figli».
Il cardinale Bagnasco sembra preoccupato oltre che della denatalità anche della perdita di valore (religioso) della famiglia «fondata su quel bene inalterabile che è il matrimonio tra un uomo e una donna, che va difeso (…) e continuamente preservato quale crogiuolo di energia morale».
Ovviamente, niente da eccepire sul significato (religioso) del matrimonio e sul concetto di «famiglia» di Monsignor Bagnasco. Quanto invece a considerare un «suicidio demografico» il fatto che in Italia, all’interno della famiglia, nascano meno figli di una volta mi sembra esagerato. Tanto più che i dati statistici degli ultimi anni parlano di una ripresa della natalità. Ma anche a prescindere da questo segnale incoraggiante, andrebbe ricordato che l’equilibrio demografico in un grande Paese non è solo garantito dalla prole che nasce nelle famiglie fondate sul matrimonio. Esistono infatti altri tipi di «famiglie» di fatto che contribuiscono anch’esse all’equilibrio demografico. Si pensi ad esempio alle coppie non sposate con figli o alle famiglie monoparentali. Soprattutto in un Paese d’immigrazione com’è divenuta ormai l’Italia, l’equilibrio demografico è anche dato dall’apporto considerevole delle giovani immigrate, generalmente più prolifiche delle autoctone. Inoltre, storicamente, l’andamento della natalità è stato altalenante.
In generale, una società fondamentalmente sana e produttiva trova sempre la maniera di rigenerarsi. E’ stato, ad esempio, il caso della Svizzera, cronicamente confrontata con un basso tasso di natalità eppure oggi un Paese in crescita non solo economicamente ma anche demograficamente, proprio grazie all’immigrazione.
In questo Paese, tra il 1900 e il 1940 il tasso di natalità degli svizzeri era sceso sotto il 15%. Soprattutto dopo il 1920 era crollato drammaticamente. Tra il 1900 e il 1960 la classe d’età da 0 a 15 anni era scesa dal 40,55% al 31,3%, mentre era quasi raddoppiata dal 5,8% al 10,4% quella delle persone di 65 e più anni. Anche allora (1938) si parlò di rischio di «suicidio collettivo».
Con lo scoppio della seconda guerra mondiale, la situazione della denatalità in Svizzera divenne ancor più preoccupante, perché sembrava mettere a rischio il futuro stesso dell’esercito e dello stato sociale. Il consigliere federale Philippe Etter, cattolico molto conservatore, definì la denatalità come un «problema nazionale» (1938). L’esposizione nazionale del 1939 divenne un’occasione straordinaria per richiamare l’attenzione del popolo svizzero sul rischio di un «suicidio collettivo». Attraverso, conferenze, discorsi, opuscoli e la radio, fu diffuso il messaggio che un popolo senza bambini era votato alla morte, che la sorgente della vita si esauriva, soprattutto nelle città, che era necessaria una «offensiva della vita» affinché la Svizzera non sparisse.
A differenza delle buone maniere di Monsignor Bagnasco, che fa appello soprattutto «ai responsabili della cosa pubblica» perché mettano in essere politiche familiari adeguate e rispettose delle donne lavoratrici, in quegli anni di guerra, soprattutto negli ambienti cattolici si cercava di addossare le responsabilità dirette della denatalità in Svizzera non tanto allo Stato quanto piuttosto ai cittadini… irresponsabili. Alle donne soprattutto veniva rimproverato di ambire a una vita comoda e lussuosa, di preferire allo spirito materno lo spirito del tempo che mirava all’emancipazione della donna. Non si perdeva perciò occasione di ricordare l’ideale della donna svizzera e di esaltarne il ruolo come «casalinga, madre e moglie virtuosa». Agli uomini, allora ben occupati con la guerra, più che muovere rimproveri, si preferiva generalmente ricordare la loro forza procreativa!
Poiché la denatalità continuava, continuavano anche gli appelli per una «restaurazione della famiglia». Nel 1941, ancora il consigliere federale Philippe Etter andava ripetendo che «la denatalità è la conseguenza d’una convinzione troppo individualista e materialista della vita, che noi confondiamo troppo spesso con il progresso e la civilizzazione. Un popolo virile dev’esserlo nel senso pieno del termine, virile anche là dove virilità significa potenza creativa e sacra».
Altri tempi? Certamente sì e possiamo rallegrarcene. In fondo, la Svizzera è scampata bene da quella «morte sorniona» che sembrava minacciarla alla fine degli anni Trenta. E nessuno sembra dolersi che a contribuire al cambiamento siano stati anche gli stranieri, gli immigrati. Quanto all’Italia, credo che ne uscirà bene. In fondo, l’istinto della sopravvivenza è fondamentale tanto negli individui quanto nei gruppi sociali. E forse i bambini torneranno ad essere un bel dono di Dio!
Giovanni Longu
17.6.2010

16 giugno 2010

Denatalità uguale «suicidio demografico»?


Sembra che il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana (CEI), abbia tuonato qualche settimana fa contro il rischio di «suicidio demografico» che starebbe correndo l’Italia a causa della denatalità di questi anni. Per questo motivo ha ritenuto opportuno richiamare l’attenzione dei poteri pubblici sulla gravità della situazione e sollecitare rimedi adeguati come l’introduzione del quoziente familiare.
Appello del cardinale Bagnasco
Il cardinale Bagnasco, in apertura dell’assemblea annuale della CEI, il 24 maggio 2010, ha parlato della famiglia «fondata su quel bene inalterabile che è il matrimonio tra un uomo e una donna, che va difeso (…) e continuamente preservato quale crogiuolo di energia morale, determinante nel dare prospettive di vita al nostro presente».
«Eppure, ha proseguito il cardinale, l’Italia sta andando verso un lento suicidio demografico: oltre il cinquanta per cento delle famiglie oggi è senza figli e, tra quelle che ne hanno, quasi la metà ne contemplano uno solo, il resto due, e solamente il 5,1 delle famiglie ha tre o più di tre figli. Sembra inutile evocare scenari preoccupanti, e certo non incoraggiante è ripetere previsioni peraltro già note sotto il profilo sociale e culturale. Urge una politica che sia orientata ai figli, che voglia da subito farsi carico di un equilibrato ricambio generazionale. Ci permettiamo di insistere con i responsabili della cosa pubblica affinché pongano in essere iniziative urgenti e incisive: questo è paradossalmente il momento per farlo. Proprio perché perdura una condizione di pesante difficoltà economica, bisogna tentare di uscirne attraverso parametri sociali nuovi e coerenti con le analisi fatte. Il quoziente familiare è l’innovazione che si attende e che può liberare l’avvenire della nostra società. Da parte nostra ci impegniamo affinché nella pastorale familiare, e in quella volta alla preparazione al matrimonio, si operi per radicare ancor più la coscienza dei figli come doni che moltiplicano il credito verso la vita e il suo domani».
Il cardinale Bagnasco non è l’unico ad essere allarmato. E’ infatti fin dagli anni Novanta che in Italia questo allarme è stato lanciato e ne hanno trattato l’Accademia dei Lincei, la Fondazione Agnelli, uomini politici, l’opinione pubblica ed evidentemente anche i Vescovi italiani in più occasioni. Sono in molti a preoccuparsi della scarsa natalità che si registra ormai da oltre un ventennio in Italia.
Chi legge questi dati dall’estero si meraviglia non poco perché contrastano con lo stereotipo di un’Italia ancora molto cattolica, dove la famiglia dovrebbe essere tenuta in grande considerazione e i bambini dovrebbero essere considerati un dono e una benedizione. Anche sotto questo profilo è comprensibile la preoccupazione dei vescovi italiani e del cardinale Bagnasco che ne è a capo. Capisco soprattutto la loro inquietudine perché alla radice del fenomeno essi vedono sicuramente anche la perdita di valore del matrimonio (religioso) e della famiglia (cristiana). Quindi, niente da eccepire sul significato (religioso) del matrimonio e sul concetto di «famiglia» di Monsignor Bagnasco.
Rischio di un «suicidio demografico»? (2010)
Quanto invece a considerare un «suicidio demografico» il fatto che in Italia, all’interno della famiglia, nascano meno figli di una volta mi sembra esagerato. Tanto più che i dati statistici italiani degli ultimi anni parlano di una ripresa della natalità. Ma anche a prescindere da questo segnale incoraggiante, andrebbe ricordato che l’equilibrio demografico in un grande Paese non è solo garantito dalla prole che nasce nelle famiglie fondate sul matrimonio. Esistono infatti altri tipi di «famiglie» di fatto che contribuiscono anch’esse all’equilibrio demografico. Si pensi ad esempio alle coppie non sposate con figli o alle famiglie monoparentali. Inoltre, storicamente, l’andamento della natalità è stato altalenante. Soprattutto in un Paese d’immigrazione com’è divenuta ormai l’Italia, l’equilibrio demografico è anche dato dall’apporto considerevole delle giovani immigrate, generalmente più prolifiche delle autoctone.
In generale, una società fondamentalmente sana e produttiva trova sempre la maniera di rigenerarsi. E’ stato, ad esempio, il caso della Svizzera, cronicamente confrontata con un basso tasso di natalità eppure un Paese in crescita non solo economicamente ma anche demograficamente, proprio grazie all’immigrazione.
Non vorrei tuttavia semplificare troppo i problemi e tantomeno negarli, perché i rischi di un grave squilibrio demografico e sociale sono reali. Se dovessero concretizzarsi le difficoltà da superare sarebbero enormi. Basterebbe solo pensare al rapporto tra anziani e giovani, che potrebbe diventare troppo pesante per gli ultimi, soprattutto in periodi di difficoltà economica.
Anche sotto questo profilo il grido di allarme e l’appello lanciati da Monsignor Bagnasco sono più che comprensibili, sebbene non si tratti affatto di un caso isolato nella storia. Proprio la Svizzera ne ha conosciuto uno simile.
In questo Paese, tra il 1900 e il 1940 il tasso di natalità degli svizzeri era sceso sotto il 15%. Soprattutto dopo il 1920 era crollato drammaticamente. Tra il 1900 e il 1960 la classe d’età da 0 a 15 anni era scesa dal 40,55% al 31,3%, mentre era quasi raddoppiata dal 5,8% al 10,4% quella delle persone di 65 e più anni.
Rischio di un «suicidio collettivo»? (1938)
Con lo scoppio della seconda guerra mondiale, la situazione della denatalità divenne ancor più preoccupante, perché sembrava mettere a rischio il futuro stesso dell’esercito e dello stato sociale. Il consigliere federale Philippe Etter, cattolico molto conservatore, definì la denatalità come un «problema nazionale» (1938). L’esposizione nazionale del 1939 divenne un’occasione straordinaria per richiamare l’attenzione del popolo svizzero sul rischio di un «suicidio collettivo». Attraverso, conferenze, discorsi, opuscoli e la radio, sotto la guida del Consigliere federale Philip Etter, fu diffuso il messaggio che un popolo senza bambini era votato alla morte, che la sorgente della vita si esauriva, soprattutto nelle città, che era necessaria una «offensiva della vita» affinché la Svizzera non sparisse.
A differenza delle buone maniere di Monsignor Bagnasco, che fa appello soprattutto «ai responsabili della cosa pubblica» perché mettano in essere politiche familiari adeguate e rispettose delle donne lavoratrici, in quegli anni di guerra, soprattutto negli ambienti cattolici si cercava di addossare le responsabilità dirette della denatalità in Svizzera non tanto allo Stato quanto piuttosto ai cittadini… irresponsabili. Alle donne soprattutto veniva rimproverato di ambire a una vita comoda e lussuosa («ein bequemes luxuriöses Leben»), di preferire allo spirito materno lo spirito del tempo che andava piuttosto in direzione dell’emancipazione della donna, della promozione professionale delle donne, ecc. Non si perdeva perciò occasione di ricordare l’ideale della donna svizzera e di esaltarne il ruolo come «casalinga, madre e moglie virtuosa». Agli uomini, allora ben occupati con la guerra, più che muovere rimproveri, si preferiva generalmente ricordare la loro forza procreativa!
Per capire lo spirito di quel tempo e la concezione della donna in particolare, mi sembra utile ricordare che proprio nel 1939, l’anno dell’esposizione nazionale, il Consiglio federale decise di destinare «alle madri bisognose» il ricavato del «Dono nazionale svizzero», una fondazione benefica istituita nel 1919 «per i nostri soldati e le loro famiglie».
Facendo proprio il «nobilissimo appello al popolo svizzero» del Presidente della Confederazione Philippe Etter, il Comitato ticinese del Dono nazionale 1939, rivolgendosi ai ticinesi, giustificava la destinazione del Dono di quell’anno dicendo «che la madre questo aiuto lo merita e per se stessa e nell’interesse di una generazione sana e robusta». Poi continuava: «Non è forse la madre che si logora troppo spesso la vita, specialmente se priva di mezzi, per mettere al mondo e per allevare i propri figli, facendo rinunzie, soffrendo il freddo e la fame per nulla lasciar mancare a quelle boccucce che reclamano sempre, anche quando (e specialmente allora) la madre non ha più niente da dare?». E concludeva: «Dare la possibilità alla madre nel bisogno di nutrirsi, di curarsi e di riposarsi sufficientemente per poter procurare alla famiglia ed alla Patria dei figli rigogliosi già fin dalla nascita, darle i mezzi per nutrirli, vestirli, riscaldarli e mantenerli forti e buoni questi futuri cittadini; darle la possibilità di una vita lunga per poter essere di guida fino all'età matura a chi sarà la nuova madre ed il novello padre; darle il conforto di gustare il meritato riposo e il sorriso e le carezze dei nipotini, ecco ciò che si prefigge il Dono Nazionale di quest'anno, ecco perché il nostro Consiglio Federale ha voluto che il provento fosse destinato alle madri bisognose. (…)».
Poiché la denatalità continuava, continuavano anche gli appelli per una «restaurazione della famiglia». Nel 1941, ancora il consigliere federale Philippe Etter andava ripetendo che «la denatalità è la conseguenza d’una convinzione troppo individualista e materialista della vita, che noi confondiamo troppo spesso con il progresso e la civilizzazione. Un popolo virile dev’esserlo nel senso pieno del termine, virile anche là dove virilità significa potenza creativa e sacra».
Altri tempi?
Certamente sì e possiamo rallegrarcene. In fondo, la Svizzera è scampata bene da quella «morte sorniona» che sembrava minacciarla alla fine degli anni Trenta. E nessuno sembra dolersi che a contribuire al cambiamento siano stati anche gli stranieri, gli immigrati. Quanto all’Italia, credo che ne uscirà bene. In fondo, l’istinto della sopravvivenza è fondamentale tanto negli individui quanto nei gruppi sociali. E forse i bambini torneranno ad essere un bel dono di Dio!
Giovanni Longu
16.6.2010

09 giugno 2010

6. Quarant’anni fa, 1970: svolta storica per l’immigrazione italiana in Svizzera


La votazione sull’iniziativa antistranieri di J. Schwarzenbach del 7 giugno 1970 ha segnato una svolta nella storia dell’immigrazione italiana in Svizzera, grazie soprattutto ad una presa di coscienza della maggioranza del popolo svizzero non solo dell’esistenza di una forte componente straniera nella società, ma anche della necessità di un cambiamento nella politica migratoria svizzera. Nella popolazione straniera, soprattutto fra gli italiani, crebbe la consapevolezza che il mondo della migrazione stesse cambiando e richiedesse scelte fondamentali per il futuro.
Ovviamente questa presa di coscienza non è stata istantanea ma fu il risultato di un processo avviato alcuni anni prima del 1970 e che maturerà soltanto negli anni successivi. La data del 7 giugno 1970 non è tuttavia solo simbolica, ma rappresenta la certificazione democratica di un cambiamento di mentalità e della necessità di una svolta nella politica migratoria svizzera.
Presa di coscienza del popolo svizzero
La votazione sull’iniziativa antistranieri di J. Schwarzenbach del 7 giugno 1970 ha segnato nel popolo svizzero una svolta storica nel modo di considerare il mondo della migrazione. Se gli immigrati erano stati visti fino ad allora quasi esclusivamente come «braccia» per l’economia e generatori di «problemi» per la società benestante, le discussioni prima e dopo il 7 giugno misero in luce ch’essi erano soprattutto generatori di benessere e la loro nutrita presenza aveva una giustificazione.
Il fatto stesso che si sia recato alle urne il 74,7% degli aventi diritto di voto (allora solo uomini) esprime già una presa di coscienza della stragrande maggioranza del popolo svizzero sull’importanza della questione migratoria per la Svizzera. Respingendo l’iniziativa, ha voluto indicare non solo la contrarietà a soluzioni radicali e disumane come quella proposta da Schwarzenbach, ma che i problemi andavano affrontati tenendo conto degli interessi di tutti, svizzeri e stranieri.
Certamente, per garantire una convivenza meno conflittuale, gli immigrati dovevano rendersi conto che in Svizzera vigono delle regole e delle consuetudini che tutti devono rispettare, ma anche la società svizzera doveva fare di più. Agli immigrati che tanto contribuivano al benessere nazionale bisognava pur dare in cambio non solo una giusta paga ma anche condizioni di vita e di alloggio dignitose. Non si potevano far venire quando servivano e rimandarli al loro Paese quando non servivano più e non era dignitoso farli vivere in alloggi più simili a delle topaie che a vere e proprie abitazioni.
Si faceva strada la consapevolezza che con gli stranieri bisognasse trovare la maniera di convivere pacificamente. Dopotutto essi erano divenuti ormai colleghi di lavoro, utenti degli stessi mezzi di trasporto pubblico, spesso vicini di casa, frequentatori degli stessi supermercati e ristoranti, genitori dei compagni di scuola dei propri figli. Con queste persone si doveva trovare la maniera d’intendersi, di parlarsi, di collaborare.
Per soddisfare questa fondamentale esigenza, cominciarono a nascere agli inizi degli anni Settanta centri di contatto, gruppi misti svizzeri-stranieri, centri ricreativi comuni soprattutto per i bambini e i giovani. La paura dell’«inforestierimento» restava tuttavia ancora assai diffusa, com’erano diffusi numerosi pregiudizi nei confronti degli stranieri.
Verso una nuova politica migratoria
L’esito della votazione del 7 giugno fu interpretato dal Consiglio federale come una conferma della nuova politica migratoria già avviata in marzo dello stesso anno, che mirava alla riduzione e alla stabilizzazione della manodopera estera. A corroborare questa interpretazione intervenne anche la fiducia ottenuta dal sindacato e persino dallo stesso Schwarzenbach, sia pure a condizione che le misure decise a marzo dal governo venissero applicate con grande rigore.
Il Consiglio federale era deciso a proseguire la strada intrapresa, non certo per compiacere la destra, ma perché convinto fin dalla metà degli anni Sessanta dell’insostenibilità di una politica immigratoria basata essenzialmente sui bisogni dell’economia e sulla rotazione dei lavoratori immigrati. Era altresì convinto che parallelamente alla limitazione e alla stabilizzazione della manodopera estera occorresse facilitare l’integrazione o l’assimilazione, come si diceva allora, dei lavoratori immigrati.
Agli inizi degli anni Settanta, tuttavia, mancavano ancora gli strumenti giuridici (e forse anche la volontà politica) per agire di conseguenza. Occorre anche tener presente che l’intera materia era estremamente complessa e di non facile soluzione perché implicava il coinvolgimento non solo delle istituzioni politiche a livello federale, cantonale e locale, ma anche della popolazione svizzera e straniera. Si preferì la cosiddetta politica dei piccoli passi, che doveva iniziare con la riduzione e stabilizzazione degli stranieri, già di competenza del Consiglio federale, e lasciare l’integrazione come obiettivo a lungo termine.
Per farsi consigliare nella difficile materia, all’indomani della votazione sull’iniziativa Schwarzenbach, il Consiglio federale prese due importanti decisioni. Con la prima incaricò il Dipartimento federale di giustizia e polizia e il Dipartimento federale dell’economia di presentare un «Rapporto contenente misure per combattere il «problema dell’inforestierimento». Con la seconda decise di istituire una commissione consultiva di esperti, la Commissione federale degli stranieri (CFS), per fornire all’autorità politica pareri e suggerimenti su tutte le questioni legate alla presenza di cittadini stranieri in Svizzera nell’ambito sociale, economico, culturale, politico, giuridico, ecc. allo scopo di predisporre strumenti adeguati per promuovere l’integrazione sociale degli stranieri.
Purtroppo, solo nel giugno 1996 la CFS riuscirà a elaborare un «Abbozzo per un concetto d’integrazione» e solo nel 2000 un testo più elaborato su «L’integrazione dei migranti in Svizzera: fatti, settori d’attività, postulati». In numerosi interventi, tuttavia, il Consiglio federale ribadiva che l’integrazione degli stranieri rientrava nelle priorità della politica federale nei confronti degli stranieri. Gli ostacoli dovettero essere evidentemente molti.
Verso una nuova presa di coscienza degli immigrati italiani
Subito dopo la votazione del 7 giugno, un misto di sollievo per lo scampato pericolo e di sconforto per il numero così elevato di svizzeri che avevano votato a favore dell’iniziativa invase gli animi degli italiani. Fu probabilmente in quei momenti che molti presero la decisione di rientrare quanto prima in patria nella convinzione che il clima sociale in questo Paese fosse diventato irrespirabile e nella speranza di riuscire a trovare un posto di lavoro dipendente o autonomo in Italia, dove l’economia, pur avendo esaurito il dinamismo del boom del decennio precedente, continuava ad essere vivace e ad attirare persino immigrati stranieri.
La maggioranza degli italiani decise tuttavia di restare, anche se con motivazioni diverse. Alcuni (una netta minoranza) perché già integrati e con figli già inseriti nella scuola locale, altri perché avevano pianificato una permanenza più lunga in Svizzera o perché convinti che soprattutto nel Mezzogiorno non esistessero nemmeno le premesse per uno sviluppo economico e altri ancora per i motivi più disparati, spesso di carattere familiare (matrimoni misti, integrazione della seconda generazione, ecc.). Per tutti, comunque, il dopo-Schwarzenbach fu un motivo di riflessione e di discussione.
Se si esclude la minoranza ormai integrata professionalmente e socialmente (costituita soprattutto da immigrati provenienti dal Nord Italia nei primi anni del dopoguerra), la maggioranza degli italiani che avevano scelto di restare, almeno per il momento, fu presa inizialmente da un forte sentimento di «autodifesa» nei confronti di una società ritenuta genericamente poco accogliente se non addirittura ostile. Fu in quegli anni che si sviluppò una serie impressionante di organizzazioni di ogni tipo, soprattutto in funzione rivendicativa (nei confronti dell’Italia) e di tutela (nei confronti della Svizzera).
Una minoranza di italiani, tuttavia, capì immediatamente che la storia dell’immigrazione stava cambiando e bisognava creare le premesse per una buona integrazione almeno delle seconde generazioni.
Discussioni e scelte fondamentali
Tra le due componenti si aprì una stagione di vivaci discussioni. Tra le più accese si possono ricordare quelle sulla scolarizzazione dei bambini italiani. Se il rientro in patria dei genitori non era ancora deciso o immediato, tanto valeva, dicevano in molti, che i bambini frequentassero la scuola pubblica. L’influente Federazione delle colonie libere italiane aveva fatto questa scelta già nel suo congresso del 1967. Di fatto molte scuole private italiane vennero chiuse e si cercò d’integrare i corsi di lingua e cultura italiane nell’orario scolastico svizzero.
Oltre al tema della scuola venne molto dibattuto quello della formazione professionale. Gran parte degli immigrati arrivati in Svizzera negli anni Sessanta non avevano avuto alcuna preparazione. Appariva dunque fondamentale, per coloro che intendevano restare e integrarsi, apprendere correttamente non solo la lingua del posto ma anche una professione o qualificarsi in quella che praticavano come aiutanti o manovali. In quel decennio fiorirono numerose attività indirizzate a questo scopo, spesso organizzate da associazioni di immigrati e sostenute sia dalle autorità italiane che da quelle svizzere e dai sindacati. L’Italia, impossibilitata a far fronte a un eventuale massiccio rientro di lavoratori emigrati, vedeva di buon occhio ogni iniziativa volta a creare migliori condizioni agli italiani residenti in Svizzera.
Un altro tema caldo di discussione di quel periodo riguardava la naturalizzazione. Per molti, «comprarsi» la cittadinanza svizzera appariva un tradimento di quella italiana, per altri era la conclusione logica di un processo, utile soprattutto a coloro che erano nati e cresciuti in questo Paese. Fino al 1970 solo una volta il numero delle naturalizzazioni aveva superato di poco la soglia di 2000. Dal 1970 il loro numero andò crescendo, dapprima timidamente poi fortemente fino a raggiungere nel 1977 il record di 5434 naturalizzazioni, che resisterà per oltre vent’anni.
Per una valutazione globale di quel periodo ci vorrebbe ben più spazio di quello disponibile. Il 1970 ha rappresentato sicuramente per l’immigrazione italiana una svolta fondamentale. Negli anni immediatamente successivi una parte di italiani ha ritenuto ormai conclusa la propria esperienza migratoria, mentre la maggioranza di essi ha scelto di restare. E’ stata per tutti una scelta giusta? Solo gli interessati possono dare una risposta. Oggettivamente si deve però affermare che la collettività italiana è tra le meglio integrate in Svizzera. (Fine).
(Gli altri articoli di questa serie sono apparsi il 10.3., il 7.4., il 28.4., il 5.5. e il 2.6.2010)
Giovanni Longu
Berna, 9.6.2010

02 giugno 2010

5. Il voto del 7 giugno 1970 segnò la storia della migrazione (italiana) in Svizzera

Quarant’anni fa, 1970: anno cerniera per l’immigrazione italiana in Svizzera

Quarant’anni fa, il 7 giugno 1970, il popolo svizzero venne chiamato a votare su un’iniziativa popolare che mirava a ridurre drasticamente il numero degli stranieri presenti in Svizzera e ancorare nella Costituzione che la loro proporzione nei singoli Cantoni non doveva superare il 10% (nel Cantone di Ginevra il 25%) della popolazione svizzera. Accettandola, avrebbe cambiato probabilmente la storia svizzera, mentre rifiutandola avrebbe incoraggiato il Governo federale a proseguire una politica migratoria orientata sempre più al controllo e all’integrazione degli stranieri.

Tutte le forze politiche e sindacali, gli ambienti economici, le chiese, i media erano scesi in campo per lo più contro l’iniziativa promossa dalla destra nazionalista e xenofoba guidata da J. Schwarzenbach. Per il governo, la sua accettazione avrebbe provocato gravi perturbazioni economiche e la chiusura di diverse imprese, con grave danno non solo all’economia ma anche alla manodopera svizzera. Pur senza conoscere i dettagli dell’iniziativa e le possibili conseguenze, l’opinione pubblica percepiva chiaramente che si trattava di una decisione importante, forse decisiva, per l’avvenire del Paese. Accettarla significava per i fautori la salvezza dal pericolo dell’«inforestierimento», mentre per gli avversari avrebbe comportato una rottura traumatica sul piano interno e internazionale (si parlò di una vera e propria «sciagura nazionale») dalle conseguenze imprevedibili.
La situazione
Il tema era alquanto delicato perché riguardava direttamente o indirettamente oltre un milione di stranieri (su una popolazione complessiva di 6,2 milioni di abitanti). Il loro numero e il loro ritmo di accrescimento (anche grazie alle seconde generazioni) in certi ambienti faceva paura, anche perché si trattava di una popolazione poco integrata. In effetti la distanza tra svizzeri e stranieri era enorme. Come se le due comunità, pur vivendo l’una accanto all’altra, non si conoscessero o facessero finta di non sapere nulla l’una dell’altra. I contatti era limitati all’essenziale. L’incomunicabilità era quasi totale, persino tra i giovani.
Quando, qualche anno più tardi, chiesi a Schwarzenbach perché ce l’avesse tanto contro gli italiani, mi rispose che egli non ce l’aveva affatto contro gli italiani, ma semmai contro le «sottoculture» e soprattutto contro «quei datori di lavoro senza scrupoli che fanno venire da noi lavoratori stranieri a buon mercato, senza alcuna informazione sulla Svizzera, senza alcuna preparazione, senza nemmeno sapere esattamente cosa avrebbero poi fatto nelle nostre fabbriche, con la sola prospettiva o l’illusione di restare qui alcuni anni, isolati nei loro ghetti, guadagnare un po’ di soldi e tornarsene al proprio Paese, altro che sforzarsi di capire il nostro mondo o assimilarsi al nostro modo di vivere...!».
Evidentemente la proposta di Schwarzenbach non era la migliore per risolvere i problemi, ma li metteva in luce. Gli stranieri non potevano restare relegati nei ghetti, non potevano continuare a servirsi di strutture parallele (asili nido, scuole, chiese, ritrovi, ecc.), non potevano continuare a vivere in questo Paese senza sentire il bisogno e la possibilità d’integrarsi. L’iniziativa Schwarzenbach interpellava correttamente il popolo sovrano per decidere la strada da seguire. La responsabilità dei votanti era enorme perché, al di là della questione già grave riguardante il numero di stranieri da tenere o da rinviare al loro Paese d’origine, si trattava di scegliere un modello di Stato, un tipo di politica a lunga durata, una scelta di campo chiara di fronte all’Europa e al mondo.
La vigilia della votazione
Il clima precedente la votazione del 7 giugno 1970 era a dir poco difficile e teso. La propaganda dei fautori dell’iniziativa era molto capillare e faceva leva sulle paure e sulle frustrazioni soprattutto della classe operaia svizzera (lavoro, salari, abitazioni, ecc.). Tendeva ad evidenziare gli aspetti negativi della presenza massiccia degli immigrati, soprattutto italiani, esasperando e generalizzando singoli episodi o situazioni particolari. Persino alcune caratteristiche degli italiani che tradizionalmente erano considerate positive, come la laboriosità, il senso del risparmio, il senso della famiglia, il saper vivere, venivano presentate in negativo. Si ammetteva ad esempio che gli italiani erano dediti al lavoro, ma si rimproverava loro di preferire la quantità (il cottimo) a scapito della qualità e di danneggiare altri colleghi di lavoro facendo abbassare i tempi di lavorazione. Il risparmio non era più considerato una virtù ma un vizio, perché, si diceva, pur di risparmiare gli italiani preferiscono vivere come straccioni, abitare in catapecchie, sfruttare la Svizzera per portare e spendere i guadagni in Italia. Agli italiani rimproveravano soprattutto di vivere qui ma con la testa altrove, di non adattarsi alle regole e alle tradizioni di questo Paese, di non fare nemmeno lo sforzo d’imparare la lingua locale rendendo praticamente impossibile la comunicazione.
Gli avversari dell’iniziativa più che fare appello a sentimenti umanitari o ai principi di una politica liberale in linea con le aperture dell’Europa, facevano leva anch’essi sul sentimento di paura per le inevitabili gravi conseguenze che l’accettazione dell’iniziativa avrebbe comportato.
Una votazione «storica»
L’importanza di quella votazione, a giusta ragione definita da molti commentatori dell’epoca «storica», è data soprattutto dall’alta partecipazione dei votanti, la più alta in assoluto dopo quella record del 6 luglio 1947 quando, con una partecipazione del 79,7 per cento, fu approvata la legge sull'AVS. Per l’iniziativa Schwarzenbach si recò alle urne il 74,7% degli aventi diritto (allora solo uomini perché le donne non avevano ancora ottenuto il diritto di voto), una percentuale mai più superata.
Un altro elemento importante da sottolineare è che lo scarto tra i favorevoli e i contrari era assai ridotto, solo 8 punti percentuali (46% di sì contro 54% di no). Un risultato che si prestava a molteplici interpretazioni e che non lasciò indifferente nessuno.
Fu indubbiamente un grande risultato della democrazia elvetica e una vittoria, anche se di stretta misura, del buon senso. Ma l’alta percentuale dei voti favorevoli all’iniziativa non poteva non costituire un elemento di preoccupazione.
Se l’iniziativa di Schwarzenbach fallì non fu infatti per le idee, ma per paura delle conseguenza che la sua accettazione avrebbe comportato: una perdita di alcune centinaia di migliaia di lavoratori stranieri in pochi anni avrebbe potuto indurre un tracollo dell’intera economia svizzera e una perdita d’immagine a livello internazionale gravissima.
La paura è stata la vera protagonista di questa come di altre votazioni dello stesso tipo. Si sono affrontati due tipi di paura: quella di avere in Svizzera troppi stranieri e quella delle conseguenze che avrebbe provocato la loro riduzione forzata. Non è stata una votazione a favore degli stranieri, per migliorarne le condizioni.
Le reazioni
Conosciuto l’esito della votazione, molti tirarono un respiro di sollievo. L’economia, anzitutto, perché poteva ancora attingere dal serbatoio della manodopera estera. Ma anche il governo, responsabile della politica nei confronti degli stranieri e gli stessi immigrati, soprattutto gli italiani.
Il governo lesse il verdetto come l’espressione della volontà del popolo svizzero «di risolvere in modo equilibrato e con lo spirito delle nostre tradizioni i problemi culturali, umani ed economici connessi con la presenza di un gran numero di cittadini stranieri».
In realtà il Consiglio federale, pur confortato dall’esito della votazione, sentiva fortemente la responsabilità che quel rigetto dell’iniziativa comportava. Doveva cambiare radicalmente atteggiamento nei confronti degli immigrati. Dove avviare decisamente la strada delle riforme per favorire l’accoglienza e l’integrazione degli stranieri.
Anche i sindacati, videro nel rigetto dell’iniziativa la conferma delle loro tesi che chiedevano al governo di chiudere definitivamente la lunga fase politica del «laisser faire, laisser aller» del dopoguerra e di avviare nei confronti degli stranieri una nuova politica basata su queste grandi linee: «contingentamento globale della popolazione estera, maggiore mobilità della mano d'opera: stabilizzazione quale premessa a un 'ulteriore riduzione e liberalizzazione del mercato del lavoro quale premessa alla libera circolazione. E soprattutto provvedimenti che diano il via ad una autentica politica d'integrazione della popolazione estera quale presupposto all'assimilazione».
Gli stranieri e specialmente gli italiani furono ovviamente soddisfatti dell’esito della votazione. L’ambasciatore d’Italia Enrico Martino si rallegrò che «la maggioranza del popolo svizzero sia stata fedele alle sue tradizioni di paese libero ed ospitale» e che «il risultato di questa votazione, avendo riportato la serenità nella massa dei lavoratori stranieri, potrà costituire un valido contributo non solo al benessere della Svizzera, ma altresì ai rapporti tra quest'ultima e i Paesi che hanno qui molti lavoratori».
In realtà la serenità tra i lavoratori stranieri, soprattutto tra gli italiani, non era affatto ritornata. La tragedia era stata evitata e questo rappresentava per tutti un grande sollievo, ma quel risultato, per quanto positivo, sapeva tanto di amaro. Si percepiva chiaramente che i seguaci di Schwarzenbach si erano rafforzati e avrebbero continuato la loro offensiva xenofoba. E poi, sapevano benissimo che molti di coloro che avevano votato contro l’iniziativa non l’avevano fatto per amore o rispetto degli stranieri, ma per opportunismo e per convenienza. Inoltre, quel numero così elevato di fautori dell’iniziativa non poteva scacciare il pensiero che, magari tra gli stessi compagni di lavoro, una persona su due era forse favorevole a rimandare a casa una parte consistente di lavoratori immigrati.
Le conseguenze di quella votazione, come si vedrà in altro articolo, furono immense. Determinarono anche la storia della collettività italiana in Svizzera.
(Gli altri articoli di questa serie sono apparsi il 10.3.2010, il 7.4.2010, il 28.4.2010 e il 5.5.2010)
Giovanni Longu
Berna 2 giugno 2010

26 maggio 2010

La nuova legge sulle lingue salverà l’italiano in Svizzera?

Fra poco più di un mese entrerà in vigore l’ordinanza d’applicazione della legge federale sulle lingue (LLing). E’ ovvio che se ne parli e se ne scriva sui quotidiani svizzeri, perché il plurilinguismo è una caratteristica fondamentale della Svizzera, a prescindere dall’interpretazione che ne è stata data soprattutto negli ultimi cinquant’anni.

Tradizionalmente la lingua è stata considerata soprattutto in occidente come un elemento identitario dell’appartenenza a un popolo e a una nazione. Luigi Settembrini, scrittore risorgimentale, coetaneo alla costituzione della Confederazione (1848) e dell’Unità d’Italia (1861), annotò nelle «Ricordanze della mia vita» (pubblicate postume) che «quando un popolo ha perduto patria e libertà e va disperso pel mondo, la lingua gli tiene luogo di patria e di tutto». Questo era anche il pensiero prevalente allora e, in generale, anche oggi.
L’equazione lingua uguale patria ha tuttavia molte eccezioni e qualche complicazione. La Svizzera è un tipico esempio in cui l’identità nazionale non è rappresentata da una sola lingua. Non esiste infatti una lingua «svizzera», ma esistono ben quattro lingue nazionali, ossia il tedesco, il francese, l’italiano e il romancio. L’equazione lingua uguale patria vale in Svizzera a livello cantonale (con alcune eccezioni) e regionale, ma non a livello svizzero.
Eppure anche a livello federale la lingua ha la sua importanza per l’identità nazionale. Infatti uno degli elementi identificatori della Svizzera è il plurilinguismo sia istituzionale, riconosciuto dalla Costituzione svizzera, che reale, limitatamente alle quattro lingue menzionate. Con questa caratteristica è nata la Confederazione svizzera nel 1848 e questa caratteristica è stata rilevata ininterrottamente da 150 anni nei censimenti federali della popolazione.
E’ ancora attuale il plurilinguismo svizzero?
La domanda se la pongono in molti e le risposte non sono univoche. La risposta più semplice sarebbe: evidentemente sì perché è ancora iscritto nella Costituzione, di recente (2000) vi è stato aggiunto un apposito articolo costituzionale sulle lingue (art. 70) e dal 1° gennaio di quest’anno è in vigore la legge applicativa. Ma il fatto stesso che la domanda sia molto frequente negli ultimi vent’anni lascia intendere che qualche dubbio c’è.
Il dubbio ovviamente non concerne il contenuto della Costituzione, ma il modo in cui il plurilinguismo è inteso ed è vissuto oggi. E’ facile ripetere (da oltre 150 anni) che la Confederazione è plurilingue, resta invece impossibile affermare che gli svizzeri sono tutti plurilingui nel senso che conoscono (e praticano) le lingue nazionali riconosciute dalla Costituzione federale. E’ vero che molti svizzeri sono plurilingui, ma generalmente gli svizzeri sono monolingui, nel senso che in una regione linguistica determinata la lingua praticata dalla stragrande maggioranza degli abitanti è una sola. In realtà le quattro comunità linguistiche sono ben distinte fra loro, convivono una accanto all’altra e in parte s’ignorano. Lo notava già nel 1967 Friedrich Dürrenmatt: «Il rapporto [tra i gruppi linguistici] non è buono, anzi di per sé non esiste alcun rapporto. Abitiamo gli uni accanto agli altri, ma non insieme. Quel che manca è il dialogo, il colloquio, la curiosità reciproca, l’informazione».
Se ne ha un’eco molto significativa anche nella legge sulle lingue che finalmente, dopo lunghi anni di gestazione, è entrata in vigore proprio quest’anno, anche se in parte ancora inattuata per mancanza della relativa ordinanza d’applicazione.
L’articolo 2 della nuova legge precisa gli scopi: «La presente legge intende: a. rafforzare il quadrilinguismo quale elemento essenziale della Svizzera; b. consolidare la coesione interna del Paese; c. promuovere il plurilinguismo individuale e istituzionale nell’uso delle lingue nazionali; d. salvaguardare e promuovere il romancio e l’italiano in quanto lingue nazionali».
A ben vedere si tratta di buone intenzioni che difficilmente potranno essere realizzate, a meno che nell’ordinanza di applicazione (ancora in consultazione) non si dica chiaramente cosa la Confederazione intende fare e quanto è disposta a spendere per «rafforzare… consolidare ... promuovere … salvaguardare». Solo un intervento convinto, finanziato sufficientemente, durevole e controllato potrà davvero dare un segnale di speranza soprattutto all’italiano praticato fuori del suo territorio naturale. In Ticino, infatti, l’italiano non corre alcun pericolo di estinzione, mentre nel resto della Svizzera s’indebolisce sempre di più, per non parlare del romancio.
Qualche dubbio sulla realizzabilità delle intenzioni espresse all’articolo 2 a dire il vero lo lascia trasparire già l’articolo 1 che recita: «La presente legge disciplina: a. l’uso delle lingue ufficiali da parte e nei confronti delle autorità federali; b. la promozione della comprensione e degli scambi tra le comunità linguistiche; c. il sostegno dei Cantoni plurilingui nell’adempimento dei loro compiti speciali; d. il sostegno ai Cantoni dei Grigioni e Ticino per le misure a favore del romancio e dell’italiano». Questo articolo contiene infatti ben poco d’innovativo e soprattutto di efficace circa l’uso delle lingue ufficiali in generale (e non solo nei confronti delle autorità federali) o la promozione della comprensione e degli scambi tra le comunità linguistiche.
La nuova ordinanza sulle lingue salverà i corsi d’italiano?
Prima di conoscere l’ordinanza d’applicazione della nuova legge non dovrebbe essere consentito il pessimismo. Ma è difficile scacciarlo alla luce di quanto è dato di osservare nella realtà sociolinguistica svizzera. Basti osservare la penetrazione decisa dello «Schwytzerdütsch», la diminuzione costante degli italofoni nella Svizzera tedesca e francese, l’utilizzo sempre più diffuso dell’inglese non solo nei grandi consigli di amministrazione, l’insignificante produzione letteraria in italiano, la scarsa lettura di opere e di giornali italiani fuori del Ticino, e mi fermo qui ma la lista potrebbe continuare.
E’ vero che qualche giorno fa il Corriere del Ticino titolava su cinque colonne «Ossigeno per l’italiano a Berna» per annunciare una certa disponibilità della Confederazione ad allentare i cordoni della borsa, ma non è chiaro dove i soldi in più (si tratterebbe di 2,5 milioni per le lingue minoritarie) verrebbero impiegati. Per aumentare il numero dei traduttori, magari verso il tedesco e il francese? Per finanziare qualche traduzione in più in italiano per sporadici lettori e arricchire qualche biblioteca? Per finanziare corsi d’italiano (e di francese) agli alti funzionari che non hanno alcuna nozione della terza lingua ufficiale? Si vedrà.
A proposito di «corsi d’italiano», già in marzo il Corriere del Ticino aveva suscitato un po’ di ottimismo intitolando un servizio da Berna «Sostegno ai corsi di italiano». Vi si poteva leggere, fra l’altro, che «il Governo intende finanziare la formazione dei docenti che assicurano i corsi di lingua e cultura italiana». In effetti il Consiglio federale si era dichiarato disposto a favorire la formazione dei docenti, senza specificare quali, ma già il 24 febbraio scorso, rispondendo ad una interpellanza della consigliera nazionale Kathy Riklin, aveva escluso interventi diretti della Confederazione per finanziare corsi di lingua, pur essendo disposta a «concedere ai Cantoni aiuti finanziari per creare i presupposti per l'insegnamento di una seconda e di una terza lingua nazionale».
In altre parole, i corsi di lingua e cultura italiana organizzati e finanziati attualmente dallo Stato italiano potranno essere presi in considerazione ai fini dei benefici finanziari previsti dalla legge sulle lingue solo se rientreranno in qualche modo nella competenza dei Cantoni interessati. All’on. Riklin che aveva chiesto espressamente «se l'articolo 16 della legge sulle lingue (LLing) non potrebbe costituire la base legale adeguata per garantire ai parlanti italiani e romanci la possibilità di un insegnamento nella loro prima lingua anche al di fuori della sua area di diffusione tradizionale» il Consiglio federale ha risposto che «la Confederazione potrà sostenere in tutti gli ambiti di promozione relativi all'articolo 16 LLing solo le misure richieste dai cantoni. La Confederazione non finanzierà corsi di lingua».
A questo punto, mi sembra legittima una domanda da rivolgere alle competenti autorità italiane: è pensabile una «cantonalizzazione» dei corsi di lingua e cultura italiane in una forma che preveda una sorta di cogestione e cofinanziamento? Diversamente, quale sarebbe l’alternativa all’attuale situazione dei corsi che non soddisfa più nessuno?
Chi potrà salvare l’italiano?
Guai tuttavia, ritenere che la salvaguardia della lingua e della cultura italiane dipendano unicamente dalle decisioni delle autorità scolastiche o dall’utilizzo di quei pochi spiragli che offre la recente legge sulle lingue e la prossima ordinanza d’applicazione. Credo che la responsabilità maggiore ricada sugli stessi italofoni. Sono loro che devono dimostrare che l’italiano è una lingua viva e utile e la cultura italiana meritevole di attenzione e diffusione.
In questo spirito si sta costituendo a Berna un gruppo di lavoro finalizzato alla creazione di sinergie tra italiani, ticinesi e svizzeri italofoni soprattutto di seconda e terza generazione. Vi fanno parte soprattutto rappresentanti del Comitato cittadino d’intesa e della Pro Ticino. Insieme, coinvolgendo evidentemente altre associazioni e istituzioni, già il prossimo autunno si metteranno in cantiere eventi all’insegna dell’italianità. Si vorrebbe dare un segnale forte, partendo da Berna capitale federale, che l’italianità è un valore nazionale svizzero da salvaguardare e sviluppare.
La buona volontà tuttavia non basta. Bisognerà che le istituzioni non vengano meno proprio ora ai loro compiti. Mi riferisco soprattutto al Cantone Ticino e allo Stato italiano: solo con il loro sostegno sarà possibile salvaguardare l’italianità in tutte le regioni del Paese. Adesso, grazie alla nuova legge sulle lingue, il Ticino potrà intervenire anche fuori del proprio territorio. Quanto allo Stato italiano, sarebbe un peccato che non continuasse più a fare la sua parte. In fondo in questo Paese continua a vivere mezzo milione di italiani.
Giovanni Longu
Berna, 26.05.2010

19 maggio 2010

Quando si parla di «fuga dei cervelli»!

Da decenni si sente parlare in Italia di fuga dei cervelli (in inglese: brain drain) e da qualche anno si discute su come farli ritornare. Purtroppo non esistono al riguardo «scudi» o incentivi analoghi a quelli che servono per far rientrare i «capitali in fuga». I cervelli corrono dove trovano gli ambienti adatti a svilupparsi. Evidentemente quello italiano non è tra i più idonei.
Troppe chiacchiere
Ho letto che si vorrebbe creare «una lobby per la ricerca in Italia» e si è trovato pure lo slogan: «Contro-Fuga». In Parlamento giacciono proposte di legge per incentivare il ritorno dei cervelli italiani dall’estero e rendere più internazionale il mondo universitario italiano. I politici, di tutti gli orientamenti, sembrano fare a gara a evidenziare i problemi dei giovani e a elargire ricette per risolverli. Tutti sembrano puntare sui giovani, l’avvenire del Paese, ma non si dice mai a partire da quando. Da qualche anno si moltiplicano le fondazioni che fanno capo a personalità di spicco, tutte orientate al futuro, dove i giovani sono oggetti, non soggetti attivi. Si susseguono i convegni dedicati al futuro dei giovani, organizzati inevitabilmente da adulti: «generare classe dirigente», «generazione futuro», «giovani e politica», ecc.
La politica e l’economia si schierano decisamente, a parole, dalla parte dei giovani. Il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi assicura l’impegno del governo per i giovani. Per il Presidente della Camera dei Deputati Gianfranco Fini la politica deve gettare le basi per lo sviluppo e dare un futuro ai giovani. Per Luca di Montezemolo occorre «liberarsi dalle divisioni e dagli egoismi e ritrovare il gusto della sfida» e attingendo a una serie di valori (etica, responsabilità, fiducia…) «per definire una visione del nostro futuro ed impegnarci a realizzarla». Parole, parole, parole, soltanto parole!
La parola chiave è «eccellenza»
Mi viene in mente, per contrasto, quanto ebbe a ripetere qualche settimana fa il Ministro della cultura svizzero Didier Burkhalter al Dies Academicus dell’Università della Svizzera italiana a Lugano per spiegare il successo del sistema educativo svizzero: «la parola chiave è eccellenza» e indicare la rotta da seguire per il futuro: «l'educazione e la ricerca svizzere saranno riconosciute se mireranno all'eccellenza». Per questo, diceva ancora, occorre dare fiducia ai giovani.
La Svizzera ne dà la prova, nelle classifiche mondiali riesce a piazzarsi quasi sempre ai primi posti. E l’Italia? Si direbbe che si perda nelle parole, di fatto nelle stesse classifiche occupa spesso posizioni di retroguardia.
Sia ben chiaro, in alcuni settori l’eccellenza italiana emerge ed è riconosciuta a livello internazionale. Alcuni esempi nel campo della moda, dell’alimentazione, del designer, della tecnologia, della domotica sono attualmente in vetrina all’esposizione mondiale di Shanghai. Eppure l’Italia non compare quasi mai ai vertici delle classifiche mondiali che «misurano» la competitività e l’innovazione. Il sistema formativo italiano non gode di alcun prestigio internazionale, sembra addirittura inadeguato ai bisogni di uno dei Paesi più industrializzati del mondo, ma anche tra i meno competitivi e innovativi.
Confronto Italia - Svizzera
Presi singolarmente, i ricercatori italiani sono tra i migliori al mondo e sono per le loro scoperte tra i più citati al mondo nelle riviste scientifiche internazionali. Ma per fare ricerca devono (!) lasciare l’Italia. I ricercatori di alto livello sono molto numerosi, ma i loro progetti non riescono spesso ad aggiudicarsi i finanziamenti internazionali necessari alla loro realizzazione. Nel 2009, ad esempio, su 1584 ricercatori di alto livello (Advanced Grants) che hanno presentato domanda di finanziamento ad un concorso del Consiglio europeo della ricerca (ERC) ben 220 erano italiani, preceduti da britannici (306), ma più numerosi dei francesi (159), tedeschi (145), svizzeri (102), ecc. Su 236 progetti selezionati e dotati di cospicue borse di studio (da 2 a 3,5 milioni di euro) solo 23 erano italiani, contro i 55 britannici, i 31 francesi e altrettanti tedeschi.
Ciò che colpisce maggiormente di questo concorso è che dei 23 progetti vinti da italiani solo 15 saranno realizzati in Italia, mentre in Gran Bretagna ne verranno realizzati 58, in Francia 34, in Germania 31 e ben 29 in Svizzera. Segno che questi Paesi riescono ad attirare anche ricercatori stranieri, mentre l’Italia non riesce a trattenere nemmeno i propri.
Nella rinomata classifica annuale (2009/2010) della competitività del World Economic Forum (WEF), la Svizzera risulta al primo posto, davanti a Stati Uniti, Singapore, Svezia e Danimarca. Per trovare l’Italia bisogna scorrere la lista fino al 48° posto (l’anno precedente occupava il 49° posto).
Secondo un’altra classifica dello stesso WEF che misura la capacità nazionale di promuovere la diffusione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (The Networked Readiness Index 2009–2010) l’Italia occupa ancora la 48a posizione, tra la Tailandia e la Costa Rica, mentre la Svizzera si piazza al 4° posto dopo Svezia, Singapore e Danimarca.
Secondo i dati dell’ Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), la Svizzera è anche tra i leader mondiali per numero di brevetti depositati per abitante e si colloca al primo posto al mondo per il numero di pubblicazioni scientifiche per abitante. La Svizzera registra anche il maggior numero di Premi Nobel pro capite, più cioè di qualsiasi altro Paese al mondo.
La Svizzera è anche campionessa europea dell’innovazione, alla testa di un ristretto gruppo di Paesi comprendenti oltre alla Svizzera, la Svezia, la Finlandia, la Danimarca, la Germania e il Regno Unito. L’Italia è nettamente sotto la media europea (UE27).
Investimenti e organizzazione
A questo punto ci si potrebbe domandare dove sia finita la proverbiale inventiva italiana, ma evidentemente nel settore della ricerca tecnologica avanzata la genialità senza gli strumenti, i laboratori, le università non basta. E per avere questi mezzi oggi più che mai occorrono investimenti sostanziosi e mirati che, ad esempio, la Svizzera mette in campo, mentre l’Italia sembra aspettare tempi migliori, senza accorgersi che la concorrenza non sta ad aspettare.
Se la Svizzera è tra i Paesi leader mondiali nell’innovazione e nella ricerca è perché investe molto nel settore della formazione. Nel 2008 la Confederazione ha investito per la ricerca e lo sviluppo (R-S) 1,5 miliardi di franchi, in aggiunta agli investimenti privati, ben più consistenti, di quasi 12 miliardi di franchi (ossia il 2,2% del PIL). La Svizzera si posiziona al sesto posto nella graduatoria mondiale (preceduta da Israele, Giappone, Svezia, Corea del Sud e Finlandia) e sopravanza del doppio la media dei Paesi dell’Unione europea (UE-27) corrispondente all’1,1% del PIL.
Le conseguenze sono sorprendenti per un piccolo Paese come la Svizzera. Alcune sue università sono tra le più prestigiose al mondo. La classifica internazionale delle università del Times Higher Education colloca ben 4 università svizzere tra le 100 migliori al mondo. In Europa, solo la Gran Bretagna fa meglio e la Svizzera compete alla pari con la Germania e i Paesi Bassi. Si calcola che oltre il 70 per cento degli studenti svizzeri è formato in una delle 200 migliori università al mondo (Shanghai Ranking). Le università svizzere sono molto attrattive e vantano un elevato grado d’internazionalizzazione.
La situazione italiana
La situazione dell’Italia è desolante. Per la formazione investe meno della media non solo europea, ma del mondo. Sono scarsi non solo i finanziamenti pubblici ma anche, anzi soprattutto, quelli privati. I risultati si vedono al livello universitario e nell’innovazione. Nella citata classifica înternazionale, l’università italiana che si posiziona meglio, quella di Bologna, è solo al 174° posto e la seconda, l’Università di Roma La Sapienza, è al 205° posto. Il sistema universitario italiano è poco attraente e il suo grado d’internazionalizzazione è bassissimo. I dottorandi stranieri rappresentano una percentuale minima, poco più di un terzo della media Ue, meno di un quarto della media OCSE.
Perché l’incontro tra innovazione e investimenti sia altamente produttivo occorre un’efficiente organizzazione. Quella svizzera lo è perché, mentre lascia un’ampia autonomia alle scuole universitarie cantonali e federali, garantisce allo stesso tempo un coordinamento adeguato delle loro attività, in particolare per quanto riguarda le infrastrutture più onerose (si pensi ai grandi calcolatori) e all’integrazione nei 28 poli di ricerca nazionali. Il denominatore comune è puntare all’eccellenza.
Al confronto, com’è facile capire, la situazione italiana è sconfortante, anche se, secondo il Censis, l’Italia possiede 71 comprensori di eccellenza e 25 poli dell’innovazione. Ma sono troppo pochi e per di più localizzati per il 70,7% al Nord, il 14,7% al Centro e il 14,6% al Sud. Ma ancor più sconfortante è che la politica e anche l’economia sembrerebbero non accorgersi del ritardo italiano e, di fatto, il sistema formativo non rappresenta una priorità per il Paese, tantomeno un’eccellenza.
Conclusione
Non credo che l’Italia manchi di talenti, anzi ne ha tantissimi, e nemmeno di idee. Manca tuttavia la consapevolezza che la situazione è grave e che il sistema formativo va riformato e sviluppato con il concorso di tutte le forze politiche (maggioranza e opposizione) ma anche dell’economia privata. Per questa riforma occorrono cospicui finanziamenti ed è necessario trovarli perché se un Paese non investe nella formazione e nella ricerca è condannato al declino.
Di fronte a questa esigenza credo che la logorante guerra tra maggioranza e minoranza debba cessare e lasciare il posto al più ampio consenso. Credo anche che la solita formula di riserva «compatibilmente con le ristrettezze di bilancio» non debba essere applicata in questo settore. Ne va davvero dell’avvenire dei giovani e dell’intero Paese.
Sono convinto che se nel Paese si troverà la concordia e il buon senso per investire quanto è necessario nel sistema formativo italiano, a guadagnarne saranno non solo i diretti interessati, ma la ricerca, lo sviluppo, l’innovazione, l’economia, la competitività, la crescita generale del sistema Italia. E la Svizzera sarà ancor più vicina.
Giovanni Longu
Berna 19.05.2010

12 maggio 2010

Svizzera – Italia: prove di riavvicinamento

Ci eravamo abituati, in occasioni d’incontri ai massimi livelli tra autorità italiane e autorità svizzere, a leggere nei comunicati stampa successivi che le relazioni italo-svizzere sono «eccellenti». Dopo l’incontro del 5 maggio scorso tra la Presidente della Confederazione Doris Leuthard e il Presidente del Consiglio dei ministri italiano Silvio Berlusconi non c’è stato invece alcun comunicato dello stesso tenore, anche se la Leuthard ha definito l’incontro «cordiale e costruttivo». E’ facile dedurre che i rapporti italo-svizzeri non sono ancora tornati all’eccellenza di qualche anno fa, ma diversi segnali lasciando ben sperare.
In questi ultimi anni i rapporti tra i due Paesi si sono un po’ deteriorati, non solo a causa delle note vicende sullo scudo fiscale e dei modi poco riguardosi con cui è stato applicato (nei media elvetici si è parlato persino di «guerra fiscale»), ma anche per alcune esternazioni poco o per nulla diplomatiche di alcuni importanti ministri della Repubblica, per la problematica applicazione in Italia degli Accordi bilaterali tra la Svizzera e l’Unione europea e non da ultimo per il clima negativo che questa situazione ha generato nella collettività italiana.
Incontro italo-svizzero ai massimi livelli
Il fatto che sia stato possibile organizzare un vertice ai massimi livelli sta ad indicare l’interesse e la volontà di entrambe le parti a riprendere la via del dialogo per superare quanto prima le attuali difficoltà e riportare le relazioni italo-svizzere sul solco tracciato dal primo importante trattato tra i due Paesi del 1868, ancora in vigore nonostante siano trascorsi da allora ben 142 anni. I due Stati s’impegnarono allora a mantenere tra loro «amicizia perpetua e libertà reciproca di domicilio e di commercio». Non vi sono sempre riusciti, ma nella sostanza le relazioni italo-svizzere sono progredite ininterrottamente superando di volta in volta gli ostacoli del momento. Basti pensare che l’Italia è il secondo partner economico della Svizzera e il secondo principale fornitore. L’interscambio tra i due Paesi si aggira sui 40 miliardi di franchi l’anno.
L’importanza del recente incontro tra la Presidente Leuthard e il Premier Berlusconi, durato quaranta minuti, è data inoltre dal fatto che vi hanno partecipato anche due superministri della Repubblica, il ministro degli affari esteri Franco Frattini (che era intervenuto in modo forse poco accorto nella controversia tra la Svizzera e la Libia) e il ministro dell’economia e delle finanze Giulio Tremonti (principale responsabile della «guerra fiscale» e grande accusatore della Svizzera a causa del segreto bancario). La loro partecipazione è stata voluta da Berlusconi non solo perché dirigono due importanti ministeri, direttamente implicati nello stato delle relazioni bilaterali, ma probabilmente anche per far loro comprendere che le questioni con la Svizzera vanno affrontate e risolte globalmente.
Per l’Italia la Svizzera è infatti un partner di riguardo non solo per le intense relazioni economiche e finanziarie, ma anche per la presenza in questo Paese confinante di oltre mezzo milione di cittadini italiani. Anche per la Svizzera l’Italia è un partner eccezionale non solo per la vicinanza geografica, ma anche e soprattutto per molteplici ragioni storiche, economiche, culturali. Più che i problemi da risolvere sembrano dunque aver influito sull’incontro politico al più alto livello degli ultimi quattro anni i molteplici interessi comuni che i due Paesi intendono salvaguardare e sviluppare.
La Leuthard deve aver apprezzato davvero molto la disponibilità dell’Italia alla ripresa del dialogo, tanto da sentirsi ottimista anche nei confronti di Tremonti. Parlando con i giornalisti, la Consigliera federale ha riferito senza entrare nei dettagli che Silvio Berlusconi è rimasto colpito quando ha appreso che la Svizzera ha accettato e sottoscritto le norme dell’OCSE e ha già firmato nuovi accordi sulla doppia imposizione, fra l’altro con Paesi come la Germania e la Francia. E’ possibile che Berlusconi si sia chiesto perché non dovrebbe essere possibile trovare un’intesa anche con l’Italia. Sta di fatto, ha riferito la Leuthard, che egli ha insistito anche davanti a Tremonti sulla necessità di trovare una soluzione condivisa sulle questioni aperte con la Svizzera. E benché Tremonti abbia ripetuto anche in questa occasione che a suo parere «la Svizzera approfitta ancora troppo dei benefici del segreto bancario», la Leuthard ritiene che il ministro italiano, essendo «un uomo intelligente e pragmatico» saprà rivedere le sue posizioni con maggiore concretezza e positivamente.
Nella conferenza stampa dopo l’incontro con Berlusconi, la Leuthard si è mostrata visibilmente soddisfatta dell’atmosfera distesa che ha chiaramente percepito e ottimista circa la cancellazione della Svizzera dalla «lista nera» dei paradisi fiscali di Tremonti e la ripresa delle trattative per un nuovo accordo sulla doppia imposizione, senza tuttavia nascondere che permangono ancora divergenze importanti in alcuni dossier.
L’ottimismo della Leuthard era anche dovuto alla disponibilità di Berlusconi a perorare la liberazione dello svizzero Max Goeldi, detenuto in Libia, se necessario, pur sapendo che Gheddafi non è un interlocutore facile nemmeno per l’amico italiano.
L’uccellone Tremonti
Che il ministro Tremonti non goda di molta simpatia in Svizzera lo sanno tutti, ma dopo l’incontro con la Leuthard è probabile che anche nei suoi confronti l’atteggiamento di molti svizzeri cambi. Anzi ha già cominciato a cambiare, proprio in quella sorta di «riserva di caccia» in cui in molti sarebbero stati disposti fino a poco tempo fa a violare la legge pur di impallinare l’uccellone Tremonti.
Mentre la Presidente Leuthard incontrava Berlusconi in presenza di Tremonti e Frattini, quasi contemporaneamente nella Piana di Magadino in Ticino un altro esponente importante del governo svizzero, il Consigliere federale Moritz Leuenberger alludeva al ministro italiano con un’immagine che non lascia dubbi sulle scarse simpatie di cui gode in Svizzera e soprattutto in Ticino. Dopo aver riferito, tra il serio e il faceto, che quella Piana è come una specie di riserva in cui fanno tappa diverse specie di uccelli, alcuni provenienti dal sud, «in cerca di cibo e asilo dalle nostre parti», altri semplicemente in transito, Leuenberger ha poi ricordato che «ci sono anche uccelli che vengono qui per pochissimo tempo, nascondendo le uova in una cassaforte. In questi ultimi tempi, però, hanno paura di essere osservati da un grosso uccello predatore in agguato sui monti. Per questo viene chiamato l’uccellone Tremonti».
Il ministro Leuenberger ha accennato anche a un ex ministro, «l’altro uccellone Claudio Scajola nel frattempo già caduto dal nido», ma il richiamo principale era sicuramente il primo. Un modo forse poco diplomatico, ma efficace, nello stile del consigliere federale zurighese (già frequentatore del Cooperativo, locale storico della sinistra italiana di Zurigo), di sdrammatizzare situazioni che possono creare problemi, ma che in fondo, con un po’ di sana ironia, potrebbero essere ridimensionati e ricondotti alla sfera del normale.
Sviluppo dei rapporti culturali e scientifici
Spetterà probabilmente al Consigliere federale Didier Burkhalter cogliere i primi frutti del rasserenamento delle relazioni italo-svizzere. Parteciperà infatti a fine mese a Roma all’inaugurazione del MAXXI, il Museo nazionale delle arti del XXI secolo, uno dei più grandi musei d’Europa dedicato alla creatività contemporanea e all’innovazione nel campo delle arti e dell’architettura. Burkhalter vi parteciperà non solo come ministro della cultura, ma anche come rappresentante della Svizzera, l’unico Paese straniero invitato ufficialmente all’inaugurazione del 30 maggio, anche perché ha contribuito all’allestimento di una delle tre esposizioni inaugurali di questa importante istituzione culturale italiana.
E’ anche probabile che l’esponente svizzero approfitti della visita per segnalare che la Svizzera è interessata vivamente alla collaborazione con l’Italia in tutti i campi attinenti alla cultura, compresa la lingua italiana. Un terreno, questo, molto delicato e importante per la collettività italiana, non da ultimo perché proprio in questi mesi il Dipartimento diretto dal dinamico ministro Burkhalter sta mettendo a punto le ordinanze d’applicazione della nuova legge sulle lingue. Da queste ordinanze potrebbero derivare nuovi impulsi per una maggiore salvaguardia e valorizzazione della lingua italiana in Svizzera.
Si dà invece per certo che sono in corso trattative per attivare quanto prima la Commissione mista italo-svizzera per la ricerca scientifica, prevista dal trattato di collaborazione scientifica e tecnologica risalente al 2003, ma non ancora costituita. Senza questa commissione la collaborazione bilaterale non è efficace perché spetta ad essa «redigere programmi pluriennali e stabilire i settori prioritari e le modalità pratiche della cooperazione scientifica e tecnologica».
Siccome il ministro Burkhalter ha tra le sue priorità di governo anche il mantenimento della Svizzera ai massimi livelli mondiali dell’innovazione e della ricerca, la collaborazione in campo scientifico e tecnologico con i Paesi vicini, Italia compresa, non possono lasciarlo indifferente. Il suo carattere tenace e volitivo fanno ben sperare che i rapporti italo-svizzeri si rafforzino anche su questo fronte, senza dimenticare che uno scambio e una collaborazione ai massimi livelli dell’eccellenza è arricchente per entrambi i Paesi.
Le prove di riavvicinamento tra l’Italia e la Svizzera sembrano ben riuscite. Non resta che attendere qualche mese per verificare se le difficoltà maggiori sono state superate. Un indicatore sensibile sarà anche la reazione della collettività italiana in Svizzera al nuovo clima che si sta prospettando.
Giovanni Longu
Berna 12.05.2010

05 maggio 2010

4. Il Convegno di Lucerna per dar voce all’immigrazione italiana in Svizzera


Quarant’anni fa, 1970: anno cerniera per l’immigrazione italiana in Svizzera*

L’incombere della votazione sull’iniziativa popolare promossa dalla destra xenofoba guidata da James Schwarzenbach, prevista per il 7 giugno 1970, fece accelerare i tempi della ricerca di un’unità possibile tra le centinaia di associazioni italiane in Svizzera.

L’iniziativa Schwarzenbach prevedeva una limitazione della popolazione straniera al 10% di quella residente totale. Soprattutto gli italiani si rendevano conto che, se l’iniziativa fosse stata approvata dal popolo svizzero, molti di essi avrebbero dovuto lasciare definitivamente la Svizzera. Oltre alla paura di una tale evenienza, era diffusa la sensazione che gli svizzeri o comunque molti di essi considerassero gli stranieri unicamente come forza lavoro da sfruttare finché ce ne fosse stato bisogno. Il disagio soprattutto tra gli italiani, che costituivano la componente maggioritaria e trainante degli stranieri, era palpabile. Pochissimi, invece, avvertivano i segnali che annunciavano una svolta radicale nella politica migratoria svizzera, orientata alla stabilizzazione e integrazione degli stranieri, e nuove prospettive specialmente per la collettività italiana in Svizzera.
In questa difficile situazione, alcune associazioni italiane bene organizzate ritenevano che fosse fondamentale far sentire in forma unitaria la voce degli immigrati italiani su tutti i principali problemi che la riguardavano. Questa voce doveva esprimersi sia verso le autorità italiane e sia verso le autorità svizzere. Per questo occorreva anzitutto che la miriade di gruppi e associazioni (si parlava allora di oltre mille associazioni) si desse un coordinamento nazionale e possibilmente un organismo centrale rappresentativo e autorevole.
A sensibilizzare la collettività italiana immigrata pensarono soprattutto la Federazione delle Colonie Libere Italiane (FCLI) promuovendo incontri, dibattiti, convegni, prese di posizione. Alla FCLI si affiancarono ben presto le Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani (ACLI) e i Patronati. Insieme, agli inizi del 1970, proposero la convocazione di un Convegno unitario dell’Emigrazione italiana in Svizzera per mettere a punto strategia d’intervento e dar vita a un autorevole organismo centrale di riferimento in cui l’associazionismo potesse riconoscersi.
Risultati e limiti del Convegno di Lucerna
Il «Primo convegno nazionale delle associazioni degli emigrati italiani in Svizzera» si tenne a Lucerna il 25 e 26 aprile 1970. Vi parteciparono oltre 400 delegati in rappresentanza delle principali associazioni di immigrati in Svizzera, che salutarono il Convegno come un evento decisivo per l’immigrazione italiana in Svizzera.
Purtroppo disertarono il Convegno o non vennero invitate alcune rappresentanze dell’associazionismo moderato non appartenente all’area politica delle Colonie libere italiane, introducendo così in questo grande sforzo aggregativo un elemento di debolezza, che influirà sui risultati dell’incontro di Lucerna. Queste assenze e la netta prevalenza dell’area di sinistra tra le rappresentanze presenti (comprese le numerose delegazioni venute dall’Italia) contribuirono anche ad alimentare nelle autorità sia svizzere che italiane e nelle centrali sindacali svizzere un certo distacco e qualche timore sull’impostazione del Convegno.
Nell’intenzione degli organizzatori, l’incontro non doveva essere una specie di «muro del pianto» degli emigrati, come accadeva solitamente in incontri minori del genere, ma un punto di partenza «per superare la condizione di vittime ed essere protagonisti del nostro destino». Di fatto, anche in questo incontro prevalsero soprattutto le denunce: contro la concezione che vedeva «l’emigrante come merce» e la massa dei lavoratori «come strumento di manovra, volano regolatore delle congiunture, gente priva di ogni diritto civile perché così era più facile cacciarla via o farla arrivare secondo gli interessi dell’economia», «contro l’integrazione selettiva ed autoritaria che mira a spaccare i lavoratori stranieri fra primi della classe, a discrezione svizzera, e paria» ecc.
Le proposte restarono a livello di auspici piuttosto vaghi come le rivendicazioni dei «diritti civili di tutti i lavoratori stranieri», di «una politica della piena occupazione in patria», dell’«unità di tutte le forze rappresentative dell’emigrazione», di una maggiore collaborazione tra «emigrazione e sindacati», ecc.
Al di là degli evidenti limiti, il Convegno di Lucerna ha avuto un grande merito. Esso ha permesso per la prima volta nella storia dell’immigrazione italiana in Svizzera di discutere praticamente tutti i principali problemi degli emigrati italiani in Svizzera alla luce sia della realtà italiana sia della realtà svizzera. Nessun aspetto fu trascurato: il ruolo delle associazioni e dei sindacati, le relazioni tra emigrati e svizzeri, i problemi legati all’emarginazione, all’informazione, alla scuola, alla formazione professionale, all’integrazione, al diritto di voto nei comuni svizzeri, e naturalmente il problema di una rappresentanza unitaria dell’emigrazione italiana in Svizzera.
Il CNI principale risultato del Convegno di Lucerna
Il risultato più importante del Convegno di Lucerna fu indubbiamente l’elezione del Comitato Nazionale d’Intesa (CNI), che per oltre un decennio sarà l’interlocutore più importante delle autorità italiane in Svizzera. Ad esso veniva affidato il compito non facile di rappresentare «unitariamente» le anime di oltre 400 associazioni di base «per affrontare e risolvere concretamente i problemi dell’emigrazione».
Merito del Convegno di Lucerna fu anche la diffusione dello spirito d’intesa e la costituzione, sulla scia del CNI, di numerosi comitati d’intesa a livello cantonale, regionale e cittadino, che hanno contribuito a superare la frammentazione dell’associazionismo tradizionale settoriale. Molti di questi comitati d’intesa sopravvivono ancora e rappresentano uno dei pochi «luoghi» rimasti per l’incontro e lo scambio di idee della collettività italiana organizzata di una città o di una regione alla ricerca di un’«intesa» che resta comunque sempre difficile da trovare.
Il maggior limite del Convegno
Il maggior limite del Convegno è stato quello di non aver capito che in quegli anni la politica migratoria italiana e la politica immigratoria svizzera stavano cambiando radicalmente. Storicamente, il 1970 ha rappresentato per l’immigrazione italiana un anno cerniera, il primo anno in cui il tasso migratorio ha cominciato a diventare negativo, ossia il flusso dei rientri dalla Svizzera ha cominciato a superare quello dell’immigrazione dall’Italia. Ciononostante, la collettività italiana diveniva sempre più stabile e la permanenza in Svizzera sempre più lunga, non da ultimo a causa delle seconde generazioni che aumentavano di anno in anno. Anche la politica migratoria federale incentrata sulla rotazione della manodopera straniera stava mutando e prima o poi avrebbe affrontato decisamente i problemi della stabilizzazione e dell’integrazione degli stranieri.
Poche persone e poche associazioni italiane avevano intuito già nella seconda metà degli anni 1960 (ad esempio il centro italo-svizzero di formazione professionale CISAP) che alcuni problemi strategici come la formazione professionale dei giovani andavano impostati e risolti in collaborazione con le istituzioni svizzere. Occorreva guardare al futuro, soprattutto all’avvenire delle seconde generazioni e dunque alla loro integrazione piuttosto che continuare a recriminare sulla lunga tradizione di subalternità e umiliazioni subite. L’obiettivo principale non doveva più essere il ritorno ma l’integrazione, per divenire parte integrante del tessuto sociologico, culturale ed economico svizzero. Il Convegno di Lucerna, a mio parere, non ha saputo interpretare i vari segnali del cambiamento.
Timori da parte sindacale e delle autorità
Se ne è avuta qualche conferma già durante gli interventi degli ospiti del Convegno. L’osservatore del sindacato FOMO (oggi confluito nell’UNIA), ad esempio, tenne a sottolineare che era venuto «per osservare i lavori delle associazioni e non per partecipare» e che «i problemi sindacali vanno impostati e trattati dai nostri iscritti, nei nostri organi sindacali competenti».
Nonostante i saluti beneauguranti di molte autorità italiane e svizzere, dai loro messaggi traspariva anche un certo timore, legato sia all’orientamento generale del Convegno e sia alla tensione che si percepiva nel Paese a causa dell’iniziativa Schwarzenbach. Si aveva paura che eventuali prese di posizione troppo rigide e impegnative potessero rappresentare non solo un ostacolo alle trattative che stavano per essere avviate tra l’Italia e la Svizzera a livello di Commissione mista per l’emigrazione, ma potessero anche «dare esca ai promotori dell’iniziativa Schwarzenbach» (Ambasciatore Martino).
Ancor più esplicitamente, il presidente della Federazione svizzera dei lavoratori edili e del legno (FLEL) Ezio Canonica aveva declinato l’invito a partecipare al Convegno perché «consideriamo la tenuta del Convegno prima della votazione del 7 giugno prossimo sulla seconda iniziativa contro l’inforestierimento estremamente inopportuna e nociva ai fini della campagna che stiamo conducendo contro l’iniziativa stessa. La nostra partecipazione è suscettibile di aumentare ulteriormente il disagio e le difficoltà che la sgraziata iniziativa ci procura».
Successivamente, le parti più scettiche hanno avuto modo di ricredersi sui rischi del Convegno di Lucerna e soprattutto le autorità italiane hanno finito per apprezzare gli sforzi di aggregazione e collaborazione della collettività italiana. E’ difficile, tuttavia, anche a distanza di quarant’anni, tirare un bilancio conclusivo. Da una parte, infatti, è indubbio che sia il Convegno che il CNI quale suo principale derivato hanno rappresentato momenti fondamentali di maturazione e di consapevolizzazione della collettività italiana immigrata in Svizzera; dall’altra è pur vero che le prese di posizione e gli appelli del Convegno e del CNI non furono quasi mai tenuti in grande considerazione dalle istituzioni e pertanto hanno ben poco influito sull’evoluzione dell’immigrazione in Svizzera.

Giovanni Longu
Berna, 5.5.2010

* Gli altri articoli di questa serie sono apparsi il 10.3.2010, il 7.4.2010 e il 28.4.2010

28 aprile 2010

3. La reazione italiana alla xenofobia


Quarant’anni fa, 1970: anno cerniera per l’immigrazione italiana in Svizzera

Di fronte alla minaccia xenofoba, sul finire degli anni Sessanta del secolo scorso, le organizzazioni degli immigrati italiani cominciarono a sentire il bisogno di costituire un fronte comune per far sentire in forma unitaria sia alla politica italiana che a quella svizzera la voce di un disagio che andava diffondendosi sempre più a causa della difficile convivenza con la popolazione indigena. Le associazioni più consapevoli del pericolo xenofobo erano le Colonie libere italiane (CLI), ma non sempre trovavano interlocutori attenti né tra le autorità né tra le stesse innumerevoli organizzazioni italiane presenti allora in Svizzera.

In Italia, tranne il Partito comunista italiano (PCI), che aveva nelle Colonie libere le principali organizzazioni di riferimento, né il governo né le altre forze politiche prestavano molta attenzione a quel che succedeva in Svizzera, almeno fino alla metà degli anni Cinquanta del secolo scorso. Eppure a Roma giungevano sempre più frequentemente voci di un diffuso disagio della collettività immigrata a causa di presunte discriminazioni e della difficile convivenza con la popolazione locale.
In Svizzera invece, le CLI e altre organizzazioni di sinistra erano attentamente osservate dalla polizia federale, che aveva cominciato a schedarne gli attivisti «comunisti» più in vista, ritenendoli i principali responsabili del malcontento. A titolo forse di avvertimento, nel 1955 la Svizzera aveva anche cominciato ad espellerne alcuni (i più esposti o forse i più deboli) con l’accusa di essere dei sobillatori ed elementi pericolosi per la sicurezza interna dello Stato.
Delle Colonie libere italiane dirà qualche anno più tardi James Schwarzenbach, il fautore della più pericolosa iniziativa antistranieri della storia svizzera, che non meritavano l’attributo «libere» perché di fatto non lo erano in quanto asservite al Partito comunista italiano. Con l’anticomunismo dell’epoca, è probabile che dello stesso avviso fossero molti, mentre è certo che le autorità svizzere guardassero con sospetto tutto ciò che avveniva in seno alle Colonie proprio per il loro legame col PCI, il più forte partito filosovietico dell’occidente.
Le reazioni della politica italiana
Contro le espulsioni degli attivisti italiani reagirono non solo l’immigrazione organizzata, CLI in testa, ma anche il governo italiano attraverso l’Ambasciata d’Italia. Persino gran parte della stampa svizzera era insorta, chiedendo al governo federale di dire almeno chiaramente cosa fosse lecito e cosa no, senza appellarsi a giustificazioni generiche. Inutilmente. Infatti le schedature continuarono come pure l’espulsione di numerosi «comunisti».
In Italia, a chiedere un intervento forte del governo nei confronti della Svizzera erano proprio i comunisti. Ma ragion di Stato e il timore che una protesta decisa potesse nuocere ai numerosi italiani presenti in Svizzera e ai futuri flussi migratori, indussero il governo italiano alla massima prudenza. Del resto, sia l’Italia che la Svizzera preferivano scaricare i problemi sulla Commissione mista prevista dall’Accordo del 1948, pur sapendo che aveva ben pochi poteri e non era certo in grado di assicurare migliori condizioni di vita, di alloggio e assicurative ai lavoratori italiani immigrati.
Per cercare soluzioni stabili ai vari problemi che venivano sempre più spesso sollevati, l’Italia finì per ritenere che la sede più consona fosse non tanto la Commissione mista, ma la revisione dell’accordo del 1948. Così, all’inizio del 1961 l’Italia ne fece richiesta alla Svizzera, che non dimostrò grande entusiasmo, ben sapendo che, oltre a dover rispondere alle rivendicazioni italiane, non poteva ignorare la pressione che la piazza ed alcuni movimenti antistranieri esercitavano sul governo e sull’opinione pubblica.
Credendo di forzare la controparte a concedere quanto l’Italia chiedeva, nel novembre del 1961 si presentò in Svizzera il ministro del lavoro Sullo ufficialmente per raccogliere informazioni di prima mano sulle condizioni dei lavoratori italiani. In realtà, oltre ad indagare, il ministro rilasciò numerose interviste nelle quali elencava diverse rivendicazioni provenienti dagli ambienti migratori italiani (ricongiungimento familiare, scuola, assicurazione malattia, assistenza sociale, alloggio ecc.) da presentare alla Svizzera.
Creò tuttavia molto imbarazzo a Palazzo federale non solo la via poco diplomatica di presentare tali rivendicazioni, doppiando in questo modo i lavori negoziali in corso, ma anche la velata minaccia secondo cui «il governo di Roma, ove non si addivenisse ad un accordo soddisfacente potrebbe anche decidere speciali provvedimenti, volti a limitare l'emigrazione in Svizzera della mano d'opera italiana nuova, o ad avviarla soltanto verso quei cantoni che già riconoscono all'operaio italiano vantaggi evidenti». Il negoziato tra l’Italia e la Svizzera fu subito interrotto e solo più tardi fu possibile riprenderlo per concluderlo faticosamente il 10 agosto 1964.
Attivisti «comunisti» schedati ed espulsi
Nel frattempo, per non dare adito alla destra xenofoba di creare difficoltà al governo e di sollevare contro la sua politica l’opinione pubblica, le autorità federali tentarono in molti modi di introdurre freni all’immigrazione e di controllare meglio gli stranieri, soprattutto quelli che sembravano «pericolosi» per l’ordine pubblico. Il controllo delle organizzazioni di sinistra e degli attivisti «comunisti» si fece intenso, giungendo nel 1963 a un caso clamoroso. Insieme a numerosi attivisti comunisti, accusati di propaganda politica e di essere pericolosi per la «pace sindacale», vennero espulsi anche alcuni deputati comunisti venuti dall’Italia per tenere incontri pubblici in alcune associazioni.
La reazione nell’opinione pubblica fu enorme sia in Italia che in Svizzera. Intervenne anche l’Unione Sindacale Svizzera protestando energicamente contro l'espulsione dei lavoratori italiani, ritenendo che tale misura fosse in evidente contrasto con i principi democratici e con i diritti di uomini liberi in terra libera.
L’on. Pellegrino, uno dei politici comunisti espulsi, accusò espressamente le autorità federali di violazione del diritto internazionale e di «persecuzione politica anticomunista contro italiani in terra svizzera» e «un'azione razzista, schiavista, colonialista degli ambienti più reazionari del padronato elvetico, tacitamente assecondato in un primo momento da tutto il padronato svizzero per fiaccare lo spirito rivendicativo e di lotta dei nostri lavoratori».
Per le autorità svizzere, invece, gli attivisti comunisti e i politici italiani dovevano essere espulsi perché mettevano in pericolo la sicurezza dello Stato e poi una legge vietava agli stranieri non domiciliati di fare politica in luoghi pubblici, se non espressamente autorizzati. In realtà si voleva far capire anche alla destra xenofoba che il governo federale intendeva assumere in pieno il controllo della situazione degli stranieri. La destra era invece convinta del contrario e lo fece chiaramente intendere all’indomani della ratifica dell’Accordo d’emigrazione italo-svizzero, che riteneva troppo favorevole all’Italia.
Essendo parte marginale in Parlamento, i movimenti xenofobi potevano solo sperare nella riuscita di una iniziativa popolare che introducesse a livello costituzionale limiti precisi e invalicabili all’immigrazione. E tentarono quell’unica carta, ben sapendo di poter contare su un ampio seguito popolare. Del resto anche i sindacati, pur non approvando le iniziative antistranieri, erano favorevoli a una limitazione dell’immigrazione per salvaguardare meglio la manodopera indigena.
La reazione delle organizzazioni degli immigrati
In un primo momento, ben pochi si resero conto della pericolosità dell’iniziativa popolare lanciata da James Schwarzenbach nel 1969. Molti pensarono che sarebbe stata ritirata come avvenne per la prima delle iniziative antistranieri, quella del 1964 poi ritirata nel 1968 dietro alcune promesse del governo per contrastare la crescita dell’immigrazione. In effetti anche nel 1969 il Consiglio federale promise di intervenire più efficacemente che in passato per frenare l’immigrazione e stabilizzare la popolazione straniera residente. Ma il movimento di Schwarzenbach non gli credette, deciso a volere un pronunciamento del popolo svizzero, come in effetti avvenne nel 1970 e sul quale si tornerà in altro articolo.
Le Colonie libere furono tra le prime a rendersi conto dei rischi che stava correndo soprattutto l’immigrazione italiana e nel 1969 si fecero promotrici di un’ampia mobilitazione contro la destra xenofoba e rivendicarono persino nei confronti delle autorità federali il diritto di essere consultate. Sul finire di giugno 1969, la Giunta federale delle CLI organizzò un seminario di studio che coinvolse ACLI, INCA, ITAL, il Sindacato FOMO e altre organizzazioni, per affrontare alcuni temi scottanti dell’immigrazione italiana in Svizzera, le condizioni degli stagionali, gli infortuni, la formazione professionale, ecc. Nel luglio dello stesso anno, le CLI e le ACLI emisero un comunicato congiunto per presentare la reale portata dell’iniziativa di Schwarzenbach. Nel gennaio 1970, le due associazioni ACLI e FCLI si ritrovarono insieme ai patronati di emanazione sindacale (INCA, ITAL, INASTIS) all’Ambasciata d’Italia a Berna, Ufficio emigrazione e affari sociali, per discutere dell’applicazione della Convenzione italo-svizzera sulla sicurezza sociale.
Un altro momento di aggregazione delle principali organizzazioni italiane è stata la protesta per il modo di far politica nei confronti dei lavoratori immigrati in occasione dell’emanazione del decreto del Consiglio federale del 16 marzo 1970 sulla limitazione degli stranieri esercitanti un’attività lucrativa. Di questo decreto facevano discutere soprattutto le difficoltà e gli ostacoli posti al cambiamento del posto di lavoro, al cambiamento della professione e allo spostamento della residenza da un Cantone a un altro.
Ma l’associazionismo unitario dell’immigrazione italiana in Svizzera ebbe la sua consacrazione in occasione del Convegno di Lucerna il 25 e 26 aprile 1970, al quale sarà dedicato uno dei prossimi articoli.
Le associazioni italiane stavano lentamente prendendo coscienza delle loro possibilità e responsabilità, soprattutto nel denunciare manchevolezze e inadempienze sia da parte dell’Italia sia da parte della Svizzera. Ufficialmente sia il Governo italiano che il Consiglio federale non ne tenevano conto, ma stavano a sentirle, quelle almeno che riuscivano a far sentire la loro voce. Queste erano purtroppo pochissime, perché le altre erano per lo più scarsamente organizzate, senza mezzi, con pochi iscritti e assolutamente ininfluenti socialmente e politicamente.
(Gli altri articoli di questa serie sono apparsi il 10.3.2010 e il 7.4.2010)
Giovanni Longu
Berna, 28.04.2010

21 aprile 2010

La Svizzera e l’Italia attraverso il Ticino


Il Ticino è l’anello di congiunzione privilegiato tra l’Italia e la Svizzera. Senza il Ticino, probabilmente, la storia delle relazioni italo-svizzere avrebbe avuto andamento e intensità diversi. Com’è noto, i rapporti tra il Ticino e l’Italia non si sono sviluppati sempre come potrebbe far credere non tanto l’immediata vicinanza geografica tra le due regioni quanto i caratteri comuni che rendono il Ticino il Cantone «italiano» della Svizzera, il baluardo della lingua italiana nella Confederazione, il principale sostenitore dell’italianità, il «ponte» tra l’Italia e la Svizzera su cui transitano non solo merci e persone, ma anche idee, arte, cultura.


A sottolineare alcune di queste caratteristiche del Ticino ci ha pensato sabato scorso a Lugano il Consigliere federale Didier Burkhalter nella sua allocuzione in occasione del Dies Accademicus dell’Università della Svizzera Italiana (USI), l’unica università di lingua italiana al di fuori dell’Italia. Un’occasione ghiotta, per il giovane Consigliere federale, per sottolineare quanto gli stiano a cuore le caratteristiche del Ticino, l’internazionalità della scienza e della ricerca, ma anche la necessità di «avvicinare Berna al Sud della Svizzera». Ma a Sud della Svizzera c’è l’Italia, che il ministro della cultura svizzero vede come un partner importante con cui dialogare e collaborare, proprio sull’esempio dell’USI, che con la Lombardia e l’Università degli Studi di Milano dialoga e collabora intensamente.
La collaborazione italo-svizzera
Il Ministro svizzero della cultura ha accennato a più riprese ai rapporti italo svizzeri. Dapprima quando annuncia che è stato invitato a Roma alla prossima inaugurazione del MAXXI - Museo nazionale delle arti del XXI secolo, uno dei più grandi musei d’Europa dedicato alla creatività contemporanea e all’innovazione nel campo delle arti e dell’architettura. «La Svizzera parteciperà a questa cerimonia grazie alla vostra Università. Con la sua Accademia di Architettura e il suo Archivio del Moderno, essa ha contribuito all’allestimento di una delle tre esposizioni inaugurali di questa importante istituzione culturale italiana. Si tratta della mostra intitolata «Luigi Moretti architetto. Dal Razionalismo all’Informale». Grazie al vostro contributo, la Svizzera sarà l’unico Paese straniero presente all’inaugurazione del MAXXI».
Il secondo riferimento all’Italia riguarda la collaborazione italo-svizzera nel campo della ricerca, quando il Ministro Burkhalter ha annunciato che probabilmente si terrà in Ticino «il primo degli incontri ministeriali che abbiamo deciso di istituire con i responsabili italiani dell’istruzione superiore e della ricerca».
A questo proposito è bene ricordare che la Svizzera e l’Italia hanno già firmato nel 2003 un importante accordo di cooperazione scientifica e tecnologica. Esso prevede all’articolo 6 una Commissione Mista «che avrà il compito di redigere Programmi pluriennali e di stabilire i settori prioritari e le modalità pratiche della cooperazione scientifica e tecnologica». Purtroppo questa Commissione, composta di rappresentanti ministeriali e di esperti, non è stata ancora costituita, ma dal suo intervento al Dies Academicus dell’USI, l’omologo della Ministra italiana Gelmini, ha fatto capire che è venuta l’ora di mettere in piedi questa Commissione e dare avvio a un’effettiva collaborazione scientifica e tecnologica.
La Svizzera…
Ben sapendo che le classifiche internazionali hanno i loro limiti e possono rimescolare le posizioni di anno in anno, Didier Burkhalter ne ha ricordate alcune. «La classifica internazionale delle università del Times Higher Education colloca 4 università svizzere tra le 100 migliori al mondo. In Europa, solo la Gran Bretagna fa meglio e la Svizzera compete alla pari soltanto con la Germania e i Paesi Bassi». In un’altra classifica, «la Svizzera figura tra i Paesi più innovatori del pianeta, in seconda posizione dietro gli Stati Uniti, se si dà credito alla classifica annuale del World Economic Forum. Stando all'OCSE, la Svizzera è anche tra i leader mondiali per numero di brevetti depositati per abitante e si colloca al primo posto al mondo per il numero di pubblicazioni scientifiche per abitante».
Non c’è che dire. Eppure, Didier Burkhalter mette in guardia a non considerare le posizioni conquistate come acquisite per sempre. Tutto può cambiare in pochi anni. La concorrenza internazionale, prima riservata a pochi Paesi occidentali, ora è divenuta globale e Paesi un tempo esclusi dalla competizione sono divenuti nel frattempo «competitori agguerriti». Per questo, ha affermato il Ministro svizzero, «il nostro Paese, piccolo, flessibile e dinamico, deve progredire senza sosta per restare tra i top ten più innovativi e più performanti al mondo». E ricordando come anche in questi casi ben si addice il detto secondo cui «la miglior difesa é l'attacco» ha aggiunto che «dobbiamo dunque prendere iniziative, essere creativi, mantenere il nostro dinamismo e la nostra flessibilità».
In questo quadro, si capisce bene come la Svizzera intenda aprirsi sempre più alla collaborazione internazionale, aprire le proprie università ai migliori ricercatori del mondo, partecipare ai maggiori programmi di ricerca europei, rafforzare anche la collaborazione con l’Italia. Vi ha accennato il Ministro quando ha ricordato i valori che figurano nello slogan dell’USI («la Svizzera dovrà essere interdisciplinare, internazionale e innovativa») e quanto a ripetuto a più riprese che la parola chiave nella ricerca svizzera dev’essere l’eccellenza.
… e l’Italia?
Credo che sia anche nell’interesse dell’Italia avviare quanto prima questa collaborazione con la Svizzera, perché sicuramente ne avrebbe da guadagnare. Basterebbe chiedersi come si posiziona oggi l’Italia nelle classifiche internazionali ricordate in precedenza. Purtroppo, occorre dirlo, non fa una bella figura. Oggi la migliore università italiana, l’Università di Bologna, si colloca nella classifica del Times Higher Education solo al 174° posto tra le top 200, davanti all’Università di Roma La Sapienza, che occupa il 205° posto.
Secondo un’altra tra le più accreditate classifiche internazionali, stilata dalla Shanghai Jiao Tong University, solo 5 università italiane si collocano tra il 102° e il 202° posto (Università Statale di Milano, Università di Pisa, Università di Roma La Sapienza, Università di Padova, Università di Torino), 9 atenei tra il 203° al 402° posto, 6 tra il 403 al 510° posto. Tutte le altre università non figurano nemmeno nella classifica.
Sarebbe interessante fare un’analisi della situazione italiana, ma credo che sarebbe inutile perché non farebbe che ripetere valutazioni già note. Mi sia concesso tuttavia di aggiungere un elemento su cui ha insistito molto il Consigliere federale Didier Burkhalter nella sua allocuzione per il Dies Academicus dell’USI: per riuscire bisogna dare fiducia ai giovani, perché sono loro il futuro del Paese. Purtroppo della gioventù, ricordava il Ministro svizzero, si parla spesso solo in termini negativi, mentre se ne parla troppo poco in senso positivo, pur rappresentando «una forza d'innovazione e di progettualità straordinaria se solo si dimostra loro fiducia», «una gioventù brillante, intraprendente e positiva su cui la Svizzera ha la fortuna di poter contare». E su cui anche l’Italia deve poter contare.
Giovanni Longu
Berna, 21.4.2010 (L'ECO)