Ogniqualvolta si organizza un incontro per parlare di associazioni e associazionismo, inevitabilmente ci si domanda: dove sono i giovani? Ma la domanda da porsi sarebbe piuttosto: perché non ci sono giovani? Ha tentato di porsela, recentemente nel corso di un incontro a Bienne, un anziano militante dell’associazionismo, Walter Antelmi. Egli ha anche abbozzato una risposta: probabilmente i giovani disertano le nostre associazioni perché non siamo stati capaci di trasmettere loro i valori in cui credevamo. Mi pare difficile non dare almeno un po’ di ragione all’amico Walter. Ma la risposta a quella domanda è indubbiamente più complessa.
Prima generazione e giovani
E’ sicuramente vero che i giovani della seconda e soprattutto della terza generazione sono lontanissimi dallo spirito dell’associazionismo che ha caratterizzato per molti decenni l’immigrazione italiana in Svizzera, soprattutto negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. Questa lontananza si spiega però solo in parte con l’incapacità degli adulti nel trasmettere valori quali solidarietà, impegno, intraprendenza, coralità, che stavano alla base dell’associazionismo impegnato.
Sarebbe azzardato colpevolizzare la prima generazione. Le esperienze associazionistiche di questi immigrati erano infatti legate molto spesso a esperienze traumatiche e sarebbe stato impossibile parlare delle prime senza inserirle in un contesto di grande sofferenza. Un padre e una madre, se possono, desiderano che i figli conservino solo bei ricordi del passato e invece, purtroppo, le prime generazioni fino agli anni Settanta potevano trasmettere (quasi) solo ricordi di sofferenza, tristezza, sfruttamento, isolamento, paura, rabbia di non poter comunicare col mondo indigeno. E’ dunque comprensibile che molti genitori non se la siano sentita di coinvolgere anche solo indirettamente le generazioni nate negli anni Settanta e Ottanta in questa loro storia, tanto più che le circostanze stavano velocemente cambiando.
Alle origini dell’associazionismo
Sta di fatto che molti giovani (ma anche meno giovani) non hanno mai avuto l’opportunità di riflessione sull’origine e sulla natura dell’associazionismo italiano del ventennio 1960-1980, il periodo della sua massima espansione in Svizzera. Anch’esso, come quello di un secolo prima, non nasceva da spirito d’avventura o dal desiderio di riempire in qualche modo il tempo libero del fine settimana, ma per risolvere problemi seri e in certo senso vitali.
Se le prime forme associazionistiche in emigrazione erano nate verso la metà dell’Ottocento per proteggere le famiglie in caso di infortunio, disoccupazione, malattia, morte di un loro congiunto (le famose società di mutuo soccorso), quelle degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso sono nate per tentare di risolvere altri pericoli, non meno gravi, legati sia alle caratteristiche degli immigrati e sia all’ambiente circostante. Vale forse la pena accennarvi.
Così descriveva la situazione un contemporaneo: «Non esistono praticamente rapporti tra italiani e svizzeri, se si escludono quelli puramente formali derivanti dai contatti quotidiani sui luoghi di lavoro, e dal vivere nella stessa città. Italiani e svizzeri, pur lavorando nelle medesime fabbriche, abitando talvolta fianco a fianco, usando gli stessi servizi e infrastrutture, si ignorano reciprocamente, svolgendo vite parallele, ma completamente separate. […] Le discriminazioni non avvengono con limitazioni e prescrizioni, ma piuttosto in modo automatico, per cui alcuni quartieri, locali, abitazioni diventano “per italiani” e non vengono frequentati dagli svizzeri e viceversa. Da ambo le parti si riscontra la tendenza a mantenere le proprie caratteristiche ed abitudini, senza sentire l’esigenza di un interscambio ed anzi l’un gruppo etnico guardando con un certo senso di fastidio l’altro» (Da Ros, 1975).
L’associazionismo tentò storicamente di dare una soluzione a questo problema d’incomunicabilità, non tanto facendo da ponte (salvo rare eccezioni), quanto proponendosi come una sorta di ciambella di salvataggio. Infatti, dice la stessa fonte, «tale situazione è accettata come un dato di fatto dalle associazioni che non pensano di avere la forza sufficiente per mutarla, essendo essa troppo generale e diffusa e affondando le proprie radici in un costume generale e ormai consolidato». E ancora: «se all’interno delle associazioni esiste fra i soci, almeno gli assidui, una certa coesione e confidenza (si danno generalmente del tu) ed anche una certa frequenza di rapporti, che permangono generalmente anche al di fuori dell’associazione, per quanto riguarda invece l’ambiente esterno, le associazioni paiono mantenere un certo isolamento».
Associazioni per sopravvivere
Per molti immigrati l’associazionismo era la garanzia di una sopravvivenza «umana» e dignitosa. Si trattava soprattutto di superare quella malattia allora diffusissima e pericolosa, che pur chiamata con nomi diversi (disagio, solitudine, nostalgia, senso di abbandono, paura), altro non era se non una profonda tristezza che ha accompagnato gran parte degli immigrati dal dopoguerra agli anni Settanta. Era la tristezza di chi si sentiva non solo sfruttato («ci trattavano come schiavi», si legge in molte autobiografie), ma anche considerato un estraneo: «era una sofferenza fisica e morale; eravamo buoni solo per il lavoro ma per il resto non eravamo accettati». Scriveva nel 1966 Tozzoli (Gli svizzeri visti da uno straniero):«Il miglior comportamento dello svizzero medio non oltrepassa il livello di un’educata indifferenza».
L’associazionismo ha rappresentato per parecchi decenni non solo l’antidoto alla solitudine e all’isolamento, ma anche un ambiente corroborante, che di fatto rendeva inutile (errore!) l’integrazione. Non va nemmeno dimenticato che per decenni gli immigrati italiani escludevano di fermarsi a lungo in questo Paese e il loro principale interesse era lavorare, risparmiare e ritornare in patria per costruirsi la casa e magari avviare un’attività in proprio. Anche la vita dei figli nati in Svizzera era tutta proiettata nella prospettiva del ritorno. Per questo la rete dei rapporti sociali dei primi immigrati si svolgeva quasi esclusivamente nell’ambito dell’associazionismo.
In effetti, il rischio di essere sopraffatti dalla solitudine e dalla tristezza era grande. Questo spiega anche la gran voglia degli italiani di quegli anni di organizzare incontri, dibattiti, soprattutto feste con tanto di cori, orchestre e artisti fatti venire appositamente dall’Italia. Le musiche e i canti erano soprattutto quelli folcloristici, atti più di altri a rafforzare il senso di appartenenza a una regione e a una patria. Le iniziative erano tante e nascevano dall’intraprendenza dei soci. Forse anche per questo carattere fortemente volontaristico esse avevano un grande successo, soprattutto nella grandi città (ad es. Zurigo, Ginevra, Berna, ecc.) ma anche nelle piccole.
Anche quando non si organizzavano feste, i centri italiani erano sempre animati. A Berna, ricordano alcuni anziani che frequentavano la Casa d’Italia, «era come una grande famiglia dove noi italiani passavamo le sere e le domeniche giocando, chiacchierando e festeggiando».
L’isolamento degli immigrati non era tipico solo della Svizzera tedesca, dove l’ostacolo maggiore era costituito dalla lingua. Anche in quella francese non era molto diverso, come ricorda una signora immigrata a Neuchâtel agli inizi degli anni Sessanta: «Tutti i sabati e le domeniche pomeriggio si andava fuori assieme, a bere un caffè a Neuchâtel nei posti dove all’epoca erano frequentati quasi da soli italiani. Ci si trovava fra noi, gli svizzeri in quel periodo ci evitavano, eravamo solo mano d’opera niente altro. Avevamo i nostri locali».
Associazionismo autosufficiente
Le associazioni erano divenute centri di italianità, luoghi d’incontro, di ricreazione, di discussione, di oblio della quotidianità e di ricarica umana. L’associazionismo finì per diventare una sorta di mondo separato, non in contrasto o concorrente con quello svizzero, ma parallelo, ben organizzato e autosufficiente. In questo mondo parallelo tutto «italiano», era possibile soddisfare quasi tutti i bisogni, dall’asilo alla scuola dell’obbligo, dalla ricreazione all’impegno sociale, dall’assistenza alla politica, dallo sport all’arte, dalla cultura alla beneficienza, ecc. Molte associazioni gestivano anche buoni ristoranti e alcune finirono per coincidere con i ristoranti stessi.
Solo in famiglia e nelle associazioni gli italiani della prima generazione si sentivano pienamente a loro agio. Non si rendevano conto, però, che questo mondo «italiano», nel giro di qualche decennio sarebbe divenuto evanescente ed effimero agli occhi della stragrande maggioranza dei giovani figli o nipoti e pronipoti di quegli immigrati.
Le nuove generazioni
E’ evidente, a questo punto, rispondere che i giovani non partecipano alla vita associazionistica tradizionale soprattutto perché non hanno gli stessi problemi dei loro nonni o genitori e hanno modalità diverse di manifestare i valori che stavano alla base dell’associazionismo.
La sofferenza che gravava sulle prime generazioni fortunatamente non si è trasmessa alle successive. La rabbia dell’incomunicabilità non ha più ragion d’essere perché l’ostacolo della lingua è stato naturalmente superato fin dalla scuola materna. Con l’accesso alla formazione professionale degli stranieri alla pari degli svizzeri sono andate via via scomparendo anche le differenze delle carriere e delle posizioni professionali. Sono radicalmente mutati anche i rapporti di lavoro e le relazioni sociali. In altri termini, l’integrazione ha creato attorno ai giovani di seconda e terza generazione un contesto sociale completamente diverso da quello dei loro padri e antenati. E’ dunque comprensibile che essi non abbiano affatto bisogno di un mondo parallelo «italiano», sicuramente non dell’associazionismo tradizionale italiano, ma nemmeno di quello più recente regionale e nazionale estremamente politicizzato e orientato quasi esclusivamente all’Italia.
Il problema della trasmissione dei valori è altra cosa, ma anche al riguardo occorre una certa prudenza nell’esprimere giudizi severi. Alcuni dei valori molto presenti nella prima generazione sono mutati nel tempo e riguardano l’intera società. Si pensi ad esempio al diverso modo di considerare il rispetto della famiglia o lo spirito di sacrificio o l’attaccamento al lavoro. Altri valori invece sono passati per intero, ma hanno nei giovani applicazioni differenti. Si pensi alla tenacia nello studio e nel lavoro, che ha portato molti giovani di seconda e terza generazione a carriere professionali di prim’ordine. Si pensi anche alla solidarietà e al volontariato, anche se vengono coniugati dai giovani d’oggi in altre forme rispetto all’associazionismo. Senza dimenticare che ai giovani d’oggi vanno riconosciuti anche capacità e valori nuovi rispetto a quelli del passato. Basti ricordare la loro apertura mentale, la notevole capacità di adattamento, l’accentuata capacità di apprendimento e d’interagire, un rapporto col denaro e col risparmio più sano che in passato, ecc.
Ciò che spesso nelle discussioni tra soli adulti non si riesce a capire è che i giovani italiani sono necessariamente «diversi» dalle generazioni precedenti e anche quando li si vuole considerare a tutti gli effetti «italiani» si dimentica che sono italiani in un modo «diverso» dai giovani che vivono in Italia. I giovani nati e cresciuti in Svizzera, anche se col solo passaporto italiano, sono molto probabilmente più svizzeri che italiani, perché hanno modi di pensare e di vivere fortemente impregnati della cultura locale. E questa diversità non è un minus, di cui eventualmente farsi colpa, ma una ricchezza, che va compresa, rispettata e valorizzata.
Giovanni Longu
Berna, 13.12.2009
13 dicembre 2009
06 dicembre 2009
60 anni fa il primo accordo italo-svizzero in materia di assicurazioni sociali
Quando nel dopoguerra gli italiani cominciarono ad affluire in massa nella Confederazione, probabilmente nessuno intuiva che quel flusso sarebbe durato parecchi decenni. In Italia era diffusa la speranza di farcela, dapprima ricostruendo quanto era stato distrutto dalla guerra, poi creando lo sviluppo all’inseguimento del benessere americano, intravisto con l’arrivo dei soldati americani ben equipaggiati ed espressione di una società ricca. Avevano portato insieme alla pace il boogie-woogie, il chewing-gum, la Coca-Cola, tanto cioccolato e marmellata, insomma un’immagine di benessere invidiabile.
Qualche segno di ripresa si era intravisto già nel 1946 e la Vespa, realizzata quell’anno, sembrava fatta apposta per alimentare il sogno della crescita. Anche il Piano Marshall americano sembrava promettere a breve termine lavoro per tutti. E’ vero che c’era ancora tanta fame e la disoccupazione colpiva non meno di due milioni di persone, ma si sperava che presto ci sarebbe stata la piena occupazione. Questo promettevano del resto i vari governi del dopoguerra. Intanto, almeno per un po’ sembrava utile o addirittura necessario riprendere la strada dell’emigrazione.
Non era tuttavia facile trovare in quel momento Paesi in grado di assorbire grandi numeri di immigrati. Per una combinazione fortuita di fattori (ad es. il divieto di emigrazione dei tedeschi e degli austriaci imposta dagli Alleati) la Svizzera si trovò nella condizione di poter accogliere decine di migliaia di italiani per i lavori stagionali, soprattutto opere del genio civile e dell’edilizia e attività agricole.
Per molti italiani fu una benedizione poter venire in Svizzera, dove, come scrisse un emigrato-poeta nel 1914, «il sudor con le monete d’oro si ripesa», mentre in Italia, nei primi anni del dopoguerra, l’inflazione galoppava e i salari perdevano continuamente potere d’acquisto. Passavano in secondo piano i disagi e le difficoltà da superare nel Paese d’immigrazione, come pure le fatiche e i pericoli legati al tipo di lavoro e l’insicurezza del futuro.
Fu così che già nel 1946 gli italiani cominciarono ad emigrare in Svizzera a decine di migliaia, per qualche stagione, si diceva, al massimo per qualche anno, in attesa di trovare il posto fisso in Italia. Nel 1947 e 1948 il flusso migratorio verso la Svizzera continuò intensamente, anche perché, per molti, la speranza nella ripresa italiana e nella piena occupazione si allontanava. Meglio tenersi il lavoro sicuro in Svizzera, anche se si trattava di occupazioni stagionali, perché gli svizzeri, con la legge sugli stranieri del 1931, avevano impegnato il governo federale a lottare contro l’inforestierimento, limitando l’immigrazione stabile e regolare.
Dapprima l’Accordo di emigrazione…
Vista la continuità dei flussi migratori, l’Italia ritenne opportuno stipulare con la Svizzera un apposito accordo, allo scopo di «mantenere e sviluppare il movimento emigratorio tradizionale dall’Italia in Svizzera». Negli ambienti politici si nutrivano forti dubbi su una prossima piena occupazione, tanto valeva offrire e ottenere garanzie riguardanti i lavoratori italiani immigrati in Svizzera.
In Italia, ricorderà qualche anno più tardi l’on. Lupis (PSI), «tutti i partiti politici erano d’accordo nel sostenere la necessità di trovare alla nostra sovrappopolazione quegli sbocchi che avrebbero permesso, come hanno permesso in epoca anteriore, di poter ristabilire un certo equilibrio». Lo stesso Nenni dichiarava nel 1946 che «l’emigrazione è una esigenza fondamentale per l’Italia».
In Svizzera, d’altra parte, l’economia che reclamava «braccia» trovava negli immigrati italiani la manodopera che cercava, senza per altro intaccare la politica governativa intenzionata a non far aumentare la popolazione straniera stabile.
Per queste ragioni, praticamente nessuno pose ostacoli alla firma nel 1948 dell’«Accordo tra la Svizzera e l’Italia relativo all’immigrazione dei lavoratori italiani in Svizzera». Non da parte italiana, in quanto erano state ottenute sufficienti garanzie per i connazionali. L’Accordo prevedeva infatti, fra l’altro, che «i lavoratori italiani dovranno beneficiare in Svizzera dello stesso trattamento dei nazionali per quanto concerne le condizioni di lavoro e di rimunerazione», come pure la clausola che «le leggi e regolamenti relativi alle prevenzioni degli infortuni, all’igiene (compresa la lotta contro la tubercolosi) e alla protezione dei lavoratori si applicheranno ai lavoratori italiani come ai nazionali». Neppure da parte svizzera furono sollevate obiezioni rilevanti, perché l’Accordo riguardava esclusivamente i lavoratori «stagionali», che non venivano considerati nella popolazione residente e quindi non rappresentavano alcun pericolo d’inforestierimento.
… e poi la Convenzione sulle assicurazioni sociali
L’unica perplessità manifestata dalla delegazione italiana durante le poche sedute relative all’Accordo del 1948 riguardava le assicurazioni sociali, ritenute insufficienti. La delegazione svizzera non fu infatti in grado di fornire alcuna garanzia precisa, perché non aveva ricevuto al riguardo alcun mandato.
Le due parti convennero di rimandare a un successivo negoziato, da avviare al più tardi entro sei mesi dalla firma dell’Accordo del 1948, la trattazione delle assicurazioni sociali applicabili ai lavoratori italiani. E così fu. L’Accordo del 1948 venne firmato il 22 giugno 1948 e il 18 ottobre furono avviati i negoziati in vista di una «Convenzione tra l’Italia e la Svizzera relativa alle assicurazioni sociali». In pochi mesi si arrivò alla firma (4 aprile 1949) e, data l’importanza della materia, gli effetti furono fatti decorrere dal 1° gennaio 1948.
Per ammissione di entrambe le delegazioni, il risultato della Convenzione era quanto di meglio si poteva garantire in quel momento, ma entrambe erano consapevoli che la complessa materia delle assicurazioni sociali era in evoluzione e andava sicuramente ripresa. Non va dimenticato che solo nel 1947 il popolo svizzero aveva approvato l’assicurazione per la vecchiaia e i superstiti (AVS), e questa era appena entrata in vigore (1° gennaio 1948). Molto restava ancora da fare nel campo dell’assicurazione contro gli infortuni, l’invalidità, le malattie, la disoccupazione, ecc.
In Italia, soprattutto le sinistre, criticarono i magri risultati della delegazione italiana e, al momento della ratifica da parte della Camera dei Deputati (dopo che il Senato l’aveva già approvata), un loro rappresentante, l’on. Aldo Cucchi (PCI), lamentò soprattutto le presunte «deficienze» della Convenzione, specialmente nel campo dell’assicurazione malattie, dell’assicurazione infortuni, degli assegni famigliari e di altre assicurazioni.
Secondo il relatore di maggioranza favorevole alla ratifica, invece, tutte le critiche erano infondate perché la Svizzera garantiva con quell’accordo la parità di trattamento tra italiani e svizzeri, compatibilmente con la legislazione in vigore. Egli riconobbe alla Svizzera un grande «spirito di cordialità verso l’Italia» e vide in quell’accordo «un nuovo atto di amicizia della Svizzera verso l’Italia, che viene a riconfermare la cordialità e l’amicizia, nel nome del lavoro, fra le Repubbliche amiche d’Elvezia e d’Italia». La Camera dei Deputati ratificò la Convenzione con 255 voti favorevoli, 16 contrari e 81 astensioni.
Limiti della Convenzione
In effetti, con quella Convenzione la Svizzera s’impegnava a ben poco, non tanto per mancanza di apertura o di buona volontà, quanto per l’impossibilità della Confederazione di garantire certi diritti e prestazioni per carenza legislativa o difetto di competenza (ad es. nel campo degli assegni familiari). Anche nel campo dell’assicurazione vecchiaia e superstiti, di competenza federale, per rendere valida la Convenzione occorreva modificare un paio di articoli della legge da poco entrata in vigore.
Una difficoltà oggettiva era costituita dalla differenza delle rispettive legislazioni nazionali in materia, per cui in regime di reciprocità la Svizzera non poteva concedere ai cittadini italiani immigrati più di quanto l’Italia fosse in grado di assicurare ai cittadini svizzeri ivi residenti e, soprattutto, più di quanto era concesso agli stessi svizzeri residenti nella Confederazione. Per la stessa ragione, probabilmente, la delegazione svizzera dichiarò di non poter accettare, «nello stato attuale» la proposta della delegazione italiana di richiedere ai rispettivi governi d’impegnarsi «ad applicare in materia di assicurazioni sociali ai cittadini svizzeri in Italia e ai cittadini italiani in Svizzera il regime di cui beneficiano o beneficeranno in avvenire i cittadini della nazione più favorita».
Un’altra difficoltà era dovuta alla condizione particolare dell’immigrazione italiana, che aveva generalmente un carattere stagionale ed era sottomessa di fatto a un principio di rotazione per cui sarebbe stato difficile a moltissimi lavoratori italiani maturare i diritti alla pensione svizzera. Questa condizione particolare non sempre era stata tenuta presente dal legislatore.
Va anche aggiunto che per la Svizzera si trattava del primo accordo internazionale in materia di assicurazione vecchiaia e superstiti. Un accordo, dunque, molto importante, perché avrebbe dovuto far scuola per accordi analoghi con altri Paesi.
Resta il fatto che la Convenzione restò in vigore solo pochi anni per essere sostituita già nel 1951 con una più adeguata e successivamente più volte modificata in funzione dell’evoluzione dell’immigrazione italiana e della legislazione generale nel campo della sicurezza sociale.
Un avvio importante
Quella Convenzione, pur nella sua limitatezza, è stata tuttavia fondamentale per gli sviluppi delle relazioni bilaterali in materia. Non solo ha costituito un chiaro punto di partenza, ma ha messo in evidenza il principio di «garantire ai cittadini dei due Paesi, nella misura del possibile, il beneficio della legislazione italiana e della legislazione svizzera in materia di assicurazioni sociali» (Preambolo della Convenzione).
Essa ha anche stabilito il diritto dei rispettivi governi di ritornare sui singoli punti già regolati o in attesa di regolamentazione non appena la legislazione italiana o quella svizzera in materia avesse subito modifiche e miglioramenti. E di fatto, di lì a poco si sarebbero riaperte le trattative per un nuovo accordo, a riprova anche dell’interesse dei due Paesi a risolvere pacificamente le controversie.
Che gli accordi del 1948 e del 1949 fossero generalmente bene accolti dai principali interessati, i lavoratori italiani in Svizzera, lo dimostra il flusso degli arrivi: già molto intenso nei primi anni del dopoguerra (media di 85.400 l’anno nel triennio 1946-47-48), dopo una repentina frenata nel 1949-50 per ragioni congiunturali, proseguì a ritmi elevati negli anni seguenti (quasi 83.000 l’anno dal 1951 al 1960).
Molti immigrati di quell’epoca testimoniano nei loro ricordi che, in fondo, in quegli anni non si stava poi così male. Anche la stampa italiana rendeva spesso testimonianza della soddisfazione dei lavoratori italiani in Svizzera, considerati non solo «perfettamente ambientati», ma anche «rispettati» (Corriere della Sera, 1949).
Giovanni Longu
Berna 6.12.2009
Qualche segno di ripresa si era intravisto già nel 1946 e la Vespa, realizzata quell’anno, sembrava fatta apposta per alimentare il sogno della crescita. Anche il Piano Marshall americano sembrava promettere a breve termine lavoro per tutti. E’ vero che c’era ancora tanta fame e la disoccupazione colpiva non meno di due milioni di persone, ma si sperava che presto ci sarebbe stata la piena occupazione. Questo promettevano del resto i vari governi del dopoguerra. Intanto, almeno per un po’ sembrava utile o addirittura necessario riprendere la strada dell’emigrazione.
Non era tuttavia facile trovare in quel momento Paesi in grado di assorbire grandi numeri di immigrati. Per una combinazione fortuita di fattori (ad es. il divieto di emigrazione dei tedeschi e degli austriaci imposta dagli Alleati) la Svizzera si trovò nella condizione di poter accogliere decine di migliaia di italiani per i lavori stagionali, soprattutto opere del genio civile e dell’edilizia e attività agricole.
Per molti italiani fu una benedizione poter venire in Svizzera, dove, come scrisse un emigrato-poeta nel 1914, «il sudor con le monete d’oro si ripesa», mentre in Italia, nei primi anni del dopoguerra, l’inflazione galoppava e i salari perdevano continuamente potere d’acquisto. Passavano in secondo piano i disagi e le difficoltà da superare nel Paese d’immigrazione, come pure le fatiche e i pericoli legati al tipo di lavoro e l’insicurezza del futuro.
Fu così che già nel 1946 gli italiani cominciarono ad emigrare in Svizzera a decine di migliaia, per qualche stagione, si diceva, al massimo per qualche anno, in attesa di trovare il posto fisso in Italia. Nel 1947 e 1948 il flusso migratorio verso la Svizzera continuò intensamente, anche perché, per molti, la speranza nella ripresa italiana e nella piena occupazione si allontanava. Meglio tenersi il lavoro sicuro in Svizzera, anche se si trattava di occupazioni stagionali, perché gli svizzeri, con la legge sugli stranieri del 1931, avevano impegnato il governo federale a lottare contro l’inforestierimento, limitando l’immigrazione stabile e regolare.
Dapprima l’Accordo di emigrazione…
Vista la continuità dei flussi migratori, l’Italia ritenne opportuno stipulare con la Svizzera un apposito accordo, allo scopo di «mantenere e sviluppare il movimento emigratorio tradizionale dall’Italia in Svizzera». Negli ambienti politici si nutrivano forti dubbi su una prossima piena occupazione, tanto valeva offrire e ottenere garanzie riguardanti i lavoratori italiani immigrati in Svizzera.
In Italia, ricorderà qualche anno più tardi l’on. Lupis (PSI), «tutti i partiti politici erano d’accordo nel sostenere la necessità di trovare alla nostra sovrappopolazione quegli sbocchi che avrebbero permesso, come hanno permesso in epoca anteriore, di poter ristabilire un certo equilibrio». Lo stesso Nenni dichiarava nel 1946 che «l’emigrazione è una esigenza fondamentale per l’Italia».
In Svizzera, d’altra parte, l’economia che reclamava «braccia» trovava negli immigrati italiani la manodopera che cercava, senza per altro intaccare la politica governativa intenzionata a non far aumentare la popolazione straniera stabile.
Per queste ragioni, praticamente nessuno pose ostacoli alla firma nel 1948 dell’«Accordo tra la Svizzera e l’Italia relativo all’immigrazione dei lavoratori italiani in Svizzera». Non da parte italiana, in quanto erano state ottenute sufficienti garanzie per i connazionali. L’Accordo prevedeva infatti, fra l’altro, che «i lavoratori italiani dovranno beneficiare in Svizzera dello stesso trattamento dei nazionali per quanto concerne le condizioni di lavoro e di rimunerazione», come pure la clausola che «le leggi e regolamenti relativi alle prevenzioni degli infortuni, all’igiene (compresa la lotta contro la tubercolosi) e alla protezione dei lavoratori si applicheranno ai lavoratori italiani come ai nazionali». Neppure da parte svizzera furono sollevate obiezioni rilevanti, perché l’Accordo riguardava esclusivamente i lavoratori «stagionali», che non venivano considerati nella popolazione residente e quindi non rappresentavano alcun pericolo d’inforestierimento.
… e poi la Convenzione sulle assicurazioni sociali
L’unica perplessità manifestata dalla delegazione italiana durante le poche sedute relative all’Accordo del 1948 riguardava le assicurazioni sociali, ritenute insufficienti. La delegazione svizzera non fu infatti in grado di fornire alcuna garanzia precisa, perché non aveva ricevuto al riguardo alcun mandato.
Le due parti convennero di rimandare a un successivo negoziato, da avviare al più tardi entro sei mesi dalla firma dell’Accordo del 1948, la trattazione delle assicurazioni sociali applicabili ai lavoratori italiani. E così fu. L’Accordo del 1948 venne firmato il 22 giugno 1948 e il 18 ottobre furono avviati i negoziati in vista di una «Convenzione tra l’Italia e la Svizzera relativa alle assicurazioni sociali». In pochi mesi si arrivò alla firma (4 aprile 1949) e, data l’importanza della materia, gli effetti furono fatti decorrere dal 1° gennaio 1948.
Per ammissione di entrambe le delegazioni, il risultato della Convenzione era quanto di meglio si poteva garantire in quel momento, ma entrambe erano consapevoli che la complessa materia delle assicurazioni sociali era in evoluzione e andava sicuramente ripresa. Non va dimenticato che solo nel 1947 il popolo svizzero aveva approvato l’assicurazione per la vecchiaia e i superstiti (AVS), e questa era appena entrata in vigore (1° gennaio 1948). Molto restava ancora da fare nel campo dell’assicurazione contro gli infortuni, l’invalidità, le malattie, la disoccupazione, ecc.
In Italia, soprattutto le sinistre, criticarono i magri risultati della delegazione italiana e, al momento della ratifica da parte della Camera dei Deputati (dopo che il Senato l’aveva già approvata), un loro rappresentante, l’on. Aldo Cucchi (PCI), lamentò soprattutto le presunte «deficienze» della Convenzione, specialmente nel campo dell’assicurazione malattie, dell’assicurazione infortuni, degli assegni famigliari e di altre assicurazioni.
Secondo il relatore di maggioranza favorevole alla ratifica, invece, tutte le critiche erano infondate perché la Svizzera garantiva con quell’accordo la parità di trattamento tra italiani e svizzeri, compatibilmente con la legislazione in vigore. Egli riconobbe alla Svizzera un grande «spirito di cordialità verso l’Italia» e vide in quell’accordo «un nuovo atto di amicizia della Svizzera verso l’Italia, che viene a riconfermare la cordialità e l’amicizia, nel nome del lavoro, fra le Repubbliche amiche d’Elvezia e d’Italia». La Camera dei Deputati ratificò la Convenzione con 255 voti favorevoli, 16 contrari e 81 astensioni.
Limiti della Convenzione
In effetti, con quella Convenzione la Svizzera s’impegnava a ben poco, non tanto per mancanza di apertura o di buona volontà, quanto per l’impossibilità della Confederazione di garantire certi diritti e prestazioni per carenza legislativa o difetto di competenza (ad es. nel campo degli assegni familiari). Anche nel campo dell’assicurazione vecchiaia e superstiti, di competenza federale, per rendere valida la Convenzione occorreva modificare un paio di articoli della legge da poco entrata in vigore.
Una difficoltà oggettiva era costituita dalla differenza delle rispettive legislazioni nazionali in materia, per cui in regime di reciprocità la Svizzera non poteva concedere ai cittadini italiani immigrati più di quanto l’Italia fosse in grado di assicurare ai cittadini svizzeri ivi residenti e, soprattutto, più di quanto era concesso agli stessi svizzeri residenti nella Confederazione. Per la stessa ragione, probabilmente, la delegazione svizzera dichiarò di non poter accettare, «nello stato attuale» la proposta della delegazione italiana di richiedere ai rispettivi governi d’impegnarsi «ad applicare in materia di assicurazioni sociali ai cittadini svizzeri in Italia e ai cittadini italiani in Svizzera il regime di cui beneficiano o beneficeranno in avvenire i cittadini della nazione più favorita».
Un’altra difficoltà era dovuta alla condizione particolare dell’immigrazione italiana, che aveva generalmente un carattere stagionale ed era sottomessa di fatto a un principio di rotazione per cui sarebbe stato difficile a moltissimi lavoratori italiani maturare i diritti alla pensione svizzera. Questa condizione particolare non sempre era stata tenuta presente dal legislatore.
Va anche aggiunto che per la Svizzera si trattava del primo accordo internazionale in materia di assicurazione vecchiaia e superstiti. Un accordo, dunque, molto importante, perché avrebbe dovuto far scuola per accordi analoghi con altri Paesi.
Resta il fatto che la Convenzione restò in vigore solo pochi anni per essere sostituita già nel 1951 con una più adeguata e successivamente più volte modificata in funzione dell’evoluzione dell’immigrazione italiana e della legislazione generale nel campo della sicurezza sociale.
Un avvio importante
Quella Convenzione, pur nella sua limitatezza, è stata tuttavia fondamentale per gli sviluppi delle relazioni bilaterali in materia. Non solo ha costituito un chiaro punto di partenza, ma ha messo in evidenza il principio di «garantire ai cittadini dei due Paesi, nella misura del possibile, il beneficio della legislazione italiana e della legislazione svizzera in materia di assicurazioni sociali» (Preambolo della Convenzione).
Essa ha anche stabilito il diritto dei rispettivi governi di ritornare sui singoli punti già regolati o in attesa di regolamentazione non appena la legislazione italiana o quella svizzera in materia avesse subito modifiche e miglioramenti. E di fatto, di lì a poco si sarebbero riaperte le trattative per un nuovo accordo, a riprova anche dell’interesse dei due Paesi a risolvere pacificamente le controversie.
Che gli accordi del 1948 e del 1949 fossero generalmente bene accolti dai principali interessati, i lavoratori italiani in Svizzera, lo dimostra il flusso degli arrivi: già molto intenso nei primi anni del dopoguerra (media di 85.400 l’anno nel triennio 1946-47-48), dopo una repentina frenata nel 1949-50 per ragioni congiunturali, proseguì a ritmi elevati negli anni seguenti (quasi 83.000 l’anno dal 1951 al 1960).
Molti immigrati di quell’epoca testimoniano nei loro ricordi che, in fondo, in quegli anni non si stava poi così male. Anche la stampa italiana rendeva spesso testimonianza della soddisfazione dei lavoratori italiani in Svizzera, considerati non solo «perfettamente ambientati», ma anche «rispettati» (Corriere della Sera, 1949).
Giovanni Longu
Berna 6.12.2009
29 novembre 2009
La CCIS e l’interscambio tra l’Italia e la Svizzera
La Camera di Commercio Italiana per la Svizzera (CCIS) celebra quest’anno il suo 1° centesimo anniversario. E’ stata infatti fondata il 2 maggio del 1909, raccogliendo l’adesione di un centinaio di membri . Da allora l’associazione è cresciuta acquisendo via via nuovi membri fino alle circa 800 aziende affiliate di oggi, dislocate soprattutto nella Svizzera tedesca ma anche in quella francese e nel Ticino.
Da 100 anni la CCIS onora gli impegni statutari «allo scopo di favorire lo sviluppo degli scambi commerciali tra l’Italia e la Svizzera e porgere aiuto morale, indicazioni e consigli ai commercianti dei due Paesi, ed in modo speciale ai soci» (art. 1 dello Statuto del 1909).
Lo scopo della CCIS non è mai cambiato nella sostanza, come non è mai mutato il dinamismo impresso all’istituzione dal suo primo presidente, quel Giuseppe de Michelis che all’inizio del secolo scorso, in qualità di «regio addetto all’emigrazione italiana in Svizzera», svolse da Ginevra un ruolo importantissimo nelle relazioni italo-svizzere generali.
La collettività italiana presente in Svizzera era già allora molto numerosa e importante. Il «Trattato di domicilio e consolare tra la Svizzera e l’Italia» del 1868 aveva praticamente spalancato le porte alla libera circolazione delle persone dei due Paesi e alla libertà d’industria e di commercio dei residenti. Molti italiani si erano stabiliti definitivamente in Svizzera. Al censimento del 1910 ne risultarono ben 202.809. In alcuni settori dell’economia, in particolare nelle costruzioni ferroviarie e in alcune industrie, erano una componente indispensabile. Fino ad allora, tuttavia, gli italiani non avevano ancora espresso il meglio di sé nell’imprenditoria. Nel 1905, mentre erano imprenditori o dirigenti industriali 25 svizzeri su 100, 18 tedeschi su 100, 13 austriaci su 100, 22 francesi su 100, ma solo 6 italiani su cento. Mancavano probabilmente le opportunità e gli stimoli necessari per fare di più e meglio.
La nascita della CCIS
La nascita della CCIS non poteva avvenire in un momento più propizio, anche perché sembrava aprirsi per la Svizzera una nuova fase di sviluppo, grazie alle moderne infrastrutture ferroviarie in fase di completamento. Anche gli scambi commerciali tra i due Paesi confinanti sembravano destinati a una forte crescita, perché le nuove linee ferroviarie veloci del San Gottardo e del Sempione avevano ridotto le distanze e avvicinato i grandi mercati del nord e del sud. L’Italia ne aveva cominciato a beneficiare, tanto che la Svizzera era divenuta il primo Paese destinatario delle esportazioni italiane (per un valore complessivo di 185,2 milioni di franchi (1909).
Per comprendere appieno l’attività della CCIS è forse utile ricordare sommariamente lo sviluppo delle relazioni commerciali tra l’Italia e la Svizzera. Occorre dire anzitutto che, nonostante l’Italia rappresentasse per la Svizzera un serbatoio importante di manodopera per la realizzazione delle grandi infrastrutture, lo era solo in parte come fornitore di beni. Il principale partner commerciale della Svizzera era tradizionalmente la Germania, seguita dalla Francia. Nel 1909 il valore delle importazioni dalla Germania era di 533,8 milioni di franchi e quello delle importazioni dalla Francia di 306,1 milioni. Il divario tra questi Paesi e l’Italia era enorme. Solo come fornitrice di seta l’Italia godeva di un primato assoluto (ben 107 milioni di franchi). Per i prodotti alimentari, le esportazioni dall’Italia (ca. 49 milioni di franchi) si avvicinavano a quelle dalla Germania, ma erano meno della metà di quelle dalla Francia. In campo automobilistico la superiorità di Francia, Regno Unito e Germania nei confronti dell’Italia era massiccia. Nel 1909 su 2276 automobili circolanti in Svizzera solo 108 era state prodotte in Italia e su 326 camion 3 soltanto erano stati fabbricati in Italia.
Per le esportazioni dalla Svizzera, l’Italia (con 82,5 milioni di franchi) rappresentava il terzo mercato dopo la Germania e la Francia e presentava un saldo per l’Italia di 85,6 milioni. Una situazione dunque confortante, che poteva essere ulteriormente migliorata.
Non fu facile tuttavia per la CCIS riuscire a sviluppare l’interscambio italo-svizzero. Solo dopo la seconda guerra mondiale è stato possibile registrare un progresso pressoché continuo fino ai giorni nostri.
Nel 1944 l’interscambio Italia-Svizzera toccò il suo punto più basso dall’inizio del secolo con appena 33,5 milioni di franchi. Luigi Einaudi, allora rifugiato in Svizzera, nel giugno 1944, in accordo col capo della Legazione d’Italia a Berna, Magistrati, cominciò a studiare «i mezzi migliori intesi a favorire, non appena possibile, la ripresa dei contatti economici tra l’Italia e la Svizzera» e a «compiere un’azione preparatoria intesa a studiare l’eventuale apporto che l’economia e l’industria svizzera intendessero dare alla ricostruzione» dell’Italia.
Sviluppo dell’interscambio
Il giornale «24 ore» del 7.5.1949 scriveva: «L’Italia farà ogni sforzo per migliorare gli scambi con la Confederazione elvetica». Ricordava inoltre che: «Subito dopo la guerra il mercato svizzero è stato il primo con il quale si sono riallacciati i rapporti commerciali; ciò che è stato facilitato anche dalla vicinanza dei due Paesi. Venne, infatti, già nell’agosto del 1945 stipulato il primo accordo commerciale da parte italiana proprio con la Svizzera, accordo che non ebbe applicazione per la mancata ratifica degli alleati. Tuttavia gli scambi ripresero con ritmo molto soddisfacente, malgrado la situazione in cui si trovava l’Italia in quell’epoca».
In effetti, già nel 1946 le esportazioni dall’Italia ripresero vigorosamente (227,7 milioni franchi) e così pure le importazioni dalla Svizzera (156,1 milioni). Da allora l’incremento dell’interscambio fu continuo. Nel 1950 aveva già raggiunto 843,8 milioni di franchi (con un saldo a favore della Svizzera di 196,6 milioni). Dieci anni più tardi, nel 1960, si era avuto il raddoppio (1683,3 milioni) con un saldo per l’Italia di 342,1 milioni. Nel decennio successivo, quando la collettività italiana in Svizzera aveva quasi raggiunto il massimo della sua consistenza, l’interscambio era quasi triplicato (4.696,5 milioni di franchi) con un saldo a favore dell’Italia di 549,1 milioni. Venti anni più tardi, nel 1990 l’interscambio superò i 18 miliardi (saldo per l’Italia 2.3 miliardi). Lo scorso anno, 2008, l’interscambio aveva superato abbondantemente i 40 miliardi (25,7 miliardi di euro). La Svizzera ha importato dall’Italia beni per 21,5 miliardi ed ha esportato verso l’Italia beni per 18,7 miliardi. Il saldo per l’Italia ha ormai raggiunto 2,8 miliardi.
Per la Svizzera, l'Italia è ormai, dal 2004, il secondo partner commerciale europeo, dopo la Germania (26,3%) e davanti alla Francia (8,9%), e il terzo a livello globale. L'Italia è oggi il secondo fornitore della Svizzera (11% delle importazioni) dopo la Germania e rappresenta per la Svizzera il terzo mercato di esportazione (9%). Per l'Italia, la Svizzera è il sesto mercato di esportazione e occupa l'11esimo posto tra i fornitori. L’Italia è anche un importante investitore in Svizzera (225 miliardi di euro), mentre la Confederazione è il sesto investitore in Italia.
Oggi, per alcuni osservatori italiani (pessimisti) le relazioni bilaterali tra la Svizzera e l’Italia sono in difficoltà a causa della recente polemica sullo «scudo fiscale». In realtà, la flessione negli scambi registrati negli ultimi mesi è più dovuta alla crisi economica che alle polemiche tra i ministri finanziari dei due Paesi. Stando infatti ai due ministri competenti per l’economia, Claudio Scajola e Doris Leuthard, incontratisi a Roma il 12 novembre scorso, le attuali difficoltà sono superabili e, quel che più conta, c’è da entrambe le parti la volontà di proseguire il dialogo e incrementare le relazioni economico-commerciali bilaterali, già attualmente «ottime».
Quanto la CCIE abbia contribuito allo sviluppo di questa cooperazione negli ultimi cento anni è difficile quantificarlo, ma è certo che vi abbia contribuito. Non c’è dunque che augurare alla Camera di Commercio Italiana per la Svizzera di proseguire i suoi sforzi per favorire lo sviluppo degli scambi commerciali fra i due Paesi per altri cent’anni e almeno con lo stesso successo.
Giovanni LonguBerna, 29.11.2009
Da 100 anni la CCIS onora gli impegni statutari «allo scopo di favorire lo sviluppo degli scambi commerciali tra l’Italia e la Svizzera e porgere aiuto morale, indicazioni e consigli ai commercianti dei due Paesi, ed in modo speciale ai soci» (art. 1 dello Statuto del 1909).
Lo scopo della CCIS non è mai cambiato nella sostanza, come non è mai mutato il dinamismo impresso all’istituzione dal suo primo presidente, quel Giuseppe de Michelis che all’inizio del secolo scorso, in qualità di «regio addetto all’emigrazione italiana in Svizzera», svolse da Ginevra un ruolo importantissimo nelle relazioni italo-svizzere generali.
La collettività italiana presente in Svizzera era già allora molto numerosa e importante. Il «Trattato di domicilio e consolare tra la Svizzera e l’Italia» del 1868 aveva praticamente spalancato le porte alla libera circolazione delle persone dei due Paesi e alla libertà d’industria e di commercio dei residenti. Molti italiani si erano stabiliti definitivamente in Svizzera. Al censimento del 1910 ne risultarono ben 202.809. In alcuni settori dell’economia, in particolare nelle costruzioni ferroviarie e in alcune industrie, erano una componente indispensabile. Fino ad allora, tuttavia, gli italiani non avevano ancora espresso il meglio di sé nell’imprenditoria. Nel 1905, mentre erano imprenditori o dirigenti industriali 25 svizzeri su 100, 18 tedeschi su 100, 13 austriaci su 100, 22 francesi su 100, ma solo 6 italiani su cento. Mancavano probabilmente le opportunità e gli stimoli necessari per fare di più e meglio.
La nascita della CCIS
La nascita della CCIS non poteva avvenire in un momento più propizio, anche perché sembrava aprirsi per la Svizzera una nuova fase di sviluppo, grazie alle moderne infrastrutture ferroviarie in fase di completamento. Anche gli scambi commerciali tra i due Paesi confinanti sembravano destinati a una forte crescita, perché le nuove linee ferroviarie veloci del San Gottardo e del Sempione avevano ridotto le distanze e avvicinato i grandi mercati del nord e del sud. L’Italia ne aveva cominciato a beneficiare, tanto che la Svizzera era divenuta il primo Paese destinatario delle esportazioni italiane (per un valore complessivo di 185,2 milioni di franchi (1909).
Per comprendere appieno l’attività della CCIS è forse utile ricordare sommariamente lo sviluppo delle relazioni commerciali tra l’Italia e la Svizzera. Occorre dire anzitutto che, nonostante l’Italia rappresentasse per la Svizzera un serbatoio importante di manodopera per la realizzazione delle grandi infrastrutture, lo era solo in parte come fornitore di beni. Il principale partner commerciale della Svizzera era tradizionalmente la Germania, seguita dalla Francia. Nel 1909 il valore delle importazioni dalla Germania era di 533,8 milioni di franchi e quello delle importazioni dalla Francia di 306,1 milioni. Il divario tra questi Paesi e l’Italia era enorme. Solo come fornitrice di seta l’Italia godeva di un primato assoluto (ben 107 milioni di franchi). Per i prodotti alimentari, le esportazioni dall’Italia (ca. 49 milioni di franchi) si avvicinavano a quelle dalla Germania, ma erano meno della metà di quelle dalla Francia. In campo automobilistico la superiorità di Francia, Regno Unito e Germania nei confronti dell’Italia era massiccia. Nel 1909 su 2276 automobili circolanti in Svizzera solo 108 era state prodotte in Italia e su 326 camion 3 soltanto erano stati fabbricati in Italia.
Per le esportazioni dalla Svizzera, l’Italia (con 82,5 milioni di franchi) rappresentava il terzo mercato dopo la Germania e la Francia e presentava un saldo per l’Italia di 85,6 milioni. Una situazione dunque confortante, che poteva essere ulteriormente migliorata.
Non fu facile tuttavia per la CCIS riuscire a sviluppare l’interscambio italo-svizzero. Solo dopo la seconda guerra mondiale è stato possibile registrare un progresso pressoché continuo fino ai giorni nostri.
Nel 1944 l’interscambio Italia-Svizzera toccò il suo punto più basso dall’inizio del secolo con appena 33,5 milioni di franchi. Luigi Einaudi, allora rifugiato in Svizzera, nel giugno 1944, in accordo col capo della Legazione d’Italia a Berna, Magistrati, cominciò a studiare «i mezzi migliori intesi a favorire, non appena possibile, la ripresa dei contatti economici tra l’Italia e la Svizzera» e a «compiere un’azione preparatoria intesa a studiare l’eventuale apporto che l’economia e l’industria svizzera intendessero dare alla ricostruzione» dell’Italia.
Sviluppo dell’interscambio
Il giornale «24 ore» del 7.5.1949 scriveva: «L’Italia farà ogni sforzo per migliorare gli scambi con la Confederazione elvetica». Ricordava inoltre che: «Subito dopo la guerra il mercato svizzero è stato il primo con il quale si sono riallacciati i rapporti commerciali; ciò che è stato facilitato anche dalla vicinanza dei due Paesi. Venne, infatti, già nell’agosto del 1945 stipulato il primo accordo commerciale da parte italiana proprio con la Svizzera, accordo che non ebbe applicazione per la mancata ratifica degli alleati. Tuttavia gli scambi ripresero con ritmo molto soddisfacente, malgrado la situazione in cui si trovava l’Italia in quell’epoca».
In effetti, già nel 1946 le esportazioni dall’Italia ripresero vigorosamente (227,7 milioni franchi) e così pure le importazioni dalla Svizzera (156,1 milioni). Da allora l’incremento dell’interscambio fu continuo. Nel 1950 aveva già raggiunto 843,8 milioni di franchi (con un saldo a favore della Svizzera di 196,6 milioni). Dieci anni più tardi, nel 1960, si era avuto il raddoppio (1683,3 milioni) con un saldo per l’Italia di 342,1 milioni. Nel decennio successivo, quando la collettività italiana in Svizzera aveva quasi raggiunto il massimo della sua consistenza, l’interscambio era quasi triplicato (4.696,5 milioni di franchi) con un saldo a favore dell’Italia di 549,1 milioni. Venti anni più tardi, nel 1990 l’interscambio superò i 18 miliardi (saldo per l’Italia 2.3 miliardi). Lo scorso anno, 2008, l’interscambio aveva superato abbondantemente i 40 miliardi (25,7 miliardi di euro). La Svizzera ha importato dall’Italia beni per 21,5 miliardi ed ha esportato verso l’Italia beni per 18,7 miliardi. Il saldo per l’Italia ha ormai raggiunto 2,8 miliardi.
Per la Svizzera, l'Italia è ormai, dal 2004, il secondo partner commerciale europeo, dopo la Germania (26,3%) e davanti alla Francia (8,9%), e il terzo a livello globale. L'Italia è oggi il secondo fornitore della Svizzera (11% delle importazioni) dopo la Germania e rappresenta per la Svizzera il terzo mercato di esportazione (9%). Per l'Italia, la Svizzera è il sesto mercato di esportazione e occupa l'11esimo posto tra i fornitori. L’Italia è anche un importante investitore in Svizzera (225 miliardi di euro), mentre la Confederazione è il sesto investitore in Italia.
Oggi, per alcuni osservatori italiani (pessimisti) le relazioni bilaterali tra la Svizzera e l’Italia sono in difficoltà a causa della recente polemica sullo «scudo fiscale». In realtà, la flessione negli scambi registrati negli ultimi mesi è più dovuta alla crisi economica che alle polemiche tra i ministri finanziari dei due Paesi. Stando infatti ai due ministri competenti per l’economia, Claudio Scajola e Doris Leuthard, incontratisi a Roma il 12 novembre scorso, le attuali difficoltà sono superabili e, quel che più conta, c’è da entrambe le parti la volontà di proseguire il dialogo e incrementare le relazioni economico-commerciali bilaterali, già attualmente «ottime».
Quanto la CCIE abbia contribuito allo sviluppo di questa cooperazione negli ultimi cento anni è difficile quantificarlo, ma è certo che vi abbia contribuito. Non c’è dunque che augurare alla Camera di Commercio Italiana per la Svizzera di proseguire i suoi sforzi per favorire lo sviluppo degli scambi commerciali fra i due Paesi per altri cent’anni e almeno con lo stesso successo.
Giovanni LonguBerna, 29.11.2009
14 novembre 2009
Giovanni Longu replica al Presidente del Comites Argovia sullo scudo fiscale
No alla disinformazione!
E’ stato pubblicato nell’ultima edizione dell’ECO uno scritto del signor Trotta, Presidente del Comites Argovia, il quale mi coinvolge in una polemica che avrei evitato volentieri, riguardo alla problematica dello scudo fiscale e altro. Se replico alle sue accuse e insinuazioni lo faccio soprattutto in nome di una corretta informazione dei lettori.
Anzitutto dico al signor Trotta che mi fa piacere che legga i miei articoli, mi dispiace semmai che non li capisca. Egli è ovviamente liberissimo di avere opinioni diverse dalle mie, ma non può attribuirmi intenzioni che non ho, tanto più che dichiara di non conoscermi se non attraverso i miei scritti. Non mi attribuisca soprattutto stupidaggini come quella che appare fin dall’inizio del suo intervento. Collegando il titolo e la frase successiva, stando alla punteggiatura utilizzata, sembra infatti attribuirmi di aver asserito in qualche scritto (dove, quando?) che «i cittadini italiani sono evasori».
Invito il signor Trotta a rileggersi i miei articoli e, se vuole polemizzare con me, a contestare i punti che non condivide con argomentazioni pertinenti e obiettive e non con generiche affermazioni. Potrei fermarmi qui e lasciare al lettore di trarre le conclusioni del caso. Desidero invece continuare perché il signor Trotta, che mi accusa di «salire in cattedra e dare lezioni» si ritiene in diritto di impartirne lui nella sua qualità di presidente di un Comites. Evidentemente non si rende conto che proprio quella carica gli dovrebbe suggerire un po’ più di prudenza e responsabilità in quel che afferma. Infatti, la disinformazione fatta da lui è ben più grave di quella di un comune cittadino che esprime al massimo le proprie idee.
Il signor Trotta, invece, oltrepassa tranquillamente il suo ruolo assumendo anche quello di politico che non gli compete e si lascia andare a una serie di affermazioni del tutto generiche (ad es. «i cittadini italiani non sono evasori», «i frontalieri italiani occupati in Svizzera pagano abbondantemente le tasse») o assolutamente gratuite e senza alcun fondamento (del tipo: «il terrore che sta seminando l’Agenzia delle entrate con l’invio di formulari incomprensibili…», la «gestione allegra del Governo di centro-destra, con conseguenze disastrose per le casse del nostro Paese», «l’ennesimo condono in favore dei furbi è immorale, se poi sono chiamati a pagarne le spese con una doppia imposizione fiscale i frontalieri…», ecc.).
Evidentemente il signor Trotta, supponendo che le espressioni usate siano farina del suo sacco, non si rende conto che semmai è lui e quanti usano espressioni del genere, a fare disinformazione. Dimostra infatti di non conoscere né la legge riguardante lo scudo fiscale né l’accordo sull’imposizione dei frontalieri del 1974. Se li conoscesse non scriverebbe quel che ha scritto, cercherebbe anzi di tranquillizzare le «migliaia di onesti lavoratrici e lavoratori» che, se sono in regola con le leggi dello Stato italiano e con gli accordi bilaterali e pagano le imposte su tutti i loro redditi là dove devono pagarle, non hanno assolutamente nulla da temere. Sui redditi da lavoro dei frontalieri la doppia imposizione fiscale è assolutamente esclusa. Insinuare quindi l’idea che l’Italia sia uno Stato vessatore che «punisce i deboli e gli onesti» mi pare indegno di un cittadino italiano che esercita una carica rappresentativa. E dovrebbe trarne le conseguenze.
Giovanni Longu
Berna, 14.11.2009
E’ stato pubblicato nell’ultima edizione dell’ECO uno scritto del signor Trotta, Presidente del Comites Argovia, il quale mi coinvolge in una polemica che avrei evitato volentieri, riguardo alla problematica dello scudo fiscale e altro. Se replico alle sue accuse e insinuazioni lo faccio soprattutto in nome di una corretta informazione dei lettori.
Anzitutto dico al signor Trotta che mi fa piacere che legga i miei articoli, mi dispiace semmai che non li capisca. Egli è ovviamente liberissimo di avere opinioni diverse dalle mie, ma non può attribuirmi intenzioni che non ho, tanto più che dichiara di non conoscermi se non attraverso i miei scritti. Non mi attribuisca soprattutto stupidaggini come quella che appare fin dall’inizio del suo intervento. Collegando il titolo e la frase successiva, stando alla punteggiatura utilizzata, sembra infatti attribuirmi di aver asserito in qualche scritto (dove, quando?) che «i cittadini italiani sono evasori».
Invito il signor Trotta a rileggersi i miei articoli e, se vuole polemizzare con me, a contestare i punti che non condivide con argomentazioni pertinenti e obiettive e non con generiche affermazioni. Potrei fermarmi qui e lasciare al lettore di trarre le conclusioni del caso. Desidero invece continuare perché il signor Trotta, che mi accusa di «salire in cattedra e dare lezioni» si ritiene in diritto di impartirne lui nella sua qualità di presidente di un Comites. Evidentemente non si rende conto che proprio quella carica gli dovrebbe suggerire un po’ più di prudenza e responsabilità in quel che afferma. Infatti, la disinformazione fatta da lui è ben più grave di quella di un comune cittadino che esprime al massimo le proprie idee.
Il signor Trotta, invece, oltrepassa tranquillamente il suo ruolo assumendo anche quello di politico che non gli compete e si lascia andare a una serie di affermazioni del tutto generiche (ad es. «i cittadini italiani non sono evasori», «i frontalieri italiani occupati in Svizzera pagano abbondantemente le tasse») o assolutamente gratuite e senza alcun fondamento (del tipo: «il terrore che sta seminando l’Agenzia delle entrate con l’invio di formulari incomprensibili…», la «gestione allegra del Governo di centro-destra, con conseguenze disastrose per le casse del nostro Paese», «l’ennesimo condono in favore dei furbi è immorale, se poi sono chiamati a pagarne le spese con una doppia imposizione fiscale i frontalieri…», ecc.).
Evidentemente il signor Trotta, supponendo che le espressioni usate siano farina del suo sacco, non si rende conto che semmai è lui e quanti usano espressioni del genere, a fare disinformazione. Dimostra infatti di non conoscere né la legge riguardante lo scudo fiscale né l’accordo sull’imposizione dei frontalieri del 1974. Se li conoscesse non scriverebbe quel che ha scritto, cercherebbe anzi di tranquillizzare le «migliaia di onesti lavoratrici e lavoratori» che, se sono in regola con le leggi dello Stato italiano e con gli accordi bilaterali e pagano le imposte su tutti i loro redditi là dove devono pagarle, non hanno assolutamente nulla da temere. Sui redditi da lavoro dei frontalieri la doppia imposizione fiscale è assolutamente esclusa. Insinuare quindi l’idea che l’Italia sia uno Stato vessatore che «punisce i deboli e gli onesti» mi pare indegno di un cittadino italiano che esercita una carica rappresentativa. E dovrebbe trarne le conseguenze.
Giovanni Longu
Berna, 14.11.2009
No ai crocifissi, no ai minareti?
La decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, che impone all’Italia di rimuovere i crocefissi dalla aule scolastiche, non solo fa discutere ma giustamente preoccupa.
Premetto che è difficile per un credente, di qualsiasi fede, affrontare obiettivamente la problematica dei simboli della propria religione. Per chi crede, infatti, il simbolo non è mai un pezzo di legno o un edificio, ma è qualcosa di strettamente legato al significato che rappresenta. Ne parlo pertanto sforzandomi di prescindere dal mio credo per soffermarmi su alcuni aspetti poco convincenti delle motivazioni addotte dalla Corte di Strasburgo.
E’ anche sicuramente vero che in un mondo sempre più complesso, multietnico e multiculturale uno dei collanti insostituibili della convivenza sociale è la tolleranza reciproca, anche in materia religiosa. Non è più il tempo delle crociate e dell’indottrinamento forzato. L’Italia è sicuramente un Paese in cui già ora convivono etnie, culture e religioni diverse e pertanto è chiamata a dar prova di tolleranza e di capacità d’integrazione.
Valori religiosi irrinunciabili
Il processo integrativo è tuttavia lungo e difficile, eppure possibile, a condizione però che i valori fondamentali degli autoctoni e dei nuovi arrivati non vengano negati o calpestati. I valori religiosi, diceva il filosofo tedesco Jaspers, sono talmente irrinunciabili che per essi si può anche morire. Non vanno quindi trattati mai alla leggera.
Sotto questo profilo, non condivido la decisione della Corte europea di Strasburgo perché interviene in una materia che attiene più alla civile convivenza che alla giurisprudenza e merita più un incoraggiamento che un divieto.
Ritengo inoltre inconsistenti le ragioni addotte, secondo cui – sintetizzo – i crocifissi nelle aule scolastiche costituirebbero «una violazione del diritto dei genitori a educare i figli secondo le loro convinzioni» e sarebbero contrari alla «libertà di religione degli alunni».
Non credo che in alcuna scuola italiana si obblighino gli allievi a professarsi cristiani o a fare atto di sudditanza nei confronti della religione cattolica o a subire una sorta d’indottrinamento religioso. Se ciò avvenisse sarebbe riprovevole, perché spetta comunque all’individuo farsi liberamente i propri convincimenti sull’appartenenza religiosa, indipendentemente dai simboli che incontra a scuola, nelle piazze o agli angoli delle strade.
E’ vero che un simbolo come il crocifisso può suscitare in bambini di religioni non cristiane interrogativi sul suo significato e la sua storia, ma non turbamento a un punto tale da pregiudicare la loro «libertà di religione» o privare i genitori della libertà di educare i figli come meglio ritengono. Mi sembrano francamente affermazioni senza fondamento, che denotano semmai l’incapacità di molti genitori non cristiani di affrontare con i loro figli il tema religioso con quello spirito di apertura e tolleranza che sta alla base della convivenza di qualsiasi Stato democratico.
Del resto, se l’argomento della Corte di Strasburgo fosse solido non vedo come bambini stranieri non cristiani con vocazione a diventare cittadini italiani potrebbero seguire nelle scuole italiane di ogni ordine e grado lezioni di storia, di geografia, di arte, di letteratura e persino di scienza. Ovunque, infatti, il simbolo della croce compare ed è inimmaginabile senza di esso la storia e la cultura dell’intero Occidente.
La decisione della Corte di Strasburgo, se venisse applicata, potrebbe addirittura provocare un effetto perverso perché rischierebbe di alimentare sentimenti di intolleranza ancor più consistenti di quelli che vorrebbe eliminare. Non si può infatti escludere che la maggioranza finisca per trovare insopportabile di essere condizionata dalla minoranza proprio nella sfera religiosa tradizionale.
Qualora, com’è prevedibile, la sentenza dei giudici di Strasburgo non trovi applicazione, dovrebbe tuttavia indurre tutti, istituzioni e cittadini, ad avviare un grande sforzo d’integrazione nel pieno rispetto delle persone, delle culture e delle religioni.
No ai minareti?
Se in Italia c’è stata una levata di scudi quasi unanime contro la sentenza della Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo intesa a vietare un simbolo religioso, in Svizzera è in corso da mesi una vivace discussione se vietare un altro simbolo religioso o quantomeno attinente ad una religione non cristiana. Si voterà infatti il 29 novembre su una iniziativa della destra intesa a vietare la costruzione di minareti.
Mi auguro che l’iniziativa venga respinta, per gli stessi motivi per cui non condivido la sentenza di Strasburgo nei confronti dell’Italia. Se il minareto è un simbolo religioso e non contrasta né col sentimento religioso degli svizzeri né con le leggi vigenti in materia di libertà religiosa o altre leggi federali o cantonali, non vedo perché i mussulmani non possano erigere i loro minareti. Oltretutto non sono mai i simboli che fanno danni, ma le persone che eventualmente se ne servono male.
In questa materia è preferibile centomila volte una situazione di tolleranza che d’intolleranza. L’accettazione dell’iniziativa significherebbe un passo indietro sul terreno dell’integrazione, mentre il suo rifiuto potrebbe contribuire ad accelerarla.
E’ interessante notare che già in passato gli stranieri avevano provocato un dibattito culturale-religioso. Basti pensare agli anni Sessanta e Settanta quando la confessione cattolica di italiani e spagnoli immigrati sembrava minacciare l’equilibrio religioso esistente allora in Svizzera. Ma non vi fu una guerra di religione e i cattolici poterono tranquillamente costruire migliaia di chiese, anche nelle città e nei cantoni a prevalenza protestante. E non si può dire che il discorso interreligioso ne abbia sofferto.
Sarà interessante osservare nei prossimi anni se la presenza in Svizzera di tanti simboli religiosi e tante religioni sconvolgerà sostanzialmente il panorama religioso attuale e se, contrariamente alle paure di certuni, proprio il discorso interreligioso non rappresenti un forte contributo all’integrazione e alla convivenza pacifica di comunità di origini e culture diverse. Una risposta potrà darla già il prossimo censimento del 2010, sempre che la domanda sull’appartenenza religiosa continui a figurare nel questionario di base.
Giovanni Longu
Berna, 14.11.2009
Premetto che è difficile per un credente, di qualsiasi fede, affrontare obiettivamente la problematica dei simboli della propria religione. Per chi crede, infatti, il simbolo non è mai un pezzo di legno o un edificio, ma è qualcosa di strettamente legato al significato che rappresenta. Ne parlo pertanto sforzandomi di prescindere dal mio credo per soffermarmi su alcuni aspetti poco convincenti delle motivazioni addotte dalla Corte di Strasburgo.
E’ anche sicuramente vero che in un mondo sempre più complesso, multietnico e multiculturale uno dei collanti insostituibili della convivenza sociale è la tolleranza reciproca, anche in materia religiosa. Non è più il tempo delle crociate e dell’indottrinamento forzato. L’Italia è sicuramente un Paese in cui già ora convivono etnie, culture e religioni diverse e pertanto è chiamata a dar prova di tolleranza e di capacità d’integrazione.
Valori religiosi irrinunciabili
Il processo integrativo è tuttavia lungo e difficile, eppure possibile, a condizione però che i valori fondamentali degli autoctoni e dei nuovi arrivati non vengano negati o calpestati. I valori religiosi, diceva il filosofo tedesco Jaspers, sono talmente irrinunciabili che per essi si può anche morire. Non vanno quindi trattati mai alla leggera.
Sotto questo profilo, non condivido la decisione della Corte europea di Strasburgo perché interviene in una materia che attiene più alla civile convivenza che alla giurisprudenza e merita più un incoraggiamento che un divieto.
Ritengo inoltre inconsistenti le ragioni addotte, secondo cui – sintetizzo – i crocifissi nelle aule scolastiche costituirebbero «una violazione del diritto dei genitori a educare i figli secondo le loro convinzioni» e sarebbero contrari alla «libertà di religione degli alunni».
Non credo che in alcuna scuola italiana si obblighino gli allievi a professarsi cristiani o a fare atto di sudditanza nei confronti della religione cattolica o a subire una sorta d’indottrinamento religioso. Se ciò avvenisse sarebbe riprovevole, perché spetta comunque all’individuo farsi liberamente i propri convincimenti sull’appartenenza religiosa, indipendentemente dai simboli che incontra a scuola, nelle piazze o agli angoli delle strade.
E’ vero che un simbolo come il crocifisso può suscitare in bambini di religioni non cristiane interrogativi sul suo significato e la sua storia, ma non turbamento a un punto tale da pregiudicare la loro «libertà di religione» o privare i genitori della libertà di educare i figli come meglio ritengono. Mi sembrano francamente affermazioni senza fondamento, che denotano semmai l’incapacità di molti genitori non cristiani di affrontare con i loro figli il tema religioso con quello spirito di apertura e tolleranza che sta alla base della convivenza di qualsiasi Stato democratico.
Del resto, se l’argomento della Corte di Strasburgo fosse solido non vedo come bambini stranieri non cristiani con vocazione a diventare cittadini italiani potrebbero seguire nelle scuole italiane di ogni ordine e grado lezioni di storia, di geografia, di arte, di letteratura e persino di scienza. Ovunque, infatti, il simbolo della croce compare ed è inimmaginabile senza di esso la storia e la cultura dell’intero Occidente.
La decisione della Corte di Strasburgo, se venisse applicata, potrebbe addirittura provocare un effetto perverso perché rischierebbe di alimentare sentimenti di intolleranza ancor più consistenti di quelli che vorrebbe eliminare. Non si può infatti escludere che la maggioranza finisca per trovare insopportabile di essere condizionata dalla minoranza proprio nella sfera religiosa tradizionale.
Qualora, com’è prevedibile, la sentenza dei giudici di Strasburgo non trovi applicazione, dovrebbe tuttavia indurre tutti, istituzioni e cittadini, ad avviare un grande sforzo d’integrazione nel pieno rispetto delle persone, delle culture e delle religioni.
No ai minareti?
Se in Italia c’è stata una levata di scudi quasi unanime contro la sentenza della Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo intesa a vietare un simbolo religioso, in Svizzera è in corso da mesi una vivace discussione se vietare un altro simbolo religioso o quantomeno attinente ad una religione non cristiana. Si voterà infatti il 29 novembre su una iniziativa della destra intesa a vietare la costruzione di minareti.
Mi auguro che l’iniziativa venga respinta, per gli stessi motivi per cui non condivido la sentenza di Strasburgo nei confronti dell’Italia. Se il minareto è un simbolo religioso e non contrasta né col sentimento religioso degli svizzeri né con le leggi vigenti in materia di libertà religiosa o altre leggi federali o cantonali, non vedo perché i mussulmani non possano erigere i loro minareti. Oltretutto non sono mai i simboli che fanno danni, ma le persone che eventualmente se ne servono male.
In questa materia è preferibile centomila volte una situazione di tolleranza che d’intolleranza. L’accettazione dell’iniziativa significherebbe un passo indietro sul terreno dell’integrazione, mentre il suo rifiuto potrebbe contribuire ad accelerarla.
E’ interessante notare che già in passato gli stranieri avevano provocato un dibattito culturale-religioso. Basti pensare agli anni Sessanta e Settanta quando la confessione cattolica di italiani e spagnoli immigrati sembrava minacciare l’equilibrio religioso esistente allora in Svizzera. Ma non vi fu una guerra di religione e i cattolici poterono tranquillamente costruire migliaia di chiese, anche nelle città e nei cantoni a prevalenza protestante. E non si può dire che il discorso interreligioso ne abbia sofferto.
Sarà interessante osservare nei prossimi anni se la presenza in Svizzera di tanti simboli religiosi e tante religioni sconvolgerà sostanzialmente il panorama religioso attuale e se, contrariamente alle paure di certuni, proprio il discorso interreligioso non rappresenti un forte contributo all’integrazione e alla convivenza pacifica di comunità di origini e culture diverse. Una risposta potrà darla già il prossimo censimento del 2010, sempre che la domanda sull’appartenenza religiosa continui a figurare nel questionario di base.
Giovanni Longu
Berna, 14.11.2009
05 novembre 2009
Relazioni italo-svizzere in crisi a causa dello scudo fiscale?
Son volate parole grosse su questa vicenda, ma sulle parole a caldo va fatta sempre la tara. Il governo federale ha dovuto reagire «duramente» nei confronti dell’Italia soprattutto per stemperare le voci molto più critiche degli ambienti bancari e politici ticinesi. Con quanta convinzione l’ha fatto non è dato sapere.
Leggendo tra le righe la reazione del Presidente della Confederazione Hans-Rudolf Merz sulla interruzione delle trattative per un nuovo accordo sulla doppia imposizione fiscale si capisce bene che non c’è nessuna intenzione seria di abbandonare il dialogo con l’Italia. Ed è stato forse un lapsus terminologico che il Consigliere federale ora pensionato, Pascal Couchepin, abbia qualificato come «razzia» un’ispezione legittima nelle filiali di banche svizzere in Italia da parte degli agenti della Guardia di finanza. La razzia la compiono infatti i ladri, non i derubati. Inoltre, lo scudo fiscale concerne unicamente i cittadini italiani che detengono «illegalmente» capitali all’estero senza dichiararli al fisco italiano. Le banche e le istituzioni svizzere ne sono coinvolte solo indirettamente.
Sta di fatto che il clima nei rapporti italo-svizzeri si è un po’ raggelato ed è obiettivamente un peccato, anche se non mortale. Per evitare che gli stessi rapporti si deteriorino è necessario riprendere il dialogo.
Dialogo necessario
La ripresa del dialogo è non solo necessaria ma urgente. Si tratta anzitutto di abbandonare i toni minacciosi da entrambe le parti e trovare a tavolino soluzioni concrete e accettabili ai vari problemi sul tappeto, compreso quello riguardante l’evasione fiscale. E’ vero infatti che è un problema interno italiano, ma è anche un po’ svizzero, perché in una convivenza pacifica tra Stati non si deve nemmeno dare l’impressione che uno favorisca anche solo indirettamente atti delittuosi commessi nell’altro.
Per questo è necessario e urgente che si chiariscano le posizioni. L’Italia e il ministro Tremonti devono chiarire fin dove vogliono spingersi, perché se è legittima l’applicazione della legge italiana che mira a colpire l’evasione fiscale, le operazioni al riguardo vanno fatte nel rispetto delle convenzioni (anche quelle non scritte) internazionali. Anche la Svizzera, tuttavia, deve chiarire quale comportamento intende seguire per evitare di continuare ad apparire un «paradiso fiscale». Per liberarsi definitivamente da questa accusa (oggi in gran parte ingiustificata) dovrebbe mostrarsi più collaborativa con l’Italia intenzionata a snidare gli evasori fiscali che pensano di farla franca sapendo che in Svizzera vige il «segreto bancario».
Con questo non voglio certo dire che i metodi poco diplomatici (per usare un eufemismo) adoperati da Tremonti rappresentino il massimo del rispetto che si deve portare ad un Paese amico con cui la collaborazione più che un obbligo è una necessità. E dispiace che la vertenza in atto rischi di ripercuotersi sulle relazioni quotidiane tra svizzeri e italiani. Forse Tremonti, pensando allo scudo fiscale, si è dimenticato che in Svizzera vive una numerosa collettività italiana che qui ormai ha messo le proprie radici e ha sposato serenamente due anime, due patrie e due culture in una convivenza pacifica e senza ostacoli. Perché mettere in pericolo questa convivenza tranquilla?
Mi auguro che il ministro Tremonti faccia tesoro di questo «incidente» e si renda conto che se a lui interessano soprattutto i soldi degli evasori, ai cittadini italiani che vivono in Svizzera interessa soprattutto una leale ed efficace collaborazione tra i due Paesi. Se lo scopo è quello di far emergere il molto denaro sottratto al fisco italiano e giacente nei forzieri svizzeri, sarebbe stato sicuramente preferibile chiedere aiuto al governo federale piuttosto che mettersi a fotografare le macchine che varcano la frontiera e quant’altro o far vedere «chi siamo noi» sguinzagliando centinaia di agenti della guardia di finanza alla caccia dell’evasore che porta i soldi in Svizzera.
Relazioni italo-svizzere in pericolo?
Non credo che in una trattativa seria, soprattutto oggi, la Svizzera avrebbe negato la collaborazione, tanto più che ormai ha rinunciato all’assolutezza del segreto bancario e, dopo gli attacchi di Stati Uniti, Germania, Francia e Gran Bretagna, è disponibile a fornire assistenza amministrativa ai Paesi che la richiedono per combattere anche l’evasione fiscale oltre alla frode fiscale. Del resto, la Svizzera sa bene che con i vicini è più conveniente mantenere stretti legami che rapporti conflittuali.
Ha scritto l’on. Narducci, del Partito democratico contrario allo scudo fiscale, che a causa di questa controversia «i rapporti tra la Svizzera e l’Italia hanno verosimilmente toccato il punto di tensione massimo e a giudicare dalle posizioni assunte dai rispettivi governi pare piuttosto difficile un ritorno alla normalità in tempi relativamente brevi». Mi pare un’interpretazione pessimistica della realtà. Condivido piuttosto l’ottimismo dell’ambasciatore Giuseppe Deodato che qualifica ancora i rapporti bilaterali «straordinari», ma condivido soprattutto l’atteggiamento della Consigliera federale Doris Leuthard, che sulla vicenda ha usato toni più concilianti, affermando che con l’Italia «bisogna dialogare».
La via del dialogo è da prendere seriamente in considerazione da entrambe le parti anche perché gli interessi comuni sono enormi. Basti pensare che l’interscambio Svizzera-Italia sta andando a gonfie vele e l’Italia è il secondo partner commerciale della Svizzera dopo la Germania. La collettività italiana è ancora quella straniera più consistente e più radica sul territorio. Gli interessi in gioco sono davvero enormi e non si può stare a tergiversare sul da farsi.
Sono 148 anni che l’Italia e la Svizzera vivono rapporti non solo di buon vicinato ma di intenso scambio e di profonda amicizia. Quei soldi frodati al fisco italiano non possono essere considerati ragione sufficiente per interrompere un’ottima relazione che esiste sostanzialmente invariata da quando esiste la Confederazione e da quando esiste l’Italia unita.
Nella lunga storia dei rapporti italo-svizzeri, gli incidenti diplomatici si contano forse sulle dita di una mano. Ci fu solo un caso di rottura (all’inizio del secolo scorso col famoso affare Silvestrelli) ed ebbe origine probabilmente da una reciproca incomprensione e dal non rispetto delle rispettive competenze. Gli altri episodi critici, durante il periodo fascista e negli anni della forte immigrazione italiana in Svizzera furono superati con i tradizionali scambi di note diplomatiche e la rimozione di qualche personaggio poco gradito.
Nessun episodio fu veramente grave, nemmeno quando sotto la cenere covavano paure più che rancori e ogni Paese cercava di proteggersi da eventuali rischi con fortificazioni, piani di attacco e piani di difesa. Storicamente l’arma più efficace si è sempre dimostrata il dialogo e la collaborazione. Lo sarà, ne sono convinto, anche in questa occasione.
Giovanni Longu
Berna, 5.11.2009
Leggendo tra le righe la reazione del Presidente della Confederazione Hans-Rudolf Merz sulla interruzione delle trattative per un nuovo accordo sulla doppia imposizione fiscale si capisce bene che non c’è nessuna intenzione seria di abbandonare il dialogo con l’Italia. Ed è stato forse un lapsus terminologico che il Consigliere federale ora pensionato, Pascal Couchepin, abbia qualificato come «razzia» un’ispezione legittima nelle filiali di banche svizzere in Italia da parte degli agenti della Guardia di finanza. La razzia la compiono infatti i ladri, non i derubati. Inoltre, lo scudo fiscale concerne unicamente i cittadini italiani che detengono «illegalmente» capitali all’estero senza dichiararli al fisco italiano. Le banche e le istituzioni svizzere ne sono coinvolte solo indirettamente.
Sta di fatto che il clima nei rapporti italo-svizzeri si è un po’ raggelato ed è obiettivamente un peccato, anche se non mortale. Per evitare che gli stessi rapporti si deteriorino è necessario riprendere il dialogo.
Dialogo necessario
La ripresa del dialogo è non solo necessaria ma urgente. Si tratta anzitutto di abbandonare i toni minacciosi da entrambe le parti e trovare a tavolino soluzioni concrete e accettabili ai vari problemi sul tappeto, compreso quello riguardante l’evasione fiscale. E’ vero infatti che è un problema interno italiano, ma è anche un po’ svizzero, perché in una convivenza pacifica tra Stati non si deve nemmeno dare l’impressione che uno favorisca anche solo indirettamente atti delittuosi commessi nell’altro.
Per questo è necessario e urgente che si chiariscano le posizioni. L’Italia e il ministro Tremonti devono chiarire fin dove vogliono spingersi, perché se è legittima l’applicazione della legge italiana che mira a colpire l’evasione fiscale, le operazioni al riguardo vanno fatte nel rispetto delle convenzioni (anche quelle non scritte) internazionali. Anche la Svizzera, tuttavia, deve chiarire quale comportamento intende seguire per evitare di continuare ad apparire un «paradiso fiscale». Per liberarsi definitivamente da questa accusa (oggi in gran parte ingiustificata) dovrebbe mostrarsi più collaborativa con l’Italia intenzionata a snidare gli evasori fiscali che pensano di farla franca sapendo che in Svizzera vige il «segreto bancario».
Con questo non voglio certo dire che i metodi poco diplomatici (per usare un eufemismo) adoperati da Tremonti rappresentino il massimo del rispetto che si deve portare ad un Paese amico con cui la collaborazione più che un obbligo è una necessità. E dispiace che la vertenza in atto rischi di ripercuotersi sulle relazioni quotidiane tra svizzeri e italiani. Forse Tremonti, pensando allo scudo fiscale, si è dimenticato che in Svizzera vive una numerosa collettività italiana che qui ormai ha messo le proprie radici e ha sposato serenamente due anime, due patrie e due culture in una convivenza pacifica e senza ostacoli. Perché mettere in pericolo questa convivenza tranquilla?
Mi auguro che il ministro Tremonti faccia tesoro di questo «incidente» e si renda conto che se a lui interessano soprattutto i soldi degli evasori, ai cittadini italiani che vivono in Svizzera interessa soprattutto una leale ed efficace collaborazione tra i due Paesi. Se lo scopo è quello di far emergere il molto denaro sottratto al fisco italiano e giacente nei forzieri svizzeri, sarebbe stato sicuramente preferibile chiedere aiuto al governo federale piuttosto che mettersi a fotografare le macchine che varcano la frontiera e quant’altro o far vedere «chi siamo noi» sguinzagliando centinaia di agenti della guardia di finanza alla caccia dell’evasore che porta i soldi in Svizzera.
Relazioni italo-svizzere in pericolo?
Non credo che in una trattativa seria, soprattutto oggi, la Svizzera avrebbe negato la collaborazione, tanto più che ormai ha rinunciato all’assolutezza del segreto bancario e, dopo gli attacchi di Stati Uniti, Germania, Francia e Gran Bretagna, è disponibile a fornire assistenza amministrativa ai Paesi che la richiedono per combattere anche l’evasione fiscale oltre alla frode fiscale. Del resto, la Svizzera sa bene che con i vicini è più conveniente mantenere stretti legami che rapporti conflittuali.
Ha scritto l’on. Narducci, del Partito democratico contrario allo scudo fiscale, che a causa di questa controversia «i rapporti tra la Svizzera e l’Italia hanno verosimilmente toccato il punto di tensione massimo e a giudicare dalle posizioni assunte dai rispettivi governi pare piuttosto difficile un ritorno alla normalità in tempi relativamente brevi». Mi pare un’interpretazione pessimistica della realtà. Condivido piuttosto l’ottimismo dell’ambasciatore Giuseppe Deodato che qualifica ancora i rapporti bilaterali «straordinari», ma condivido soprattutto l’atteggiamento della Consigliera federale Doris Leuthard, che sulla vicenda ha usato toni più concilianti, affermando che con l’Italia «bisogna dialogare».
La via del dialogo è da prendere seriamente in considerazione da entrambe le parti anche perché gli interessi comuni sono enormi. Basti pensare che l’interscambio Svizzera-Italia sta andando a gonfie vele e l’Italia è il secondo partner commerciale della Svizzera dopo la Germania. La collettività italiana è ancora quella straniera più consistente e più radica sul territorio. Gli interessi in gioco sono davvero enormi e non si può stare a tergiversare sul da farsi.
Sono 148 anni che l’Italia e la Svizzera vivono rapporti non solo di buon vicinato ma di intenso scambio e di profonda amicizia. Quei soldi frodati al fisco italiano non possono essere considerati ragione sufficiente per interrompere un’ottima relazione che esiste sostanzialmente invariata da quando esiste la Confederazione e da quando esiste l’Italia unita.
Nella lunga storia dei rapporti italo-svizzeri, gli incidenti diplomatici si contano forse sulle dita di una mano. Ci fu solo un caso di rottura (all’inizio del secolo scorso col famoso affare Silvestrelli) ed ebbe origine probabilmente da una reciproca incomprensione e dal non rispetto delle rispettive competenze. Gli altri episodi critici, durante il periodo fascista e negli anni della forte immigrazione italiana in Svizzera furono superati con i tradizionali scambi di note diplomatiche e la rimozione di qualche personaggio poco gradito.
Nessun episodio fu veramente grave, nemmeno quando sotto la cenere covavano paure più che rancori e ogni Paese cercava di proteggersi da eventuali rischi con fortificazioni, piani di attacco e piani di difesa. Storicamente l’arma più efficace si è sempre dimostrata il dialogo e la collaborazione. Lo sarà, ne sono convinto, anche in questa occasione.
Giovanni Longu
Berna, 5.11.2009
01 novembre 2009
Immigrazione italiana tra catastrofismo e integrazione
Nei giorni scorsi, la stampa italiana ha dato risalto al rapporto 2009 della Caritas/Migrantes in cui si parla fra l’altro della presenza in Italia di oltre 4 milioni e mezzo di stranieri (7,2%) e della previsione di oltre 12 milioni nel 2050.
Come al solito, su questo rapporto e in genere sulla politica migratoria italiana, le opinioni si dividono. Per gli uni, gli immigrati sono una risorsa e la loro presenza è e sarà «necessaria per il funzionamento del Paese», per gli altri rappresentano un pericolo: «dodici milioni di stranieri nel 2050 sono una catastrofe sociale, demografica, geografica» (Il Giornale, 29.10.2009).
In realtà il «problema degli stranieri» non è solo un problema di statistica demografica o di convivenza civile, ma qualcosa di molto più complesso, un problema di civiltà al quale l’Italia non può sottrarsi. Il catastrofismo non aiuta a risolverlo.
Quanto alle cifre, credo che la previsione della Caritas (e dell’Istat) sia un tipico scenario possibile ma improbabile, perché basato su una premessa che generalmente non si verifica, ossia che il tasso di accrescimento degli stranieri continui ai ritmi attuali in un contesto identico o molto simile a quello odierno.
Basandosi su una tale premessa, alla vigilia della prima guerra mondiale, in Svizzera era stato previsto che attualmente ci sarebbero stati più stranieri che svizzeri. Agli inizi del Novecento, l’aumento del numero di stranieri sembrava inarrestabile. Si era passati dal 7,5% del 1888 al 14,7% nel 1910. Un semplice calcolo aveva indicato che se il tasso di crescita fino ad allora registrato fosse continuato per circa 80 anni (ossia fin verso il 1990), la proporzione degli stranieri avrebbe raggiunto il 50%. Di fatto, la proporzione degli stranieri, con tutti gli alti e bassi che aveva avuto dalla prima guerra in poi, era ancora del 14,8 nel 1980 e oggi, a quasi un secolo da quella previsione stramba, non arriva al 22%.
In realtà il ritmo di accrescimento di una componente demografica, ad esempio gli stranieri, può variare moltissimo in funzione di numerosi altri fattori che influiscono sull’immigrazione. Basterebbe, ad esempio, che si deteriorassero le condizioni economiche del Paese destinatario e già diminuirebbe l’interesse degli stranieri a stabilirvisi. Inoltre, gran parte degli emigranti rinuncerebbe volentieri a lasciare il proprio Paese se trovasse sul posto condizioni di vita e di lavoro dignitose. E’ quel che è successo all’Italia e alla Svizzera, passati nell’arco di pochi decenni da Paesi di forte emigrazione a Paesi di forte immigrazione. Lo stesso potrebbe succedere con gli attuali Paesi d’emigrazione.
Va inoltre ricordato che l’aumento del numero di stranieri non dipende solo dal numero di nuovi immigrati che si aggiungono a quelli già presenti, ma anche dall’autoincremento, ossia dal numero di figli degli stessi stranieri, che pur non essendo immigrati restano stranieri. Basterebbe però che il tasso di natalità degli stranieri diminuisse e diminuirebbe un elemento fondamentale della crescita degli stranieri. Questo è successo per esempio con gli italiani immigrati in Svizzera nel corso degli ultimi decenni del secolo scorso ed è probabile che succeda lo stesso fenomeno con gli attuali immigrati in Italia.
Un altro elemento che incide considerevolmente sia sul numero degli stranieri che sul loro tasso di crescita è il tasso di naturalizzazione. In genere, nelle società di accoglimento, sempre più giovani stranieri di seconda e terza generazione acquistano (facilmente) la cittadinanza del Paese ospite, sottraendoli così alle statistiche sugli stranieri. Un esempio lampante è dato proprio dagli italiani in Svizzera. Per un lungo periodo (circa 100 anni), in cui le naturalizzazioni erano poche, il numero degli italiani è andato sempre crescendo (con saltuarie flessioni), fino a superare il mezzo milione negli anni Sessanta del secolo scorso. Dall’inizio degli anni Settanta il numero degli italiani (con la sola nazionalità italiana) è costantemente diminuito (oggi sono rimasti ca. 290.000). Le ragioni della diminuzione (importantissima per la statistica svizzera sugli stranieri) non vanno ricercate solo nei massicci rientri della prima generazione del dopoguerra, ma anche nelle numerose naturalizzazioni (circa 150.000) dal 1970 ad oggi). Tanto è vero che sommando ai soli cittadini italiani quelli con la doppia nazionalità la collettività italiana dovrebbe aggirarsi attorno al mezzo milione, ossia il valore che aveva verso la fine degli anni Sessanta.
Questo per dire che l’allarmismo, per quanto riguarda gli stranieri in Italia è fuori posto. Certamente non significa che la situazione si «normalizzerà» da sola. Occorre che le istituzioni adottino una politica d’integrazione efficiente ed efficace.
Probabilmente la via maestra non è quella di adottare immediatamente una sorta di naturalizzazione automatica (jus soli) per tutti gli stranieri nati in Italia. Ogni tentativo in questa direzione in Svizzera è fallito (il primo è datato 1903, l’ultimo 2004). Da qualche anno, tuttavia, la Svizzera sta portando avanti una politica d’integrazione che comincia a dare i suoi frutti in ambito scolastico, sociale, professionale e persino politico. Sta cominciando a diffondersi, per esempio, il diritto di voto a livello comunale e la partecipazione degli stranieri in molti organismi consultativi.
Probabilmente il primo passo da compiere è a livello culturale e informativo, quello di abbattere i pregiudizi riguardanti gli stranieri. Il secondo e più importante è la pratica dell’integrazione, ricordando che l’integrazione non la fanno le istituzioni, ma queste devono favorirla. Devono integrarsi le persone, le culture, le religioni, rispettandosi reciprocamente in un quadro che è quello giuridico nazionale. E questo richiede una disponibilità e uno sforzo comuni, sia da parte di chi intende integrarsi e sia da parte della società civile che deve essere pronta e aperta all’accoglienza e al sostegno degli stranieri nel rispetto della loro identità personale, culturale, religiosa.
Credo che l’Italia in questo campo sta già facendo molto, ma quel che resta da fare è ancora di più. E’ un buon segno che se ne discuta già tanto, ma è urgente che l’integrazione sia praticata sul serio e senza preconcetti. Tra l’altro un po’ di ottimismo non guasta.
Giovanni Longu
Berna 1.11.2009
Come al solito, su questo rapporto e in genere sulla politica migratoria italiana, le opinioni si dividono. Per gli uni, gli immigrati sono una risorsa e la loro presenza è e sarà «necessaria per il funzionamento del Paese», per gli altri rappresentano un pericolo: «dodici milioni di stranieri nel 2050 sono una catastrofe sociale, demografica, geografica» (Il Giornale, 29.10.2009).
In realtà il «problema degli stranieri» non è solo un problema di statistica demografica o di convivenza civile, ma qualcosa di molto più complesso, un problema di civiltà al quale l’Italia non può sottrarsi. Il catastrofismo non aiuta a risolverlo.
Quanto alle cifre, credo che la previsione della Caritas (e dell’Istat) sia un tipico scenario possibile ma improbabile, perché basato su una premessa che generalmente non si verifica, ossia che il tasso di accrescimento degli stranieri continui ai ritmi attuali in un contesto identico o molto simile a quello odierno.
Basandosi su una tale premessa, alla vigilia della prima guerra mondiale, in Svizzera era stato previsto che attualmente ci sarebbero stati più stranieri che svizzeri. Agli inizi del Novecento, l’aumento del numero di stranieri sembrava inarrestabile. Si era passati dal 7,5% del 1888 al 14,7% nel 1910. Un semplice calcolo aveva indicato che se il tasso di crescita fino ad allora registrato fosse continuato per circa 80 anni (ossia fin verso il 1990), la proporzione degli stranieri avrebbe raggiunto il 50%. Di fatto, la proporzione degli stranieri, con tutti gli alti e bassi che aveva avuto dalla prima guerra in poi, era ancora del 14,8 nel 1980 e oggi, a quasi un secolo da quella previsione stramba, non arriva al 22%.
In realtà il ritmo di accrescimento di una componente demografica, ad esempio gli stranieri, può variare moltissimo in funzione di numerosi altri fattori che influiscono sull’immigrazione. Basterebbe, ad esempio, che si deteriorassero le condizioni economiche del Paese destinatario e già diminuirebbe l’interesse degli stranieri a stabilirvisi. Inoltre, gran parte degli emigranti rinuncerebbe volentieri a lasciare il proprio Paese se trovasse sul posto condizioni di vita e di lavoro dignitose. E’ quel che è successo all’Italia e alla Svizzera, passati nell’arco di pochi decenni da Paesi di forte emigrazione a Paesi di forte immigrazione. Lo stesso potrebbe succedere con gli attuali Paesi d’emigrazione.
Va inoltre ricordato che l’aumento del numero di stranieri non dipende solo dal numero di nuovi immigrati che si aggiungono a quelli già presenti, ma anche dall’autoincremento, ossia dal numero di figli degli stessi stranieri, che pur non essendo immigrati restano stranieri. Basterebbe però che il tasso di natalità degli stranieri diminuisse e diminuirebbe un elemento fondamentale della crescita degli stranieri. Questo è successo per esempio con gli italiani immigrati in Svizzera nel corso degli ultimi decenni del secolo scorso ed è probabile che succeda lo stesso fenomeno con gli attuali immigrati in Italia.
Un altro elemento che incide considerevolmente sia sul numero degli stranieri che sul loro tasso di crescita è il tasso di naturalizzazione. In genere, nelle società di accoglimento, sempre più giovani stranieri di seconda e terza generazione acquistano (facilmente) la cittadinanza del Paese ospite, sottraendoli così alle statistiche sugli stranieri. Un esempio lampante è dato proprio dagli italiani in Svizzera. Per un lungo periodo (circa 100 anni), in cui le naturalizzazioni erano poche, il numero degli italiani è andato sempre crescendo (con saltuarie flessioni), fino a superare il mezzo milione negli anni Sessanta del secolo scorso. Dall’inizio degli anni Settanta il numero degli italiani (con la sola nazionalità italiana) è costantemente diminuito (oggi sono rimasti ca. 290.000). Le ragioni della diminuzione (importantissima per la statistica svizzera sugli stranieri) non vanno ricercate solo nei massicci rientri della prima generazione del dopoguerra, ma anche nelle numerose naturalizzazioni (circa 150.000) dal 1970 ad oggi). Tanto è vero che sommando ai soli cittadini italiani quelli con la doppia nazionalità la collettività italiana dovrebbe aggirarsi attorno al mezzo milione, ossia il valore che aveva verso la fine degli anni Sessanta.
Questo per dire che l’allarmismo, per quanto riguarda gli stranieri in Italia è fuori posto. Certamente non significa che la situazione si «normalizzerà» da sola. Occorre che le istituzioni adottino una politica d’integrazione efficiente ed efficace.
Probabilmente la via maestra non è quella di adottare immediatamente una sorta di naturalizzazione automatica (jus soli) per tutti gli stranieri nati in Italia. Ogni tentativo in questa direzione in Svizzera è fallito (il primo è datato 1903, l’ultimo 2004). Da qualche anno, tuttavia, la Svizzera sta portando avanti una politica d’integrazione che comincia a dare i suoi frutti in ambito scolastico, sociale, professionale e persino politico. Sta cominciando a diffondersi, per esempio, il diritto di voto a livello comunale e la partecipazione degli stranieri in molti organismi consultativi.
Probabilmente il primo passo da compiere è a livello culturale e informativo, quello di abbattere i pregiudizi riguardanti gli stranieri. Il secondo e più importante è la pratica dell’integrazione, ricordando che l’integrazione non la fanno le istituzioni, ma queste devono favorirla. Devono integrarsi le persone, le culture, le religioni, rispettandosi reciprocamente in un quadro che è quello giuridico nazionale. E questo richiede una disponibilità e uno sforzo comuni, sia da parte di chi intende integrarsi e sia da parte della società civile che deve essere pronta e aperta all’accoglienza e al sostegno degli stranieri nel rispetto della loro identità personale, culturale, religiosa.
Credo che l’Italia in questo campo sta già facendo molto, ma quel che resta da fare è ancora di più. E’ un buon segno che se ne discuta già tanto, ma è urgente che l’integrazione sia praticata sul serio e senza preconcetti. Tra l’altro un po’ di ottimismo non guasta.
Giovanni Longu
Berna 1.11.2009
28 ottobre 2009
Finalmente il Museo Nazionale dell’Emigrazione!
Se ne parlava da anni e non si sapeva dove farlo, come farlo, e dove trovare i soldi per realizzarlo. In Italia, per certe cose mancano sempre i soldi, anche quando si tratta di recuperare la propria memoria storica! Sono trent’anni che l’emigrazione italiana (almeno quella di massa) è finita e se ne sta perdendo lentamente il ricordo. Finalmente, dunque, che un po’ di quella memoria sia conservata almeno in un museo nazionale.
Finalmente! Perché l’emigrazione, come ha ben detto il Presidente della Repubblica, al termine dell’inaugurazione del Museo, «è un capitolo essenziale della nostra storia». Non un semplice capitolo, uno dei tanti, ma un capitolo «essenziale» per capire la storia dell’Italia.
Si sta per celebrare il 150° anniversario dell’Unità d’Italia e non si può dimenticare che uno dei maggiori problemi che il nuovo Stato dovette affrontare fu quello dell’emigrazione. Fino ad allora era quasi inesistente e per lo più aveva un carattere stagionale nelle regioni settentrionali di confine. Poi divenne un fenomeno sempre più consistente. I primi governi cercarono di frenarne la crescita con ogni sorta di ostacoli. Si voleva evitare soprattutto di fornire attraverso gli emigrati un’immagine negativa dell’Italia quasi fosse in preda alla miseria e all’ignoranza. Ma i governi di allora e poi anche quelli successivi non seppero arrestare gli espatri garantendo a tutti, soprattutto ai giovani che abbandonavano le campagne, sufficienti possibilità di lavoro in Italia.
Tra i primi e più importanti flussi migratori dall’Italia non si può dimenticare quello verso la Svizzera. Basti ricordare che il primo accordo tra l’Italia e un altro Stato riguardante lavoratori italiani migranti fu quello con la Svizzera e risale al 1868, dunque pochi anni dopo l’Unità d’Italia.
Soprattutto negli ultimi decenni dell’Ottocento e agli inizi del Novecento furono milioni gli italiani che lasciarono l’Italia per produrre lavoro e ricchezza non solo nei Paesi che li ospitarono, ma anche nel Paese che li aveva espulsi dal mercato del lavoro come lavoratori in esubero, si direbbe oggi. Già, perché non va dimenticato – e mi auguro che il Museo lo ricordi e lo documenti – le rimesse degli emigrati hanno fatto gola a tutti i governi e sono servite non solo alle famiglie degli emigrati ma anche a riequilibrare la bilancia dei pagamenti dell’Italia con l’estero. L’emigrazione è stata per l’Italia una incredibile risorsa, anche sotto l’aspetto finanziario, che è giusto ricordare, almeno in un museo.
Vi ha accennato il Ministro degli Affari Esteri Frattini il giorno dell’inaugurazione del Museo: «Per comprendere come è cresciuto il Paese, per capire come si è sviluppata l'economia e la società italiana, è indispensabile conoscere e riconoscere che milioni di contadini sono stati costretti a lasciare le loro terre, che altri milioni di lavoratori hanno preferito abbandonare volontariamente un Paese privo di prospettive». Sarebbe bene che lo ricordassero tutti gli italiani e lo si insegnasse nelle scuole dello Stato.
Vari interventi, il giorno dell’inaugurazione del Museo, hanno sottolineato a giusta ragione i disagi e le sofferenze fisiche e morali che hanno caratterizzato molta parte della vita degli emigrati. Per rendersene conto basterebbe rileggersi qualche rievocazione storica dell’emigrazione d’oltreoceano o europea o anche solo della Svizzera, soprattutto in certi periodi in cui gli italiani erano disprezzati e malvisti. Attenti però a non limitarsi a questo aspetto, e mi auguro che il Museo ne tenga conto. L’emigrazione italiana nel mondo ha infatti prodotto ovunque anche genialità, stili di vita invidiabili e invidiati, cultura, arte, letteratura, scienza, gioia di vivere.
Non conoscendo il materiale espositivo del Museo, è difficile fare considerazioni specifiche al riguardo. Spero comunque che il Museo non sia solo una sorta di fotografia di un passato remoto e triste, da osservare magari con stupore e commozione. Mi auguro che sia in grado di parlare al presente, di coinvolgere il visitatore non solo risvegliandone la memoria del passato, ma anche suscitando in lui sentimenti di coraggio, intraprendenza, solidarietà, creatività, rispetto, e invitandolo a confrontarsi con la realtà immigratoria italiana di oggi.
«Oggi che accogliamo immigrati nel nostro Paese, e siamo diventati un Paese d’immigrazione», ha ancora detto il Capo dello Stato, «non dovremmo mai dimenticare di essere stati un Paese di emigrazione». Ciò significa che l’Italia intera, istituzioni e cittadini, devono impegnarsi a trattare con un occhio di riguardo gli immigrati, a evitare ogni forma di xenofobia e a favorire con ogni mezzo la loro integrazione. Non deve più capitare ai nuovi immigrati quanto è tante volte capitato agli italiani di mezzo mondo, di essere trattati come schiavi, discriminati, incolpati ingiustamente, assegnati ai lavori più difficili e pericolosi, ghettizzati ed emarginati. Mai più! Mi auguro che il Museo dell’Emigrazione dica anche questo.
Purtroppo questo Museo si trova solo a Roma e francamente mi pare insufficiente. Un Museo dell’Emigrazione dovrebbe sorgere in ogni Regione italiana e in ogni Paese del mondo, dove i discendenti degli emigrati italiani di fine Ottocento e gran parte del Novecento costituiscono ancora una collettività numerosa e importante. Penso per esempio alla Svizzera, dove la collettività italiana è particolarmente numerosa ed ha ereditato il patrimonio ricchissimo di una storia migratoria ormai lunga quanto quella italiana e, purtroppo, poco conosciuta.
A quando il Museo dell’Emigrazione Italiana in Svizzera?
Giovanni Longu
Berna 27.10.2009
Finalmente! Perché l’emigrazione, come ha ben detto il Presidente della Repubblica, al termine dell’inaugurazione del Museo, «è un capitolo essenziale della nostra storia». Non un semplice capitolo, uno dei tanti, ma un capitolo «essenziale» per capire la storia dell’Italia.
Si sta per celebrare il 150° anniversario dell’Unità d’Italia e non si può dimenticare che uno dei maggiori problemi che il nuovo Stato dovette affrontare fu quello dell’emigrazione. Fino ad allora era quasi inesistente e per lo più aveva un carattere stagionale nelle regioni settentrionali di confine. Poi divenne un fenomeno sempre più consistente. I primi governi cercarono di frenarne la crescita con ogni sorta di ostacoli. Si voleva evitare soprattutto di fornire attraverso gli emigrati un’immagine negativa dell’Italia quasi fosse in preda alla miseria e all’ignoranza. Ma i governi di allora e poi anche quelli successivi non seppero arrestare gli espatri garantendo a tutti, soprattutto ai giovani che abbandonavano le campagne, sufficienti possibilità di lavoro in Italia.
Tra i primi e più importanti flussi migratori dall’Italia non si può dimenticare quello verso la Svizzera. Basti ricordare che il primo accordo tra l’Italia e un altro Stato riguardante lavoratori italiani migranti fu quello con la Svizzera e risale al 1868, dunque pochi anni dopo l’Unità d’Italia.
Soprattutto negli ultimi decenni dell’Ottocento e agli inizi del Novecento furono milioni gli italiani che lasciarono l’Italia per produrre lavoro e ricchezza non solo nei Paesi che li ospitarono, ma anche nel Paese che li aveva espulsi dal mercato del lavoro come lavoratori in esubero, si direbbe oggi. Già, perché non va dimenticato – e mi auguro che il Museo lo ricordi e lo documenti – le rimesse degli emigrati hanno fatto gola a tutti i governi e sono servite non solo alle famiglie degli emigrati ma anche a riequilibrare la bilancia dei pagamenti dell’Italia con l’estero. L’emigrazione è stata per l’Italia una incredibile risorsa, anche sotto l’aspetto finanziario, che è giusto ricordare, almeno in un museo.
Vi ha accennato il Ministro degli Affari Esteri Frattini il giorno dell’inaugurazione del Museo: «Per comprendere come è cresciuto il Paese, per capire come si è sviluppata l'economia e la società italiana, è indispensabile conoscere e riconoscere che milioni di contadini sono stati costretti a lasciare le loro terre, che altri milioni di lavoratori hanno preferito abbandonare volontariamente un Paese privo di prospettive». Sarebbe bene che lo ricordassero tutti gli italiani e lo si insegnasse nelle scuole dello Stato.
Vari interventi, il giorno dell’inaugurazione del Museo, hanno sottolineato a giusta ragione i disagi e le sofferenze fisiche e morali che hanno caratterizzato molta parte della vita degli emigrati. Per rendersene conto basterebbe rileggersi qualche rievocazione storica dell’emigrazione d’oltreoceano o europea o anche solo della Svizzera, soprattutto in certi periodi in cui gli italiani erano disprezzati e malvisti. Attenti però a non limitarsi a questo aspetto, e mi auguro che il Museo ne tenga conto. L’emigrazione italiana nel mondo ha infatti prodotto ovunque anche genialità, stili di vita invidiabili e invidiati, cultura, arte, letteratura, scienza, gioia di vivere.
Non conoscendo il materiale espositivo del Museo, è difficile fare considerazioni specifiche al riguardo. Spero comunque che il Museo non sia solo una sorta di fotografia di un passato remoto e triste, da osservare magari con stupore e commozione. Mi auguro che sia in grado di parlare al presente, di coinvolgere il visitatore non solo risvegliandone la memoria del passato, ma anche suscitando in lui sentimenti di coraggio, intraprendenza, solidarietà, creatività, rispetto, e invitandolo a confrontarsi con la realtà immigratoria italiana di oggi.
«Oggi che accogliamo immigrati nel nostro Paese, e siamo diventati un Paese d’immigrazione», ha ancora detto il Capo dello Stato, «non dovremmo mai dimenticare di essere stati un Paese di emigrazione». Ciò significa che l’Italia intera, istituzioni e cittadini, devono impegnarsi a trattare con un occhio di riguardo gli immigrati, a evitare ogni forma di xenofobia e a favorire con ogni mezzo la loro integrazione. Non deve più capitare ai nuovi immigrati quanto è tante volte capitato agli italiani di mezzo mondo, di essere trattati come schiavi, discriminati, incolpati ingiustamente, assegnati ai lavori più difficili e pericolosi, ghettizzati ed emarginati. Mai più! Mi auguro che il Museo dell’Emigrazione dica anche questo.
Purtroppo questo Museo si trova solo a Roma e francamente mi pare insufficiente. Un Museo dell’Emigrazione dovrebbe sorgere in ogni Regione italiana e in ogni Paese del mondo, dove i discendenti degli emigrati italiani di fine Ottocento e gran parte del Novecento costituiscono ancora una collettività numerosa e importante. Penso per esempio alla Svizzera, dove la collettività italiana è particolarmente numerosa ed ha ereditato il patrimonio ricchissimo di una storia migratoria ormai lunga quanto quella italiana e, purtroppo, poco conosciuta.
A quando il Museo dell’Emigrazione Italiana in Svizzera?
Giovanni Longu
Berna 27.10.2009
26 ottobre 2009
Davide Piscopo lascia un vuoto
«Quel che è giusto è giusto»!
Davide Piscopo se n’è andato, la settimana scorsa, all’improvviso, lasciando un vuoto nella sua area politica in Svizzera che difficilmente potrà essere colmato. E’ stato uno di quei personaggi che s’imponeva per la sua singolarità. Assolutamente convinto delle sue idee di destra, è stato per almeno un trentennio avversato da quanti militavano sul fronte opposto. Era divenuto una sorta di cavaliere solitario e si era credo convinto che fosse ormai un perdente. L’ultima volta che lo incontrai, circa un anno fa, mi aveva detto che stava pensando di ritirarsi definitivamente da ogni incarico politico.
Conoscevo Piscopo da una trentina d’anni. Non condividevo le sue idee, ma lo rispettavo perché trovavo corretto in una democrazia il pluralismo delle idee. Lo incontravo sovente in incontri pubblici e celebrazioni ufficiali. Ma al di là delle battute di circostanza non abbiamo mai avuto occasione di affrontare seriamente alcun tema scottante. Del resto in comune non avevamo quasi nulla, a parte il reciproco rispetto.
A prescindere dai contenuti, nei suoi interventi apprezzavo la dialettica tagliente, la lucidità del ragionamento, una certa signorilità persino nell’affrontare gli avversari. Sapevo che rispettava le mie idee e apprezzava il mio modo di presentarle a voce e per iscritto. Più di una volta ricevetti i suoi complimenti. L’ultima volta è stata nel mese di agosto scorso. Aveva appena letto un mio articolo su «Marcinelle: la tragedia italiana e l'immigrazione clandestina», in cui contestavo Tremaglia a riguardo degli immigrati clandestini. Mi telefonò per dirmi che era d’accordo con la mia analisi, anche se contraddiceva quella del suo amico Tremaglia: «quel che è giusto è giusto», mi disse testualmente.
Non conosco assolutamente nulla di preciso della sua vita privata e nemmeno della sua vita professionale. Ho conosciuto il Piscopo politico e l’uomo pubblico impegnato a modo suo a risolvere i problemi dell’emigrazione. Il bilancio dei suoi tentativi lo tirerà qualche altro. A me resta il ricordo di una persona pubblica che si è coerentemente battuta per le sue idee e ha indubbiamente contribuito a introdurre nel dibattito politico degli italiani in Svizzera un confronto e una dialettica che non possono che far bene al formarsi di un’opinione pubblica intelligente e matura.
Giovanni Longu
Berna 25.10.2009
Davide Piscopo se n’è andato, la settimana scorsa, all’improvviso, lasciando un vuoto nella sua area politica in Svizzera che difficilmente potrà essere colmato. E’ stato uno di quei personaggi che s’imponeva per la sua singolarità. Assolutamente convinto delle sue idee di destra, è stato per almeno un trentennio avversato da quanti militavano sul fronte opposto. Era divenuto una sorta di cavaliere solitario e si era credo convinto che fosse ormai un perdente. L’ultima volta che lo incontrai, circa un anno fa, mi aveva detto che stava pensando di ritirarsi definitivamente da ogni incarico politico.
Conoscevo Piscopo da una trentina d’anni. Non condividevo le sue idee, ma lo rispettavo perché trovavo corretto in una democrazia il pluralismo delle idee. Lo incontravo sovente in incontri pubblici e celebrazioni ufficiali. Ma al di là delle battute di circostanza non abbiamo mai avuto occasione di affrontare seriamente alcun tema scottante. Del resto in comune non avevamo quasi nulla, a parte il reciproco rispetto.
A prescindere dai contenuti, nei suoi interventi apprezzavo la dialettica tagliente, la lucidità del ragionamento, una certa signorilità persino nell’affrontare gli avversari. Sapevo che rispettava le mie idee e apprezzava il mio modo di presentarle a voce e per iscritto. Più di una volta ricevetti i suoi complimenti. L’ultima volta è stata nel mese di agosto scorso. Aveva appena letto un mio articolo su «Marcinelle: la tragedia italiana e l'immigrazione clandestina», in cui contestavo Tremaglia a riguardo degli immigrati clandestini. Mi telefonò per dirmi che era d’accordo con la mia analisi, anche se contraddiceva quella del suo amico Tremaglia: «quel che è giusto è giusto», mi disse testualmente.
Non conosco assolutamente nulla di preciso della sua vita privata e nemmeno della sua vita professionale. Ho conosciuto il Piscopo politico e l’uomo pubblico impegnato a modo suo a risolvere i problemi dell’emigrazione. Il bilancio dei suoi tentativi lo tirerà qualche altro. A me resta il ricordo di una persona pubblica che si è coerentemente battuta per le sue idee e ha indubbiamente contribuito a introdurre nel dibattito politico degli italiani in Svizzera un confronto e una dialettica che non possono che far bene al formarsi di un’opinione pubblica intelligente e matura.
Giovanni Longu
Berna 25.10.2009
22 ottobre 2009
La settimana della lingua italiana in Svizzera, ma non a Berna
Si svolge, in tutto il mondo, dal 19 al 25 ottobre 2009, la IX settimana della lingua italiana. Avrebbe dovuto essere, soprattutto in Svizzera, un’occasione per far conoscere all’intera popolazione che la lingua italiana non è solo iscritta nella Costituzione federale come una delle quattro lingue nazionali e ufficiali, ma è anche una lingua viva, conosciuta da almeno un settimo dell’intera popolazione.
Purtroppo le manifestazioni si concentrano ormai solo in poche località e non se ne parla nemmeno in molte altre. Quest’anno poi sembra tutto concentrato a Zurigo. Dispiace che soprattutto a Berna praticamente non si faccia nulla, nonostante abbiano sede nella capitale federale l’Ambasciata d’Italia, la Cancelleria consolare, un Seminario d’italiano, un Comitato della Dante Alighieri, una Casa d’Italia, una sede dell’UNITRE, numerose associazioni italiane, ma anche una sede della Pro Ticino e dei Grigioni italiani, senza dimenticare che c’è una Sezione d’italiano nella Cancelleria federale, servizi linguistici italiani in tutti i dipartimenti federali, ecc.
Come interpretare questa mancanza d’iniziative?
Per quanto riguarda l’Italia, credo che le cause siano da ricercare soprattutto nell’indiscriminato taglio delle risorse finanziarie destinate alla lingua e alla cultura da parte degli ultimi governi. Ritengo tuttavia che la carenza d’iniziative per valorizzare la lingua italiana esprima assai chiaramente anche la povertà d’idee e la rassegnazione degli operatori culturali al declino inesorabile dell’italiano nella Confederazione. Se non è così, perché almeno a Berna, tutto tace?
Per quanto riguarda la Svizzera, credo che le cause non siano tanto di natura finanziaria quanto piuttosto di natura organizzativa e soprattutto di coscienza politica. Quel che si dice a parole non è trasferito nella pratica, nonostante che l’italiano sia in Svizzera lingua nazionale (ossia non regionale) e lingua ufficiale.
Già a maggio il Dipartimento federale degli affari esteri invitava le rappresentanze svizzere all’estero a proporre e a realizzare progetti (in collaborazione con gli Istituti italiani di cultura e le Ambasciate d’Italia) per valorizzare la lingua italiana. Cito testualmente la motivazione che se ne dava: «Questa iniziativa costituisce una piattaforma di particolare significato per il nostro Paese perché offre la possibilità di ricordare la sua natura multiculturale e multilingue, di illustrare realtà storiche e attuali della sua comunità italofona, promuovendo nel contempo una delle lingue nazionali».
Non so quante iniziative siano state realizzate all’estero, ma sarebbe interessante conoscere quali iniziative concrete sono state realizzate in Svizzera, fuori del Ticino. Perché il Cantone Ticino, quale principale attore e deputato alla conservazione e alla valorizzazione della lingua italiana, non assume iniziative promozionali fuori del proprio territorio? Perché la Deputazione ticinese alle Camere federali non si attiva a sostenere, anche in queste occasioni uniche, il plurilinguismo e specialmente l’italiano? Perché la Cancelleria federale, di concerto con i servizi linguistici italiani dei Dipartimenti, non diventa anche animatrice e sostenitrice di iniziative aperte al pubblico per valorizzare la traduzione e la lingua italiana?
Forse si sta perdendo la coscienza che, pur con tutta la globalizzazione che si vuole inevitabile, la Svizzera continuerà a restare anche italiana e quando non dovesse più esserlo sarà sicuramente un po’ meno Svizzera o non lo sarà affatto.
Giovanni Longu
Purtroppo le manifestazioni si concentrano ormai solo in poche località e non se ne parla nemmeno in molte altre. Quest’anno poi sembra tutto concentrato a Zurigo. Dispiace che soprattutto a Berna praticamente non si faccia nulla, nonostante abbiano sede nella capitale federale l’Ambasciata d’Italia, la Cancelleria consolare, un Seminario d’italiano, un Comitato della Dante Alighieri, una Casa d’Italia, una sede dell’UNITRE, numerose associazioni italiane, ma anche una sede della Pro Ticino e dei Grigioni italiani, senza dimenticare che c’è una Sezione d’italiano nella Cancelleria federale, servizi linguistici italiani in tutti i dipartimenti federali, ecc.
Come interpretare questa mancanza d’iniziative?
Per quanto riguarda l’Italia, credo che le cause siano da ricercare soprattutto nell’indiscriminato taglio delle risorse finanziarie destinate alla lingua e alla cultura da parte degli ultimi governi. Ritengo tuttavia che la carenza d’iniziative per valorizzare la lingua italiana esprima assai chiaramente anche la povertà d’idee e la rassegnazione degli operatori culturali al declino inesorabile dell’italiano nella Confederazione. Se non è così, perché almeno a Berna, tutto tace?
Per quanto riguarda la Svizzera, credo che le cause non siano tanto di natura finanziaria quanto piuttosto di natura organizzativa e soprattutto di coscienza politica. Quel che si dice a parole non è trasferito nella pratica, nonostante che l’italiano sia in Svizzera lingua nazionale (ossia non regionale) e lingua ufficiale.
Già a maggio il Dipartimento federale degli affari esteri invitava le rappresentanze svizzere all’estero a proporre e a realizzare progetti (in collaborazione con gli Istituti italiani di cultura e le Ambasciate d’Italia) per valorizzare la lingua italiana. Cito testualmente la motivazione che se ne dava: «Questa iniziativa costituisce una piattaforma di particolare significato per il nostro Paese perché offre la possibilità di ricordare la sua natura multiculturale e multilingue, di illustrare realtà storiche e attuali della sua comunità italofona, promuovendo nel contempo una delle lingue nazionali».
Non so quante iniziative siano state realizzate all’estero, ma sarebbe interessante conoscere quali iniziative concrete sono state realizzate in Svizzera, fuori del Ticino. Perché il Cantone Ticino, quale principale attore e deputato alla conservazione e alla valorizzazione della lingua italiana, non assume iniziative promozionali fuori del proprio territorio? Perché la Deputazione ticinese alle Camere federali non si attiva a sostenere, anche in queste occasioni uniche, il plurilinguismo e specialmente l’italiano? Perché la Cancelleria federale, di concerto con i servizi linguistici italiani dei Dipartimenti, non diventa anche animatrice e sostenitrice di iniziative aperte al pubblico per valorizzare la traduzione e la lingua italiana?
Forse si sta perdendo la coscienza che, pur con tutta la globalizzazione che si vuole inevitabile, la Svizzera continuerà a restare anche italiana e quando non dovesse più esserlo sarà sicuramente un po’ meno Svizzera o non lo sarà affatto.
Giovanni Longu
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