15 ottobre 2009

Le ipocrisie della classe politica italiana

La libertà d’informazione in Italia non solo c’è ma si è vista come forse non mai nei giorni scorsi all’indomani della bocciatura del cosiddetto «Lodo Alfano» da parte della Corte costituzionale. Falsi e ipocriti quelli che sbraitando denunciano che non ci sia libertà di stampa.
C’è eccome. Lo si è visto non solo dalle contrapposizioni dei due schieramenti politici, ma anche dai toni usati. In pochi, tuttavia, hanno messo in evidenza l’ipocrisia che stava a monte di tutte le dichiarazioni, da una parte e dall’altra.
In Italia, purtroppo, l’ipocrisia dilaga perché in fondo quella italiana è ancora una società manichea, fondata sulla contrapposizione assoluta tra il bene e il male. E poiché ognuno si crede portatore sano del principio del bene, il male, il vizio, l’illegalità stanno inevitabilmente dall’altra parte. La stessa attitudine caratterizza i gruppi e soprattutto i partiti politici. In Italia si è sostanzialmente incapaci di fare autocritica e di riconoscere i propri limiti e i propri errori.
La bocciatura del Lodo Alfano è stata come una cartina di tornasole, che ha messo a nudo questo vizio di fondo dell’intera classe politica italiana, spaccata letteralmente in due, ma terribilmente unita nell’ipocrisia. Non sono infatti credibili né coloro che si sono schierati fieramente dalla parte del diritto, né coloro che hanno indossato le vesti delle vittime innocenti. E’ infatti evidente che in Italia è in atto uno spaventoso conflitto, anzi una «guerra incivile, che attraversa i poteri e contagia il Paese» (Marcello Veneziani) e i belligeranti non esitano a utilizzare qualsiasi mezzo per colpire e possibilmente distruggere gli avversari.
Il Lodo Alfano mirava sicuramente a consentire un’azione di governo più tranquilla al Premier Berlusconi, ma intendeva soprattutto sottrarlo agli attacchi a ripetizione della magistratura milanese. Questo aspetto però non compare mai nelle dichiarazioni della maggioranza e ancor meno dell’interessato all’indomani della bocciatura del Lodo. Anzi, ipocritamente, tutti hanno gridato solo allo scandalo di una Corte costituzionale di parte e sostanzialmente antidemocratica, perché cancellando il privilegio del Premier (delle altre alte cariche dello Stato manco si parla) ha violato in qualche modo il principio fondante della democrazia, secondo cui è il popolo che decide da chi e per quanto tempo vuol essere governato.
In molti hanno detto che il Lodo e la sua bocciatura non riguarda il governo ma solo il suo capo. Ipocriti, perché sanno bene che questo è il Governo Berlusconi e senza di lui si deve tornale al voto. E doppiamente ipocriti coloro che, dall’opposizione, riconoscono la legittimità di Berlusconi a governare purché si occupi dei problemi del Paese, che sono ben più importanti dei suoi problemi personali. Come se l’inquisito Premier potesse occuparsi a tempo pieno sia del governo che della sua difesa.
Ipocriti soprattutto coloro che inneggiano alla vittoria del diritto sui privilegi e all’affermazione del principio per cui la legge è uguale per tutti. Ai presunti «vincitori» ben più della legge e della democrazia importa che Berlusconi quanto prima tolga il disturbo, come se fosse un intruso, anzi peggio, un nemico del popolo, dimenticando completamente che è il popolo sovrano che l’ha designato a quella carica.
Ipocriti e bugiardi quanti consideravano il Lodo Alfano una sorta d’impunità per il solo Berlusconi e una violazione del principio di uguaglianza, ben sapendo che al massimo si trattava di un rinvio dei processi e delle persecuzioni. La verità è che i nemici politici di Berlusconi non sono in grado di batterlo politicamente e sperano che a metterlo fuori combattimento sia la magistratura. Ipocriti e presuntuosi, perché pur essendo minoranza nel Paese pretendono di rappresentarlo per intero e di rappresentare, loro soli, il principio del bene contro il principio del male.
Domande spontanee
Non voglio coinvolgere in questa riflessione il Presidente della Repubblica, di cui ho grande stima, e nemmeno la Corte costituzionale, a cui do atto di un comportamento «giuridicamente» corretto. Nondimeno, alcune domande mi sorgono spontanee.
Anzitutto, le alte cariche dello Stato, ad eccezione del capo del governo, e le massime istituzioni della Repubblica si rendono conto che il popolo sovrano ha chiesto ormai ripetutamente di essere governato per un’intera legislatura da una precisa maggioranza e da un determinato capo del governo in base ad un programma presentato agli elettori e da questi approvato? I veri interpreti della volontà del popolo sono il Capo dello Stato, la Corte costituzionale, la piazza istigata da pochi giustizialisti fanatici oppure la maggioranza parlamentare espressa con voto segreto in libere elezioni? Come si fa ad invocare il rispetto della Costituzione e il principio di uguaglianza (come se le disuguaglianze dei politici e dei magistrati non fossero sotto gli occhi di tutti!), senza alcuna considerazione della volontà chiara e netta del popolo italiano che ha chiesto in modo esplicito di essere governato da una coalizione guidata da Silvio Berlusconi?
Il Lodo Alfano, a prescindere dal suo aspetto tecnico-giuridico riconosciuto dalla Consulta come «incostituzionale», aveva una sua ragionevolezza in un Paese in cui il Governo sembra considerato dall’opposizione come un nemico del popolo più che lo strumento voluto dal popolo per risolvere i suoi molteplici problemi.
Non è possibile che tutto torni come prima, nonostante l’ipocrisia persistente, perché la vicenda del Lodo Alfano ha evidenziato che purtroppo la lotta politica si è talmente radicalizzata da non esitare a mettere in campo per annientare l’avversario qualsiasi arma, dagli appelli al Capo dello Stato per firmare o non firmare questo o quel provvedimento, al ricorso (legittimo) ai referendum, alle manifestazioni forcaiole di piazza, alla diffamazione a mezzo stampa, servizio pubblico compreso, alle calunnie, al gossip, ecc.
Peccato, non tanto per Berlusconi che saprà badare a sé stesso, ma per il Paese che sta franando, in senso non solo metaforico ma ahimè anche reale, e nessuno se ne assume la minima responsabilità.
Giovanni Longu
Berna 11.10.2009

07 ottobre 2009

Il servizio pubblico e la libertà di stampa in Svizzera e in Italia

La settimana scorsa, soprattutto in Italia, si è manifestato per la libertà d’informazione e contro i pericoli di una sua limitazione. Indirettamente, ma non velatamente, la manifestazione era diretta contro Berlusconi (proprietario di televisioni e giornali) e il suo governo, accusati di voler controllare l’intera informazione italiana, compreso il servizio pubblico. Insomma contro il «regime» Berlusconi.
Questo genere di manifestazioni m’insospettisce e mi preoccupa perché non è mai ben chiara la vera ragione della denuncia e perché il rischio di strumentalizzazione è troppo forte. Tanto è vero che questi assembramenti sono quasi sempre monocolore e contro avversari politici ben precisi. Alla manifestazione di Roma i manifestanti erano soprattutto sostenitori della stampa di sinistra.
Il vero scopo della manifestazione non mi è chiaro e probabilmente non lo era nemmeno ai numerosi partecipanti. Non c’è infatti in Italia, e non ci potrebbe essere dato il quadro giuridico nazionale e internazionale, alcuna minaccia alla libertà d’informazione, garantita dalla «Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo» approvata dall’ONU (1948), dalla «Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali» (1950), dalle direttive europee, dalla Costituzione e dalle leggi italiane, ecc.
Informazione e lotta politica
La ragione del disagio di certa stampa e di certi giornalisti va forse ricercata in una spregiudicata interpretazione di tutti i documenti citati. Oppure si crede e si cerca di far credere che solo la stampa d’opposizione è «libera», mentre tutto il resto è schiavo del padrone. E poiché, in Italia, da qualche tempo «il padrone» è lui, sempre più stabilmente al potere, si vorrebbe far credere che la stampa e i media in generale sono sempre più imbavagliati da Berlusconi.
Probabilmente la realtà è molto meno drammatica di come la si dipinge e certa stampa sembra mossa non tanto dalla libertà d’opinione e d’informazione, ma dall’odio politico per cui vorrebbe essere totalmente libera di dire, scrivere e mostrare tutto quel che ritiene funzionale alla lotta politica. A ben vedere, infatti, molte delle presunte «informazioni» sono distorsioni, interpretazioni capziose della realtà. Non sono «notizie» perché «la notizia è comunque e sempre un fatto vero» (Wikipedia).
Si deve anche aggiungere che in nessuno Stato di diritto, garante della libertà di opinione, d’espressione e di stampa, può esistere un diritto illimitato di dire quel che si pensa (anche le falsità, le calunnie, le ingiurie) o di rendere pubblico qualsiasi fatto realmente accaduto (anche se conosciuto illegalmente, fraudolentemente, o se concerne direttamente la sfera privata della persona). Certa stampa e certi giornalisti vorrebbero invece una libertà «assoluta», ossia svincolata da ogni limite, da ogni regola e da ogni controllo.
Il controllo dello Stato
Bisognerebbe inoltre stare attenti alle confusioni e alle mistificazioni. Un conto è la libertà di opinione e di espressione in generale e ben altra cosa è la libertà d’informazione nel servizio pubblico. La «libertà d’informazione», in questo caso, presuppone sempre un «interesse pubblico». E poiché questo interesse è difficile da definire (ma non può essere lasciato all’esclusiva valutazione del singolo giornalista o conduttore), in tutti i Paesi democratici interviene lo Stato con apposite leggi e convenzioni a regolamentare il servizio pubblico.
Solo in Italia, a certuni e a certa stampa, sembra scandaloso che lo Stato intervenga al riguardo, magari per sottrarlo alla strumentalizzazione politica o per impedirne un uso spregiudicato da parte di singoli personaggi avidi di notorietà o giornalisti e conduttori faziosi e irresponsabili. Eppure è del tutto evidente che in Italia le interferenze politiche sul servizio pubblico sono esagerate, che certe trasmissioni televisive sono faziose, che certi giornalisti e conduttori si servono del mezzo televisivo come clava per colpire avversari politici, in barba al pluralismo e al senso di equilibrio di cui dovrebbero dar prova e in barba al servizio pubblico.
Sulla legittimità dello Stato a intervenire sul servizio pubblico la «Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali» (1950) è chiara. Dopo aver ricordato il diritto di ogni persona alla libertà d’opinione, d’espressione e di ricevere o comunicare informazioni o idee senza ingerenza alcuna da parte delle autorità pubbliche, precisa che gli Stati possono sottoporre «a un regime di autorizzazione le imprese di radiodiffusione, di cinema o di televisione». Inoltre, «l’esercizio di queste libertà, comportando doveri e responsabilità, può essere sottoposto a determinate formalità, condizioni, restrizioni o sanzioni previste dalla legge (…) per la sicurezza nazionale, l’integrità territoriale o l’ordine pubblico, la prevenzione dei disordini e dei reati, la protezione della salute e della morale, la protezione della reputazione o dei diritti altrui, o per impedire la divulgazione di informazioni confidenziali o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario».
Il servizio pubblico in Svizzera e in Italia
Ispirandosi a questi principi, la Svizzera regola il servizio pubblico con la legge federale sulla radiotelevisione» e con la Concessione rilasciata all’ente televisivo svizzero (la SRG SSR idée suisse), in cui si specifica, per esempio, che «nei suoi programmi la SSR promuove la comprensione, la coesione e lo scambio fra le regioni del Paese, le comunità linguistiche, le culture, le religioni e i gruppi sociali. Essa promuove l’integrazione in Svizzera degli stranieri, il contatto fra gli Svizzeri all’estero e la patria nonché la presenza della Svizzera all’estero e la comprensione per le sue aspirazioni. Prende in considerazione le particolarità del Paese e i bisogni dei Cantoni».
Dice inoltre che con i suoi programmi la SSR deve contribuire «a) alla libera formazione delle opinioni del pubblico mediante un’informazione completa, diversificata e corretta, in particolare sulla realtà politica, economica e sociale; b) allo sviluppo culturale e al rafforzamento dei valori culturali del Paese nonché alla promozione della cultura svizzera…»; c) alla formazione del pubblico, segnatamente mediante trasmissioni periodiche di contenuto educativo….».
La Concessione dice anche che «i singoli settori dei programmi si conformano al mandato e si distinguono per la credibilità, il senso di responsabilità, la rilevanza e la professionalità giornalistica». Ce n’è quanto basta e va aggiunto che generalmente il servizio radiotelevisivo svizzero è ritenuto serio.
In Italia il servizio pubblico radiotelevisivo è regolato per il 2007-2009 (dunque in scadenza) dal «Contratto nazionale di servizio tra il Ministero delle comunicazioni e la RAI – radiotelevisione italiana s.p.a.».
All’articolo 2 si precisa fra l’altro che l’offerta dev’essere anzitutto «rispettosa dell’identità valoriale e ideale del nostro Paese, della sensibilità dei telespettatori e della tutela dei minori» ed ha tra i suoi compiti prioritari «la libertà, la completezza, l’obiettività e il pluralismo dell’informazione».
All’art. 4 si precisano le varie tipologie dell’offerta televisiva, una delle quali è l’«approfondimento». In riferimento ai temi politici si parla, credo a giusta ragione, di «confronti» (e non di semplice informazione da parte di un giornalista o un conduttore) , aggiungendo che essi potrebbero basarsi «sul contradditorio delle opinioni e delle posizioni», proprio per mettere in evidenza la completezza e il pluralismo dell’informazione da parte del servizio pubblico, lasciare ai telespettatori le proprie valutazioni conclusive.
Alcune trasmissioni di «approfondimento» sono in Italia oggetto di controversie proprio perché ritenute prive di un vero contradditorio, vistosamente pilotate, carenti sotto l’aspetto dell’obiettività e del pluralismo. Di alcune, come Annozero, si dice addirittura che siano faziose e tendenziose.
Il quarto potere
Si potrebbe dire a questo punto che «de gustibus non est disputandum», nel senso che i telespettatori possono avere legittimamente opinioni diverse, ma proprio la pluralità di opinioni e soprattutto la contrapposizione di opinioni totalmente divergenti impongono una seria riflessione sul servizio pubblico, specialmente televisivo, divenuto il quarto potere dello Stato. Ormai non si può prescindere dal fatto che i mass media possano influenzare le opinioni dell’elettorato e che il potere dei media, sebbene debba essere regolato, non può sottostare a nessun altro potere, tanto meno a quello del governo.
In questa ottica sarebbe giustificata ogni manifestazione che mirasse a garantire la libertà d’opinione e di espressione, perché è nell’interesse pubblico che i media siano liberi, anche di discutere la politica del governo e di criticarla. Ciò che non è accettabile è invece rivendicare un diritto per farne un uso improprio o addirittura illegittimo. Ma stando nel lecito, nel rispetto delle leggi e dei diritti degli altri, la libertà di opinione e di espressione è sinonimo di democrazia. Se è concessa persino all’on. Di Pietro quando apostrofa il Capo dello Stato, perché non dovrebbe essere consentita ai giornalisti e agli opinionisti?
E’ la democrazia, governo del popolo, che vuole la più ampia libertà di parola e d’informazione, senza censure e senza limiti, se non quelli dettati dalle leggi e dal buon senso. La libertà di stampa è l’unica che può mettere a nudo le debolezze i difetti dei governanti. Guai se non esistesse questa libertà, perché altrimenti il re nudo si crederebbe davvero invisibile come nella favola di Andersen e perciò inarrivabile e inattaccabile anche nel caso che usasse male il suo potere.
«Il re è nudo» della favola deve però restare una metafora. Purtroppo invece molti giornali e giornalisti vorrebbero vedere davvero Berlusconi denudato, ricorrendo persino a testimonianze di persone tutt’altro che interessate alla verità, addirittura scaltre e spregiudicate tanto da munirsi di registratori anche in camera da letto. La sfera privata delle persone e il gossip non rientrano in un sano interesse pubblico e pertanto nemmeno tra i compiti del servizio pubblico.
So che non è facile, per un personaggio pubblico, la distinzione tra pubblico e privato, ma per favore, certi luoghi e certi comportamenti non sono di alcun interesse pubblico, salvo forse per Santoro e altri come lui. I problemi di cui il popolo italiano vorrebbe essere meglio informato sono ben altri e sui quali purtroppo si fa ben poco sia in prima che in seconda serata.
Giovanni Longu
Berna, 7.10.2009

16 settembre 2009

Il paesaggio urbano di La Chaux-de-Fonds/Le Locle e il contributo italiano







All’inizio di quest’estate, due città dell’arco giurassiano, La Chaux-de-Fonds e Le Locle, hanno avuto per un giorno gli onori delle prime pagine della stampa nazionale (v. anche L’ECO del 1° luglio 2009). Il paesaggio urbano di queste due città, accomunate dalla medesima tradizione orologiera, è stato infatti riconosciuto patrimonio mondiale dell’UNESCO. Il 27 giugno 2009, a giusto titolo, i loro abitanti hanno festeggiato l’avvenimento con una grande kermesse popolare culminata con grandiosi fuochi d’artificio. La cerimonia ufficiale per l'iscrizione nella Lista dell'UNESCO avrà luogo nelle due città il 6 novembre prossimo.
Ero stato molte volte in queste due città situate nelle alture del Giura (La Chaux-de-Fonds è a 1000 metri d’altitudine) per ragioni professionali, ma non avevo mai avuto l’opportunità di fermarmi a contemplare dall’alto di una torre o di una collina la bellezza urbanistica di questi due centri dell’industria orologiera svizzera. Eppure, almeno La Chaux-de-Fonds avrebbe dovuto insospettirmi per lo speciale reticolato urbano, disegnato si direbbe a tavolino usando unicamente riga e squadra. Rivedendo la città qualche settimana fa ne sono rimasto affascinato.
Conoscevo invece la storia dell’immigrazione italiana in quella regione, molto interessante sotto il profilo culturale, ma anche professionale. Provenendo da Berna, da una regione tipicamente germanofona, mi colpiva, già negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, l’alto grado d’integrazione linguistica e sociale che gli italiani avevano raggiunto.
Quando il 27 giugno scorso gli italiani della regione hanno partecipato alla festa per l’iscrizione del loro paesaggio urbanistico nel patrimonio mondiale dell’UNESCO, non so se si sono resi conto che essi avevano almeno una ragione in più per festeggiare e gioire.
Il patrimonio urbanistico di La Chaux-de-Fonds e Le Locle risale infatti agli ultimi anni dell’Ottocento e all’inizio del Novecento, un’epoca in cui gli immigrati italiani erano reclutati a centinaia e migliaia per contribuire alla forte espansione dell’industria orologiera. Ma gli italiani non venivano chiamati per fare gli orologiai. Essi erano richiesti per costruire le fabbriche e le case degli orologiai.
Allora le attività orologiere non venivano svolte solo in fabbrica, ma anche a domicilio. Per questo le case degli orologiai erano vicine alle fabbriche. E poiché queste attività di micromeccanica richiedevano ambienti molto luminosi, quelle case erano concepite non solo per l’abitazione ma anche per le esigenze lavorative. Per esempio, dovevano essere separate le une dalle altre da un certo spazio, dovevano disporre di grandi finestre, non dovevano superare una certa altezza per non ostacolare la luminosità delle abitazioni vicine. Insomma un paesaggio urbano-industriale concepito e realizzato per uno scopo ben preciso. Questo paesaggio urbano, armonioso e funzionale, è stato ritenuto a giusta ragione patrimonio dell’umanità e dunque un bene da salvaguardare e godibile sotto il profilo turistico.
E’ indubbio che una parte del merito per questo riconoscimento spetta agli italiani che fin dalla seconda metà del secolo hanno partecipato allo sviluppo soprattutto di La Chaux-de-Fonds. Nel 1850 erano ancora pochi, ma già ben organizzati, tant’è che avevano costituito una società di mutuo soccorso. Nel 1888 erano ormai più di 500. Erano soprattutto piemontesi, lombardi e veneti, ma dalla fine dell’Ottocento cominciarono ad arrivare anche dal Mezzogiorno.
L’attività edilizia cresceva in continuazione parallelamente all’incremento della popolazione e dell’attività orologiera. Tra il 1850 e il 1890, in quarant’anni, furono costruite solo a La Chaux-de-Fonds un migliaio di case; ma tra il 1891 e il 1914, dunque in metà tempo, ne furono costruite 300 in più. Gli anni in cui si costruì maggiormente sono stati l’ultimo decennio dell’800 e il primo decennio del Novecento. Per avere un’idea dell’attività edilizia di quel periodo, basti ricordare che nell’estate del 1904 erano aperti una trentina di cantieri in cui lavoravano circa 1600 tra muratori e aiutanti. Quell’anno, agli italiani erano stati rilasciati 1162 permessi di soggiorno.
Quanti fossero in realtà gli italiani e gli svizzeri di origine italiana in quel periodo a La Chaux-de-Fonds e a Le Locle è impossibile dirlo, ma superavano probabilmente le cifre ufficiali. Con lo scoppio della prima guerra mondiale, molti italiani rientrarono in patria, altri restarono e numerosi presero la nazionalità svizzera.
Gli italiani, si sa, ritornarono in gran numero nel secondo dopoguerra. Nel 1970 ne furono censiti 5783 a La Chaux-de-Fonds e 2548 a Le Locle. Con la crisi orologiera degli anni Settanta la collettività italiana si ridusse velocemente in entrambe le città per attestarsi all’inizio dell’attuale decennio attorno alle 3500 persone. Oggi la comunità italiana è abbastanza stabile, vivace, operosa e ben integrata. Molti sono ormai gli svizzeri di origine italiana e le persone con la doppia cittadinanza.
Per chi volesse godere una splendida visione panoramica dell’armoniosa città di La Chaux-de-Fonds è sufficiente salire sulla torre panoramica al centro della città. Per godere una bella vista di Le Locle basta salire su una qualsiasi delle colline che l’attorniano. Entrambe le località meritano sicuramente una visita.
Giovanni Longu

09 settembre 2009

Pandemia da maldicenza. E la chiamano informazione!

Chi in questi mesi ha dedicato un po’ più tempo del solito alla lettura della stampa italiana allo scopo di sentirsi più informato sulla situazione generale del Paese, sull’andamento della crisi, sull’operato del governo per superarla, sulla tenuta dell’economia, sulle misure per affrontare l’incombente minaccia di aumento della disoccupazione, ecc. penso che sia stato ampiamente deluso. Personalmente ne sono stato disgustato. Le prime pagine di molti giornali sono state dedicate (e in parte lo sono ancora) a tutt’altri argomenti, che solitamente sono relegati in qualche pagina di cronaca rosa perché appartenenti alla categoria «gossip», ossia pettegolezzo, diceria, o addirittura eliminati quando certe notizie o dicerie non confermate rischiano di sconfinare ampiamente nella maldicenza, a sua volta imparentata con la menzogna e la calunnia.
Scarsi e scarni gli articoli di fondo sui veri, grandi temi del Paese, le riforme istituzionali, la situazione economica, la politica migratoria, il ruolo dell’Italia in Europa e nel mondo o qualche altro dei numerosi problemi che frenano lo sviluppo e incrinano l’immagine del Bel Paese nel mondo. Ho trovato invece un’interminabile serie di accuse reciproche tra maggioranza e opposizione, ogni sorta di pettegolezzo a sfondo sessuale riguardante il premier Berlusconi, farneticazioni sui rischi di dittatura e della perdita in Italia della libertà di stampa, un continuo sparlare degli uni contro gli altri, insomma una sorta di pandemia da maldicenza.
Trovo deprimente costatare che prestigiosi giornali d’opinione si sono prestati a supportare senza alcun senso critico insinuazioni, maldicenze, calunnie. Trovo inaccettabile che il diritto all’informazione si trasformi in licenza di sparlare, di infangare, di pubblicare illecitamente documenti riservati o secretati, di violare l’intimità. Trovo scandaloso che direttori di grandi testate si prestino per vendere magari qualche copia in più a queste meschinità senza chiedersi non tanto «a chi giova?», ma «chi può danneggiare?». Credo che in un organo d’informazione ci debba essere posto anche per le notizie riguardanti i «peccati» confessati o provati dei personaggi pubblici persino del calibro di Berlusconi. Ma che un organo d’informazione non sia più capace di esercitare il diritto-dovere della veridicità delle cose che pubblica usando illecitamente e acriticamente fonti riservate o affidandosi alle confessioni estorte o comprate di prostitute e personaggi abbastanza squallidi in cerca di notorietà, o usando «prove» provenienti da una illecita violazione della privacy, questo sì è un grave indizio di perdita della libertà d’informazione.
Che poi alcuni politici, Di Pietro in testa, invece di pensare a far pulizia in casa propria, si accaniscano a ripetere ciò che i giornali pubblicano, aumentandone l’enfasi e la cattiveria, mi sembra un indice assai preoccupante non di una difesa a spada tratta del sacrosanto diritto all’informazione, ma di una volontà di distruzione che va ben al di là della lotta politica in un Paese democratico «normale». Oggi purtroppo il dibattito politico, complice una sinistra visibilmente in difficoltà, è scaduto a gossip sulle (presunte) frequentazioni anomale di Berlusconi, sulle sue prestazioni naturali o agevolate, sempre «all’insegna della strategia del materasso (l’espressione è di Francesco Cramer), sulle domande-accuse di un quotidiano illiberale, sui pronunciamenti di emeriti e monsignori sulle debolezze del premier e, purtroppo, via dicendo. Peccato!
Credo che non stia alla stampa né agli uomini politici e nemmeno ai vescovi giudicare in piazza i comportamenti immorali (presunti) di una persona, anche se incaricata di importanti funzioni pubbliche, perché ognuno, su questa terra, è giudicato per i suoi peccati privati dalla propria coscienza. Se poi questi presunti peccati hanno una rilevanza pubblica e addirittura politica allora devono diventare oggetto di critica politica, non di censure moralistiche o di attacchi sotto la cintura. Anche senza scomodare San Giacomo, uno degli apostoli di Cristo, mi viene spontaneo chiedere a chi veste, spesso usurpandola, la toga del censore: «ma tu chi sei, che giudichi il tuo prossimo?».
Sia ben chiaro, non mi sta bene che Berlusconi dia adito con i suoi comportamenti, le sue frequentazioni e le sue uscite estemporanee e incontrollate all’astio che lo circonda e al discredito che genera nell’opinione pubblica nazionale e internazionale, ma non mi sta bene neppure che a gran parte dei politici italiani il bene dell’Italia e l’immagine dell’Italia nel mondo siano ben lontani dai loro interessi principali. Se intendono far fuori l’avversario politico, lo facciano sul terreno politico delle idee, delle proposte, delle critiche oggettive, e magari con persone diverse, meno logore.
Bene ha osservato Fini qualche giorno fa, anche se il suo intervento giunge forse troppo tardivo: «da qualche tempo in Italia non si polemizza tra portatori di idee, non si tenta di demolire un’idea ma colui che ce l’ha. Si va dritti al killeraggio delle persone, con buona pace della credibilità dell’informazione e della politica, ma anche della credibilità dell’Italia in Europa».
Giovanni Longu
Berna 9.9.2009

08 settembre 2009

La tragedia di Mattmark e gli anni della svolta (seconda parte)


Oltre duecento giornalisti svizzeri e corrispondenti esteri raccontarono al mondo con ampi servizi quel che era successo in una vallata sperduta del Vallese il pomeriggio del 30 agosto 1965, mentre centinaia di stranieri e di svizzeri costruivano una diga. Le immagini sconvolgenti della valanga che aveva stroncato la vita di 88 lavoratori furono viste da milioni di persone.
Per la Svizzera fu «un vero e proprio shock» (Gaggini Fontana). In Italia, Dino Buzzati rievocò dalla pagine del Corriere della Sera l’«amara favola» dell’emigrazione e delle sue tristi conseguenze. La sinistra passò direttamente alle accuse: «La radio governativa parla oggi di Mattmark come del ‘cantiere maledetto’. Dimentica però di dire che (…) maledetta è soprattutto quella politica che costringe i nostri uomini, le nostre forze migliori a mendicare un po’ di lavoro all’estero in condizioni di esistenza paragonabili a quelle degli schiavi» (Pasquale Stiso).
In Svizzera, politici, economisti, intellettuali e gente comune trovarono nella tragedia di Mattmark un ulteriore stimolo per approfondire il dibattito, già in corso da alcuni anni, sul senso stesso di uno sviluppo economico pressoché incontrollato che richiedeva sempre più manodopera estera, soprattutto per le grandi opere infrastrutturali (di per sé molto rischiose) e per le attività a bassa intensità di qualifica abbandonate dagli svizzeri.
Anche per la collettività italiana qui residente fu un’occasione forte per interrogarsi sul senso della sua presenza in un Paese in cui era parte attiva e persino determinante del benessere, senza per altro sentirsi accettata e corresponsabile, anzi alle prese con ventate di ostilità. Erano gli anni della svolta.
Immigrati, insostituibili eppure odiati
Agli inizi degli anni Sessanta, i lavoratori italiani erano divenuti praticamente insostituibili nella costruzione delle grandi opere idroelettriche, ma anche in alcuni comparti dell’industria svizzera. Nel lavoro erano molto apprezzati, meno dopo il lavoro, nella vita di tutti i giorni per le difficoltà di adattamento, di mentalità, di comunicazione. Gli italiani in particolare sembravano decisamente troppi (costituivano oltre il 60% degli stranieri) e ingombranti. Come scriverà più tardi Max Frisch, rivolgendosi ai suoi concittadini («un piccolo popolo dominatore si vede in pericolo: sono state chiamate forze di lavoro e arrivano persone»), gli stranieri erano benvenuti quando servivano «sul cantiere, in fabbrica, nella stalla, in cucina», ma dopo il lavoro, soprattutto la domenica, sembravano troppi. Eppure, «non divorano il benessere, anzi sono indispensabili al benessere». La xenofobia cominciava a diffondersi.
Alcuni intellettuali, come il giornalista Alfred Peter in una serie di articoli, si sforzavano di far capire che senza gli stranieri, e in particolare gli italiani, non ci sarebbe stato il benessere di cui tutti godevano: «Ohne Italiener kein Wohlstand» [senza gli italiani non c’è benessere].
Nel 1963 un certo Stocker di Zurigo fondò addirittura un partito «antitaliano», intriso di odio contro gli stranieri e in particolare gli italiani del Sud. Ma quando nell’agosto di quell’anno venne trasmessa dalla televisione svizzera una sua intervista, non si fecero attendere lo sdegno della collettività italiana e le rimostranze ufficiose e ufficiali delle autorità italiane. La televisione svizzera, che non condivideva le idee di Stocker, reagì invocando il diritto all’informazione e annunciò che in segno di «interesse e riconoscenza» verso gli italiani, si stava organizzando una emissione settimanale dedicata a loro.
Quando nel 1964, dopo una lunga gestazione, venne mandata in onda la prima trasmissione di «Un’ora per voi», il Ministro degli esteri italiano Giuseppe Saragat fece sapere agli italiani in Svizzera che per il loro lavoro e il loro comportamento si erano meritati «la stima e il rispetto delle autorità e del popolo svizzero». Davvero? Sì, confermava l’omologo svizzero, il Consigliere federale Friedrich Wahlen: «tutto il popolo svizzero prova per voi grande stima e viva riconoscenza».
L’Accordo italo-svizzero e l’avvio dell’integrazione
Evidentemente esageravano entrambi, ma esprimevano la posizione ufficiale dell’Italia e della Svizzera. Del resto, che i rapporti bilaterali stessero cambiando, in meglio, lo dimostrava l’«Accordo fra la Svizzera e l’Italia relativo all’emigrazione dei lavoratori italiani in Svizzera», siglato a Roma il 10 agosto 1964. Un accordo importante per l’Italia che riuscì a far accettare numerose rivendicazioni, ma importante anche per la Svizzera perché definì alcune linee guida della futura politica federale in materia di immigrazione.
L’Accordo italo-svizzero, entrato in vigore nel 1965, diede una forte spinta al miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro degli italiani in Svizzera. Esso determinò anche la data ufficiale a partire dalla quale le autorità svizzere s’impegnavano a favorire, «di concerto con le autorità italiane e gli ambienti interessati», l’adattamento dei lavoratori italiani e delle loro famiglie alle condizioni di vita svizzere. Era l’avvio della nuova politica svizzera dell’integrazione, anche se il termine non veniva ancora utilizzato.
L’Accordo impegnava evidentemente anche il governo italiano che, proprio in tema d’integrazione, raccomandò subito alle autorità diplomatiche e consolari e ai lavoratori italiani di fare il possibile per inserire i loro figli nella scuola svizzera. Ne andava del loro futuro.
Solidarietà e riconoscenza
In questo contesto sopraggiunse la tragedia di Mattmark. Furono in molti a rendersi conto che tra il dare e l’avere, gli stranieri davano più di quel che ricevevano, perché molto spesso davano anche la vita. Il grande slancio di solidarietà e generosità che seguì nel popolo svizzero per aiutare i parenti delle vittime e i sopravvissuti nasceva non solo dalla pietà per le vittime, ma anche da una convinzione profonda e da un sentimento di riconoscenza genuino. La tradizionale amicizia italo-svizzera ne usciva rafforzata.
Intervenendo alla seguitissima trasmissione «Un’ora per voi» del 25 settembre 1965, il consigliere federale Wahlen ribadiva la riconoscenza della Svizzera verso i laboriosi ospiti italiani e la necessità di collaborare sempre più strettamente per risolvere nel modo migliore i comuni problemi. Anche il sottosegretario agli esteri on. Storchi, nella stessa occasione, ricordava la grande ondata di simpatia, di umana comprensione, di concreta solidarietà che aveva sollevato il tributo degli operai italiani in Svizzera, contribuendo così a riavvicinare ancor di più i due popoli.
Non si potrà mai sapere quanto questa presa di coscienza e questa ondata di simpatia abbiano realmente influito sugli sviluppi dei rapporti bilaterali tra la Svizzera e l’Italia e, soprattutto, sui rapporti tra la collettività italiana e quella svizzera. Un fatto è certo, le convinzioni xenofobe non riuscirono mai a prendere il sopravvento e, proprio in quegli anni, vennero poste solide basi a quel lungo processo di avvicinamento e d’integrazione che troverà nei decenni successivi pieno compimento nelle seconde e terze generazioni.
Dalla metà degli anni Sessanta, quasi a volersi difendere dagli attacchi della xenofobia, ma anche nella consapevolezza di contare più che nel passato, si estese e rafforzò l’associazionismo. Operava in molte direzioni, quello della rivendicazione ma soprattutto quello della promozione, della difesa dei diritti dei lavoratori, dell’integrazione dei giovani soprattutto attraverso le istituzioni scolastiche e di formazione professionale, ecc.
Collaborazione e partecipazione
Nel 1966, quando per iniziativa di lavoratori italiani si realizzò un centro italo-svizzero di formazione professionale per stranieri denominato CISAP, fu come se si fosse lanciata una sfida molto ambiziosa nella strada dell’integrazione professionale e sociale degli adulti. Ebbe già sul nascere uno straordinario successo perché richiese e ottenne la collaborazione delle autorità sia italiane che svizzere federali e cantonali, dei sindacati e del padronato e non da ultimo dell’associazionismo. Nel 1972 lo stesso presidente della Confederazione Nello Celio, visitando la scuola, se ne compiacque, essendo rimasto impressionato di quanto i lavoratori possono fare se si organizzano.
La politica federale nei confronti dell’immigrazione stava cambiando, privilegiando la qualità e stabilità più che il numero e la crescita indiscriminata. Se fino al 1962 concedeva oltre 200.000 nuovi permessi annuali di lavoro, negli anni successivi andranno diminuendo in misura sempre più consistente. Per evitare una dipendenza dell’economia svizzera dalla manodopera straniera il Consiglio federale cominciò a introduce misure di limitazione degli stranieri e l’industria fu indotta a fare sforzi di razionalizzazione.
La riduzione interessò anche gli immigrati italiani, ma solo marginalmente. Gli italiani, ormai, avevano meno bisogno di prima di cercare lavoro all’estero. In Italia era in atto il boom economico e la disoccupazione era al suo minimo storico (1962-63). Dopo aver raggiunto il numero massimo d’ingressi nel 1962 con 143.054 persone, da allora gli arrivi dall’Italia tenderanno progressivamente a diminuire, mentre aumenteranno i rientri fino a avere nel 1970 e poi dal 1972 in poi un saldo migratorio sempre negativo. Parallelamente cresceva il livello d’integrazione, soprattutto delle seconde e terze generazioni.
La collettività italiana in Svizzera resterà comunque saldamente sempre la più numerosa e, grazie all’incremento naturale, la sua consistenza è abbastanza stabile, tant’è che ancora oggi si aggira sul mezzo milione, compresi ovviamente i doppi cittadini.
Giovanni Longu

02 settembre 2009

La tragedia di Mattmark e gli anni della svolta (prima parte)


Anche quest’anno non può passare inosservato l’anniversario di quell’enorme disgrazia che il 30 agosto 1965 colpì duramente la collettività italiana in Svizzera. In quel finale di agosto di 44 anni fa, a Mattmark, poco al di sopra dei 2000 metri nell’alta valle di Saas in Vallese, stava per essere ultimata una diga di grandi dimensioni. Era un lunedì e molti lavoratori erano appena tornati dalle ferie di Ferragosto. Erano oltre 600 persone, di cui più di 400 italiani, provenienti da molte regioni d’Italia.
Il grosso dei lavori doveva essere terminato prima dell’inverno. Per questo si lavorava freneticamente, a turni, giorno e notte. Al momento della catastrofe erano in azione decine di bagger, bulldozer, camion con altrettanti conduttori e aiutanti. Anche le officine, le baracche, la mensa erano in esercizio. Quel lunedì, in fondo alla valle di Saas, dicono le cronache, splendeva il sole, ma oltre i 2000 metri faceva freddo. Nulla lasciava presagire la tragedia.
Mi pare opportuno rievocare quel tragico evento, non solo per onorare le numerose vittime, ma anche per ricordare che in quegli anni Sessanta la collettività italiana stava attraversando un periodo cruciale. La disgrazia di Mattmark, per la sua gravità e per la sua copertura mediatica, fece dell’immigrazione in Svizzera un problema nazionale. Essa contribuì anche a far prendere coscienza agli italiani, che costituivano il gruppo straniero più consistente, dei loro problemi e delle soluzioni possibili.
La tragedia di Mattmark
Dapprima i fatti. Per cercare di capire l’accaduto, è opportuno ricordare che la diga di Mattmark non è in calcestruzzo ma del tipo «in terra», ossia costituita prevalentemente di pietrame e altri materiali sciolti, prelevati sul posto dalle morene formate nel tempo dal sovrastante ghiacciaio Allalin, uno dei più importanti della Svizzera.
Data la base (370 m) e l’altezza (120 m) della diga, il suo riempimento richiedeva una quantità enorme (circa 10 milioni e mezzo di metri cubi) di materiale. Per questa ragione il cantiere era stato allestito proprio nel cono di deiezione del ghiacciaio, tra le due morene principali, ai piedi della diga. Evidentemente il gigante Allalin era stato ritenuto «tranquillo», quasi dormiente. Invece se ne stava lì come ad osservare dall’alto quel che poche centinaia di metri più sotto stava accadendo.
I lavori procedevano secondo i piani, senza intoppi, come rivelava anche un breve filmato del Cinegiornale svizzero girato il 26 agosto 1965, quattro giorni prima della disgrazia. Decine di bulldozer, bagger, camion in movimento. Nessuno degli addetti si sentiva per così dire minacciato o intimorito dalla vicinanza al ghiacciaio. Ciò che i piani non prevedevano, come è già successo altre volte in passato e, purtroppo, succederà ancora in futuro, è quel maledetto pericolo che è sempre in agguato e talvolta, improvvisamente e inaspettatamente, sembra prendersi la rivincita sulla presunta onnipotenza dell’uomo.
Fu così che il 30 agosto 1965, alle 17.30, il ghiacciaio Allalin, come un drago inferocito, scaraventò a valle immensi blocchi di ghiaccio e detriti (forse un milione di metri cubi) travolgendo tutto e tutti quelli che incontrava nella vorticosa discesa. Il terribile boato fu udito a chilometri di distanza.
La gravità della disgrazia è data da alcune cifre. Un intero cantiere di vaste proporzioni andò interamente distrutto. Persero la vita 88 persone, di cui 56 italiani, 23 svizzeri, 4 spagnoli, 2 austriaci, 2 tedeschi e un apolide. Pochi dei presenti sul cantiere si salvarono. Uno di essi, uno dei pochi ancora in grado di descrivere i fatti, il friulano Ilario Bagnariol, frastornato dal rumore del suo bulldozer, non udì neppure quel boato maledetto, ma vide dall’alto della morena su cui stava lavorando tutto il disastro sottostante. Colleghi di lavoro, baracche, macchinari, tutto era stato travolto e stritolato.
Fortunatamente la sciagura non avvenne al cambiamento dei turni. Le conseguenze sarebbero state ancora più spaventose ed il numero delle vittime almeno due volte più grande. Era infatti in questo cantiere che i subentranti prendevano le consegne da chi aveva finito il turno. Il campo base era situato a valle, a circa sei chilometri dalla diga. Qui si trovavano gli uffici della ditta appaltatrice e gli alloggi degli operai, che di lì partivano ogni giorno per i vari cantieri. Per un certo tempo, dunque, due gruppi si ritrovavano contemporaneamente nello stesso posto.
I lavori di soccorso iniziarono immediatamente e nei primi giorni proseguirono anche in condizioni estreme, giorno e notte, nella speranza di ritrovare ancora qualcuno vivo. Quando fu evidente che non potevano più esserci sopravvissuti, si cominciò a recuperare le salme. Fu un’impresa delicata e per certi versi anche rischiosa per il pericolo di nuove valanghe o di caduta di lastroni di ghiaccio. Gran parte delle vittime giacevano sotto una ventina di metri di ghiaccio e detriti. Il recupero richiese diversi mesi, anzi l’ultimo corpo venne ritrovato e identificato quasi due anni dopo, il 18 agosto 1967, pochi giorni prima dell’inaugurazione della diga. L’identificazione delle vittime fu talvolta difficile e penosa. Ne sa qualcosa il sopravvissuto Bagnariol, perché a volte si trattava di ricomporre un corpo maciullato da enormi massi di ghiaccio duri come pietre.
Cause e responsabilità
Lo sconcerto per l’accaduto provocò inevitabilmente numerose domande sulle cause e sulle eventuali responsabilità. Non si arrivò mai ad avere risposte definitive e ineccepibili nonostante le inchieste e i processi. I pareri degli esperti circa l’imprevedibilità dell’accaduto e l’ininfluenza dei lavori del cantiere (sbancamento delle morene, scoppio di mine, grandi movimenti di terra e di roccia, i forti sbalzi di temperatura di quell’estate, il rumore fragoroso dei macchinari) non riuscirono a convincere tutti. Non è infatti immaginabile che un pezzo di ghiacciaio di vaste proporzioni si stacchi improvvisamente e precipiti a valle, senza una ragione che ne spieghi la dinamica.
Sicuramente non fu, com’è stato scritto, «una catastrofe annunciata» e nemmeno una «fatalità». E sebbene i tribunali di prima e seconda istanza abbiano assolto i presunti responsabili (progettisti e responsabili del cantiere) dall’accusa di «omicidio per negligenza», resta sempre il dubbio se le precauzioni e le misure di sicurezza fossero adeguate. Tante domande restano ancora aperte. Perché il ghiacciaio non è stato monitorato costantemente? Perché è stato ignorato l’avvertimento di un anno prima della Commissione federale dei ghiacciai che considerava instabile e pericoloso il fronte dell’Allalin? Perché sono stati sottovalutati certi segnali come la caduta di piccoli blocchi di ghiaccio e l’aumento repentino di alcuni flussi d’acqua? E soprattutto, perché non è stata ritenuta la pericolosità di collocare il cantiere proprio nella traiettoria obbligata del ghiacciaio delimitata da due enormi morene, nell’eventualità di un avanzamento del ghiacciaio o di eventuali distacchi di lastroni importanti di ghiaccio? Perché, per precauzione, il cantiere non è stato sistemato al di fuori del cono di deiezione del ghiacciaio?
Sono domande alle quali nessuno potrà mai dare risposte certe e non è più tempo per fare nuovi processi, nemmeno virtuali. Ma se si esclude la «negligenza» da cui sono stati assolti tutti gli imputati nei processi di primo e secondo grado nel 1972, è forse esagerato affermare che si è trattato almeno d’imprudenza, di sottovalutazione del pericolo e magari di codardia per non aver spostato il cantiere per prudenza? Anche per questi dubbi, non solo i parenti delle vittime, i sopravvissuti e i rappresentanti del mondo del lavoro, ma una gran parte dell’opinione pubblica giudicarono quelle sentenze di assoluzione «scandalose».
Sgomento e solidarietà
In poche ore la notizia della catastrofe fece il giro del mondo. Era la disgrazia sul lavoro più grande conosciuta dalla Svizzera. Ci fu sconcerto e rabbia nella vallata del Saas. L’angoscia dominava i sopravvissuti. Lo sgomento attraversò in lungo e in largo il mondo politico, le chiese, i sindacati, la stampa, soprattutto in Svizzera e in Italia. Per diversi giorni i sentimenti si mescolarono vorticosamente, passando dal senso d’impotenza alla rabbia, dall’accusa alla solidarietà, dal desiderio di giustizia alla pietà.
Poiché le vittime più numerose erano italiane, accorsero dall’Italia in gran numero uomini politici, sindacalisti, giornalisti, preoccupati apparentemente più degli aspetti giuridici e assistenziali che del sostegno anche psicologico delle vittime. Il cronista svizzero Dario Robbiani raccolse lo sfogo del viceconsole di Briga Odoardo Masini, un uomo che si era prodigato in ogni modo per aiutare le vittime e i sopravvissuti, riguardo a certe visite: «Poi sono arrivati i deputati e i sindacalisti comunisti. Hanno detto che era colpa di questo e di quest'altro, che bisognava costruire uno sbarramento di cemento armato per isolare il ghiacciaio, e contenere la morena con muraglioni. Allora sono scoppiato: - Sì, adesso voi rimproverate agli svizzeri di non aver messo il bichini al ghiacciaio. Non hanno più parlato. Mi facciano il piacere: è perlomeno di cattivo gusto fare polemiche del genere sopra ottantotto bare».
Nell’apprendere la tragedia, L’Osservatore Romano, organo del Vaticano, aveva esortato in una nota sotto il titolo «Lutto comune»: «più urgente, più imperativo, più categorico, si rivela ora il dovere di solidarietà per i superstiti. Bisogna consolare, riconfortare e soprattutto aiutare le famiglie delle vittime. Che la società umana non si mostri avara nei confronti di coloro che offrono al progresso tecnico il sangue vivente del sacrificio della loro vita o dei loro sentimenti».
In effetti, in tutta la Svizzera, che ospitava allora circa 700.000 lavoratori stranieri, insieme allo sgomento per l’accaduto, prevalse un enorme senso di solidarietà e di sostegno. Fu come se quell’abbraccio di morte che aveva ucciso indiscriminatamente stranieri e svizzeri si fosse trasformato in un abbraccio di solidarietà universale. Il popolo svizzero, di fronte a queste avversità, sa reagire con una generosità straordinaria. Intanto la politica migratoria stava cambiando. (Fine prima parte)
Giovanni LonguBerna 02.10.2009

19 agosto 2009

Emigrazione e integrazione: meno retorica e più chiarezza

Odio la retorica e la demagogia. La tragedia di Marcinelle prodottasi in Belgio 53 anni fa è solo un triste evento da ricordare, non da celebrare e strumentalizzare. Nella «Giornata del sacrificio del lavoro italiano nel mondo», l’8 agosto scorso, la catastrofe mineraria di Marcinelle avrebbe dovuto rappresentare un simbolo di tutte le disgrazie patite dall’emigrazione italiana nel mondo e un’occasione per ricordare la fatica, la sofferenza e talvolta la morte di migliaia di emigrati. Non mi sembra che sia stato così.
Molti uomini politici (e qualche donna) sembra che abbiano colto al volo la commemorazione di Marcinelle, assai mediatizzata, per poter dire «c’ero anch’io» e lasciarne testimonianza in discorsi da affidare agli atti.
Confusione e buonismo
A dire il vero, leggendo molti di questi discorsi integrali o riassunti, riportati dalle agenzie, vi ho trovato ben poco di nuovo e molto di circostanza o addirittura fuori tema. Solo pochi, a mio avviso, hanno centrato il senso della commemorazione. Altri, più che al ricordo, hanno diretto l’attenzione al presente, spesso in chiave polemica e aggiungendo confusione a confusione. Com’è possibile, ad esempio, che non sia definitivamente acquisita la distinzione tra immigrazione «regolare» e immigrazione «clandestina», tra immigrati per motivi di lavoro e rifugiati per motivi politici o religiosi? Perché non si riserva il termine «immigrati» unicamente a coloro che entrano in Italia per motivi di lavoro e nel rispetto della legislazione in materia? Questi immigrati meritano grande rispetto e riconoscenza.
Il buonismo con cui si vorrebbe accreditare anche i «clandestini» come immigrati o rifugiati danneggia gli uni e gli altri. E non si può invocare per i «poveri clandestini» una sorta di occhio di riguardo, cercando magari un sostegno improprio nel fatto che anche tra gli italiani del dopoguerra c’erano molti clandestini. Non si può dimenticare che da allora, nel mondo intero, molte circostanze sono cambiate e la «clandestinità», il nascondersi e non farsi trovare, è un reato ovunque e nessuno Stato potrebbe tollerarlo.
Non solo diritti, ma anche doveri
Per confondere ulteriormente i termini del problema, diversi interventi hanno fatto appello al rispetto della dignità umana per tutti, compresi i clandestini, come se l’applicazione di qualunque legge possa prescindere, anche nei casi più gravi, dal rispetto che si deve sempre e comunque alla persona. Un conto è il rispetto per la persona e cosa ben diversa esigere, anche con la forza se necessario, l’osservanza delle regole. Del resto, nel caso dei clandestini non si capisce perché dovrebbero godere di certi diritti tipici di chi agisce nella legalità senza esigere anche da loro di ottemperare ai doveri corrispondenti. I critici del «reato di clandestinità» dovrebbero avere almeno il coraggio di riconoscere che i clandestini non sono proprio del tutto in regola con la legge («uguale per tutti») e con i «doveri».
In questo contesto, mi ha sorpreso l’affermazione del segretario generale del CGIE Carozza, secondo cui: «rievocare i morti di Marcinelle senza riconoscere pari dignità e diritti a chi, come loro, lascia la propria terra e la propria famiglia per cercare lavoro e futuro, significa sminuire del valore umano e storico il loro sacrificio». A chi allude Carozza? Chi vuole sminuire il valore umano di chi lavora nel rispetto delle regole? Mi sembra che la lotta alla clandestinità vada proprio nella direzione di salvaguardare la dignità e i diritti dei lavoratori onesti e rispettosi delle leggi.
E quando Carozza afferma che «oggi come ieri, i migranti vengono, troppo spesso e tout court, considerati elementi di pericolosità sociale», non bisognerebbe dimenticare che se nella percezione della collettività c’è troppa criminalità attribuita agli stranieri è anche dovuto ai molti reati commessi proprio da clandestini. Una ragione in più, dunque, per combattere la clandestinità, che finisce per danneggiare ulteriormente gli immigrati regolari e onesti.
Un’ovvietà, in questo contesto, anche quanto affermato dal presidente della Camera dei Deputati Fini, presente a Marcinelle: «il lavoratore va rispettato anche se non ha les papiers, i documenti». Certo! Ogni persona in quanto tale va rispettata, anche se clandestina. Ma come si fa a far godere dei diritti civili un clandestino, quando non lo si conosce nemmeno perché clandestino o perché è il primo a non rispettare gli altri e le leggi del Paese che lo ospita?
Emigrazione e integrazione
A un certo punto, nel suo intervento, l’on. Fini ha lanciato anche un breve richiamo a «quegli esponenti politici che oggi in Italia rappresentano una parte degli elettori del nord» perché ricordino che «l’emigrazione italiana non è stata soltanto caratteristica del nostro meridione», ma ha coinvolto anche veneti, piemontesi, lombardi. E’ vero, ad emigrare ad esempio in Svizzera (il primo Paese europeo ad accogliere il maggior numero di lavoratori italiani nell’immediato dopoguerra) furono soprattutto settentrionali, ma bisognerebbe anche ricordare che erano lavoratori apprezzati e generalmente soddisfatti.
Quando si parla di «emigrazione italiana» (almeno verso la Svizzera), senza connotazioni geografiche e temporali, il rischio dell’approssimazione è enorme. Oggettivamente e qualitativamente, per esempio, l’emigrazione del Nord è stata diversa da quella del Sud. Tanto è vero che, storicamente, per gli italiani la situazione in Svizzera si deteriorò con l’immigrazione di massa proveniente soprattutto dal Sud e con l’incomunicabilità che si produsse perché la maggioranza degli immigrati non conosceva la lingua locale e non aveva alcun interesse ad apprenderla.
A onor del vero, va aggiunto, che in quel periodo l’immigrazione italiana era prevalentemente stagionale, per cui i primi a non volere l’integrazione degli italiani erano gli svizzeri. Una situazione a dir poco drammatica. Oggi l’immigrazione italiana in Svizzera può essere considerata a grandi linee pienamente integrata, ma il processo d’integrazione, a differenza di altri Paesi a forte presenza d’italiani (forse con pochissime eccezioni), qui è stato fortemente rallentato non solo dalla politica elvetica che ha ostacolato per decenni la stabilità dell’immigrazione (italiana) ma anche dallo scarso interesse di molti italiani della prima generazione ad integrarsi. Per decenni, infatti, il massimo interesse degli immigrati italiani è stato rientrare quanto prima in Italia col risparmio più consistente possibile.
In questa prospettiva appare ovvio che per un lungo periodo gli italiani abbiano investito pochissimo nel vitto, nell’abbigliamento, nell’abitazione, nell’apprendimento della lingua locale, nel perfezionamento professionale e persino nell’istruzione dei propri figli. Uno dei rimproveri ricorrenti degli svizzeri agli italiani dell’immigrazione di massa degli anni Sessanta e Settanta è stato proprio quello di non volersi integrare, di non darsi spesso alcuna pena ad imparare la lingua locale e a rispettare le usanze del posto.
Integrare e integrarsi
Forse per questo, per superare le diversità e gli ostacoli, e non ripetere gli errori del passato, il presidente della Camera ha fatto bene a richiamare il tema della doverosa integrazione degli stranieri, ma si è lasciato sfuggire – se le agenzie hanno riportato bene il suo intervento a Marcinelle – un’espressione («è chiaro che dobbiamo integrarli garantendo la sicurezza…») che mi lascia perplesso. Nell’ottica di una sana integrazione, infatti, questa avviene non solo se da una parte c’è la volontà d’integrare, ma se anche dall’altra c’è la disponibilità ad integrarsi. La vera integrazione presuppone la volontà reciproca delle due parti d’incontrarsi, di rispettarsi, di camminare insieme e di collaborare.
Il tema dell’integrazione era stato ricordato da Fini leggendo il messaggio di saluto del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il quale, partendo dal «ricordo delle generazioni che hanno vissuto l'angoscioso periodo delle migrazioni dalle regioni più povere dell'Italia ed hanno affrontato condizioni di lavoro gravose ed estremamente rischiose» invitava alla riflessione «sui temi della piena integrazione degli immigrati così come su quelli della sicurezza nei luoghi di lavoro». Aggiungeva che «si tratta di esigenze sociali e civili e di diritti fondamentali, il cui concreto soddisfacimento sollecita massima attenzione ed impegni coerenti da parte delle istituzioni e di tutte le forze sociali».
A differenza di molti interventi di circostanza pronunciati a Marcinelle, il messaggio inviato dal Presidente della Repubblica, mi pare quello che meglio sintetizza il senso della giornata del ricordo delle vittime del passato e del presente.
E’ chiaro che oggi, in Italia, non si possono più fare gli stessi errori del passato e ha ragione Fini ad affermare che «coloro che pensano alle politiche dell'immigrazione considerando i lavoratori stranieri come persone che oggi servono e domani non più non hanno capito niente perché non conoscono la nostra storia e non sanno che in certi luoghi si rimane». Ma questa affermazione presuppone che gli immigrati davvero intendano restare e integrarsi.
Proprio per sostanziare il discorso dell’integrazione, oggi è quanto mai importante non privarsi della memoria del passato, che poi non è così lontano nel tempo.
Ricordare per valorizzare
E’ importante ricordare, perché ogni Paese d’emigrazione, una volta divenuto Paese d’immigrazione, tende a dimenticare con molta facilità la sua storia passata, di quando molti cittadini per sopravvivere o vivere dignitosamente dovevano cercare fortuna altrove. Anche in Italia è già in atto quella che Gian Antonio Stella ha chiamato «rimozione di una storia di luci, ombre, vergogne». Ben vengano, dunque, per rafforzare il ricordo, anche le rievocazioni dei minatori di Marcinelle o, prossimamente, dei lavoratori di Mattmark, morti sul lavoro. Ma attenti a non trasformare queste commemorazioni in passerelle per personaggi noti e meno noti in cerca di visibilità od occasioni ghiotte per lanciare a destra e a manca allusioni e accuse che con la storia e il ricordo hanno ben poco a che fare.
Attenti anche a non strumentalizzare questo tipo di ricorrenze in chiave politica, ad esempio per lanciare messaggi al governo o mostrare una fittizia comunanza d’intenti tra maggioranza e minoranza. Se all’on. Di Biagio (PdL) piace tanto che quest’anno la «celebrazione di Marcinelle» si sia svolta «in una cornice bipartisan», mi convince di più l’on. Farina (PD) quando dice: « Noi ogni anno veniamo qui a Marcinelle non a celebrare un triste rito. Veniamo qui a ricordare (…) il sacrificio dei lavoratori per costruire la società del benessere. È stato il lavoro, sono stati i lavoratori, non dimentichiamolo mai, la locomotiva del progresso e dell’industrializzazione diffusa».
Penso che ricordare Marcinelle e altri luoghi simili sia soprattutto un atto di coscienza, un esercizio di memoria su quel che è stata l’emigrazione italiana, nel bene e nel male, e di riflessione su quel che non dovrebbe essere oggi l’immigrazione in Italia.
Non so poi se le vittime di Marcinelle, di Mattmark, del San Gottardo o del Lötschberg vanno celebrate come «eroi» portatori-esportatori di virtù quali l’onestà, il coraggio, lo spirito di sacrificio e altre virtù ricordate da diversi esponenti presenti a Marcinelle. Non erano certo peculiarità che avevano in esclusiva. Credo che le vittime vadano ricordate e onorate semplicemente come vittime, sacrificate sull’altare del progresso e del benessere a tutti i costi.
Attenti anche a non considerare la tragedia di Marcinelle «l’emblema del lavoro italiano nel mondo» (l’espressione è di Fatuzzo, del Partito dei Pensionati). Il lavoro italiano nel mondo può avere ben altri emblemi, basti pensare alle gallerie ferroviarie alpine che hanno superato o stanno per superare in eccellente forma il secolo di vita o ancora, per restare in ambito svizzero, alle colossali dighe che resistono imperturbabili alla pressione di milioni di metri cubi d’acqua per l’approvvigionamento elettrico di questo Paese. Non sono le disgrazie l’emblema, semmai, il neo che finisce per evidenziare ancor di più la grandezza e la bellezza del lavoro italiano nel mondo. Girando per la Svizzera, a ben osservare quanto è stato realizzato dagli italiani o con gli italiani, c’è da restare inorgogliti.
E’ giusto e doveroso ricordare le tragedie dell’emigrazione italiana. Ma è certamente venuto il tempo di valorizzare maggiormente anche l’eredità simbolica e materiale che la storia dell’emigrazione italiana ci ha affidato. Ben venga, dunque, la legge proposta dall’on. Porta (PD) e altri «per rendere obbligatorio l’insegnamento della storia della nostra presenza nel mondo in tutte le scuole di ogni ordine e grado».
Giovanni Longu
Berna 18.08.2009

05 agosto 2009

60 anni fa, quando la Svizzera spalancava le porte all’immigrazione italiana

Per parecchi decenni, già nell’Ottocento, ma soprattutto nel Novecento, per molti italiani la Svizzera ha rappresentato una meta ambita per trovare un lavoro e fare fortuna. Ci furono comunque alcuni anni, nell’immediato dopoguerra, in cui la Svizzera ha goduto di un forte potere d’attrazione, anche perché è stata uno dei primi Paesi con cui l’Italia ha potuto concludere un accordo di emigrazione, per di più senza contingenti fissi, a differenza degli altri accordi che prevedevano sempre un numero determinato di lavoratori.
Prima ancora che si concludesse, nel 1948, l’Accordo italo-svizzero d’emigrazione, gli italiani arrivavano in Svizzera a decine di migliaia. Già nel 1946 ne erano giunti quasi 50.000, nel 1947 quasi il doppio e nel 1948 oltre 100.000. E questo nonostante che nel Nord Italia fosse già cominciato il boom economico. Sembrava che la Svizzera fosse in grado di accogliere chiunque avesse voglia di lavorare nell’agricoltura, nell’edilizia, nei servizi domestici, nell’industria. Fu così che oltre gli immigrati «regolari» con tanto di contratto di lavoro, passaporto e visti dell’Ambasciata italiana di Berna, giungevano anche molti «irregolari», ossia col solo passaporto turistico. Per la Svizzera erano tutti benvenuti, purché in possesso di un contratto di lavoro (allora facile da ottenere) e del permesso di soggiorno (anch’esso facile da ottenere se c’era quello di lavoro). A lamentarsene erano le autorità italiane, perché non riuscivano a tenere sotto controllo il flusso migratorio.
Agli italiani immigrati erano garantite condizioni di lavoro e salariali equivalenti a quelle dei lavoratori svizzeri dello stesso ramo e con la stessa qualifica. Ufficialmente non esisteva alcuna discriminazione. Solo in materia di alloggio, la distanza tra svizzeri e italiani era grande, perché gli stagionali dovevano accontentarsi di baracche. Alcune lacune di natura assicurativa vennero colmate con la prima Convenzione sulla sicurezza sociale del 1949.
Con l’Accordo di emigrazione del 1848 e la Convenzione del 1949, l’Italia si era garantita con la Svizzera non solo uno sbocco sicuro per la propria emigrazione («il nostro bisogno di sbocchi è immenso» andava asserendo il ministro del lavoro Amintore Fanfani), ma anche una destinazione vantaggiosa sia per le rimesse degli emigrati e sia per le condizioni di lavoro, retributive e assicurative dei lavoratori.
In occasione dell’approvazione, senza opposizione, della Convenzione sulla sicurezza sociale da parte della Camera dei deputati, il relatore della legge di ratifica così aveva risposto ai pochi dubbiosi: «Permettete che io ricordi che, se è vero che l’accordo tratta quasi esclusivamente delle pensioni di vecchiaia per i superstiti, è anche vero che gli italiani in Svizzera fruiscono di taluni benefici di cui i nostri lavoratori non fruiscono in Italia». E ancora: «Per quanto riguarda gli assegni familiari, il sussidio di disoccupazione e assistenza malattie, il lavoratore italiano ha lo stesso trattamento che viene usato, cantone per cantone, nei diversi cantoni svizzeri al cittadino svizzero. Quindi, il lavoratore italiano che presta la sua opera in Svizzera, ha la stessa tutela che gode il lavoratore elvetico».
Il relatore aveva poi concluso: «Chi conosce la Svizzera sa quale spirito di cordialità essa ha verso l’Italia; chi, come me, vive alle frontiere con la Svizzera, ha sentito vicino il cuore degli elvetici in momenti tutt’altro che facili per noi italiani e sa che effettivamente, con questo accordo, la Svizzera ha fatto con noi un atto di rinsaldata amicizia nel campo del lavoro».
Occorre ricordare che la manodopera italiana che entrava in Svizzera nei primi anni del dopoguerra era soprattutto stagionale, ma non andava allo sbaraglio. Nelle principali destinazioni ritrovava facilmente connazionali e addirittura corregionali perché gli italiani residenti stabilmente erano alla fine della guerra circa 100.000, in maggioranza provenienti dal Nord Italia come i nuovi immigrati. Anche questa vicinanza contribuiva a sdrammatizzare la condizione dell’emigrante lontano da casa.
La stampa italiana e gli emigrati
La stampa italiana del dopoguerra non s’interessò subito al fenomeno migratorio in Svizzera, ma dal 1948 sempre più frequentemente si occupò della Svizzera e degli immigrati italiani. I toni erano per lo più elogiativi, esaltavano soprattutto le «virtù elvetiche», raramente accennavano a qualche episodio d’intolleranza o di discriminazione.
Sul finire degli anni Quaranta pubblicarono articoli e reportage sulla Svizzera il Corriere della Sera, il quotidiano del Partito Socialista dei Lavoratori Italiani L’Umanità, L’Italia di Milano e altri.
Il 4.8.1949, il Corriere della Sera dedicava un articolo agli italiani che lavoravano nel Cantone Argovia, soprattutto nelle aziende della Brown Boveri e C. di Baden, intitolato: «Perfettamente ambientati i nostri operai in Svizzera». Di questi diceva: «Tra gli italiani abbondano i lombardi, i veneti, i toscani e, chissà perché, i napoletani. Guadagnano bene, molti vivono modestamente in baracche, comperano i giornali nostri e vanno a passare un po’ di tempo in stazione, luogo di ritrovo con libero accesso, dove tra l’altro c’è il passatempo di veder passare ogni tre minuti un treno…».
«La ragione per la quale gli italiani si trovano benissimo è che sono rispettati, trovano dovunque cortesia, fermezza, regolarità, comprensione». Del resto, osservava il giornalista, tutto sembra funzionare a dovere in questo Paese: le aziende («ove non si discute né si litiga perché tutti fanno il loro dovere e si comprendono secondo le attribuzioni e il grado gerarchico dal fattorino al direttore»), i ristoranti, gli ospedali («un modello di precisione e di pulizia»), le ferrovie, le poste, i telefoni, gli uffici pubblici. Insomma, «riuscirebbe difficile trovare un motivo di critica tanto più che qui la parola Arbeit è vita, è sollievo, e non un culto d’una gelida deità; anche nel lavoro v’è comprensione, umanità e nessuno esagera. Ecco perché gli italiani si trovano subito bene, apprezzano l’organizzazione di questa gente sempre rispettosa e che non vocia mai; e ognuno finisce per apprezzare i vantaggi d’una vita così calma, laboriosa e civile».
Dagli inizi degli anni Cinquanta, la stampa italiana non fu più unanime nel descrivere la situazione della Svizzera. Accanto a voci ancora ispirate all’ottimismo ce n’erano talune che lasciavano trasparire le difficoltà che incontravano molti emigrati italiani.
Giovanni Longu
Berna 5.8.09

22 luglio 2009

Marcinelle e l’immigrazione clandestina

Conviene precisare subito che tra Marcinelle (Belgio), luogo storico di una delle più gravi disgrazie dell’emigrazione italiana nel mondo e l’immigrazione clandestina non c’è alcun legame né geografico né temporale. C’è solo una dichiarazione di qualche settimana fa dell’ex ministro degli italiani all’estero Mirko Tremaglia, che nell’esprimere la sua contrarietà all’ancoramento nella legge sulla sicurezza del «reato di immigrazione clandestina» ricordava che, da ministro, uno dei suoi primi atti era stato quello di recarsi a Marcinelle per rendere omaggio a quei 136 italiani emigrati in Belgio, che l’8 agosto 1956 erano morti nella miniera di Bois du Cazier.
Nella stessa occasione, Tremaglia ricordava anche che fu lui a proporre l’8 agosto di ogni anno quale «Giornata nazionale del sacrificio del lavoro italiano nel mondo», a significare «che gli italiani nel mondo, che hanno subito persecuzioni ingiuste, vengono da allora esaltati ovunque. Questo appartiene alla Storia». Purtroppo appartengono alla storia dell’immigrazione «regolare» italiana anche i guai ch’essa ha subito, ad esempio in Svizzera, a causa dei numerosi infiltrati clandestini già ai tempi dei grandi trafori ferroviari e nel secondo dopoguerra. Ma forse per l’ex ministro questi guai sono insignificanti.
L’on. Tremaglia non può tuttavia confondere l’immigrazione clandestina con l’immigrazione «regolare». I 136 italiani periti a Marcinelle erano emigrati «regolari» perché l’emigrazione in Belgio era retta da un Accordo bilaterale. E quando l’8 agosto di ogni anno si ricorda il sacrificio del lavoro italiano nel mondo è giusto ricordare tutti gli emigrati italiani che hanno onorato l’Italia col loro lavoro e talvolta con la loro vita, ma senza ignorare che nella stragrande maggioranza si è sempre trattato di donne e uomini rispettosi delle leggi del Paese di accoglienza.
Mi rendo ben conto che voler regolare l’enorme problema dell’immigrazione con qualche legge per di più molto controversa è pretendere l’impossibile, ma non si può non cominciare a creare una base giuridica chiara per giustificare le necessarie misure di contrasto all’immigrazione illegale a favore di quella legale. Il reato di immigrazione clandestina ha sollevato numerosi interrogativi e critiche (ma esiste qualche legge che non sia criticabile?), ma nel caso specifico il clamore suscitato (spesso in maniera strumentale) è francamente esagerato, anche perché tutto, ma veramente tutto, dipenderà da come la nuova legge sulla sicurezza verrà interpretata e applicata.
Attenti però al buonismo gratuito e facilone. Tutti vorremmo una società più comprensiva e più accogliente soprattutto nei confronti dei più diseredati della terra. E non è difficile capire che «se gli uomini fussino tutti buoni», per dirla col Machiavelli, non ci sarebbe bisogno di leggi, perché «dove una cosa per sé medesima senza legge opera bene, non è necessaria la legge; ma quando quella buona consuetudine manca, è subito la legge necessaria».
Questa è purtroppo la realtà: insieme a tanti immigrati regolari (ossia in regola con le leggi) ve ne sono parecchie migliaia di irregolari (ossia in violazione delle leggi che regolano l’ingresso e il soggiorno in Italia), che nessuno Stato sovrano può tollerare. Per cui una legge che consenta l’individuazione ed eventualmente l’espulsione dei clandestini è necessaria. Si badi bene, anche nel caso di richiedenti l’asilo l’individuazione è necessaria per verificare la sussistenza dei requisiti per chiedere asilo.
Perché dunque ritenersi «offesi» dall’introduzione di questo reato nella legislazione italiana, se la legge è fatta apposta per regolare e migliorare le condizioni generali dell’immigrazione? Se c’è uno scandalo, non è tanto dovuto a questa legge e a questo reato, quanto il dover costatare che esiste ancora nel mondo non solo l’emigrazione forzata a causa della miseria e della fame, ma una vera e propria tratta di moderni schiavi per le società industrializzate. Ed è scandaloso che dopo le innumerevoli analisi teoriche e statistiche sulle migrazioni mondiali, la comunità internazionale, soprattutto i Paesi ricchi delle Nazioni Unite e dell’Europa, i grandi beneficiari del fenomeno migratorio, non siano ancora riusciti a eliminare alla radice le principali cause dell’emigrazione forzata (fame, sottosviluppo, malgoverno), creando nei Paesi d’origine degli emigranti condizioni di vita e di lavoro dignitose.
Questa costatazione non può tuttavia indurre né l’on. Tremaglia né molti come lui a confondere gli immigrati (regolari) con i clandestini (illegali). Non è accettabile e rispettoso nei confronti di quanti osservano pienamente la legge, confondere gli uni con gli altri. E’ semplicemente fazioso e demagogico ritenere che «il reato di immigrazione clandestina vuol colpire emigranti che non hanno commesso alcun reato specifico contro la legge e che non hanno offeso alcun diritto altrui (…), milioni di persone che lavorano o vogliono lavorare in Italia». E sbaglia Tremaglia a ritenere l’introduzione di questo reato nella legge sulla sicurezza come una «offesa a quanti nel mondo sono costretti a vivere ed operare al di fuori dei loro Paesi di origine». L’immigrazione clandestina è un reato specifico perché espressamente previsto dalla legge, che non intacca minimamente i diritti dei migranti regolari e tantomeno quelli dei richiedenti l’asilo nella legalità.
Se uno Stato non avesse il potere di contrastare il fenomeno dell’illegalità si esporrebbe a gravissimi rischi. E’ evidente che non tutti i clandestini vanno considerati criminali (reato e crimine non sono sinonimi), ma non si può negare che molti clandestini finiscono spesso nelle maglie della criminalità organizzata. Non perseguire i clandestini significherebbe non solo lasciare a piede libero molti autentici delinquenti, ma anche rinunciare alla lotta contro quelle organizzazioni criminali che reclutano la propria manovalanza proprio tra i clandestini.
Non credo, infine, che nella nuova legge si debba considerare solo l’aspetto repressivo. Ritengo anzi che il suo vero scopo sia quello di favorire l’immigrazione regolare e la sua integrazione nel tessuto della società civile ed economica italiana. Del resto, l’avallo della legge da parte del Capo dello Stato, sia pure con alcuni rilievi critici, non lascia alcun dubbio sulla legittimità del provvedimento. La sua corretta e giudiziosa applicazione dipenderà non solo da chi sarà tenuto ad applicarlo, ma anche da tutte le forze politiche che, invece di litigare continuamente, farebbero meglio a concentrare i loro sforzi al fine di rendere l’immigrazione in Italia una vera risorsa e scoraggiare ogni forma d’illegalità.
Giovanni Longu
Berna 22.07.2009

08 luglio 2009

Le attività culturali degli svizzeri… e degli italiani

Non è una novità che nelle statistiche internazionali la Svizzera si affermi come una delle nazioni a più alto consumo culturale. Lo confermano anche i dati più recenti di un’indagine condotta dall’Ufficio federale di statistica (UST) in collaborazione con l’Ufficio federale della cultura (UFC). Ecco qualche cifra significativa:
- Nel 2008, a cui si riferiscono i dati, quasi 9 persone su 10 ascoltavano musica e di esse quasi la metà lo faceva quotidianamente;
- i due terzi della popolazione residente in Svizzera hanno frequentato concerti (67%), visitato monumenti storici e siti archeologici (66%) o sono andati al cinema (63%);
- tra il 40 e il 50% delle persone si è recato in musei storici, tecnico-scientifici, regionali, ecc. (49%), ha frequentato spettacoli di altro genere (cabaret, circo, spettacoli di luci e suoni, ecc. 44%), visitato musei o gallerie d'arte (43%) o è andato a teatro (42%);
- circa un terzo della popolazione ha frequentato biblioteche nel tempo libero (36%) o partecipato a festival (35%), e un individuo su cinque si è recato in biblioteca per motivi di lavoro o di formazione (21%), o ha assistito a spettacoli di ballo o danza;
- quasi il 30% delle persone dai 15 ai 29 anni ha praticato la fotografia a livello amatoriale; un quarto delle donne si è dedicata alla pittura o alla scultura e il 15% ad attività artistiche artigianali quali terracotta, ceramica, ecc.;
- il 15% della popolazione residente in Svizzera si è dedicato alla scrittura componendo poesie, scrivendo racconti o tenendo un diario.
Se si analizzano i dati secondo il grado di formazione, salta facilmente agli occhi che i maggiori consumatori di cultura sono le persone che già in partenza hanno un elevato livello culturale. La differenza maggiore è sulla frequenza. Per esempio, per la visita regolare (7 o più volte l’anno) a monumenti e siti storici o archeologici, la differenza varia dal 4% del gruppo con la sola scolarità obbligatoria al 24% del gruppo con una formazione universitaria.
Ad incidere sul consumo culturale è ovviamente anche il reddito, e lo si nota per tutti i generi di offerta, anche se tale influenza è meno marcata ad esempio per i concerti e gli spettacoli musicali in genere, come pure per il ballo e soprattutto la visita alle biblioteche.
Non va inoltre dimenticata la differenza nel consumo culturale rappresentata dall’età. Se ad andare a teatro e a visitare monumenti e siti sono soprattutto le persone dai 45 ai 59 anni, i giovani dai 15 ai 29 anni sono i maggiori frequentatori delle sale cinematografiche, ma anche dei festival, dei concerti e degli spettacoli musicali in genere. I giovani battono tutti gli altri gruppi d’età anche nella frequenza delle biblioteche e sono tra i maggiori visitatori di monumenti e siti storici e archeologici.
Questi dati si riferiscono all’intera popolazione residente in Svizzera. Il campione su cui si è basata l’indagine statistica, pur consistente, non consentiva di ottenere risultati differenziati per singole nazionalità, ma si può supporre che gli italiani possono riconoscersi, per la maggior parte delle caratteristiche rilevate, nelle medie ottenute. Del resto, secondo i responsabili dell’indagine, nel complesso «non si osservano grandi differenze tra svizzeri e stranieri, salvo per gli spettacoli teatrali e in misura minore per i concerti e altri spettacoli musicali». Si tratta di un ulteriore indicatore dell’alto grado d’integrazione della collettività italiana nella società svizzera.
Confronto con l’Italia
Non è possibile fare un confronto diretto tra la Svizzera e altri Paesi, perché non è stata effettuata un’indagine identica, con le stesse domande, e contemporanea a livello internazionale. E’ tuttavia possibile un confronto approssimativo ma significativo con i Paesi europei, perché nel 2007 nell’Unione europea (UE27) è stata realizzata un’indagine analoga. In entrambe le inchieste, infatti, si è fatto riferimento a un concetto ristretto di «cultura», ossia una serie di luoghi, istituzioni ed eventi frequentati fuori casa (assistere a un concerto, andare a teatro, partecipare a festival, visitare musei e gallerie d’arte, recarsi in biblioteca, andare al cinema, ecc.) e attività cui il singolo individuo si dedica a livello amatoriale (come suonare uno strumento, dipingere, ecc.).
Pur non trattandosi della stessa indagine, mettendo a confronto i dati svizzeri con quelli medi europei (vedi grafico) emergono alcune somiglianze e differenze significative, soprattutto se il confronto avviene con i maggiori Paesi confinanti con la Svizzera.
Dalla tabella si nota chiaramente che i dati riguardanti gli svizzeri sono molto simili a quelli dei tedeschi, mentre le maggiori differenze si osservano nei confronti con l’Italia. Per la frequenza del teatro, ad esempio, al 42% degli svizzeri corrisponde solo il 26% degli italiani, ma il 37% dei tedeschi (e il 32% della media europea). Se il 67% degli svizzeri assiste a concerti, la proporzione degli italiani è meno della metà (31%) e quella dei tedeschi del 42% (media europea: 37%). Anche nella visita a monumenti e siti storici o archeologici gli svizzeri (66%) superano di molto gli italiani (49%), ma di pochissimo i tedeschi (65%; media europea: 54%). Solo nella frequenza di spettacoli di ballo o danza, italiani (20%) e svizzeri (20%) presentano gli stessi valori.
Sulla base di questi dati non è possibile ricavare un quadro completo delle attività culturali praticate dagli svizzeri o dagli italiani, tedeschi o francesi, e tantomeno stabilire il «livello culturale» di questi popoli. Eppure si tratta di indicazioni significative sugli «orientamenti» culturali delle popolazioni analizzate e soprattutto sulla «pratica» di alcune importanti attività culturali.
Pur con tutte le riserve che è necessario fare sulla generalizzazione dei dati e sul loro significato, risulta nondimeno inevitabile osservare che gli italiani, che pure sono immersi da sud a nord in un ambiente fortemente caratterizzato dall’arte e dalla cultura, non si segnalino affatto per le loro attività culturali nel tempo libero. Su nove caratteristiche rilevate a livello europeo, solo in due superano di poco la media europea, nella frequentazione di sale cinematografiche e nell’assistere a spettacoli di danza o ballo.
Di recente si assiste tuttavia ad una maggiore frequentazione di festival, eventi culturali, musei e mostre, da parte soprattutto di un pubblico giovanile. Questa tendenza fa ben sperare, ma è ancora tutta da verificare.
E’ possibile che gli italiani, poco amanti delle attività culturali fuori casa, siano invece appassionati d’arte e di cultura dentro casa?
E’ possibile, ma con qualche riserva. Gli italiani sono sicuramente grandi consumatori di cultura (evidentemente non nel senso definito pocanzi) in televisione e alla radio (74%), di poco al di sotto della media europea (78%) e dei tedeschi (78%), ma al di sopra dei francesi (64%). Un evento culturale come la presentazione in televisione della Divina Commedia da parte di Roberto Benigni ha avuto milioni di spettatori per diverse serate. Gli italiani inoltre amano molto la musica, soprattutto il «pop italian style», ma anche il pop internazionale.
Gli italiani, invece, non sono grandi lettori di libri (63%) e si collocano ben al di sotto dei tedeschi (81%), dei francesi (71%), degli austriaci (79%) e della media europea (71%). «In Italia – ha detto qualche giorno fa il ministro dei beni culturali Bondi - abbiamo pochi che leggono moltissimo e molti che leggono poco. Questo divario va superato perché è anche un problema che incide direttamente sullo stato della democrazia nel Paese». Per rimediare al distacco che separa l’Italia dalla media europea, la Presidenza del Consiglio ha avviato recentemente una campagna da 2,4 mio di euro per promuovere la lettura in Italia. Grazie all’adesione dei ministeri dell’Istruzione e dei Beni culturali è auspicabile che fin dall’età scolare gli italiani imparino a coltivare l’interesse e il gusto per la lettura. Ma l’esempio dovrebbero cominciare a darlo gli adulti.
Giovanni Longu
Berna 8.7.2009