29 maggio 2019

Immigrazione italiana 1950-1970: 16. Comunisti ignari o temerari?



Dopo il 1945, la paura dell’infiltrazione comunista spinse le autorità federali a limitare e controllare l’attività politica delle sinistre (partiti e sindacati) e specialmente degli stranieri immigrati (allora soprattutto italiani). Tra questi, ignari o incuranti dei rischi che correvano, molti attivisti continuarono a lungo la propaganda comunista (vietata) nelle associazioni e nelle fabbriche, col supporto del Partito comunista italiano (PCI), del Partito del Lavoro (PdL) e di alcune organizzazioni di sinistra. Nemmeno le numerose espulsioni riuscirono a far loro cambiare atteggiamento. Ancor oggi permangono seri interrogativi sulle reali motivazioni degli attivisti e dei loro ispiratori, sulla consapevolezza o meno della portata delle loro azioni, sui rischi e possibili danni alla politica di concordanza praticata in Svizzera anche verso gli stranieri.


Paura dell’infiltrazione comunista
Paura dell'infiltrazione comunista!
La Svizzera, molto ospitale nei confronti dei profughi e perseguitati, non ha mai gradito che gli stranieri facessero propaganda politica sul proprio territorio, soprattutto quando poteva sembrare finalizzata alla penetrazione dell’ideologia comunista, ritenuta pericolosa per la sicurezza dello Stato e per il mantenimento delle buone relazioni con i Paesi vicini.
Questo lo sapevano bene gli emigranti di fine Ottocento, ai quali si raccomandava di astenersi «dal prender parte alle lotte locali o alle dimostrazioni politiche» e di ricordarsi sempre «di essere ospiti e non cittadini» (da un Vademecum dell’Emigrante del 1911). Lo sapevano i fuorusciti italiani durante il fascismo, che per poter restare in Svizzera dovevano astenersi dalla propaganda antifascista. Lo sapevano le autorità diplomatiche e consolari italiane dopo la revisione della legge federale sugli stranieri e relativa ordinanza d’esecuzione (1.3.1949), in cui si precisava, fra l’altro, che l’espulsione poteva essere giustificata anche «quando lo straniero contravviene gravemente o reiteratamente alle disposizioni di legge o alle decisioni dell'autorità» (ODDS 1949, art. 16, cpv. 2). Avrebbero dovuto saperlo anche le organizzazioni degli immigrati e gli stessi immigrati.
Furono numerosi, invece, gli attivisti comunisti che facevano propaganda incuranti dei divieti e, forse, facendosi scudo della loro militanza nel PdL, costituitosi nel 1944 dopo la proibizione nel 1940 del Partito comunista svizzero, ereditandone l’ideologia e almeno in parte l’organizzazione. Alcuni comunisti italiani vi avevano aderito, probabilmente per sentirsi al sicuro, trattandosi di un partito legale. Avevano persino preteso, in accordo con la direzione del PCI, di poter restare membri del PCI e di formare una specie di sezione autonoma del PdL. Di fatto avevano fondato una sezione italiana del PdL, la «Federazione di Lingua Italiana del Partito Svizzero del Lavoro» (Federazione). Il PCI, però, nella sua autonomia, cercava di estendere la propria influenza sugli immigrati italiani e sulle loro organizzazioni, in particolare le Colonie Libere Italiane (CLI), molto ben organizzate e con molti aderenti. Allo scopo venne costituita un’apposita «Commissione del Lavoro di Massa».

Manifesto anticomunista del 1935.
Schedature ed espulsioni
Molto probabilmente nessuno straniero sospettava che da tempo era attiva in alcune polizie cantonali e nella polizia federale l’individuazione e la sistematica schedatura dei comunisti più in vista. Infatti, già nel 1948 il Consiglio federale aveva fatto svolgere un’indagine sull’attività politica dei lavoratori italiani in Svizzera. Temeva che il comunismo cercasse d’infiltrarsi in tutta la collettività italiana immigrata, ormai molto consistente e ben organizzata, a cominciare dalla Federazione delle Colonie Libere Italiane. Probabilmente per dare un segnale chiaro, proprio nel 1948 ci furono le prime espulsioni del dopoguerra (dopo quelle dei fascisti) di italiani presunti aderenti al Partito comunista italiano. Le espulsioni dovevano «servire di lezione agli altri».
Quella lezione evidentemente non fu sufficiente, perché la propaganda comunista continuò e le espulsioni altrettanto. Furono soprattutto la Federazione del PdL e la Commissione a far insospettire la Procura federale. Ritenendo che potesse trattarsi di un servizio politico d’informazione con possibili funzioni di spionaggio ai danni dello Stato, il 1° giugno 1955 fu ordinata la perquisizione in diversi Cantoni di 26 abitazioni di presunti attivisti (3 svizzeri e 23 italiani) alla ricerca di materiale di spionaggio e di propaganda comunista. Non fu trovato alcun materiale di spionaggio, ma solo materiale di propaganda per il PCI, da cui risultava che erano già state costituite in molti posti cellule comuniste con almeno 5000 «compagni». Tanto bastò perché per 20 italiani venisse chiesta al Consiglio federale l’espulsione dalla Svizzera. Di fatto 16 italiani vennero espulsi.
Le espulsioni continuarono ancora a lungo, la propaganda comunista anche, la polemica sull’anticomunismo svizzero pure; raramente si è posta invece la questione sull’utilità per la collettività immigrata italiana del perdurare di una tale situazione. (Segue)
Giovanni Longu
Berna, 29.05.2019

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