La data del referendum
sulla riforma costituzionale italiana, il 4 dicembre, si avvicina e per gli
italiani residenti all’estero è imminente (voto per corrispondenza). Si
moltiplicano, da una parte (i sostenitori della riforma) e dall’altra (i
contrari) gli inviti a votare SI, rispettivamente NO. Fin qui niente da
obiettare, perché è giusto che ciascuno difenda le proprie idee. Ciò che non
trovo accettabile è la violenza che si fa alle parole da una parte e
dall’altra, a cominciare dalla parola «riforma», che di
per sé non è sinonimo di progresso, ma potrebbe essere un regresso. «La riforma,
si legge in Wikipedia, è una modificazione volta a stravolgere l'assetto
corrente di un certo ambito della società, o di questa nel suo complesso,
trasformandone le regole e le leggi fondamentali».
Quesito referendario complesso e fuorviante
Nel caso specifico
della «riforma costituzionale» italiana ritengo ingiustificate sia le visioni catastrofiche dei sostenitori del NO nell’ipotesi che prevalgano i SI, sia
le previsioni salvifiche di chi sostiene il SI e vede lo sprofondamento
dell’Italia nella palude se vincesse il NO. Le parole della modifica
costituzionale sottoposta al voto popolare non giustificano né l’una né l’altra
visione, anche se si prestano talvolta a interpretazioni opposte.
Capisco che possa dar luogo a esagerazioni da entrambe
le parti la stessa formulazione del quesito referendario, perché poco chiaro e
in parte fuorviante. Per esempio, quando si parla di «disposizioni per il
superamento del bicameralismo paritario» bisognerebbe anche chiedersi come
avviene tale superamento e se il risultato è ragionevole. Ed è giusto
chiederselo perché secondo molti cittadini il superamento avviene a scapito
della democrazia e delle autonomie locali.
Non c’è dubbio che non eleggendo più
direttamente i senatori si riduce l’ambito della democrazia e non c’è dubbio
che il nuovo Senato non è espressione delle autonomie locali. Anzi, con la
«riforma», che accentua il centralismo romano togliendo competenze alle Regioni
e priva il Senato di reali poteri di controllo sull’operato del Governo (non
può votare la fiducia), le autonomie locali diminuiscono, contravvenendo al
dettato costituzionale (art. 5) che impone allo Stato di adeguare «i
principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell'autonomia e del
decentramento».
Quanto alle disposizioni per «la riduzione
del numero dei parlamentari» il quesito referendario è persino ingannevole
perché un cittadino comune è portato a credere che si riduca anche il
numero dei deputati e non solo dei senatori («parlamentari» sono infatti tanto
i senatori che i deputati). Sarebbe stato accettato più facilmente, sotto
questo profilo, il contenuto della terza riga del quesito: «il contenimento
dei costi di funzionamento delle istituzioni», come pure (quarta riga del
quesito): la «soppressione del Cnel» (posto che la maggioranza degli
italiani sappia cos’è il Cnel!).
Sulla quinta riga del quesito c’è poco da dire
perché rimanda alla «revisione del Titolo V della parte II della
Costituzione», materia per specialisti, non certo per il popolo italiano
che dovrebbe votare SI o NO, senza conoscere l’oggetto da approvare o
respingere!
Chi sta dalla parte dei cittadini?
A questo punto mi domando se chiedere ai
cittadini italiani di votare in questo modo sia più un esercizio di democrazia
o un’evidente dimostrazione di arroganza istituzionale, soprattutto da parte
del Governo Renzi, che ha fortissimamente voluto questa «riforma» senza
preoccuparsi se fosse sufficientemente democratica.
Il fatto che il Tribunale di Milano abbia
respinto due ricorsi di costituzionalisti che ritengono troppo differenti e
poco chiari gli oggetti che il 10 dicembre il popolo italiano dovrebbe approvare
o respingere con un solo voto (sì o no) non mi rassicura. Non mi rassicura
soprattutto la motivazione. Andrà infatti bene al giurista o all’intellettuale
che il quesito referendario così complesso e complicato non lede il «diritto
alla libertà di voto degli elettori per difetto di omogeneità» e non manifesta
«un difetto di chiarezza», ma non certo alla stragrande maggioranza del
«popolo sovrano», che in realtà non sa cosa votare.
Capisco che i giudici devono stare dalla parte
della legge, ma chi sta dalla parte dei cittadini? Trovo pertanto
scandaloso, che i giudici di Milano, che devono amministrare la giustizia «in
nome del popolo» (art. 101 della Costituzione) motivino il rigetto dei ricorsi
affermando, fra l’altro, che spetta «ad ogni singolo elettore formulare una
valutazione complessiva di tutte le ragioni a favore di e di quelle contrarie
di tutte le parti di cui è composta la riforma, insieme considerate, esprimendo
infine un voto sulla base della prevalenza del giudizio favorevole o sfavorevole
formulato a talune sue parti». Come dire, cari cittadini, arrangiatevi!
E poi ci si meraviglia del dilagare
dell’antisistema!
Giovanni Longu
Berna, 16.11.2016
Berna, 16.11.2016
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