Il tema della
naturalizzazione dei giovani stranieri di seconda e terza generazione, che ha
attraversato la vita politica della Svizzera fin dalla nascita della moderna
Confederazione (1848), ha conosciuto uno dei momenti più intensi del dibattito
politico nel 1914. Purtroppo non ha ancora trovato una soluzione soddisfacente,
tant’è che se ne discute ancora oggi, sebbene non goda più dell’interesse e
della passione che incontrava un secolo fa.
Attualità del problema
Il fatto che la discussione
duri ininterrottamente da oltre cent’anni sta ad indicare la complessità della materia
e la difficoltà a individuare una soluzione soddisfacente, ma forse anche la
mancanza di coraggio e della volontà politica di considerare cittadini svizzeri
giovani nati e cresciuti in questo Paese, pienamente integrati. Che sia giunta la
volta buona? E’ auspicabile, ma senza farsi troppe illusioni. Anche la recente
discussione in Parlamento, non ancora terminata, sulla revisione della legge federale
sulla cittadinanza induce alla prudenza, perché della naturalizzazione
«automatica» o a semplice richiesta non se n’è ancora sentito parlare.L’argomento non può essere tuttavia considerato chiuso perché è sempre pendente l’iniziativa parlamentare della consigliera nazionale italo-svizzera Ada Marra del 2008, con cui si chiede che gli stranieri di terza generazione possano ottenere la cittadinanza svizzera su richiesta dei genitori o dei diretti interessati. E’ probabile che se ne riparli già quest’autunno, ma la prudenza è d’obbligo circa l’esito finale.
Nel frattempo, può essere interessante conoscere in che
termini si poneva il problema cent’anni fa, per cogliere analogie e differenze
rispetto al dibattito odierno.
1914: troppi stranieri e in forte crescita
Il problema delle naturalizzazioni, ossia l’acquisizione
della nazionalità svizzera da parte di stranieri residenti e soprattutto dei
giovani nati e cresciuti in Svizzera, era di grande attualità politica fin
dall’inizio del secolo scorso. A sollecitare il dibattito erano alcune cifre
riguardanti il numero degli stranieri e la
loro proporzione sulla popolazione totale, ma soprattutto il ritmo della
loro crescita.
Va detto per inciso che negli ultimi decenni dell’Ottocento
e all’inizio del Novecento la Svizzera stava diventando un Paese economicamente
sviluppato e con un diffuso benessere anche grazie alle migliaia di «ospiti» stranieri.
Ciò che colpiva maggiormente l’opinione pubblica e i conoscitori delle
statistiche era tuttavia la loro presenza sempre più vistosa, per molti sgradita
o, come scriveva un attento osservatore zurighese, Carl Alfred Schmid,
«inquietante in alto grado» tanto che «il benessere e la sicurezza della
Svizzera appaiono seriamente minacciati da siffatto grandioso accumularsi di
stranieri».
Effettivamente, in pochi decenni il loro numero era passato
da 114.983 (1860) a 383.424 (1900). Anche la loro proporzione sulla popolazione
era vistosamente aumentata come non si riscontrava in nessun altro Paese
europeo. Dal 4,6% del 1860 si era passati all’11,6% nel 1900. Nel decennio
successivo la popolazione straniera era ulteriormente cresciuta (1910: 565.296 / 15,1%). In alcuni Cantoni e nelle
principali città gli stranieri raggiungevano proporzioni che sfioravano o
addirittura superavano il 30% con punte oltre il 40%. Al confronto gli
stranieri presenti in Italia rappresentavano appena lo 0,9%, in Germania
l’1,3%, in Francia il 2,7%. Per molti svizzeri, ma anche per il Consiglio
federale, la situazione cominciava ad apparire allarmante.
Gli stranieri aumentavano non solo per i continui arrivi
soprattutto dai Paesi vicini, ma anche per l’incremento naturale. In confronto
alle donne svizzere, quelle straniere mettevano al mondo molti più figli. Dai
dati del censimento del 1910 risultava che oltre il 40% degli stranieri era
nato in Svizzera. Si parlava sempre più apertamente del «problema degli
stranieri» e dell’«inforestierimento», per lo più in associazione a una sorta
di avvertimento di pericolo incombente.
Come ridurre la percentuale di stranieri
Per ridurre la proporzione di stranieri, nei Cantoni maggiormente
interessati s’invocò già negli ultimi anni dell’Ottocento un intervento della
Confederazione, anche se allora la Costituzione federale non le concedeva molte
possibilità. Certamente non quella, invocata da molti, di limitare gli arrivi. La
Svizzera era legata da trattati internazionali con molti Paesi, che garantivano
una sorta di libera circolazione delle persone. Fra l’altro vi si sarebbe
opposta l’intera economia in forte espansione e bisognosa di manodopera estera.
L’unica strada percorribile sembrava quella di facilitare l’acquisto della
cittadinanza svizzera da parte degli stranieri «assimilati» o nati in Svizzera.
Il ragionamento era semplice: visto che gli stranieri sono
tanti e in alcuni Cantoni rischiano di sopraffare la popolazione indigena,
piuttosto che avere 100.000 stranieri che curano esclusivamente i propri
interessi, è preferibile avere 100.000 compatrioti che si occupino anche della
cosa pubblica. Tanto più che, secondo alcuni, qualora fosse scoppiata una
guerra, così tanti stranieri avrebbero potuto rappresentare un pericolo. Solo i
tedeschi residenti in Svizzera abili alle armi avrebbero potuto costituire ben
50 battaglioni (da 1000 soldati ciascuno), gli italiani 35, i francesi 16, gli
austriaci 7. In
caso di conflitto questi stranieri avrebbero dovuto lasciare la Svizzera
mettendo in ginocchio l’economia.
Il Cantone di Zurigo, uno dei più interessati a trovare una
soluzione, deplorava che a causa della mancanza dei diritti politici degli
stranieri le istituzioni dovessero privarsi del loro efficace sostegno e
auspicava che gli stranieri venissero accolti come cittadini elvetici,
«affinché non condividano solo i diritti, ma anche gli interessi dei cittadini
svizzeri». Si eviterebbe, fra l’altro, che gli stranieri, esonerati
dall’obbligo militare e spesso anche dalla tassa sostitutiva, costituissero una
forte concorrenza sul lavoro nei confronti dei cittadini svizzeri soggetti al
servizio.
La maggioranza dei Cantoni, però, non vedeva di buon occhio un
intervento diretto della Confederazione in materia, per cui, nel 1900, il suo primo
tentativo di snellimento della procedura di naturalizzazione per meglio
integrare gli stranieri fu bocciato in Parlamento. Poiché tuttavia anche il Consiglio
federale riteneva che fosse un’anomalia che nel Paese ci fosse una notevole
percentuale di stranieri, che a parte i doveri fiscali non avessero gli stessi
diritti e doveri degli indigeni e avessero magari qualche vantaggio in più, l’anno
seguente ripropose in Parlamento una proposta di revisione della legge sulla
cittadinanza.
Nessun Cantone per lo «jus soli»
Il Consiglio federale, non ritenendo possibile secondo il diritto
costituzionale vigente la concessione generalizzata e automatica della cittadinanza
svizzera in base alla nascita sul suolo svizzero, propose di ancorare nella
nuova legge in revisione la possibilità che ciò avvenisse in base al diritto
cantonale, introducendo in tal modo una sorta di jus soli, inizialmente
solo a livello cantonale. Sarebbe spettato ai singoli Cantoni decidere in
materia di naturalizzazione.
Jakob Vogelsanger |
In realtà tale misura probabilmente non interessava né ai
Cantoni né agli stranieri. I Cantoni volevano avere le mani libere per
naturalizzare quanti e chi volevano secondo la convenienza; gli stranieri non
premevano affatto per diventare svizzeri. Non ne sentivano il bisogno i
tedeschi, ma nemmeno gli italiani, sia pure per motivi diversi. Degli italiani aveva
detto nel 1900 C .A.
Schmid che «si guardano bene di diventar svizzeri, se continuano ad essere
considerati italiani».
Proprio al riguardo scriveva il Corriere del Ticino nel
gennaio del 1912: «La quistione dei forestieri si acuisce ogni giorno di
più. Il 15% della popolazione della Svizzera non è nazionale. Una percentuale
simile si ha solo nelle giovani Repubbliche americane. Ma la piccola Svizzera
ostacola un po’ l’assimilazione delle persone che vengono per stabilirvisi. Le
enormi comodità che queste hanno di recarsi in Patria, di vivere la vita
politica quotidiana del loro Paese, di raggrupparsi per tenere accesa la sacra
fiamma nazionale, impediscono che in molto maggior numero siano coloro che
domandino la nazionalità svizzera, pur apprezzando (ed alle volte sfruttando)
le nostre istituzioni repubblicane e generose (…). Il fatto che così pochi
italiani chiedono al Ticino d’essere incorporati, non manca di gravità. Se poi
si esaminano le singole naturalizzazioni, si deve giungere a conclusioni
tutt’altro che favorevoli per noi».
Necessità di approfondimenti
Il Consiglio federale, di fronte alla situazione e alle
pressanti richieste di alcuni Cantoni, cominciò attorno al 1910 a prendere molto sul
serio le questioni dell'inforestierimento e della naturalizzazione agevolata,
ma prima di proporre qualsiasi misura voleva un approfondimento della complessa
materia, comprese le implicazioni internazionali.
Erano già al lavoro fin dal 1908 gruppi di studio in alcuni Cantoni
maggiormente interessati alla problematica, Ginevra, Basilea e Zurigo, ma nel
1912 venne costituita un’apposita commissione di esperti (tre per ognuno di
questi Cantoni, per cui si parlò da qual momento anche di «Commissione dei
nove»), incaricata di fare proposte concrete.
Parallelamente, fino allo scoppio della prima guerra
mondiale, anche la stampa quotidiana seguiva con molta attenzione quanto veniva
detto e pubblicato al riguardo, dimostrando quanto il problema degli stranieri
in generale fosse diventato d’interesse pubblico. (Segue)
Giovanni Longu
Berna 4 giugno 2014
Berna 4 giugno 2014
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