Il miracolo economico italiano,
paradossalmente, non aveva impedito e nemmeno rallentato l’emigrazione verso
l’estero, tanto è vero che proprio nel decennio 1954-1963 (con punte da record
negli ultimi tre anni) si registrò il massimo numero di espatri della storia
d’Italia con oltre 3 milioni di partenze, contro poco più della metà di
rientri.
Molti non sanno che in quel
periodo la piccola Svizzera era il principale Paese di destinazione. Da sola fece
venire quasi un milione di italiani, sebbene moltissimi solo a titolo
temporaneo per evitare, come prescriveva la legge sugli stranieri fin dal 1931,
la stabilizzazione della manodopera estera e l’«inforestierimento». Molti
furono tuttavia anche coloro che vennero fatti arrivare con un permesso di
lavoro e di soggiorno annuale.
Nuova immigrazione e
associazionismo
Si deve altresì ricordare che la
nuova immigrazione dall'Italia centro-meridionale era qualitativamente assai
diversa da quella giunta fino ad allora prevalentemente dal nord. I nuovi
immigrati, spesso totalmente sprovvisti non solo della conoscenza della lingua
locale, ma anche di un’adeguata formazione scolastica e professionale,
incontravano molte più difficoltà d’inserimento sia sul lavoro che nella società.
Per molti immigrati
l’associazionismo fu un rifugio e una salvezza dall'isolamento e
dall'emarginazione. Accanto alle Missioni cattoliche italiane (MCI), le Associazioni
cristiane dei lavoratori italiani (ACLI) e la Federazione delle Colonie
libere italiane in Svizzera (FCLIS) si dimostrarono le associazioni più
accoglienti e più attive.
Oltre a creare luoghi d’incontro e
di socializzazione tra connazionali di diversa provenienza, queste associazioni
presero molto a cuore le difficoltà sociali di molti di loro, i problemi della lingua
e della scuola, i rapporti con le istituzioni locali svizzere, ecc. E’ vero, ad
occuparsi di questi problemi c’erano anche i consolati e i patronati, ma ad
essi pervenivano praticamente solo i casi più critici. A differenza delle
associazioni, né gli uni né gli altri avevano il polso della situazione sul
territorio.
Uno dei compiti assunti dalle
grandi associazioni, specialmente quelle soprammenzionate, era quello di fare per
così dire da intermediarie tra la base e le autorità italiane (con
quelle svizzere l’approccio era molto più difficile) per sollecitare un
generale miglioramento della situazione e un deciso intervento presso le autorità
svizzere per attenuare almeno le difficoltà di molti lavoratori e delle loro famiglie.
Attivismo politico e xenofobia
L’attivismo di alcune
associazioni, soprattutto quando si esprimeva al di fuori della vita
associativa con manifestazioni e rivendicazioni «politiche», urtava spesso la
sensibilità di molti svizzeri e persino dei sindacati e delle autorità svizzere,
contribuendo di fatto ad alimentare un certo malcontento che cominciava ad
esprimersi nei primi movimenti xenofobi.
Uno di questi sorse proprio
nell’estate del 1963. Venne chiamato «Partito anti-italiano» perché il
suo fondatore cercò di scatenare, tramite volantini e lettere razziste - in
maggioranza anonime - utilizzando un lessico di stampo nazionalsocialista,
l'odio contro gli stranieri e in particolare gli italiani del Sud.
Un’intervista alla televisione svizzera dello stesso tenore suscitò immediate
reazioni nella stampa italiana e una dura presa di posizione delle autorità
politiche e diplomatiche italiane.
Per fortuna quel movimento ebbe
vita breve e le polemiche attorno ad esso anche. Ma per breve tempo, perché di lì
a poco stava per scoppiare un caso ancor più clamoroso riguardante l’espulsione
di alcuni immigrati italiani e di alcuni parlamentari comunisti.
Penetrazione del PCI
Anzitutto va ricordato, come
risulta anche da documenti diplomatici, che la stampa italiana, soprattutto
quella di sinistra, da qualche anno seguiva da vicino la situazione dei
connazionali emigrati in Svizzera, ritenuti spesso discriminati, male
alloggiati, sottoposti a condizioni di lavoro insopportabili e qualche volta
maltrattati.
Credendo di dare man forte alle associazioni
più attive sul piano organizzativo e rivendicativo, agli inizi degli anni ’60
si era intensificata tra i lavoratori immigrati italiani la penetrazione del
Partito comunista italiano (PCI), sensibile più di ogni altro partito
politico italiano alle loro proteste, ma anche fortemente interessato a
reclutare nuovi membri e sostenitori e soprattutto voti al momento delle
elezioni.
Gli attivisti del partito e di
alcune associazioni, soprattutto la FCLIS, facevano attenzione a non dare
troppo nell’occhio, consapevoli del controllo esercitato discretamente ma
intensamente dalle autorità di polizia locali e federali e del rischio di
espulsioni, come quelle già avvenute negli anni ’50 in base a un articolo
costituzionale e alla legge del 1948 che regolava l’attività politica degli
stranieri. Ciononostante, in vista delle elezioni politiche del 28 aprile 1963,
alcuni parlamentari e attivisti del PCI sembravano non rendersi conto della
sorveglianza e del pericolo e non esitarono a organizzare conferenze,
distribuire materiale propagandistico, far sentire registrazioni di autorevoli
esponenti del PCI, ecc.
Attività politica «illegale» e
pericolosa
Alcuni mesi più tardi il
Dipartimento federale di giustizia e polizia tenne a precisare che la polizia
federale, in collaborazione con le polizie municipali di Berna,
Basilea-Campagna e Zurigo, aveva potuto appurare che «un gruppo di italiani
che soggiornano nel nostro paese aveva ricevuto l'ordine dal PCI, specialmente
prima delle recenti elezioni in Italia, di raccogliere fondi (marchette, doni,
ecc.) per questo partito politico straniero nei confronti di operai italiani
che lavoravano in Svizzera e di reclutare parimente inscritti a questo partito.
Questo gruppo fu inoltre incaricato di diffondere materiale di propaganda
(stampati, dischi con discorsi elettorali, ecc.). Quest'attività politica è
stata svolta sotto falsi nomi e falsi indirizzi. Inoltre, è stato constatato
che deputati comunisti alla Camera italiana sono giunti in Svizzera per dare
istruzioni a questi militanti. Certi membri di questo gruppo d'italiani erano
in più in contatto con alcune ambasciate di paesi dell'Est a Berna».
Oggi si sa che quelle attività
erano del tutto innocue sotto il profilo della sicurezza dello Stato e
dell’ordine pubblico, ma nell’immaginario collettivo svizzero rappresentavano
un pericolo e comunque, per i ben pensanti, un’ingerenza indebita negli affari
interni della Svizzera. Per questo la politicizzazione degli immigrati
stranieri e specialmente la propaganda politica comunista erano
malviste non solo dalle autorità e da gran parte dei media, ma anche dai
sindacati e dai datori di lavoro svizzeri, perché le ritenevano una minaccia
alla pace sociale e sindacale.
Non va inoltre dimenticato che, in
generale, l’opinione pubblica svizzera era profondamente anticomunista
fin dai tempi dello sciopero generale del 1918 e forse ancor di più dopo la
repressione dell’insurrezione ungherese del 1956, che provocò migliaia di
profughi accolti a braccia aperte in Svizzera. Inoltre erano in molti a
ricordare il clima di contrapposizione e di rischio sociale che si era prodotto
tra le due guerre tra sostenitori e oppositori delle ideologie fascista e
nazista per cui le autorità federali e cantonali erano decise a non correre
rischi simili con l’ideologia comunista.
Espulsioni dalla Svizzera e
reazioni della stampa italiana
Per tornare ai fatti riguardanti
gli italiani, dopo gli accertamenti sugli episodi verificatisi in alcuni
Cantoni in vista delle elezioni politiche della primavera del 1963 (che
segnarono fra l’altro una grande avanzata del PCI) le autorità federali
decisero fra il 15 e il 30 agosto 1963 l’espulsione e il divieto d’ingresso in
Svizzera a 18 italiani.
L'Unità del 13 agosto 1963 |
Si fosse trattato di semplici
emigrati italiani, probabilmente dopo qualche chiarimento verbale a livello
diplomatico tutto sarebbe finito lì. Invece quell'episodio sollevò una reazione
straordinaria nella stampa italiana di sinistra, perché dei 18 italiani 5 erano
parlamentari del PCI, tra i quali alcune personalità molto note come gli
onorevoli Pellegrino, Calasso e Pajetta.
«L’Unità», organo del PCI,
riportando anche testimonianze di immigrati italiani che sarebbero stati maltrattati
dalla polizia svizzera degli stranieri, definita provocatoriamente «politica» e
al servizio dei banchieri svizzeri, si distinse per la vivacità degli interventi
sia contro la Svizzera che contro il governo italiano. Non era
evidentemente dello stesso tenore la stampa anticomunista.
La questione approderà qualche
mese più tardi in Parlamento con una serie di interrogazioni e interpellanze di
deputati comunisti, che oltre a condannare l’accaduto invocheranno una netta
presa di posizione del governo contro la Svizzera (che fra l’altro, con
un’ordinanza del 1° marzo 1963, aveva deciso di limitare l’immigrazione,
ovviamente non solo dall’Italia).
Nel prossimo articolo si parlerà
delle conseguenze di questi interventi parlamentari sulla politica migratoria
italiana e svizzera e delle ripercussioni sulla collettività italiana in Svizzera.
(Continua sul prossimo numero).
Giovanni Longu
Berna, 11.09 2013
Berna, 11.09 2013
Nessun commento:
Posta un commento