02 maggio 2020

La vita e la morte al tempo del coronavirus*


«Pandemia» è diventata in pochi mesi una delle parole più diffuse nell’opinione pubblica. All’inizio l’epidemia da Coronavirus aveva un significato piuttosto vago e anche qualche specialista la considerava poco più di una influenza stagionale. Col diffondersi nel mondo e l’incremento continuo del numero dei contagiati, delle cure intensive e, purtroppo, dei morti, ci si è resi conto della gravità della malattia. Sono scattate le prime misure di contenimento della diffusione del virus, seguite più o meno a malincuore: divieto di assembramento, chiusura di bar, ristoranti, scuole, attività produttive e servizi pubblici (compresi i culti religiosi) e privati non indispensabili, limitazioni alla libertà di circolazione, invito rivolto soprattutto alle persone più anziane e più fragili di non uscire di casa, ecc.

Domande
Quando l’11 marzo l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) ha dichiarato l’epidemia da Coronavirus una vera e propria «pandemia», l’opinione pubblica mondiale ha cominciato a prendere sul serio le varie misure e raccomandazioni adottate dalle autorità politiche e sanitarie. Nella consapevolezza dell’eccezionalità del momento è anche scattata una straordinaria riflessione generale sulla vita e sulla morte al tempo del coronavirus, che ha coinvolto scienziati, filosofi, sociologi, letterati, religiosi, il Papa stesso.
Del resto, le pesti, le epidemie che decimavano intere popolazioni hanno sempre suscitato nell’uomo pensieri riguardanti il presente e il futuro di sé e dell’intera umanità. L’attuale pandemia non è da meno e può essere un’opportunità per una riflessione ad ampio raggio sull’uomo, sulla scienza, sulla fede, sulla religione. La situazione della malattia grave e soprattutto della morte pone anche all’uomo d’oggi interrogativi fondamentali sul senso dell’esistenza terrena.
 
Evidenze
La pandemia Covid-19 ci mostra anzitutto alcune evidenze, prima fra tutte la fragilità umana. Soprattutto i cristiani non dovrebbero meravigliarsi perché, come diceva l’autore del salmo biblico 144: «l’uomo è come un soffio, / i suoi giorni come ombra che passa». Il profeta Isaia usava un’altra immagine, ma il concetto era identico: «Ogni uomo è come l'erba / e tutta la sua gloria è come un fiore del campo. / Secca l'erba, il fiore appassisce».
Anche la scienza ha mostrato i suoi limiti: non è perfetta, descrive l’accaduto ma non lo prevede, cura ma non previene. La Covid-19 dimostra che la scienza, specialmente la medicina, l’organizzazione sociale, la politica, l’economia aiutano a vivere bene, ma non possono risolvere tutti i problemi, perché l’uomo è un organismo complesso, fragile, deteriorabile nel tempo e nello spazio entro cui è come imprigionato. Per questo quasi tutti i filosofi antichi e moderni ipotizzano aldilà di questa «situazione-limite» (Jaspers) una Trascendenza, un Dio garante della vita e dell’esistente, per non scomparire definitivamente come l’erba secca e il fiore del campo «quando il soffio del Signore spira su di essi».

Risposte
Solo il Cristianesimo dà la risposta che la filosofia non può dare alla domanda riguardante Dio e l’Uomo: «Che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, / il figlio dell’uomo, perché te ne curi?». Ed ecco la risposta: «Davvero l’hai fatto poco meno di un dio, / di gloria e di onore lo hai coronato» (Sal 8, 5-6). Ma la risposta più evidente e più consolante, per i cristiani, è quella data da Cristo il giorno di Pasqua in cui ha vinto definitivamente la morte. Anche tutti i credenti saranno associati alla Resurrezione di Cristo.
Certo, per credere ci vuole la fede, che è un dono, e ci vuole un ambiente in cui possa germogliare e crescere: la comunità, la Chiesa. Per questo bisogna essere accoglienti, generosi, aperti. Anche questo insegna ai cristiani la Covid-19.
* Articolo pubblicato anche su Insieme (Mensile delle MCLI di Berna...) di giugno 2020, p. 23.
Giovanni Longu
Berna 2.5.2020

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