11 aprile 2018

Tracce d’italianità nell’agglomerazione di Soletta


Sul versante meridionale della catena del Giura sorgono quattro agglomerazioni minori che meritano l’attenzione non solo dei turisti interessati al paesaggio, alla storia e all’arte della Svizzera, ma anche di quanti sono alla ricerca delle tracce lasciate dall’immigrazione italiana fino agli anni 70-80 del secolo scorso: Soletta, Grenchen, Bienne e Neuchâtel. Sono quattro piccole agglomerazioni che hanno dato ospitalità, oltre che a personaggi storici italiani di notorietà internazionale, a decine di migliaia di italiani immigrati. Pur non appartenendo a uno stesso Cantone (infatti Soletta e Grenchen fanno parte del Cantone di Soletta, Bienne appartiene al Cantone di Berna e Neuchâtel al Cantone omonimo), esse hanno in comune la vicinanza geografica, l’appartenenza alla regione orologiera e la straordinaria capacità di integrare gli stranieri, in particolare quelli venuti dall’Italia. Questo articolo si limita a tratteggiare Soletta.

Soletta: dall’origine romana alla città barocca
Soletta, città barocca ai piedi del Giura meridionale e sulla riva dell'Aare.
Soletta, come molte città svizzere, sorge su un antico insediamento romano (Salodurum) salvato e sviluppato in un primo tempo da monaci ed ecclesiastici (francescani e canonici di Sant’Orso) e successivamente dall’abilità di nobili e di borghesi (corporazioni). Dopo la morte dell’ultimo duca di Zähringen (1218) dei cui domini faceva parte Soletta, la città tornò sotto il dominio immediato dei sovrani del Sacro Romano Impero, dai quali però riuscì a ottenere ben presto lo statuto di «città libera», che la metteva al riparo da eventuali attacchi dei bernesi.
Gli amministratori di Soletta devono aver avuto in larga misura il senso dell’equilibrio e dell’equidistanza perché hanno saputo salvaguardare l’indipendenza di Soletta dai «poteri forti» di allora (Chiesa e Impero), ma anche dai potenti vicini (Berna e Zurigo). Soletta ha voluto sottrarsi anche al potere ecclesiastico, per esempio, riuscendo ad ottenere da Roma il privilegio di nominare i canonici di S. Orso.
Soletta, tuttavia, con grande senso pratico, pur ritenendo utile e necessaria la diplomazia, non rinunciò anche a quella protezione dettata dai tempi costituita da mura, fossati, torri, bastioni e porte, tuttora in parte ben conservati. Ma non fidandosi totalmente nemmeno delle proprie forze, per mettersi al sicuro, nel 1481 Soletta entrò a far parte della Confederazione. Era l’11° Cantone, allora diviso in 11 baliaggi e 11 corporazioni.

Magia e diplomazia
La frequenza con cui a Soletta si trova questo numero è impressionante: 11 chiese e cappelle, 11 canonici e 11 cappellani, 11 fontane storiche, 11 torri, ecc. Persino la cattedrale di Sant’Orso, il simbolo della città, sembra strutturata sul numero 11 perché è lunga 66 metri, ossia 6 volte 11 metri, ha 11 altari e un campanile pure di 66 metri con 11 campane. Persino la scalinata che porta in chiesa è costituita da 33 gradini, 3 volte 11. Su una delle più antiche torri (Torre dell’orologio) l’orologio ha addirittura un quadrante che indica solo undici ore! Naturalmente la sequenza di 11 continua in altri ambiti… e i solettesi sembrano divertiti di questo numero «magico», anche se più che nella magia credono nelle proprie capacità.
Cattedrale di Sant'Orso
Per esempio, ai tempi delle guerre d’Italia, i mercenari solettesi non parteciparono alla battaglia disastrosa di Marignano (1515), probabilmente ritenendola troppo pericolosa. Nel periodo successivo alla Riforma, pur dichiarandosi cattolica (e filofrancese), Soletta non partecipò alle due guerre di religione (salvo poi a beneficiare anch’essa delle paci favorevoli ai cattolici).
Nel XVII secolo Soletta agevolò la riforma cattolica promossa specialmente dagli ordini religiosi francescani, dei cappuccini (dal 1588) e dei gesuiti (dal 1646). La città era allora nel suo pieno splendore, scelta persino come residenza dagli ambasciatori francesi nella Confederazione. Nel 1762 fece costruire dall’architetto ticinese Gaetano Matteo Pisoni (1713-1782) la splendida cattedrale di Sant’Orso, un martire della famosa 11a Legione Tebana. Nel 1828, con il ripristino della diocesi di Basilea, Soletta divenne sede vescovile.

Italiani a Soletta
Si legge in una pubblicità che Soletta è un «gioiello dell'arte barocca, dove l'estro e la grandezza italiani si sono fusi con la bonarietà tedesca e lo charme francese». Un giudizio, mi pare, condivisibile, perché effettivamente in molti edifici di Soletta si nota un godibile  intreccio di arte barocca e rinascimentale italiana arricchita dallo charme francese dovuto all’influenza degli «Ambassadeurs» e quel tono bonario dei solettesi.
L’influenza italiana a Soletta è stata tuttavia non solo indiretta, attraverso artisti che attingevano ispirazione dall’arte classica italiana, specialmente quella rinascimentale, per abbellire numerosi palazzi del centro storico e per creare splendide ville nella campagna circostante, ma anche e soprattutto diretta da parte di italiani residenti a Soletta.
Non appena si comincia a parlare di italiani a Soletta, è probabile che la mente del lettore corra subito a Giacomo Casanova (1725-1798) perché a Soletta ebbe un’avventura amorosa con una marchesa e nessuna guida turistica gli nega almeno un cenno, organizzando durante i giri della città magari una breve sosta davanti al palazzo della nobildonna. Ma Casanova non è stato né il primo né l’ultimo italiano illustre passato a Soletta.
Castello di Besenval o di Waldegg
Più di un secolo prima era giunto a Soletta proveniente dalla Valle d’Aosta un commerciante che in breve tempo non solo fece fortuna, ma divenne uno dei personaggi più ricchi e influenti dell’epoca: Martin Besenval (1600-1660). Grazie ai proventi del suo florido commercio, nel 1629 divenne cittadino di Soletta e patrizio l’anno seguente. Rivestì numerosi incarichi pubblici ed ebbe persino buone relazioni con la corte del re di Francia (a cui procurava mercenari in cambio di una considerevole «pensione»). Un suo discendente fece costruire vicino a Soletta il Castello di Besenval (oggi noto come Castello di Waldegg), una splendida villa che unisce armoniosamente elementi stilistici francesi e italiani a una struttura tipica di molte ville signorili della campagna solettese.
Dai tempi di Besenval in poi i rapporti tra Soletta e l’Italia sono stati continui e intensi, ma prescindevano dalla presenza di italiani in città, almeno in numero significativo. Dovranno passare più di due secoli prima che gli italiani presenti in gran numero sul territorio influissero sullo sviluppo industriale, urbanistico e culturale dell’intera agglomerazione.

Immigrazione del secondo dopoguerra
A Soletta i primi immigrati italiani per motivi di lavoro cominciarono ad arrivare negli ultimi decenni dell’Ottocento e contribuirono ad avviare quel durevole sviluppo industriale che in parte continua tuttora. Ma fu soprattutto nel secondo dopoguerra che decine di migliaia di lavoratori italiani giunsero a Soletta e nell’agglomerazione, destinati all’edilizia, all’industria e ai servizi.
Gli immigrati (italiani) dovevano essere davvero tanti se negli anni ’50 Soletta dovette costruire molte nuove scuole per poter far fronte alla scolarizzazione dei figli dei Gastarbeiter: ben 52 tra il 1949 e il 1954. Un cronista dell’epoca faceva tuttavia notare che questo numero era destinato a crescere perché stava crescendo notevolmente la popolazione residente, soprattutto quella straniera. Se prima della guerra a Soletta parlavano l’italiano circa 300 persone, nel 1970 erano ben 1604.
Gli italiani, tuttavia, anche a Soletta, come in molti altri Cantoni, non erano ben visti, tanto è vero che il 7 giugno 1970 approvarono l’iniziativa antistranieri promossa da Schwarzenbach con 24.757 sì e 23.434 no. Gli italiani però erano indispensabili e nonostante le pressioni della destra xenofoba, non sarebbero rientrati presto in Italia. Bisognava tenerne conto, soprattutto in riferimento alla seconda generazione.

Soletta promuove l’integrazione
Uno dei problemi che poneva la scolarizzazione dei bambini italiani era la scarsa conoscenza dell’italiano da parte degli insegnanti. Il Cantone, tuttavia, si sentiva impegnato a fornire anche ai bambini dei Gastarbeiter un’istruzione adeguata. Fu così che nel 1970, dopo la votazione sull’iniziativa antistranieri, i Cantoni di Soletta e di Argovia promossero un corso d’italiano per una trentina d’insegnanti, organizzato in collaborazione con il Dipartimento  della pubblica educazione del Cantone Ticino. Il corso si tenne a Lugano dal 13 al 31 luglio.
UNITRE di Soletta
L’attenzione e l’incoraggiamento dell’integrazione a livello scolastico da parte del Cantone ha avuto un seguito, che non si è mai fermato. Molti italiani di prima generazione sono rientrati in Italia dopo il pensionamento, ma molti altri si sono fermati, segno di una buona integrazione. Insieme alla seconda generazione e ai nuovi immigrati costituiscono una comunità italiana o italo-svizzera (molti sono infatti binazionali) ben integrata a tutti i livelli della vita economica, sociale e culturale. Lo si riscontra facilmente, soprattutto nell’agglomerazione di Soletta, perché la lingua italiana è ancora molto diffusa, come sono diffusi i ritrovi italiani (bar e ristoranti) e l’associazionismo italiano, quello tradizionale (Associazione Calabresi, Famiglia Trentini, Colonie libere italiane, Comitati Genitori, ecc.) e quello più recente (specialmente l’UNITRE, l’Università delle Tre Età).
L’UNITRE è particolarmente importante perché, oltre a interessare molti italiani, suscita una crescente attenzione anche tra gli svizzeri, segno non solo della qualità dei corsi offerti, ma anche dell’interesse che alcuni temi riescono a suscitare tra i numerosi svizzeri sensibili all’italianità. Questo aspetto merita di essere qui segnalato perché denota una caratteristica consolidata del Cantone di Soletta: la volontà di promuovere realmente l’integrazione. Questo impegno figura anche nella Costituzione cantonale, che recita all’articolo 96: «Il Cantone e i Comuni, in collaborazione con organizzazioni private, promuovono il benessere e l'integrazione degli stranieri». 

Giovanni Longu
Berna, 11.04.2018

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