IL RUOLO DEI GENERALI NEI PROCESSI DI UNIFICAZIONE
Sarebbe
errato affermare che la Confederazione Svizzera e l’Italia sono state fatte dai
generali, ma non c’è dubbio che all’origine dei processi unificativi dei
Cantoni svizzeri e degli Stati italiani i comandi militari hanno svolto
un’azione determinante. Basti pensare al ruolo svolto in Svizzera dal generale Dufour
nel 1847 e in Italia dai generali La Marmora, Bixio, Garibaldi
e altri tra il 1848 (prima guerra d’indipendenza) e il 1861 (unità d’Italia). Eppure,
quante e quali differenze, anche sotto questo aspetto, tra la Svizzera e
l’Italia!
Per
semplificare il confronto, in questo articolo prenderò in considerazione
soltanto due personaggi che operarono quasi contemporaneamente tra il 1847 e il
1849, ossia Guillaume-Henri Dufour (1787/1875) e Alberto La Marmora (noto anche come
Alberto Ferrero della Marmora, 1789-1863). Del fratello
di quest’ultimo Alfonso La Marmora, biasimato dai genovesi, si è parlato
nell’articolo precedente.
Dal Sonderbund
alla Confederazione
In Svizzera, nel 1847
era in atto da alcuni anni una lotta non solo ideologica tra i Cantoni (in
maggioranza protestanti) che aspiravano a un maggiore centralismo (Stato
federale) e i Cantoni (in maggioranza cattolici) che si battevano per la
completa autonomia cantonale. Di fronte al pericolo di una concentrazione dei
poteri nelle mani della Confederazione, per timore di perdere la propria
autonomia e i propri privilegi, sette Cantoni conservatori
cattolici (Lucerna, Uri, Svitto, Untervaldo, Zugo, Friburgo e Vallese) decisero di costituire una «Lega separata» o Sonderbund.
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Gen. Guillaume-Henri Dufour |
Non si trattava di una
secessione (perché non esisteva ancora uno Stato comune di appartenenza) e
nemmeno di una di una vera e propria separazione, ma di una prova di forza di
alcuni Cantoni nei confronti di altri, che tuttavia avrebbe potuto degenerare e
rompere in maniera irreparabile la «Lega dei Confederati» o Confederazione a
cui il Congresso di Vienna, nel 1815, aveva riconosciuto la sovranità
territoriale e la garanzia internazionale delle grandi potenze continentali.
Sentendosi minacciati, i sette Cantoni
ribelli, avevano costituito un proprio esercito, un po’ raccogliticcio, e
cercavano di allearsi con l’Austria, Paese cattolico e antico nemico della
Confederazione, ma violando con ciò le regole dell’alleanza. Per far rispettare
gli accordi, i Cantoni rimasti fedeli alla Confederazione incaricarono il
generale Guillaume-Henri Dufour (1787/1875)
di mettersi alla testa di un esercito federale (da costituire immediatamente
con contingenti messi a disposizione dai vari Cantoni) e fare cessare la
ribellione.
Il generale Dufour
Prima di accettare l’incarico, il generale Dufour
ebbe una grave crisi morale, perché si rendeva conto del rischio di combattere
una guerra fratricida. D’altra parte era convinto dell’importanza vitale
dell’unione tra tutti i Confederati per la sopravvivenza della Lega. Finì per
accettare la nomina di generale con pieni poteri, non senza esitazione e
reticenza, perché era consapevole che occorresse combattere sì i separatismi,
ma si dovesse soprattutto cercare di ripristinare lo spirito della concordia e
della coesione.
Assunto il suo compito, Dufour ispirò la sua
azione militare a due principi fondamentali: terminare la guerra il più presto
possibile, ma essere al tempo stesso il più umano possibile. Il risultato fu,
sotto il profilo militare e politico eccellente. Infatti la guerra durò appena
25 giorni e fece soltanto 74 morti nell’esercito federale e 24 tra i
combattenti del Sonderbund. Pretese inoltre condizioni di pace onorevoli per i
vinti e in tal modo spianò la strada alla creazione dello Stato federale
moderno.
Secondo Dufour, la maggioranza vincitrice non
doveva infierire sui vinti ed egli stesso si fece promotore di una
riconciliazione, per non compromettere la riforma della Lega, con una nuova
costituzione, di cui si stava discutendo in quegli anni. La posta in gioco era
altissima, anche perché gli eventi svizzeri erano attentamente seguiti dalle
potenze confinanti e non si escludevano ingerenze indesiderate. In effetti, si
riuscì, anche grazie a Dufour, ad evitare sanzioni umilianti per i ribelli e a
costituire per la stesura del nuovo testo costituzionale una Commissione di
moderati (anche se prevalentemente dell’area dei vincitori), attenta anche alle
richieste dei Cantoni conservatori sconfitti.
Gli ultimi re del Regno di Sardegna
Il Regno di Sardegna,
negli anni 1848-1849 si venne a trovare in condizioni analoghe a quelle della
nascente Confederazione Svizzera e in più occasioni dovette affrontare
contestazioni e rivolte al suo interno. Quella di Genova, soffocata nel sangue,
non fu l’unica. Anche in Sardegna il Regno intervenne con mano pesante nel 1849
a sedare una rivolta di pastori.
Per rendersi conto del
difficile momento storico, occorre ricordare che la proclamazione (4 marzo
1848) da parte del re Carlo Alberto dello Statuto albertino,
ispirato a idee liberali, aveva
alimentato enormi aspettative non solo nei territori del Regno (Piemonte,
Liguria e Sardegna), ma anche nel resto d’Italia, soprattutto negli ambienti
liberali e progressisti. Dando seguito a queste aspettative, Carlo Alberto
iniziò le guerre d’indipendenza dal dominio austriaco sul Veneto e sulla
Lombardia, ma subì pesanti sconfitte che lo costrinsero ad abdicare in favore
del figlio Vittorio Emanuele II (1820-1878).
Il nuovo re ebbe
l’accortezza di non abrogare lo Statuto albertino (anche se aveva in alcune
occasioni minacciato di abolirlo) e questo gli valse l’appellativo di «Re
galantuomo». A lui riuscì di portare a compimento l’opera avviata dal padre,
ossia l’unificazione dell’Italia, diventando il primo Re d’Italia e per questo viene
spesso indicato come «Padre della Patria». A lui è stato dedicato nel 1911 il
monumento nazionale «Vittoriano», noto anche come «Altare della Patria», a
Roma.
Non tutti gli storici,
tuttavia, sono concordi nell’esaltazione di Vittorio Emanuele II. Alcuni gli
rimproverano la sfrenata ambizione, i sistemi impiegati per rafforzare il (suo)
potere monarchico ispirato da «sentimenti assolutisti», e la spregiudicatezza
con cui cercò di contrastare i movimenti democratici e di reprimere ogni
tentativo d’insubordinazione. Per questo capita ancor oggi d’incontrare scritte
quali «Vittorio Emanuele II dittatore», «Vittorio Emanuele II: giù dal
piedistallo!»
Il re agiva sempre,
evidentemente, per interposta persona, come avvenne a Genova per sedare la
rivolta genovese del 1849, servendosi del fedelissimo generale Alfonso La
Marmora, e come avvenne in Sardegna lo stesso anno, servendosi di suo
fratello Alberto La Marmora anch’egli generale (come del resto gli altri
due fratelli maschi).
Alberto La Marmora
Alberto La Marmora è
noto non tanto come militare quanto piuttosto come studioso e come scrittore.
La sua fama è molto legata alla Sardegna, di cui è stato un profondo
conoscitore, sia per il suo celebre racconto di viaggi (Voyage en Sardaigne
del 1826) e sia per la sua carta geografica minuziosa sulla Sardegna (Carta dell'isola di Sardegna del 1835/38).
Egli ebbe anche altre benemerenze nei confronti della Sardegna, soprattutto
come divulgatore a livello internazionale di ampie e particolareggiate
informazioni geografiche e antropologiche sull’isola. Fra l’altro riuscì a
misurare il punto più alto dell’isola sul monte Gennargentu che oggi porta il
suo nome: Punta La Marmora (1834 metri). Nella rivista «Il
Convegno» del marzo 1959, in occasione di una mostra di antiche carte
geografiche sarde, si riconosceva all’«insigne Alberto La Marmora» di aver
lasciato ai posteri, «con le sue Carte e le sue opere che ancora oggi fanno
testo, un monumento perenne».
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Gen. Alberto La Marmora |
Di Alberto La Marmora, tuttavia, i sardi non
hanno tenuto in considerazione solo le benemerenze. I libri di storia come pure
i media isolani ricordano di tanto in tanto che è stato nei confronti dei sardi
anche un oppressore. In quanto Regio Commissario e Comandante generale della
Divisione militare della Sardegna aveva ricevuto pieni poteri per sedare una
rivolta di pastori nel 1849. Riuscì in poco tempo a riportare l’ordine, ma fu
accusato dal parlamentare sardo di Bitti Giorgio Asproni (1808-1876) di aver usato sistemi repressivi.
L’accusa, naturalmente, non ebbe seguito e il comandante generale La Marmora
poté restare tranquillamente in Sardegna. Nel 1851 gli
venne persino concessa la cittadinanza cagliaritana.
Qualche considerazione tra federalismo e
centralismo
A questo punto,
osservando la soluzione del Sonderbund in Svizzera (1847-48) e il metodo
repressivo del Regno di Sardegna negli anni 1848-49, non può sfuggire la
differenza di comportamento nel sedare le rivolte tra il generale Dufour e i
generali La Marmora. Si tratta solo di personalità diverse o rispecchiano una
diversa visione dello Stato?
Non c’è dubbio che
Dufour sentiva fortemente lo spirito conciliativo di fronte a forze
contrastanti non senza legittime motivazioni da entrambe le parti in conflitto,
mentre i generali La Marmora incarnavano piuttosto lo spirito militaresco,
quasi «prussiano», tipico di Casa Savoia. Sarebbe tuttavia troppo riduttivo
liquidare le differenze come una questione di carattere.
Il diverso comportamento
di Dufour e dei generali La Marmora esprimono infatti una radicale differenza
nella concezione dei due Stati che si stavano formando, non solo nella forma
istituzionale, l’una repubblicana e l’altra monarchica, ma anche nella
sostanza. La Svizzera, infatti, fin dal 1848 voleva essere federalista e quindi
impegnata a ricercare la coesione attraverso il consenso, la concertazione e i
compromessi, pena la disgregazione. Il Regno di Sardegna, invece, voleva
essere, ad imitazione delle grandi
Dal confronto
Dufour-La Marmora verrebbe anche da chiedermi come siano evoluti i due
rispettivi Paesi. Mi viene spontanea la risposta: mentre la Confederazione è
rimasta sostanzialmente tale e quale (proprio qualche giorno fa il Parlamento ha
ancora una volta confermato che i ministri, i Consiglieri federali, devono
restare sette esattamente come nel 1848), il Regno di Sardegna è diventato
dapprima Regno d’Italia e poi Repubblica Italiana; la monarchia costituzionale
è diventata repubblica parlamentare bicamerale, ma è sempre stata fondamentalmente
centralista e non ha mai cercato un vero decentramento. Anche la riforma
costituzionale sottoposta a referendum il prossimo 4 dicembre si muove in
questa prospettiva centralistica, accentuandola. E chi sa se sia un bene o un
male?
Giovanni Longu
Berna, 5.10.2016
Berna, 5.10.2016
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