Alcuni dati. Dieci anni fa gli italiani
residenti all’estero erano poco più di 3 milioni. Oggi sono oltre 4,8 milioni.
La Fondazione Migrantes e analisti vari parlano apertamente di «esodo»,
«italiani in fuga all’estero», «fuga dei talenti» ed espressioni simili. Dal
2006 al 2016 l’aumento del numero degli emigranti è stato del 54,9 per cento.
Negli ultimi anni hanno lasciato l’Italia: 78.941 persone nel 2012, 94.126 nel
2013, 101.297 nel 2014, 107.000 nel 2015.
Chi sono gli espatriati d’oggi?
Oggi emigrano non solo giovani disoccupati o
senza prospettive professionali del Meridione, ma anche e soprattutto giovani
formati o ben formati, tra i 18 e i 35 anni, delle regioni del Nord Italia,
Lombardia in testa. Non sono tutti disoccupati, anche se alcuni lo sono; molti
un lavoro ce l’hanno, benché precario, ma senza prospettive sicure. Sono
soprattutto giovani con un titolo di studio in cerca di un’occupazione
confacente alle loro capacità e aspettative, che in Italia non trovano. In
molti casi si può parlare di «talenti» che lasciano (definitivamente o per un
lungo periodo) l’Italia.
Negli anni ’60 e ‘70 del secolo scorso si
parlava molto, con rabbia, di «capitali in fuga dall’Italia». Oggi ci si
rallegra, almeno al Ministero delle finanze, perché quei capitali in parte
ritornano. La «fuga del capitale umano», spesso di ottima qualità, è tutt’altra
cosa, ma non sembra suscitare indignazione. Eppure ne meriterebbe tanta, perché
forse non ritornerà più e sarà consumato almeno in buona parte all’estero, dove
non è stato formato.
Un tempo, di fronte all’ondata emigratoria del
dopoguerra, tutte le forze politiche erano concordi nel ritenere l’emigrazione
una necessità, ma anche un danno per il Paese. Oggi nessuna forza politica
sembra reagire a questo impoverimento dell’Italia. Nemmeno il Presidente della
Repubblica Sergio Mattarella. Recentemente si è limitato a osservare che
«oggi il fenomeno degli italiani migranti ha caratteristiche e motivazioni
diverse rispetto al passato» e che i flussi che non si sono ancora fermati «talvolta
rappresentano un segno di impoverimento piuttosto che una libera scelta
ispirata alla circolazione dei saperi e delle esperienze».
Perché riprende l’emigrazione?
In effetti, osservando senza analizzarle da
vicino le cifre sopraindicate ,si potrebbe pensare alla nuova emigrazione
dall’Italia come a una conseguenza dell’accresciuta mobilità umana soprattutto
tra i Paesi occidentali del pianeta. Anche il Presidente Mattarella sembra
vedere il fenomeno in questa prospettiva quando afferma: «la mobilità dei
giovani italiani verso altri Paesi dell’Europa e del mondo è una grande
opportunità, che dobbiamo favorire, e anzi rendere sempre più proficua. Che le
porte siano aperte è condizione di sviluppo, di cooperazione, di pace, di
giustizia. Dobbiamo fare in modo che ci sia equilibrio e circolarità. I nostri
giovani devono poter andare liberamente all’estero, così come devono poter
tornare a lavorare in Italia, se lo desiderano, e riportare nella nostra
società le conoscenze e le professionalità maturate». E’ questa la
prospettiva giusta?
Andare liberamente all’estero, per qualunque
ragione, è certamente un diritto e una conquista democratica, ma «liberi... di
dover partire - Libers... di scugnî lâ », come cantava il poeta emigrato
in Svizzera Leonardo Zanier, non è certo una grande libertà individuale
e collettiva. E’ vero che quel «dover partire» può trasformarsi in una grande
opportunità individuale, ma dal punto di vista del Paese da cui si parte non
c’è dubbio, a mio modo di vedere, che si configuri il più delle volte come una
sconfitta, un fallimento della politica e della società, una autoprivazione di
opportunità e di ricchezza, perché in genere si tratta di viaggi di sola andata
e i protagonisti sono persone «costrette» a partire proprio nel momento in cui
potrebbero mettere a frutto le formazioni raggiunte (a spese dello Stato) a
beneficio proprio e del Paese.
Mi sembra evidente (ed è facilmente
riscontrabile tra i giovani immigrati) che alla base di queste «fughe» ci sono
due sentimenti convergenti: da una parte il senso di frustrazione che provano
soprattutto i giovani di fronte alla ricerca vana di un posto di lavoro
dignitoso in Italia e al senso d’impotenza che sembrano trasmettere le autorità
e la politica in generale, dall’altra la volontà di non rassegnarsi a una forma
di fatalismo irrazionale e di cercare all’estero la soddisfazione delle proprie
aspirazioni professionali. In questo modo, negli ultimi anni, centinaia di
migliaia di giovani italiani hanno trovato finalmente la luce in fondo al
tunnel.
Alla radice del problema emigratorio recente
Quando si
invertirà la tendenza si
invertirà? Credo che per
rispondere a questa domanda, ma anche ad altre possibili domande sulle cause che
spingono molti italiani ad emigrare, andrebbero analizzate più
approfonditamente non solo le spinte contingenti (disoccupazione, incertezza
sul futuro, ecc.), ma anche le cause strutturali, che io individuo soprattutto
nel divario tra nord e sud, nelle carenze del sistema di formazione,
nell’irrisolta contrapposizione tra studio e lavoro, nella struttura complessa dello
Stato, ma anche nel difficile processo integrativo europeo.
In un romanzo di Elena
Ferrante (una scrittrice di successo di cui non si conosce la vera identità
ma si apprezzano molto le opere) ambientato in un rione povero di Napoli
verosimilmente degli anni ‘50 del secolo scorso, la protagonista ricorda una
frase che suo padre, usciere comunale, le disse al suo primo giorno di scuola:
«Lenuccia, fa’ la brava con la maestra e noi ti facciamo studiare. Ma se non
sei brava, se non sei la più brava, papà ha bisogno di aiuto e vai a lavorare».
Quella velata minaccia «vai a lavorare» produsse nella protagonista molto spavento
e la spinse ad essere sempre la più brava.
Leggendo il racconto,
ho pensato che frasi simili dovevano essere molto comuni, non solo alle scuole elementari
ma anche alle superiori. Gli stessi insegnanti dicevano ai «somari», credendo
forse di spaventarli e di indurli a un maggiore impegno, che se non volevano
studiare era meglio che andassero a lavorare. Nella contrapposizione studio-lavoro
si cela a mio modo di vedere una parte almeno del dramma che sta vivendo ancora
oggi la società italiana. Da una parte c’è una scuola che sembra non avere
alcuna relazione con l’economia e il mondo del lavoro, dall’altra ci sono
moltissimi lavoratori a cui manca una base scolastica e professionale adeguata
per affrontare le sfide della globalizzazione.
Rimedi possibili e
necessari
Anzitutto, se c’è un
ponte che dev’essere assolutamente costruito non è quello sullo Stretto di
Messina (immaginato da Renzi) ma
quello tra scuola e lavoro. Si tratta infatti di due elementi complementari che
devono interagire per garantire lo sviluppo del Paese. E non c’è tempo da
perdere: il sistema scolastico italiano dev’essere finalizzato non solo
alla soddisfazione di bisogni primari dell’individuo come il naturale desiderio
di conoscere, ma anche alla soddisfazione delle esigenze dell’economia.
In Italia è stata
trascurata la formazione professionale, che non è più l’avviamento al
lavoro degli anni ‘50 (e nemmeno la formazione prevalentemente teorica impartita
negli istituti tecnici), ma un’esperienza pluriennale e strutturata di studio
e lavoro nell’ambito di una stretta collaborazione tra pubblico e privato,
tra Stato ed economia, tra scuola e impresa. Mancando una vera formazione
professionale istituzionalizzata, manca in Italia anche un vero orientamento
professionale. I risultati, purtroppo sono sotto gli occhi di tutti:
disoccupazione giovanile da primato europeo, emigrazione con cifre a cinque
zeri, università all’ultimo posto in Europa per numero di laureati e di questi
solo il 52% trova un’occupazione entro i primi tre anni dalla laurea.
A questo punto mi
sembra necessario e urgente un piano di riforma globale del sistema formativo
italiano. Invece di occuparsi quasi a tempo pieno della predicazione sulle
virtù salvifiche della riforma costituzionale, usata ormai come un’arma di
distrazione di massa, il governo dovrebbe quanto meno tentare di avviare una
vera riforma della scuola e della formazione professionale. E’ a questa riforma
e non a quella pasticciata della Costituzione che Renzi e il suo governo
dovrebbero legare i destini dell’Italia come «leader dell’UE più della
Germania», «vagone di testa del treno europeo», «salvatrice del progetto
Europa», «riformatrice dei principali trattati dell’UE» e altre visioni
utopistiche.
Basterebbe che
l’Italia realizzasse la sua parte del programma di riforme del 2000 noto come «Strategia
di Lisbona», che mira a trasformare l’Europa in un continente con
«l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo» e il
Paese riprenderebbe la sua corsa verso il futuro.
Giovanni Longu
Berna, 10.10.2016
Berna, 10.10.2016
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