«Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?». Questi o simili interrogativi stimolano da sempre la ricerca umana e la filosofia, ossia l’«amore per la sapienza», secondo il significato originario greco della parola «filosofia». Sono anche domande fondamentali per chiunque voglia tentare di dare senso e valore alla propria vita su questa terra.
Gli stessi interrogativi, sicuramente validi per gli
individui, possono essere utili anche per una riflessione collettiva alla ricerca
o alla riconferma dell’identità nazionale di un Popolo e di uno Stato. Su
questo terreno, la ricerca delle origini e del destino collettivo può essere opportuna
o addirittura necessaria, quando si attraversano periodi storici
caratterizzati, come il nostro, da profonde mutazioni geopolitiche, economiche,
sociali e culturali. In questi momenti è possibile che nasca il dubbio della
propria identità nazionale e l’incertezza sulla rotta da seguire.
La Svizzera periodicamente s’interroga
La Svizzera non fa eccezione. Negli anni Sessanta, è stata
attraversata da una vera e propria crisi d’identità. Si parlò del «malessere
svizzero» che si stava diffondendo soprattutto tra gli intellettuali. Pesava,
ad esempio, come una specie di senso di colpa, l’atteggiamento eccessivamente
«neutrale» avuto dalla Svizzera durante la seconda guerra mondiale,
specialmente nei confronti di Hitler. Pesava, soprattutto, la mancanza di una
chiara visione del futuro.
Anche Max Frisch ne fu in qualche misura contagiato
quando nel 1960 scriveva degli svizzeri: «non abbiamo alcun progetto su noi
stessi, e quindi nessun futuro. Da noi si tratta sempre e soltanto di
difendere, preservare, aggiustare, perfezionare». E nonostante la Svizzera
fosse nata da «nient’altro che un pensiero utopico», Frisch, osservava: «Oggi,
invece, non solo le utopie ma anche e soprattutto tutti i desideri radicali
vengono per così dire sottratti allo svizzero insieme al latte materno».
Un altro grande scrittore svizzero, Friedrich Dürrenmatt,
in un discorso tenuto il 1° agosto 1967, parlando dei rapporti allora esistenti
tra i vari gruppi linguistici e culturali che compongono oggi la Svizzera
notava: «Il rapporto non è buono, anzi di per sé non esiste alcun rapporto.
Abitiamo gli uni accanto agli altri, ma non insieme. Quel che manca è il
dialogo, il colloquio, la curiosità reciproca, l’informazione».
Quasi in contrapposizione al pessimismo di tanti suoi contemporanei,
qualche anno più tardi un altro pensatore e scrittore svizzero, Denis de
Rougemont, pubblicava «La Svizzera. Storia di un popolo felice» (1965).
Voleva essere un segnale e un invito a guardare al passato, ma soprattutto al
futuro.
Più vicini a noi, nel 1998, in occasione del
150° della Confederazione, il politico socialista Peter Bodenmann
osservava un po’ sconsolato che mentre nel 1848 gli svizzeri in Europa erano politicamente
i più rivoluzionari, oggi «la Svizzera è politicamente ed economicamente
bloccata» e auspicava una maggiore apertura.
Come antidoto, lo stesso anno 1998, il presidente della
Confederazione Flavio Cotti suggeriva di «proseguire il cammino
intrapreso dai nostri avi, riconoscendo le circostanze storiche mutate ma
fondandoci sui loro stessi valori». Non basta, infatti, proseguiva Cotti,
«limitarci a contemplare gli indiscutibili successi del passato», ma dobbiamo
saper «discernere la realtà attuale, progettare il futuro», ricordando che questo
«in democrazia diretta, tocca indistintamente a tutte le cittadine e a tutti i
cittadini».
La SSR suggerisce una riflessione
Non so qual è esattamente lo stato d’animo più diffuso oggi
tra i cittadini svizzeri, ma non si può nascondere che molti non vedano davanti
a sé un futuro roseo, che il dubbio e l’incertezza frenino il loro ottimismo,
che le crisi internazionali facciano vittime anche in questo Paese, sebbene in
numero minore che altrove, che un senso d’insicurezza serpeggi in diversi
strati della popolazione.
In ogni caso, sono persuaso che ad ogni Popolo,
periodicamente, giovi riflettere sulla propria solidità identitaria, sulla consistenza
delle proprie forze, non solo materiali ma anche spirituali, e sulla propria
collocazione nel mondo circostante. Bene dunque ha fatto la SSR (Società
Svizzera di Radiotelevisione) a proporre in prima serata in tutte le reti televisive
nazionali durante il mese di novembre una serie di quattro filmati (docufiction)
allo scopo di stimolare una riflessione collettiva sulle origini della storia
svizzera, dai miti di fondazione all’affermazione dello Stato federale moderno (1848).
Per raggiungere meglio lo scopo, oltre alle ricostruzioni
cinematografiche di personaggi ed eventi della storia svizzera, sia all’interno
dei filmati che negli studi televisivi esperti ed eminenti personalità hanno
messo in evidenza il significato storico, politico, culturale e talvolta anche
religioso delle singole narrazioni. Inoltre, per sottolineare l’attualità della
riflessione collettiva, in tutti i media il tema «Gli Svizzeri» è stato
ampiamente trattato in commenti, articoli di giornale, dibattiti televisivi e
radiofonici, interventi in Internet.
Non so se sia possibile fare un bilancio in termini di
numero di spettatori che hanno seguito tutti o parte dei quattro filmati e
soprattutto in termini di «gradimento». Quel che mi pare certo è l’utilità di
un simile esercizio, se non altro per stimolare la riflessione sui valori,
in un’epoca in cui al riguardo sembrano regnare lo smarrimento e il
relativismo: quali sono i valori? Chi lo decide?
Non credo che la SSR, nel proporre questi filmati, abbia
inteso promuovere una sorta di esaltazione delle virtù elvetiche, ma ha sicuramente
offerto una bella possibilità d’interrogarsi sull’identità nazionale, oggi e
per domani, secondo il motto: «Solo chi sa da dove viene sa dove vuole
andare». E un Popolo sano, uno Stato sano non vanno mai a casaccio, ma
tendono sempre verso quegli ideali che generalmente sono sanciti nella
Costituzione. Ebbene, gran parte dei grandi ideali iscritti nell’attuale
Costituzione risale ai primordi della Confederazione. I vari filmati hanno
cercato di metterne in evidenza più d’uno, incarnandoli nei
personaggi-protagonisti.
Già nel primo filmato, dedicato al Patto del
Grütli e alla battaglia di Morgarten, sono messi in luce i benefici
dell’alleanza e della sua forza derivante dalla forma del giuramento «in nome
di Dio onnipotente», ma soprattutto l’irrinunciabile voglia di libertà, da
conquistare e difendere ad ogni costo.
E non ha molta importanza se nella rievocazione
cinematografica quei valori appaiono incarnati in personaggi che per la storiografia
moderna non sono nemmeno esistiti, perché è certo che comunque hanno avuto
un’origine, verosimilmente proprio nelle epoche descritte nei filmati. Per
questo, personaggi come Guglielmo Tell e Werner Stauffacher,
benché appartenenti più alla leggenda che alla storia, possono continuare a
sopravvivere nella coscienza popolare perché incarnano valori tuttora validi e
irrinunciabili.
Basti pensare anche solo al motto che campeggia all'interno
della cupola di Palazzo federale: «Uno per tutti - tutti per uno». Anche
se ad ispirarlo non furono i tre confederati che giurarono di sostenersi a
vicenda contro le pretese esagerate dell’imperatore asburgico nel 1291, non c’è
dubbio che le origini storiche vanno ricercate nelle prime alleanze delle
comunità montane che oggi vengono riconosciute come Cantoni primitivi. Così
pure va ricercato nello spirito di quelle alleanze la voglia di emancipazione e
di libertà dei confederati dalle origini ai giorni nostri.
Nel secondo filmato si tratta della politica di
conquista degli svizzeri e delle lotte interne tra confederati e tra città
e campagna. A giusta ragione è stato messo in evidenza il superamento dei
conflitti sia verso l’esterno che verso l’interno grazie alla neutralità
(secondo le esortazioni dell’eremita Nicolao della Flue di «non
costruire il recinto troppo lontano» e di tenersi fuori dalla azioni del mondo)
e mantenendo vivo lo spirito di conciliazione.
Nel terzo filmato, mentre si rievoca un momento molto
critico della convivenza dei diversi Stati-Cantoni (1847), sull’orlo di una
guerra civile, si mettono in luce attraverso il protagonista principale Guillaume
Henri Dufour, anticipando persino alcuni concetti fondamentali della
Rivoluzione francese, il senso della fraternità e dell’assurdità della guerra
civile, che – afferma nel filmato - «porta con sé due sventure: la prima di
essere stati vinti, la seconda di esserne stati vincitori». Nonostante fosse
convinto che l’unità dei confederati dovesse prevalere contro il tentativo di
separazione, era anche convinto che non si possono uccidere i propri fratelli.
E qualora ciò fosse inevitabile, si dovesse aver cura di «non lasciare cicatrici
al mio Paese».
In effetti, la brillante operazione di Dufour facilitò subito
dopo la riconciliazione, che portò in breve tempo alla costituzione dello Stato
federale con una Costituzione federale valida per tutti i Cantoni. A giusta
ragione si dice nel filmato che mentre quasi tutte le rivoluzioni del ’48 sono
fallite, quella svizzera ha prodotto lo Stato federale che resiste nel tempo
ancora oggi.
Nel quarto ed ultimo filmato si parla della
modernità. La Confederazione, ormai costituita e ben strutturata, si vide
proiettata verso il futuro per agganciare il progresso già avviato nei Paesi
del Nord e del Sud. I protagonisti indiscussi, nel filmato e in parte anche
nella storia, sono Alfred Escher e Stefano
Franscini. Il primo, uomo politico, imprenditore e banchiere, fondò il Credito
Svizzero e, in collaborazione con Franscini, primo consigliere federale
italofono, il Politecnico federale di Zurigo. La logica era chiara: senza la
finanza non c’è impresa e quindi sviluppo economico, e senza formazione di alto
livello non c’è innovazione e ricerca. La prima grande realizzazione
d’importanza europea fu la Ferrovia del Gottardo, che venne battezzata come la
via delle genti e della modernità. Un simbolo della Svizzera lanciata ormai con
convinzione e con i mezzi necessari sulla via del progresso e dell’integrazione
europea.
Giovanni Longu
Berna 26.11.2013
Berna 26.11.2013
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