La Svizzera, uscita indenne dalla guerra e con un apparato produttivo messo sotto pressione per poter soddisfare le ingenti richieste di beni provenienti da mezzo mondo, aveva urgente bisogno di manodopera. Poiché quella indigena era insufficiente, soprattutto le grandi aziende e le organizzazioni dei contadini, degli albergatori e degli industriali insistevano sul governo, tramite l’Ufficio federale delle arti e mestieri e del lavoro (UFIAML), perché autorizzasse il reclutamento di manodopera straniera, «l’unica al momento in grado di coprire il fabbisogno urgente di personale delle aziende».
Tradizionalmente i lavoratori stranieri provenivano dai
Paesi vicini: Germania, Austria, Francia e Italia. Nell’autunno del 1945 il
Consiglio federale autorizzò le trattative con i vari Stati, indicando tuttavia
alcuni principi inderogabili, ad esempio che la ricerca avvenisse dapprima tra
i lavoratori svizzeri, che gli stranieri venissero assunti alle stesse
condizioni salariali e lavorative degli svizzeri e che i governi interessati
garantissero la disponibilità a riaccogliere i propri connazionali qualora non
fossero stati più necessari alla Svizzera.
La Svizzera chiede all’Italia
In questo atteggiamento delle autorità svizzere è facile
vedere non solo la volontà di evitare il rischio della disoccupazione e del
disagio sociale in caso di una eventuale recessione (prevista da molti
economisti per l’immediato dopoguerra), ma anche l’intenzione della Confederazione
di gestire direttamente (e non tramite i Cantoni) la politica migratoria in
modo da evitare l’inforestierimento, come imponeva la legge sugli stranieri del
1931. Questo significava, ad esempio, che (quasi) tutti i permessi di lavoro e di
soggiorno fossero stagionali e non a tempo indeterminato.
Poiché le trattative con la Germania e con l’Austria non
ottennero alcun risultato a causa dell’opposizione delle potenze occupanti a
concedere permessi di emigrazione ai cittadini tedeschi e austriaci e anche
quelle con la Francia non andarono a buon fine perché essa stessa cercava
lavoratori, la Svizzera si rivolse all’Italia, a cui già in passato aveva
chiesto molta manodopera generica e specializzata (lavori stradali e
ferroviari, industria, ecc.).
I primi contatti nel 1945
I primi contatti con la Legazione italiana (elevata al rango
di Ambasciata nel 1953) si ebbero già nell’autunno del 1945. Non fu difficile
trovare subito un accordo informale. Si dovette invece aspettare fino al
febbraio 1946 l’autorizzazione di Roma a sottoscrivere i primi provvedimenti di
cooperazione migratoria tra i due Paesi.
Subito dopo, la Confederazione mise a disposizione delle
imprese svizzere che ne avevano fatto richiesta all’UFIAML diverse migliaia di permessi
d’immigrazione per lavoratori da destinare all’agricoltura, agli alberghi, agli
ospedali, ai servizi domestici e all’industria tessile. L’UFIAML, esaminate le
richieste (tanti muratori, tanti carpentieri, tanti contadini, ecc.), le inoltrò
immediatamente alla Legazione, che a sua volta le trasmise agli organi
competenti in Italia (uffici del lavoro, uffici di collocamento, ecc.).
Difficoltà di reclutamento
Nel reclutamento, tuttavia, non tutto andò per il verso
giusto, tant’è che molti datori di lavoro lamentarono ritardi negli arrivi e un
numero di lavoratori inferiore a quello richiesto. Persino la Legazione, che
aveva garantito il reclutamento nell’arco di 3-4 settimane, dovette ammettere
di non riuscire a soddisfare tutte le richieste svizzere a causa della lentezza
e della disorganizzazione dell’apparato burocratico italiano.
Per superare queste difficoltà, la Legazione consentì che
singoli datori di lavoro reclutassero in Italia direttamente il personale di
cui abbisognavano. Da parte loro, le autorità svizzere, si dichiararono pronte
a semplificare le procedure per l’ottenimento dei permessi. Con queste
agevolazioni, molti imprenditori pensarono bene di provvedere tramite propri
emissari a reclutare direttamente sul posto (dal Veneto fino in Sicilia) i
lavoratori di cui avevano bisogno. Entro breve tempo venivano muniti del
necessario permesso di lavoro e delle autorizzazioni svizzere, in modo da
raggiungere il nuovo posto di lavoro in breve tempo. In questo modo, già nel 1946
vennero concessi agli italiani ben 48.808 permessi di lavoro, portati a 126.544
nel 1947, ma non tutti utilizzati.
L’Accordo di emigrazione del 1948
Questa pratica però non piaceva all'Italia, che preferiva il
reclutamento collettivo tramite i canali ufficiali e controllato dagli uffici
consolari, per timore di abusi e per garantire ai propri cittadini la tutela
necessaria come previsto dalla nuova Costituzione. La divergenza tra i due
Stati sarà risolta solo parzialmente dall’«Accordo tra la Svizzera e
l’Italia relativo all'immigrazione dei lavoratori italiani in Svizzera» del
1948.
Egidio Reale |
L’artefice principale di questo accordo, per la parte italiana, è stato
il primo Legato (e dal 1953 Ambasciatore) della Repubblica italiana a Berna,
Egidio Reale, che già durante la guerra, come fuoruscito, aveva intrattenuto rapporti
amichevoli con molti funzionari federali ed era molto stimato dal governo
svizzero.
Tale Accordo non regolava tutti i problemi, ma salvaguardava
i principali interessi di entrambe le parti. La Svizzera poteva attingere quasi
a volontà a una sorta di «serbatoio» di lavoratori pronti per essere impiegati
dall'economia svizzera. L’Italia poteva offrire uno sbocco controllato alla
manodopera in eccedenza ed evitare possibili conflitti sociali legati alla
forte disoccupazione del momento.
Gli impegni che la Svizzera assumeva erano oltremodo
contenuti e senza rischi d'inforestierimento, come esigeva la menzionata legge
federale del 1931. Nell'Accordo era scritto infatti nero su bianco ch’esso si
applicava unicamente «all'immigrazione in Svizzera di mano d’opera
stagionale o ammessa a titolo temporaneo» (art. 1), il che significava (ma
non poteva essere scritto) in funzione dei bisogni dell’economia. Tanto è vero
che, già l’anno seguente e in quello successivo, a causa della congiuntura
sfavorevole, la richiesta di lavoratori italiani calò drasticamente, senza che
l’Italia potesse obiettare alcunché. Anche solo per questo l’ingresso dei
lavoratori e dei permessi di lavoro e di soggiorno erano strettamente
controllati.
Clandestini e irregolari
Non si insistette più di tanto sulle procedure di
reclutamento. Di fatto, anche in seguito molti datori di lavoro continuarono a
reclutare in Italia una parte importante della propria manodopera e molti
italiani, sapendo che in Svizzera si cercavano lavoratori, per evitare le
lungaggini burocratiche, arrivavano qui col semplice passaporto turistico.
Tramite qualche conoscenza speravano di trovare un datore di lavoro interessato
alle loro prestazioni e a volte riuscivano a ottenere in questo modo
l’indispensabile permesso di lavoro per poter restare. In molti casi tuttavia
la ricerca non raggiungeva lo scopo sperato e il rientro in patria era inevitabile.
Per la Svizzera non si trattava di «clandestini», ma al
massimo di «irregolari», la cui regolarizzazione non poneva grandi difficoltà,
a condizione che disponessero di un contratto di lavoro valido. C’era anche,
fin dal 1945, una parte di immigrazione «clandestina», ma era molto esigua
perché i clandestini sapevano di correre il rischio di essere individuati ed espulsi.
Gli accenni precedenti, per quanto frammentari e sommari,
lasciano facilmente intuire che l’immigrazione italiana in Svizzera nel secondo
dopoguerra non sia stata affatto un’operazione semplice, come invece certe
ricostruzioni farebbero pensare. Benché in quel periodo il lavoro abbondasse,
non è affatto vero che bastava presentarsi all’ufficio del personale di
un’azienda per chiedere un lavoro e ottenerlo.
Venuti… perché chiamati
E’ comprensibile che qualche immigrato riassuma la sua prima
esperienza migratoria affermando di essere venuto qui come turista, in realtà
con l’intenzione di cercare un lavoro e di averlo ottenuto, magari tramite
qualche conoscenza. Ma anche in questi casi non va dimenticato che, secondo le
leggi e i regolamenti esistenti allora e anche dopo, l’assunzione della
manodopera estera era sempre preceduta da una richiesta e dalla relativa
autorizzazione delle autorità competenti per il rilascio dei permessi di
soggiorno. In effetti, soprattutto nei primi decenni del dopoguerra, gli
immigrati italiani sono arrivati qui a decine di migliaia perché l’economia
svizzera aveva assoluto bisogno di loro.
A quanti immaginano che in Svizzera si potesse
tranquillamente arrivare, cercarsi un lavoro e sistemarsi per sempre andrebbe
anche ricordato che ogni straniero era registrato e gli esponenti più in vista
degli immigrati addirittura «schedati». I registri della Polizia degli
stranieri raccoglievano tutti i dati più significativi di ogni straniero
residente in Svizzera con un valido permesso di soggiorno. Infine, i permessi
di soggiorno sottoposti a controllo (quelli stagionali e annuali) non erano
affatto garantiti e non esisteva per la Svizzera alcun obbligo di rinnovo.
Intervento di Max Frisch
Max Frisch |
Per completezza d’informazione si può ricordare che solo
dopo la seconda metà degli anni Sessanta del secolo scorso, dopo una intensa
discussione parlamentare sul nuovo accordo italo-svizzero del 1964, gli
svizzeri hanno cominciato a interrogarsi sulla politica migratoria della
Confederazione e sulle responsabilità nei confronti di quelle persone che
impropriamente venivano chiamate «braccia», richieste dall’economia per far
fronte alle crescenti esigenze dello sviluppo del secondo dopoguerra.
Nella
società civile, coinvolta ampiamente in questa discussione, intervenne anche lo
scrittore Max Frisch, che ha sintetizzato l’intera problematica in questa
celebre frase, scritta nel 1965: «abbiamo chiamato braccia e sono venuti
uomini». Si riferiva principalmente agli italiani, che conosceva molto
bene.
Giovanni Longu
Berna 30.01.2013
Berna 30.01.2013
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