08 marzo 2017

Il coraggio delle donne immigrate in Svizzera



La storia dell’immigrazione italiana in Svizzera è spesso presentata come una serie di avventure e disavventure vissute dagli emigrati italiani, fuggiti da una situazione di bisogno e desiderosi di garantire per sé e per le loro famiglie sicurezza e benessere. Per oltre un secolo hanno dovuto lottare e aspettare di essere accettati e stimati da una vasta opinione pubblica.

Una storia incompleta
In questo discorso, che abbraccia gli ultimi decenni dell’Ottocento e gran parte del secolo scorso, lo scenario sembra costituito da una società diffidente e talvolta ostile, da una politica (quella italiana come quella svizzera) sfavorevole, da un tipo di evoluzione dell’economia e della società piuttosto esigente che gli immigrati italiani non riescono a seguire agevolmente.
I protagonisti della storia, quelli di cui trattano gli accordi internazionali, molti libri e ricerche, e di cui si occupano la politica, l’amministrazione, la stampa, i dispacci delle cancellerie diplomatiche, sono loro, gli emigrati/immigrati, di genere maschile, con al seguito o al fianco in ruoli secondari le donne emigrate/immigrate. Una storia evidentemente distorta, incompleta, a metà, in parte da riscrivere.
E’ vero, le donne italiane immigrate in Svizzera non sono mai state protagoniste, nel senso comunemente inteso di persone di primo piano, perché hanno svolto per quasi un secolo attività considerate (allora) secondarie o comunque meno importanti perché spesso erano mal pagate o non retribuite affatto come i lavori domestici e la cura dei figli, degli anziani, dei malati. Gran parte dei lavori «femminili» erano sottopagati anche nelle fabbriche, nei negozi, negli ospedali, negli alberghi, nelle mense, nelle lavanderie, nelle case delle famiglie facoltose.
Spesso le donne erano costrette al doppio lavoro, in fabbrica o nei servizi e in famiglia. Non ricordo di aver mai letto, in tutta la letteratura dedicata alla storia dell’immigrazione italiana in Svizzera, di scioperi, cortei o proteste di donne perché erano in qualche modo doppiamente sfruttate. Non ho nemmeno mai letto ch’esse andassero fiere perché spesso, sul lavoro nelle filature, nelle fabbriche di cioccolata, nella confezione dei ricami e delle scarpe erano considerate da molti datori di lavoro più brave delle colleghe svizzere, perché dicevano che apprendessero più in fretta e più facilmente delle indigene ed apportassero nelle loro attribuzioni «un certo senso artistico e di maggiore precisione».
Nel racconto tradizionale dell’immigrazione italiana in Svizzera le donne hanno ricevuto quasi sempre una considerazione di secondo livello almeno fino agli ultimi decenni del secolo scorso. Di queste donne si conosce molto poco di quel che facevano nell’Ottocento e agli inizi del Novecento in campo sociale, politico e culturale, del loro impegno nelle associazioni, dell’azione di sostegno fisico e morale all’attività degli immigrati maschi, parenti o no, del contributo che in molti modi hanno dato alla salute fisica dei lavoratori addetti agli scavi stradali e ferroviari, all’elevazione morale di intere generazioni come custodi dell’integrità della famiglia, alla crescita e allo sviluppo delle seconde e terze generazioni nella scuola e nella società, a una pacifica convivenza, all’integrazione. Si tratta certamente di una lacuna grave.

Donne coraggiose
Le donne italiane immigrate dell’Ottocento e degli inizi del Novecento dovevano essere molto modeste, ma anche molto coraggiose. Desidero ricordare solo un episodio emblematico.
Dopo i tumulti anti italiani di Zurigo (1896) la reazione immediata degli uomini fu quella di fuggire, andar via da Zurigo. Molte donne italiane (comprese molte naturalizzate) reagirono invece diversamente. Si organizzarono e scesero in piazza per protestare, tenendo discorsi in tedesco e in italiano, contro il trattamento ingiusto riservato agli italiani dal popolo, dalla stampa e dalla polizia. Se era stato commesso un crimine, il primo sospettato era sempre un italiano, anche se il vero autore era un ticinese o un tirolese o uno svizzero qualunque. Se qualche italiano (come tanti tedeschi, austriaci e persino svizzeri) non pagava regolarmente le imposte, tutti gli italiani erano coinvolti nell’accusa. Bisognava smetterla con le facili accuse e i pregiudizi nei confronti degli italiani.
In quell’occasione ci fu anche chi invitò le mogli degli italiani a tenere lontani i loro mariti dai disordini provocati dai «socialisti» e a non farsi strumentalizzare. Era infatti accaduto che ad un corteo del primo maggio, a Zurigo, in prima fila avevano messo operai italiani che portavano manifesti rivoluzionari di cui ignoravano il contenuto perché scritti in tedesco, una lingua che non conoscevano. Venne infine decisa la creazione di una associazione femminile incaricata di rispondere, caso per caso, alle accuse ingiuste rivolte agli italiani.
Difficile dire quanto quella reazione delle donne italiane di Zurigo abbia influito sulla convivenza tra italiani e svizzeri. Sta di fatto che da allora non ci furono più aggressioni e violenze come quelle del 1896 e non c’è dubbio che il contributo delle donne italiane, convinte e coraggiose, sia stato importante, forse determinante.
Giovanni Longu
Berna, 8 marzo 2017

07 marzo 2017

Italiani in Svizzera: 8. Inforestierimento e naturalizzazione



Una delle conseguenze del dibattito di fine XIX e inizio XX secolo sul «problema degli stranieri» e sull’«inforestierimento» fu l’avvio di una discussione, che dura ormai da più di un secolo, sulle naturalizzazioni. Il risultato della votazione del 12 febbraio 2017 sulla «naturalizzazione agevolata degli stranieri della terza generazione» rappresenta a mio avviso solo una conclusione parziale e provvisoria, rispetto alle attese maturate nel secolo scorso tra la popolazione sia straniera che svizzera. Poiché la discussione sembra destinata a prolungarsi nel tempo, può essere interessante rievocare quanto veniva già sostenuto da molti svizzeri più di un secolo fa.

Naturalizzazione agevolata contro l’«inforestierimento»

All’inizio del XX secolo fino allo scoppio della prima guerra mondiale, l’inforestierimento percepito ormai in tutti i campi (demografico, economico, culturale, «spirituale» e persino politico) sembrava pericoloso e inaccettabile i governi cantonali e per l’opinione pubblica. Nessuno, però, nemmeno il governo federale, era in grado di proporre una soluzione che raccogliesse se non l’unanimità almeno la maggioranza dei consensi.
La proposta maggiormente discussa per risolvere almeno in parte il problema dell’inforestierimento demografico (il 7,9% di stranieri nel 1888) concerneva l’agevolazione della naturalizzazione della parte più «assimilata» degli stranieri, ossia di quelli nati e cresciuti in Svizzera. «Questi forestieri nati in Isvizzera – scriveva all’inizio del 1900 un quotidiano ticinese  - sono nella maggior parte Svizzeri di cuore e sentono e la pensano come noi. Ma noi non abbiamo fatto nulla per assicurarci almeno questi elementi. Questi forestieri che hanno frequentate le nostre scuole, che parlano i nostri dialetti, noi lasciamo che continuino ad essere forestieri …».
Poiché nessuna proposta faceva l’unanimità e nemmeno la maggioranza dei Cantoni, ognuno di essi si dotò di una propria legislazione nemmeno in sintonia con quella degli altri. Vi erano così Cantoni più disponibili, persino a concedere «gratuitamente» la naturalizzazione sia pure dopo un periodo di soggiorno prolungato (per es. di 15 anni come a Basilea Città), e Cantoni (quasi) totalmente chiusi alle naturalizzazioni. Nel mezzo era possibile trovare di tutto, Cantoni che usavano le naturalizzazioni per compensare gli svizzeri emigrati, Cantoni che naturalizzavano con molta facilità stranieri facoltosi e persino Cantoni che usavano le naturalizzazioni per specularci.
Questa diversità di regolamentazioni si spiega non solo per le difficoltà di raggiungere un’intesa tra tutti i Cantoni, ma anche per l’ostilità di molti di essi a un possibile intervento  della Confederazione in una materia da sempre nella potestà dei Cantoni.

Verso un cambio di prospettiva e nuovi traguardi
Solo lentamente si è fatta strada, soprattutto nella seconda metà del secolo scorso, l’idea che il problema della naturalizzazione agevolata andasse visto e risolto in maniera unitaria e condivisa tra Confederazione e Cantoni, tenendo conto del progressivo venir meno dei nazionalismi e soprattutto del reciproco interesse delle parti: l’interesse dello Stato a «riconoscere i propri figli» (l’espressione è della consigliera nazionale Ada Marra) come propri cittadini a pieno titolo e l’interesse degli stranieri naturalizzandi a superare l’ingiusto statuto di «cittadini di fatto» e «stranieri di carta».
Non mi ha meravigliato il fatto che l’esito della votazione del 12 febbraio scorso sulla naturalizzazione agevolata per le terze generazioni non sia stato festeggiato (come forse qualcuno si attendeva). In effetti si è trattato di un risultato largamente atteso, poco contrastato (mancavano infatti seri argomenti contro) e giunto tardivamente. Per di più il testo in votazione era ben lontano dalle richieste più progressiste avanzate oltre un secolo fa. Quando ancora non si parlava della terza generazione si diceva chiaro e tondo che bisognasse facilitare e rendere economicamente più accessibile la naturalizzazione dei figli nati in Svizzera da stranieri domiciliati, ossia della seconda generazione.
Mentre in tutto il mondo si fa strada l’idea che i figli ben integrati degli immigranti debbano essere agevolati, anche finanziariamente, nell’ottenimento della cittadinanza dei Paesi ospiti e qualcuno di questi è disposto a concederla automaticamente, sia pure a certe condizioni, in Svizzera dovrebbe essere considerato un grande successo essere riusciti a strappare alla maggioranza del Popolo e dei Cantoni un sì alla naturalizzazione agevolata, a richiesta, degli stranieri di terza generazione? Non mi pare e spero che il percorso intrapreso più di un secolo fa non si sia concluso il 12 febbraio 2017, ma continui.
Anche le seconde generazioni attendono la possibilità di una naturalizzazione agevolata e poco onerosa, senza pretese esagerate sull’integrazione. Questa, semmai, andrebbe anch’essa agevolata, incoraggiando per esempio ogni forma di partecipazione nelle istituzioni pubbliche, dai comitati di quartiere ai partiti politici, dalle commissioni scolastiche al voto amministrativo. Per questo ritengo che la strada dell’integrazione e della naturalizzazione facilitata per tutti sia in buona parte ancora da percorrere. (Segue)