31 agosto 2016

Referendum sì – referendum no (prima parte: in Svizzera)



Il dibattito in corso sul referendum costituzionale in Italia si fa sempre più vivace anche in Svizzera, ma si caratterizza, a parere di chi scrive e fatte salve rare eccezioni, anche da molta confusione, dall’assenza di un’approfondita riflessione sulla portata del SÌ e del NO e dalla mancanza di attenzione alle obiezioni degli avversari. Per un approccio più sereno e consapevole al tema in questione, propongo in una breve serie di articoli alcune osservazioni di carattere storico, politico e di merito. Ritengo utile, soprattutto per i residenti in Svizzera, anzitutto qualche richiamo alla storia del referendum in questo Paese.

Premessa fondamentale: la divisione dei poteri
Per comprendere l’importanza originaria dell’istituto del «referendum» occorre ricordare, sia pure sommariamente, le discussioni sull’organizzazione dello Stato moderno del XVIII e XIX secolo, quando cominciò ad affermarsi il principio basilare dello Stato democratico, ossia la distinzione e separazione dei poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario) e la sovranità popolare. Se in teoria l’affermazione non poneva particolari problemi, nella pratica la lotta per la supremazia tra questi poteri e l’esercizio della sovranità popolare fu alquanto lunga.
Tra i sostenitori della priorità dell’esecutivo (governo) e i sostenitori della priorità del legislativo (parlamento) per molti decenni prevalsero i primi, anche perché il governo era espressione dei vincitori e delle élites e al parlamento mancava una piena legittimazione non essendo eletto a suffragio universale. A sua volta il diritto di voto libero e democratico era negato dai vertici dello Stato per la convinzione che il popolo, poco istruito o analfabeta, non fosse in grado di eleggere propri rappresentanti.
Uno degli Stati in cui la democrazia si affermò per prima fu la Svizzera. Il politico ed economista svizzero, naturalizzato francese Jacques Necker (1732-1804), sosteneva che l’unico rapporto virtuoso tra legislativo ed esecutivo consisteva nel riconoscimento preliminare della loro distinzione e separazione. Questo comportava nella pratica che il legislativo fosse pienamente autonomo nella discussione e deliberazione delle leggi nonché nel controllo dell’esecutivo, e a questo spettasse l’attuazione delle leggi e l’iniziativa parlamentare. Fra l’altro, Necker, ispirandosi soprattutto al modello americano, riteneva il controllo più efficace se fosse esercitato da una doppia camera.

Inizi del referendum in Svizzera
La Svizzera, anche nell’antica Confederazione (ossia prima del 1848), conosceva già una forma di referendum, assai diversa da quella di oggi, ma pur sempre una espressione di democrazia: equivaleva a una sorta di procedura di ratifica da parte dei vari Cantoni delle decisioni prese dai loro delegati riuniti in assemblea o Dieta. Nella Costituzione federale del 1848, il referendum acquistò invece un altro valore, perché rappresentava una forma concreta di esercizio della sovranità popolare, ormai accettata dalla maggioranza dei Cantoni.
Ispirandosi ai diritti popolari introdotti dalla Rivoluzione francese e tenendo conto di alcune esigenze democratiche rivendicate da numerosi moti popolari in Europa, la Costituzione del 1848 prevedeva, oltre ad alcune libertà democratiche e alcuni diritti civici fondamentali (per es. il diritto elettorale, sia pure limitato ai soli uomini, e il diritto di petizione, poco efficace) il referendum obbligatorio su ogni modifica della Costituzione. Il popolo, cioè, doveva essere consultato per approvare o respingere qualsiasi modifica della Costituzione approvata dall’Assemblea federale (Parlamento).
Non era molto, ma non si dimentichi che nella prima metà dell’Ottocento molti Stati non avevano ancora nemmeno una costituzione, non prevedevano elezioni e i diritti popolari erano alquanto ridotti. La sovranità popolare doveva essere ancora proclamata da quasi tutti gli Stati europei.

Richiesta di un più ampio controllo popolare
Ben presto ci si accorse tuttavia quanto sia vero che non basta il riconoscimento formale di un diritto perché esso venga rispettato. In effetti, i costituenti del 1848, che erano principalmente i liberali-radicali vincitori della guerra del Sonderbund (1847) scatenata dai Cantoni conservatori (cattolici), avevano pensato bene di limitare il diritto del referendum alle modifiche costituzionali. Bastava pertanto non modificare la Costituzione e il referendum saltava. In questo modo l’attività legislativa e l’attività politica, per decenni nelle mani dei liberali-radicali (le minoranze socialista e conservatrice contavano poco), erano praticamente senza controllo.
Per controbilanciare lo strapotere della maggioranza radicale borghese nell’Assemblea federale e nel Consiglio federale, si costituì negli anni 1860-70 il «Movimento democratico». Esso chiedeva un maggior controllo popolare delle attività di governo, la partecipazione diretta del popolo nella formazione definitiva delle leggi, consentendogli di richiedere a determinate condizioni il voto popolare su qualsiasi decisione del legislativo e dell’esecutivo e una revisione della Costituzione.

Il referendum come espressione della sovranità popolare
Dopo tanto insistere, si giunse nel 1874 a una revisione totale della Costituzione federale ed è in essa che venne introdotto, in aggiunta al referendum obbligatorio, il referendum facoltativo. E’ interessante notare che questo diritto popolare figurava nella sezione dedicata all’Assemblea federale, per segnalare che l’attività legislativa non era assoluta, ma esercitata sotto riserva di approvazione, per lo più tacita, talvolta esplicita (tramite referendum) del diritti del Popolo e dei Cantoni. Il nuovo diritto stava anche a segnalare che l’«autorità suprema della Confederazione» non era più l’Assemblea federale, come nella vecchia Costituzione, ma «il Popolo e i Cantoni».
Bisogna dire che l’Assemblea federale non si sentì usurpata della supremazia, tanto è vero che anche il Parlamento, secondo la Costituzione, poteva sottoporre oggetti al voto popolare quale decisione ultima.
Un ostacolo da eliminare
Sebbene il referendum, quello obbligatorio e quello facoltativo, esprimesse bene la sovranità popolare (e per certi versi dei Cantoni), in realtà questa non riusciva ancora ad affermarsi pienamente. Per esempio, secondo la Costituzione del 1874, non potevano essere sottoposti a referendum i cosiddetti «decreti urgenti» del Governo. Il Popolo, cioè, poteva sanzionare l’attività del Legislatore, ma non del Governo, che spesso e volentieri ricorreva appositamente ai «decreti urgenti» per evitare il referendum. L’esclusione di questi decreti fu dovuta alla preoccupazione di non intralciare e persino bloccare l’attività dell’esecutivo, soprattutto in caso di urgenza vera.
Questa prassi veniva tuttavia aspramente criticata dai partiti di sinistra e da alcune organizzazioni mantello dell’economia che si sentivano private del loro potere d’influenza sul governo. Con una iniziativa popolare (1938) venne chiesto, invano, di «limitare l'applicazione della clausola d'urgenza». Otto anni dopo, un’altra iniziativa popolare denominata «Ritorno alla democrazia diretta» chiese di rivedere la regolamentazione della clausola d'urgenza e il ritorno alla democrazia diretta. Il Popolo l’approvò (1949), nonostante l'opposizione dell'Assemblea federale e del Consiglio federale.
Il ricorso ai decreti urgenti fu da allora riservato ai casi veramente urgenti, ma per evitare il ricorso ai referendum, nel 1959 si decise un maggiore coinvolgimento dei principali partiti nell’attività di governo. Venne infatti trovata per il Consiglio federale la cosiddetta «formula magica», che voleva in governo due rappresentanti dei tre principali partiti (allora: radicale, conservatore cristiano-sociale, socialista) e un rappresentante del quarto maggiore partito (quello dei contadini e degli artigiani). Insieme questi quattro partiti rappresentavano almeno l’80% dell’elettorato, quanto bastava per evitare o quanto meno limitare sconfitte referendarie! La formula magica è ancora attuale, anche se la forza dei partiti e la loro rappresentanza nel Consiglio federale è cambiata.

Referendum come arma potente e pericolosa
Pur con questi limiti, lo strumento del referendum (a cui si era aggiunto nel 1891 il diritto di iniziativa popolare per la revisione parziale della Costituzione) è stato ed è un potente strumento di democrazia che ha fatto avanzare lo sviluppo dei diritti popolari, ma è anche un’arma pericolosa. Introdotta per limitare lo strapotere della maggioranza e avendo raggiunto cospicui risultati, molti dei quali fatti propri dalla moderna Costituzione in vigore, c’è il rischio che ora diventi un’arma impropria di lotta politica, non tanto tra Popolo e Istituzioni, ma tra politica ed economia, tra gruppi d’interesse, tra partiti politici.
C’è soprattutto il pericolo della demagogia (tanto di destra quanto di sinistra), pronta a minacciare il referendum ogniqualvolta s’intravveda in un provvedimento o nella mancanza di un determinato provvedimento un pericolo grave per la società. Si pensi alla demagogia xenofoba degli anni ’70 e ’80 del secolo scorso contro il pericolo dell’«inforestierimento».
Da tempo, alcune forze politiche, Parlamento e Governo si rendono conto dei rischi che comporta il possibile abuso del referendum e cercano di ridurne la pericolosità per esempio aumentando il numero delle firme richieste per provocarlo (30.000 fino al 1977, 50.000 dal 1978) e con una corretta e ampia informazione sugli oggetti in votazione. Un rimedio preventivo è costituito dalla procedura di consultazione che si svolge prima del dibattito parlamentare su ogni disegno di legge o provvedimento importante. Se l’oggetto in questione riesce a ottenere l’appoggio delle principali forze politiche, si spera che il referendum non venga richiesto o che in votazione non trovi il consenso sperato. In realtà, a tutt’oggi, su 218 referendum obbligatori, 163 sono stati approvati (55 respinti), mentre su 180 referendum facoltativi, ben 102 sono stati accettati (78 respinti). E’ la dimostrazione dell’efficacia del referendum,  quando è pura espressione della sovranità popolare. (Segue)
Giovanni Longu
Berna 31.8.2016

30 agosto 2016

Mattmark agosto 1965 – Amatrice agosto 2016



Il 30 agosto, in Svizzera in particolare e in diverse località dell’Italia, si ricordano gli 88 lavoratori, 56 dei quali italiani, travolti e uccisi dal distacco di un grosso pezzo di un ghiacciaio mentre costruivano la diga di Mattmark, nel Vallese. Si parlò di disgrazia, ma anche di responsabilità umana. Scrisse Dario Robbiani: «per la sicurezza della diga si fecero sondaggi geologici, calcoli geofisici, trivellazioni, analisi di materiale e perizie glaciologiche. Non si investe in una costruzione che frana, un impianto idroelettrico deve rendere. Per contro non fu adottata nessuna misura preventiva per i capannoni dove avrebbero dormito, mangiato e riposato gli operai».

Ilario Bagnariol (a s.), uno dei sopravvissuti, indica
il luogo della catastrofe di Mattmark del 30.8.1965.
Dal 24 agosto trema la terra nell’Appennino centrale. Il terremoto ha fatto oltre 290 morti. Si sa, il terremoto è imprevedibile e per questo si può parlare di disgrazia, ma non tanto da escludere la responsabilità umana. Da tempo si sa infatti che in particolare l’Italia appenninica è a rischio di terremoti e che l’unica prevenzione possibile e utile è costruire in maniera antisismica. Evidentemente gli edifici crollati, anche quelli pubblici, non erano costruiti a norma. Perché? Perché in Italia, pur conoscendo il pericolo e le misure per evitarlo non vengono adottate? Perché nel corso delle indagini la catena delle responsabilità si interrompe solitamente ai primi anelli? 

Mattmark, in Svizzera, e tre maggiori centri colpiti dal terremoto in Italia: Amatrice, Accumoli, Arquata del Tronto, non hanno nessun legame, eppure, coi loro tragici eventi, lanciano una comune denuncia e un avvertimento: ovunque il bene prezioso che è la vita umana non è sempre tenuto in debita considerazione.
Soccorritori all'opera dopo il terremoto del 24-25 agosto 2016.
Lo Stato, spesso indotto a ogni tipo di risparmio per far quadrare i conti, sembra talvolta persino disposto a rischiare sulla sicurezza dei cittadini e rinviare a tempi migliori la necessaria prevenzione. Ma anche i cittadini devono fare la loro parte, non solo dando il buon esempio e mettendo lo Stato in condizione di agire, ma anche educandolo, con la protesta, col voto, con l’opinione pubblica perché indirizzi le risorse disponibili secondo priorità ben precise, cominciando dalla salvaguardia a tutti i costi della vita umana.
Il volontariato italiano sta dando ottima prova di sé ed è a giusta ragione encomiato da molti Paesi vicini e lontani, ma guai se svolgesse sistematicamente opera di supplenza nei confronti delle Istituzioni. Il cordoglio, la solidarietà con i sopravvissuti sono doverosi e importanti, ma la prevenzione, la messa in sicurezza, l’assistenza, il sostegno economico, la formazione, la vigilanza devono essere compiti prioritari dello Stato. Ritengo auspicabile che le principali istituzioni, Parlamento e Governo, ne siano pienamente consapevoli e responsabili.
Giovanni Longu
Berna, 30 agosto 2016