10 ottobre 2016

Italia: disoccupazione, emigrazione e riforme



Alcuni dati. Dieci anni fa gli italiani residenti all’estero erano poco più di 3 milioni. Oggi sono oltre 4,8 milioni. La Fondazione Migrantes e analisti vari parlano apertamente di «esodo», «italiani in fuga all’estero», «fuga dei talenti» ed espressioni simili. Dal 2006 al 2016 l’aumento del numero degli emigranti è stato del 54,9 per cento. Negli ultimi anni hanno lasciato l’Italia: 78.941 persone nel 2012, 94.126 nel 2013, 101.297 nel 2014, 107.000 nel 2015.

Chi sono gli espatriati d’oggi?
Oggi emigrano non solo giovani disoccupati o senza prospettive professionali del Meridione, ma anche e soprattutto giovani formati o ben formati, tra i 18 e i 35 anni, delle regioni del Nord Italia, Lombardia in testa. Non sono tutti disoccupati, anche se alcuni lo sono; molti un lavoro ce l’hanno, benché precario, ma senza prospettive sicure. Sono soprattutto giovani con un titolo di studio in cerca di un’occupazione confacente alle loro capacità e aspettative, che in Italia non trovano. In molti casi si può parlare di «talenti» che lasciano (definitivamente o per un lungo periodo) l’Italia.
Negli anni ’60 e ‘70 del secolo scorso si parlava molto, con rabbia, di «capitali in fuga dall’Italia». Oggi ci si rallegra, almeno al Ministero delle finanze, perché quei capitali in parte ritornano. La «fuga del capitale umano», spesso di ottima qualità, è tutt’altra cosa, ma non sembra suscitare indignazione. Eppure ne meriterebbe tanta, perché forse non ritornerà più e sarà consumato almeno in buona parte all’estero, dove non è stato formato.
Un tempo, di fronte all’ondata emigratoria del dopoguerra, tutte le forze politiche erano concordi nel ritenere l’emigrazione una necessità, ma anche un danno per il Paese. Oggi nessuna forza politica sembra reagire a questo impoverimento dell’Italia. Nemmeno il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Recentemente si è limitato a osservare che «oggi il fenomeno degli italiani migranti ha caratteristiche e motivazioni diverse rispetto al passato» e che i flussi che non si sono ancora fermati «talvolta rappresentano un segno di impoverimento piuttosto che una libera scelta ispirata alla circolazione dei saperi e delle esperienze».

Perché riprende l’emigrazione?
In effetti, osservando senza analizzarle da vicino le cifre sopraindicate ,si potrebbe pensare alla nuova emigrazione dall’Italia come a una conseguenza dell’accresciuta mobilità umana soprattutto tra i Paesi occidentali del pianeta. Anche il Presidente Mattarella sembra vedere il fenomeno in questa prospettiva quando afferma: «la mobilità dei giovani italiani verso altri Paesi dell’Europa e del mondo è una grande opportunità, che dobbiamo favorire, e anzi rendere sempre più proficua. Che le porte siano aperte è condizione di sviluppo, di cooperazione, di pace, di giustizia. Dobbiamo fare in modo che ci sia equilibrio e circolarità. I nostri giovani devono poter andare liberamente all’estero, così come devono poter tornare a lavorare in Italia, se lo desiderano, e riportare nella nostra società le conoscenze e le professionalità maturate». E’ questa la prospettiva giusta?
Andare liberamente all’estero, per qualunque ragione, è certamente un diritto e una conquista democratica, ma «liberi... di dover partire - Libers... di scugnî lâ », come cantava il poeta emigrato in Svizzera Leonardo Zanier, non è certo una grande libertà individuale e collettiva. E’ vero che quel «dover partire» può trasformarsi in una grande opportunità individuale, ma dal punto di vista del Paese da cui si parte non c’è dubbio, a mio modo di vedere, che si configuri il più delle volte come una sconfitta, un fallimento della politica e della società, una autoprivazione di opportunità e di ricchezza, perché in genere si tratta di viaggi di sola andata e i protagonisti sono persone «costrette» a partire proprio nel momento in cui potrebbero mettere a frutto le formazioni raggiunte (a spese dello Stato) a beneficio proprio e del Paese.
Mi sembra evidente (ed è facilmente riscontrabile tra i giovani immigrati) che alla base di queste «fughe» ci sono due sentimenti convergenti: da una parte il senso di frustrazione che provano soprattutto i giovani di fronte alla ricerca vana di un posto di lavoro dignitoso in Italia e al senso d’impotenza che sembrano trasmettere le autorità e la politica in generale, dall’altra la volontà di non rassegnarsi a una forma di fatalismo irrazionale e di cercare all’estero la soddisfazione delle proprie aspirazioni professionali. In questo modo, negli ultimi anni, centinaia di migliaia di giovani italiani hanno trovato finalmente la luce in fondo al tunnel.
 
Alla radice del problema emigratorio recente
Quando si invertirà la tendenza si invertirà? Credo che per rispondere a questa domanda, ma anche ad altre possibili domande sulle cause che spingono molti italiani ad emigrare, andrebbero analizzate più approfonditamente non solo le spinte contingenti (disoccupazione, incertezza sul futuro, ecc.), ma anche le cause strutturali, che io individuo soprattutto nel divario tra nord e sud, nelle carenze del sistema di formazione, nell’irrisolta contrapposizione tra studio e lavoro, nella struttura complessa dello Stato, ma anche nel difficile processo integrativo europeo.
Su alcune di queste cause strutturali mi sono già espresso in diverse occasioni. In questo articolo mi limito alla contrapposizione studio-lavoro  e alle carenze del sistema formativo.
In un romanzo di Elena Ferrante (una scrittrice di successo di cui non si conosce la vera identità ma si apprezzano molto le opere) ambientato in un rione povero di Napoli verosimilmente degli anni ‘50 del secolo scorso, la protagonista ricorda una frase che suo padre, usciere comunale, le disse al suo primo giorno di scuola: «Lenuccia, fa’ la brava con la maestra e noi ti facciamo studiare. Ma se non sei brava, se non sei la più brava, papà ha bisogno di aiuto e vai a lavorare». Quella velata minaccia «vai a lavorare» produsse nella protagonista molto spavento e la spinse ad essere sempre la più brava.
Leggendo il racconto, ho pensato che frasi simili dovevano essere molto comuni, non solo alle scuole elementari ma anche alle superiori. Gli stessi insegnanti dicevano ai «somari», credendo forse di spaventarli e di indurli a un maggiore impegno, che se non volevano studiare era meglio che andassero a lavorare. Nella contrapposizione studio-lavoro si cela a mio modo di vedere una parte almeno del dramma che sta vivendo ancora oggi la società italiana. Da una parte c’è una scuola che sembra non avere alcuna relazione con l’economia e il mondo del lavoro, dall’altra ci sono moltissimi lavoratori a cui manca una base scolastica e professionale adeguata per affrontare le sfide della globalizzazione.

Rimedi possibili e necessari
Anzitutto, se c’è un ponte che dev’essere assolutamente costruito non è quello sullo Stretto di Messina (immaginato da Renzi) ma quello tra scuola e lavoro. Si tratta infatti di due elementi complementari che devono interagire per garantire lo sviluppo del Paese. E non c’è tempo da perdere: il sistema scolastico italiano dev’essere finalizzato non solo alla soddisfazione di bisogni primari dell’individuo come il naturale desiderio di conoscere, ma anche alla soddisfazione delle esigenze dell’economia.
In Italia è stata trascurata la formazione professionale, che non è più l’avviamento al lavoro degli anni ‘50 (e nemmeno la formazione prevalentemente teorica impartita negli istituti tecnici), ma un’esperienza pluriennale e strutturata di studio e lavoro nell’ambito di una stretta collaborazione tra pubblico e privato, tra Stato ed economia, tra scuola e impresa. Mancando una vera formazione professionale istituzionalizzata, manca in Italia anche un vero orientamento professionale. I risultati, purtroppo sono sotto gli occhi di tutti: disoccupazione giovanile da primato europeo, emigrazione con cifre a cinque zeri, università all’ultimo posto in Europa per numero di laureati e di questi solo il 52% trova un’occupazione entro i primi tre anni dalla laurea.
A questo punto mi sembra necessario e urgente un piano di riforma globale del sistema formativo italiano. Invece di occuparsi quasi a tempo pieno della predicazione sulle virtù salvifiche della riforma costituzionale, usata ormai come un’arma di distrazione di massa, il governo dovrebbe quanto meno tentare di avviare una vera riforma della scuola e della formazione professionale. E’ a questa riforma e non a quella pasticciata della Costituzione che Renzi e il suo governo dovrebbero legare i destini dell’Italia come «leader dell’UE più della Germania», «vagone di testa del treno europeo», «salvatrice del progetto Europa», «riformatrice dei principali trattati dell’UE» e altre visioni utopistiche.
Basterebbe che l’Italia realizzasse la sua parte del programma di riforme del 2000 noto come «Strategia di Lisbona», che mira a trasformare l’Europa in un continente con «l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo» e il Paese riprenderebbe la sua corsa verso il futuro.
Giovanni Longu
Berna, 10.10.2016

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