01 ottobre 2014

Accordo di emigrazione del 1964: 2. Trattativa difficile e lunga


Di fronte alla costatazione che il flusso migratorio dall’Italia verso la Svizzera non accennava a diminuire e che la collettività italiana diventava sempre più numerosa e stabile, ma in condizioni ritenute da molti immigrati precarie e persino discriminatorie, il governo italiano all’inizio del 1961 chiese formalmente alla controparte svizzera di rinegoziare l’Accordo di emigrazione del 1948.

La Svizzera, pur preferendo risolvere i singoli problemi senza modificare la sostanza degli accordi già conclusi (nel 1948, 1949, 1951), acconsentì alla richiesta italiana, probabilmente per non turbare le buone relazioni bilaterali tra i due Paesi, ma anche nella consapevolezza che la regolamentazione dell’immigrazione a carattere stagionale o temporaneo oggetto dell’Accordo del 1948 poteva subire modifiche e miglioramenti. La politica d’immigrazione della Svizzera non sarebbe stata messa in discussione.

Rivendicazioni italiane
In realtà nella prospettiva italiana si trattava di ottenere sostanziali miglioramenti per l’intera collettività italiana immigrata in diversi settori e risolvere alcuni problemi che, dato il numero crescente di immigrati, rischiavano col tempo d’ingigantirsi. Concretamente, le rivendicazioni italiane riguardavano le assicurazioni sociali (in particolare la concessione degli assegni familiari anche ai figli rimasti in Italia, l’assistenza malattia anche per i familiari rimasti in Italia, l’assicurazione contro la disoccupazione), le procedure di reclutamento (da riformare), alcune questioni riguardanti gli stagionali (soprattutto l’acquisizione del permesso di soggiorno annuale), l’ottenimento del permesso di domicilio dopo soli cinque anni di attesa (invece di dieci), i ricongiungimenti familiari, la scolarizzazione degli figli degli italiani, ecc.
Negli anni '50 e '60 , decine di migliaia di lavoratori
stranieri (specialmente italiani) erano addetti alla
costruzione di grandi dighe (foto: Grande Dixence)
In effetti gli obiettivi della trattativa, soprattutto per la delegazione italiana, erano quelli indicati successivamente nel preambolo dell’Accordo raggiunto nel 1964, ossia «di adeguare alla situazione attuale le disposizioni che regolano il tradizionale movimento migratorio dall'Italia alla Svizzera, […] rendere più semplici e più rapide le modalità del reclutamento dei lavoratori italiani e la procedura relativa all'emigrazione dei lavoratori stessi in Svizzera, […] migliorare le condizioni di soggiorno dei lavoratori italiani in Svizzera e assicurare loro lo stesso trattamento dei nazionali per quanto concerne le condizioni di lavoro».
Com'è facile intuire, questi obiettivi andavano ben oltre l’adeguamento delle disposizioni sul reclutamento dell’immigrazione italiana a carattere stagionale o temporaneo, oggetto dell’Accordo del 1948, che già all'articolo 1, primo capoverso, precisava: «Il presente accordo si applica all'immigrazione in Svizzera di mano d'opera stagionale o ammessa a titolo temporaneo».


Difficoltà iniziali
Già per questa ragione e per la novità, la complessità e l’importanza delle rivendicazioni italiane, come pure per i problemi di natura giuridico-istituzionale della controparte svizzera a dare risposte adeguate si può intuire la difficoltà del negoziato e comprenderne l’insolita durata: dall'inizio del 1961 al 10 agosto 1964. Al confronto, nel giro di un paio d’anni erano stati discussi e approvati l’Accordo di emigrazione del 1948 e la Convenzione sulle assicurazioni sociali del 1949.
I negoziati veri e propri iniziarono nel giugno 1961, ma vennero sospesi quasi subito per dare modo alle parti di studiare la materia e le differenti questioni. Si comprese tuttavia da subito che alla parte svizzera sarebbe stato ben difficile accogliere gran parte delle rivendicazioni italiane, soprattutto per ragioni di competenza (una parte delle rivendicazioni, ad es. assegni familiari, concernevano la competenza dei Cantoni, che non potevano essere scavalcati dalla Confederazione) e per ragioni politiche (politica federale in materia di immigrazione). D’altra parte, anche per la delegazione italiana appariva difficile stabilire fino a che punto poteva spingere le rivendicazioni senza compromettere la disponibilità svizzera a venire incontro il più possibile alle richieste italiane.
Nello sfondo era presente per entrambe le parti la situazione reale dell’immigrazione italiana in Svizzera, una necessità per l’economia svizzera, ma una necessità anche per l’economia italiana che, nonostante il boom di quegli anni, non era ancora in grado di assorbire la manodopera in esubero soprattutto del Mezzogiorno.

Pericoli da evitare
La delegazione svizzera sapeva bene che la manodopera italiana non avrebbe potuto essere rimpiazzata, soprattutto in tempi brevi, anche se dalla fine degli anni Cinquanta sempre più Stati si dichiaravano disposti ad inviare propri migranti. Sapeva anche che occorreva evitare la diffusione dello scontento tra gli immigrati italiani per scongiurare conflitti sociali e non dare adito al diffondersi della propaganda comunista, ritenuta pericolosissima per la pace sociale. Del resto, anche autorevoli personalità della politica andavano dicendo che occorresse maggiore apertura e flessibilità, ad esempio in tema di ricongiungimenti familiari.
A sua volta, la delegazione italiana, pur sapendo che la Svizzera non avrebbe potuto fare a meno degli emigrati italiani, aveva ben presente che in quel momento l’emigrazione verso la Confederazione rappresentava un’indispensabile valvola di salvezza per molti italiani. Oltretutto, per l’economia italiana l’alleggerimento del mercato interno del lavoro di alcune centinaia di migliaia di unità lavorative contribuiva a contenere il disagio sociale, soprattutto nel Mezzogiorno. Non si poteva nemmeno escludere il rischio che la Svizzera, di fronte alle richieste esagerate dell’Italia, rinunciasse alle prestazioni degli italiani e si rivolgesse a lavoratori di altre nazionalità, per esempio agli spagnoli già pronti a sostituirli.
Infine, ma non si trattava di una considerazione marginale, si sapeva che l’afflusso di valuta estera dalla Svizzera rappresentava un forte contributo alla bilancia dei pagamenti italiana. L’Unità, organo del partito comunista italiano, stimava in 70 miliardi di lire in valuta pregiata le rimesse degli italiani emigrati in Svizzera nel 1960.

Interferenza del ministro Sullo
On. Fiorentino Sullo
Di fronte alle difficoltà oggettive di trovare anche solo un compromesso, nessuna delle due delegazioni prendeva l’iniziativa di riavviare le discussioni. Sperando in una rapida ripresa delle discussioni, l’allora Fiorentino Sullo si attivò direttamente in Svizzera. Agli inizi di novembre 1961 egli intervenne in diversi Cantoni ufficialmente «a scopo d’indagine», in realtà per raccogliere testimonianze di prima mano sulle reali condizioni dei connazionali immigrati, in vista della ripresa delle trattative.
ministro del lavoro italiano
Cercando di fare pressioni sul governo svizzero, Sullo rilasciò numerose interviste denunciando le difficoltà dei lavoratori italiani e giungendo a minacciare addirittura di bloccare l’immigrazione dall'Italia se non si fossero ottenuti miglioramenti della situazione.
Nell'ottica di Sullo, anche la Svizzera avrebbe dovuto aprirsi, come stava facendo la CEE (Comunità Economica Europa), oggi Unione Europea, in materia di libera circolazione dei lavoratori e soprattutto di ricongiungimenti familiari. Il ministro Sullo, tuttavia, ignorava o faceva finta di ignorare anzitutto che la Svizzera non faceva parte della CEE (e non era intenzionata ad aderirvi) e, in secondo luogo, che gli italiani continuavano a preferire di emigrare in Svizzera piuttosto che in altri Paesi europei, pur sapendo che nei Paesi della CEE avrebbero beneficiato di condizioni migliori, ad esempio in materia di ricongiungimenti familiari.
Oltre alla mancanza di riguardo, le esternazioni del ministro Sullo provocarono l’irritazione del Consiglio federale e una nota di protesta ufficiale, la critica quasi unanime della stampa svizzera e anche di molti ambienti dell’immigrazione italiana, per esempio, della Federazione delle Colonie Libere Italiane in Svizzera (FCLIS).
Sull'onda della polemica sorta attorno al caso Sullo, il 23 novembre 1961 le due delegazioni tornarono a riunirsi per la ripresa delle trattative. Dovettero tuttavia costatare subito che nel frattempo le rispettive posizioni non erano per nulla cambiate, per cui le trattative vennero nuovamente sospese.
Interpretando il desiderio della collettività italiana, la FCLIS chiese invano ai due governi la ripresa del negoziato «con uno spirito costruttivo» per non ritardare ulteriormente la soluzione dei più importanti problemi riguardanti i lavoratori italiani in Svizzera quali l’assicurazione malattia, gli assegni familiari, il ricongiungimento familiare, ecc. La FCLIS chiedeva anche la partecipazione alle trattative di rappresentanti delle organizzazioni degli emigrati italiani in Svizzera come pure dei sindacati dei due Paesi.
L’Unità, che condivideva le rivendicazioni del ministro Sullo, sottotitolava un articolo sul fallimento delle trattative per gli emigrati in Svizzera: «Le autorità elvetiche rifiutano di corrispondere agli emigrati italiani gli assegni familiari e di assicurare l’assistenza ai congiunti dei lavoratori».

Le trattative non potevano fallire
C’era il rischio che le trattative non riprendessero? Teoricamente sì, perché la situazione politica svizzera, con una destra nettamente ostile a qualsiasi concessione e un ambiente sindacale fortemente preoccupato non avrebbe consentito di accondiscendere in pieno alle richieste italiane. Realisticamente il negoziato non poteva fallire per la semplice costatazione, come rilevava un inviato in Svizzera del Resto del Carlino di Bologna nel 1962, che gli svizzeri hanno «terribilmente bisogno» degli italiani, almeno in questo momento insostituibili, diversamente «ne farebbero volentieri a meno». Di fatto il negoziato continuò, sia pure a rilento e con molte difficoltà. (Continua).

Giovanni Longu
Berna 1.10.2014