14 novembre 2012

Emigrati italiani: li abbiamo chiamati… e sono venuti!


Mi riferisco al titolo del volume di Paolo Barcella: Venuti qui per cercare lavoro. Gli emigrati italiani nella Svizzera del secondo dopoguerra, pubblicato della Fondazione Pellegrini-Canevascini (cfr. CdT del 9.11.2012, p. 40). Non avendo letto il libro, non entro nel merito e prendo solo lo spunto dal titolo, che trovo a prima vista fuorviante e infondato. Esso infatti suggerisce l’idea che nel secondo dopoguerra gli italiani si siano precipitati in massa alle frontiere con la Svizzera in cerca di lavoro e addirittura che questa ricerca di un lavoro sia la caratteristica di tutti «gli emigrati italiani in Svizzera del secondo dopoguerra». Ritengo questa idea del tutto o in massima parte infondata.
Basterebbe infatti ricordare che durante la guerra le frontiere della Svizzera erano chiuse e quando, alla fine del conflitto, furono riaperte, i controlli erano strettissimi. Nemmeno gli italiani, nonostante il trattato di libera circolazione tra l’Italia e la Svizzera del 1868, potevano entrare liberamente. Si entrava solo con permessi regolari. Perché allora nel secondo dopoguerra arrivarono in questo Paese decine di migliaia di immigrati italiani? La risposta è semplice: perché chiamati! La Svizzera aveva allora un disperato bisogno di manodopera estera, essendo quella indigena assolutamente insufficiente. Non potendola ottenere dalla Germania e dall'Austria (perché le potenze occupanti non concedevano permessi di emigrazione) e nemmeno dalla Francia (perché non aveva esuberi da collocare all'estero), la Svizzera si rivolse all'Italia, in cui la manodopera era disponibile.
Controllo alla frontiera
Si potrebbe anche ricordare che già nel 1946 la Svizzera mise a disposizione degli italiani diverse migliaia di autorizzazioni di cui poterono beneficiare 48.808 lavoratori immigrati. Le autorizzazioni furono portate a oltre 126 mila nel 1947, ma solo 105.112 furono effettivamente sfruttate a causa della lenta e farraginosa burocrazia italiana del dopoguerra. Oltre agli immigrati che potremmo chiamare «regolari» ce ne furono sicuramente altri che giunsero in Svizzera senza alcun permesso, ma non «clandestinamente». Anche a questi, infatti, bastava un passaporto turistico per entrare legalmente in Svizzera e cercare un posto di lavoro, evitando le lungaggini della burocrazia italiana. Ottenuto il permesso di lavoro, generalmente tramite familiari o amici, era facile ottenere anche le necessarie autorizzazioni svizzere.
Del resto lo stesso Ufficio federale del lavoro si lamentava con le autorità diplomatiche italiane della lentezza con cui venivano assegnati i permessi di emigrazione e del ritardo negli arrivi in Svizzera dei lavoratori autorizzati. Fu anche per questa ragione che molti imprenditori svizzeri furono indotti a cercarsi direttamente sul posto, tramite le Camere del lavoro e gli Uffici del lavoro italiani o reclutatori propri, la manodopera di cui abbisognavano e a provvedere direttamente ai relativi permessi.
Potrei infine ricordare che il grande scrittore svizzero Max Frisch, nella sua celebre frase sugli immigrati non scrisse: «son venuti qui per cercare lavoro…», ma «abbiamo chiamato …».
Giovanni Longu
(Corriere del Ticino, 14.11.2012)

Aggiunta. Purtroppo l'idea dei poveri disoccupati italiani del dopoguerra che si accalcano alla frontiera svizzera in cerca di lavoro è assai diffusa in molta letteratura sull'immigrazione in Svizzera. E' un'idea che non ha alcun fondamento.
E' vero infatti che nel dopoguerra, soprattutto nell'Italia del nord c’era molta disoccupazione, perché molte fabbriche non erano state ancora convertite da un’economia di guerra a una produzione per usi civili; ma è anche vero che gran parte di questi disoccupati erano lavoratori qualificati. E’ vero soprattutto che nell'immediato dopoguerra, per le ragioni suesposte, all'economia svizzera faceva gola questa manodopera qualificata e si è adoperata attraverso le autorità svizzere e italiane, le organizzazioni professionali e propri emissari per accaparrarsela. Di fatto le autorità svizzere misero a disposizione degli italiani un numero di permessi di soggiorno ben superiore a quello realmente utilizzato. Soprattutto nei primi anni del dopoguerra i lavoratori italiani erano ricercati, altro che «venuti per cercare lavoro». La situazione mutò, sotto questo profilo, negli anni ’50, quando cominciarono ad arrivare gli immigrati meridionali non qualificati e poco scolarizzati, molti senza ancora un permesso di soggiorno e di lavoro. Ma pure loro, in qualche modo erano «chiamati», perché fino agli anni ’70 l’economia svizzera aveva bisogno di molta manodopera anche generica. 


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