Della storia dell’immigrazione italiana in Svizzera si è scritto e pubblicato molto, purtroppo partendo spesso da punti di vista molto soggettivi (ideologici) e poco obiettivi (poca prospettiva storica, scarsa analisi delle fonti, pochi dati statistici). Ovviamente nell'amplissima letteratura disponibile ci sono anche lodevoli eccezioni, per lo più a carattere settoriale o monografico. Un esempio per tutti, il recente volume di Sonia Castro, Egidio Reale tra Italia Svizzera e Europa. Milano, Franco Angeli, 2011.
La lettura di questa accurata biografia dell’illustre
personaggio mi offre lo spunto per rievocare la condizione degli immigrati
italiani addetti all'agricoltura svizzera sessant'anni fa. Si tratta di una
pagina della storia dell’immigrazione italiana in Svizzera poco conosciuta, che
agitò la diplomazia dei due Paesi. Prima di trattarla da vicino mi sembra
indispensabile accennare al contesto.
Egidio Reale, da esule ad ambasciatore
Egidio Reale |
Nel 1953, quindi sessant’anni fa, su richiesta italiana, ma
anche per evitare che Reale potesse essere nominato ambasciatore e lasciare la
Svizzera per andare in altra sede, il Consiglio federale accettò di elevare la
Legazione d’Italia al rango di Ambasciata e la promozione di Reale a primo
Ambasciatore italiano in Svizzera.
Questo passaggio, apparentemente solo formale, rispecchiava
bene anche il momento storico particolarmente delicato per l’immigrazione
italiana in Svizzera, essendo in piena attuazione l’Accordo tra la Svizzera e l'Italia relativo
all'immigrazione dei lavoratori italiani in Svizzera del 1948,
che proprio Egidio Reale aveva condotto a buon fine. Trattandosi per la
Svizzera del primo accordo del genere e per l’Italia di una possibilità
straordinaria per dare uno sbocco sostenibile e controllato al forte esubero di
manodopera, entrambi i Paesi avevano interesse a uno svolgimento regolare e
senza intoppi del flusso migratorio.
Immigrazione voluta e benaccetta
Giusto per dare un’idea dell’importanza di questo flusso,
sia di entrata in Svizzera che di rientro in Italia, le cifre seguenti sono
eloquenti (in parentesi i rientri): 1947: 105.112 (35.216); 1948:
102.241 (81.672); 1949: 29.726 (80.830); 1950: 27.144 (26.942); 1951:
66.040 (26.141); 1952: 61.593 (45.212); 1953: 57.236 (45.500); 1954:
65.671 (54.041); 1955: 71.735 (54.778).
Saltano subito agli occhi le prime cifre, davvero straordinarie,
riguardanti gli arrivi in Svizzera. Una certa meraviglia dovette suscitarla già
il risultato del 1947 in
Egidio Reale, che in qualche modo ne fu il regista, tanto che nel novembre dello
stesso anno comunicò a Roma con evidente soddisfazione di aver vistato il
centomillesimo contratto di lavoro, ossia più del doppio di quanti ne erano
stati registrati l'anno precedente.
Negli anni 1949 e 1950 il flusso si ridusse drasticamente (pochi
espatri e molti rientri in Italia) in seguito a una passeggera contrazione
dell’economia svizzera, ma riprese subito dopo a crescere ad un ritmo medio,
nel periodo 1951-1960, di oltre 70.000 persone l’anno.
La differenza fra le entrate in Svizzera (586.498) e i
rientri in Italia (450.332) nel periodo considerato (1947/55), è un altro dato che
salta facilmente agli occhi. Questo significa che oltre ai permessi stagionali,
i più numerosi (che comportavano il rientro dei titolari alla fine di ogni
stagione, generalmente in dicembre), erano molti anche i permessi di soggiorno
annuali (senza alcun obbligo di rientro), che contribuivano a far aumentare a
ritmi impressionanti il numero degli italiani stabilmente residenti. Se alla
fine della guerra risiedevano in Svizzera circa 100.000 italiani, nel 1950
erano già oltre 140.000 e appena cinque anni dopo, nel 1955 240.000.
Aspetti positivi
La crescita della popolazione immigrata italiana
(proveniente fino ad allora in gran parte dal Nord) stava anche a significare,
nonostante molte affermazioni contrarie di certa letteratura sull'emigrazione
italiana in Svizzera degli anni Settanta e anche recente, che almeno la
maggioranza degli immigrati traeva dal bilancio migratorio personale un saldo
positivo. Gli aspetti positivi prevalevano cioè sui pur numerosi aspetti
negativi legati alla lontananza dal paese d’origine, ai sacrifici, alle
incomprensioni e persino alle umiliazioni che talvolta capitava loro di subire.
Del resto è risaputo che gli immigrati del dopoguerra, almeno fino alla fine
degli anni ’50, erano non solo benaccetti ma anche stimati dai propri datori di
lavoro, a tal punto che il Ministro Reale dovette una volta intervenire presso l’Associazione
costruttori perché questa aveva dichiarato di voler assumere solo lavoratori
del Nord.
Del clima
favorevole che si respirava in quel periodo ne è anche prova l’aumento del
numero dei matrimoni di svizzeri con donne italiane, limitati fino ad allora a
poche centinaia l’anno, che nel periodo 1946/50 superarono abbondantemente il
migliaio e nel periodo 1951/55 raggiunsero una media di 1625 l’anno. Anche per
i matrimoni di italiani con svizzere la tendenza era analoga, sebbene in cifre assolute
queste unioni continuassero a restare relativamente modeste (solo nel triennio
1953/55 superarono la soglia di 500 l’anno). Aumentavano, di conseguenza, anche
gli italiani (soprattutto donne, a causa del matrimonio), che acquisivano la
nazionalità svizzera: dagli 889 del 1947 passarono a una media di 1583 l’anno
nel periodo 1948/53.
Problemi settoriali
Ovviamente, problemi dovevano essercene, indotti soprattutto
dalla convivenza forzata di persone assai diverse per provenienza, cultura e
storie personali; ma erano sicuramente di natura diversa e d’intensità ben inferiore
rispetto a quelli che gli immigrati italiani conosceranno negli anni ’60 e ’70
del secolo scorso, provocati da movimenti xenofobi che fomentavano il disprezzo
generalizzato degli stranieri. Inoltre, sessant'anni fa, molti problemi
concerneranno solo gruppi o categorie di immigrati e non erano generalizzabili,
fatta eccezione per quelli che non si era potuto risolvere nella difficile
trattativa che portò all'Accordo di emigrazione del 1948 (statuto stagionale,
periodo di attesa del permesso di domicilio, ricongiungimento familiare
immediato, ecc.).
Occorre dire che ai tempi di Egidio Reale, grazie anche alla
sua particolare sensibilità acquisita nel periodo dell’esilio dalla frequentazione
di molti gruppi di immigrati, non solo la Legazione ma anche i Consolati erano
attenti alle segnalazioni che provenivano soprattutto dal mondo del lavoro.
Spesso, con interventi mirati, molte situazioni veniva chiarite e risolte,
altre volte le questioni si rivelavano più complesse e difficili.
La protesta dei contadini italiani
Uno dei casi più complessi e di difficile soluzione fu
quello riguardante gli italiani immigrati addetti all'agricoltura, che erano
allora diverse migliaia. Per la Svizzera, pur essendo questo un settore
strategico, era gestito praticamente in maniera autonoma dalla potente Unione
dei contadini. In esso vigevano condizioni di lavoro, usanze, tempi di lavoro e
salari assai diversi e svantaggiosi rispetto a quelli applicati ad esempio
nell'industria. Quanto bastava per generare scontento tra gli addetti italiani.
Molti lavoratori si lamentavano non solo degli orari di lavoro eccessivi (fino
a 14 e persino 17 ore al giorno), ma anche delle pessime condizioni lavorative
e salariali e persino di maltrattamenti subiti. Alcuni di essi, rientrati in
Italia, erano riusciti a far scatenare in Italia una campagna di stampa contro
i datori di lavoro svizzeri e a sollecitare un intervento chiarificatore e
possibilmente risolutore da parte della Legazione d’Italia a Berna.
Il Ministro Reale,
in effetti, già nel 1951 aveva segnalato al Ministero degli Affari esteri la difficile
situazione, pur riconoscendo che si trattava del solo «punto oscuro» nel quadro
dell'emigrazione italiana in Svizzera. Egli era anche intervenuto più volte
personalmente presso le competenti autorità svizzere, ma apparentemente senza
riuscire a ottenere sostanziali miglioramenti. La questione era stata persino
trattata in seno al Consiglio federale, ma sembrava irrisolvibile. Nel 1953 fu
avviata anche un’ampia inchiesta tra le imprese agricole svizzere, ma non diede
risultati utili.
Soluzione non violenta
A risolvere la
questione pensarono bene i diretti interessati, o meglio non più tanto interessati.
Infatti, nonostante le pressanti richieste svizzere, gli italiani disposti ancora
a venire e soprattutto a rimanere in Svizzera a coltivare i campi cominciarono
a diminuire vistosamente a partire dal 1952. Si legge ad esempio nell'opera di
Castro citata che «su 2400 braccianti reclutati dall'ufficio del lavoro di
Mantova e diretti verso le campagne sangallesi nel 1953, a tre mesi di
distanza soltanto sei erano restati in Svizzera e questi ultimi perché avevano
trovato lavoro come manovali».
Era una sorta di
rivolta senza violenza a condizioni di lavoro molto dure e mal retribuite, clausole
dei contratti di lavoro non rispettate, assenza di sindacati in grado di far
rispettare i contratti collettivi, cattive condizioni di vitto e alloggio e
persino maltrattamenti.
La ribellione ebbe
successo. Tanto è vero che nei censimenti federali della popolazione dal 1950 in poi la presenza di
italiani nel settore agricolo scenderà da diverse migliaia a poche centinaia.
Giovanni Longu
Berna, 2.10.2013
Berna, 2.10.2013
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