28 luglio 2017

Ignazio Cassis rappresentante dell’italianità della Svizzera



Sono trascorsi 18 anni dall’uscita di Flavio Cotti dal Consiglio federale e la Svizzera italiana non ha ancora trovato un degno successore nello stesso Consiglio, nonostante si siano presentate diverse occasioni. Non ho fatto un’analisi dettagliata delle bocciature degli ultimi candidati «ticinesi», ma sono certo che un ostacolo è stato rappresentato dalla pretesa del Ticino di avere un proprio rappresentante. Né a livello costituzionale né a livello politico può essere rivendicata una rappresentanza cantonale nell’esecutivo federale.

Ritengo pertanto che insistere sulla rappresentanza «cantonale» (come sta avvenendo in gran parte dei media ticinesi) possa nuocere all’ottima candidatura di Ignazio Cassis. So per altro che lui può ben rappresentare l’italianità della Svizzera (che va oltre la stessa Svizzera italiana, geograficamente intesa) ed è questo aspetto che andrebbe sottolineato e privilegiato nei media e nell’opinione pubblica. Già la prima Assemblea federale che elesse Franscini aveva presente la necessità o quantomeno l’opportunità di avere in Consiglio federale rappresentanti di tutte e tre le principali componenti linguistiche e culturali della Svizzera.
Inoltre, i rapporti di buon vicinato con i tre grandi Paesi confinanti Germania, Francia e Italia suggerivano la presenza in Consiglio federale di esponenti linguisticamente e culturalmente vicini alle sensibilità di questi Paesi. In questo senso sono stati di grande esempio non solo Franscini, ma anche Pioda, Motta, E. Celio, Lepori, N. Celio e Cotti. Essi hanno contribuito in modo esemplare a rendere eccellenti le relazioni italo-svizzere.
Ritengo inoltre che, oggi più che in passato, limitare l’italianità entro i confini del Ticino e persino della Svizzera italiana sia troppo riduttivo e non veritiero perché dimenticherebbe, sminuendola, quella parte d’italianità, niente affatto trascurabile, che sta nel resto della Svizzera.
Credo infine che sia tempo di smettere di considerare gli immigrati italiani solo «ottimi lavoratori che hanno contribuito al successo dell’economia svizzera» (T. Tettamanti), parlando al passato (!) e dimenticando, per esempio, che è solo grazie a loro e ai loro discendenti che la lingua italiana ha acquistato un effettivo valore nazionale, che la sensibilità italiana (e ticinese) ha permeato l’intera società svizzera, che le seconde e terze generazioni di italiani (e ticinesi) sono oggi presenti ai massimi livelli dell’insegnamento, del giornalismo, dell’economia, della scienza e della ricerca. Sono italiani e spesso italo-svizzeri che amerebbero, fra l’altro, un o una esponente che rappresentasse in Consiglio federale tutta l’italianità della Svizzera.
Giovanni Longu
Berna, 28.07.2017

26 luglio 2017

La «svizzeritudine» tra passato e futuro



In Svizzera, il tema dell’identità nazionale, della «svizzeritudine», è sempre d’attualità, soprattutto in prossimità della Festa nazionale del 1° agosto. La Svizzera ha sviluppato nei secoli tante caratteristiche in campo politico (neutralità), economico (produzione e commercio), sociale (prosperità diffusa), ma continua ad avere difficoltà di coesione nazionale. Il 1° agosto appare perciò a gran parte degli oratori ufficiali un’occasione propizia per cercare di ravvivare la «svizzeritudine», ossia quei valori che dovrebbero essere rappresentativi dell’identità e della coesione nazionale. Un’impresa non certo facile perché coinvolge popolazioni etnicamente, culturalmente e linguisticamente diverse e, da non sottovalutare, profonde differenze cantonali.

La Festa nazionale per rafforzare la svizzeritudine
Il 1° agosto 1291 è ufficialmente (sebbene non storicamente) la data di nascita della Confederazione, ma è solo dal l991 che viene celebrata in tutta la Svizzera come unico giorno festivo federale. Questo enorme ritardo (rispetto a gran parte degli Stati nazionali) nella celebrazione del proprio giorno di nascita ha sicuramente più di una spiegazione (federalismo, debolezza della Confederazione rispetto ai Cantoni, ecc.), ma non c’è dubbio che molti svizzeri abbiano ancora oggi difficoltà a sentirsi appartenenti a una medesima identità nazionale. Per questo ogni anno vengono ricordati il coraggio e gli ideali comuni che hanno guidato i fondatori nella formazione dello Stato federale.
Lo Stato, per gli svizzeri, è ancora oggi in primo luogo il Cantone. La Camera alta dell’Assemblea federale (Parlamento) è il «Consiglio degli Stati» (non Senato, com’è denominato abitualmente altrove) poiché i Cantoni sono considerati veri e propri Stati, sia pure a sovranità limitata. Le tasse si pagano allo Stato (cioè al Cantone) e solo in parte alla Confederazione. Lo Stato, cioè il Cantone, amministra la vita pubblica. E’ comprensibile dunque che ogni cittadino in questo Paese si senta in primo luogo bernese, ticinese, zurighese, ecc. e poi anche svizzero. Retaggio di quando i Cantoni erano in competizione, anzi in lotta, tra loro? Forse, ma anche perché gli svizzeri si sentono ancora diversi tra loro, pur appartenendo formalmente a un’unica nazione e pur rispettandosi reciprocamente. 

«Svizzeri» per necessità
Gli svizzeri si sentono fortemente svizzeri soprattutto rispetto agli stranieri. L’idea di celebrare il 1° agosto (inizialmente con fuochi serali e suoni di campane) e di ravvivare il sentimento nazionale prese consistenza quando in Svizzera, sul finire dell’Ottocento, i numerosi stranieri immigrati (soprattutto tedeschi, francesi e italiani) cominciarono a rappresentare agli occhi di molti svizzeri un pericolo per l’identità nazionale. Era un’epoca in cui soprattutto tedeschi e italiani si comportavano come se fossero a casa loro e in cui gli svizzeri dovevano in qualche modo adeguarsi.
In realtà, tutta la storia dell’identità nazionale svizzera è caratterizzata dalla necessità di adeguarsi a situazioni esterne. Le alleanze delle prime popolazioni della Svizzera centrale furono dettate inizialmente da esigenze strategico-difensive più che da ideali condivisi e successivamente da necessità politico-economiche. Furono motivazioni della stessa natura che spinsero i Cantoni primitivi a stringere nuove alleanze, a conquistare nuove terre, ad occupare i passi alpini e le principali vie del commercio attraverso le Alpi.
La difesa del territorio e del benessere raggiunto ha sempre spinto gli svizzeri a restare uniti, anche perché quando non lo erano conobbero l’umiliazione della sconfitta (a Marignano nel 1515) e dell’occupazione francese (1798). La stessa «neutralità», da cui la Svizzera trarrà enormi benefici, fu imposta dalla grandi potenze, obbligando in qualche modo gli svizzeri a comportarsi in maniera unitaria rispetto agli altri Stati.

«Svizzeri» per volontà
L’identità nazionale svizzera non è tuttavia riconducibile alla sola paura o costrizione esterna. Essa è soprattutto frutto della volontà degli svizzeri di stare e svilupparsi insieme. Le dure prove delle due guerre mondiali hanno contribuito a rafforzare in loro non solo il senso dell’unità del territorio, da difendere incondizionatamente, ma anche il sentimento di appartenenza ad un’unica nazione. Insieme hanno rafforzato la convivenza pacifica, il rispetto reciproco, la coesione e la solidarietà tra i
confederati; le leggi e una sostanziale buona amministrazione hanno sviluppato ovunque caratteristiche e valori comuni come l’attaccamento al lavoro, l’intraprendenza, il rispetto delle istituzioni, l’importanza della formazione, la pragmaticità delle decisioni, la democrazia diretta, ecc.
Eppure, a mio parere, resta ancora molto da fare. Numerose votazioni mettono bene in evidenza i divari tra città e campagna, tra regioni linguistiche, tra forze conservatrici e forze aperte all’accoglienza e all’integrazione. Persino l’elezione di un consigliere federale sembra mettere più in luce le differenze esistenti che l’esigenza di un governo autorevole e sensibile alle esigenze dei cittadini.
Trovo perciò giusto che il 1° agosto continui a ricordare il passato, ma dovrebbe essere celebrato anche come un monito per il futuro, perché il cammino dell’integrazione, della solidarietà e della coesione non è finito.
Giovanni Longu
Berna, 26.07.2017