25 gennaio 2017

Italiani in Svizzera: 2. Quando la frontiera italo-svizzera era aperta (1868-1914)



L’inizio delle relazioni migratorie tra l’Italia e la Svizzera risale a un’epoca che precede la stessa proclamazione dell’Unità d’Italia (17 marzo 1861) e della moderna Confederazione (1848). Lungo il confine ci sono sempre stati passaggi di italiani (soprattutto veneti e lombardi) e svizzeri (soprattutto ticinesi e grigionesi) per motivi di lavoro (agricoltura, artigianato, commercio). Numerosi italiani si erano stabiliti in Svizzera e molti svizzeri, soprattutto ticinesi e grigionesi, si erano trasferiti in Italia. Fino al 1914 (inizio della prima guerra mondiale) la migrazione attraverso il confine italo-svizzero era libera, senza regole precise, nello spirito del buon vicinato.

1868: il primo accordo
Per decenni il confine italo-svizzero è rimasto "aperto"
per i migranti italiani e svizzeri
Per disciplinare in maniera durevole e profittevole per entrambe le parti la questione dei cittadini italiani che decidevano di stabilirsi in Svizzera e dei cittadini svizzeri che decidevano di trasferirsi in Italia, il 22 luglio 1868, la Confederazione e il Regno d’Italia stipularono un «Trattato di domicilio e consolare», che può essere considerato il primo accordo italo-svizzero in materia di migrazione.
Quel trattato, com’è facilmente intuibile, è estremamente importante per chiunque voglia conoscere non solo gli inizi dei rapporti italo-svizzeri ufficiali in materia migratoria, ma anche le basi giuridiche e motivazionali di tali rapporti fino a oggi, sebbene questi abbiano avuto nel tempo un andamento non sempre lineare e conforme allo spirito delle origini. A conferma della sua importanza aggiungo che il Trattato del 1868 non è mai stato denunciato o sostituito e pertanto esso è ancora in vigore, anche se nel frattempo la legislazione in materia, soprattutto quella svizzera, ha subito numerosi cambiamenti.
Mi sembra opportuno, per cogliere lo spirito del Trattato e l’importanza in particolare dell’articolo 1, ricordare anzitutto le motivazioni che hanno spinto il Consiglio federale della Confederazione Svizzera e Sua Maestà il Re d’Italia a concludere l’accordo, ossia il «desiderio di mantenere e rassodare le relazioni d’amicizia che stanno fra le due nazioni, e dare mediante nuove e più liberali stipulazioni più ampio sviluppo ai rapporti di buon vicinato tra i cittadini dei due Paesi». Che non si trattasse solo di un «desiderio», ma di un impegno solenne, lo dimostra l’articolo 1 che inizia con questa affermazione: «Tra la Confederazione Svizzera e il Regno d’Italia vi sarà amicizia perpetua, e libertà reciproca di domicilio e di commercio».

Piena libertà d’industria, di commercio e di domicilio
I due giovani Stati erano talmente intenzionati a consolidare l’amicizia e a sviluppare i rapporti di buon vicinato da riconoscersi reciprocamente una sorta di diritto di libera circolazione dei propri cittadini attraverso una frontiera comune che per loro doveva restare aperta. L’unica condizione, ovvia, era che il suo passaggio fosse «lecito», ossia nel rispetto delle leggi e della prassi vigenti.
Il punto più importante dell’articolo 1 non riguarda tuttavia il passaggio di frontiera, ma il soggiorno e lo stabilimento (domicilio) nell’uno o nell’altro Paese. Ed è al riguardo che si può notare l’aspetto più innovativo del Trattato. Si stabilisce, infatti, che «gli Italiani saranno in ogni Cantone della Confederazione Svizzera ricevuti e trattati, riguardo alle persone e proprietà loro, sul medesimo piede e alla medesima maniera come lo sono o potranno esserlo in avvenire gli attinenti degli altri Cantoni. E reciprocamente gli Svizzeri saranno in Italia ricevuti e trattati riguardo alle persone e proprietà loro sul medesimo piede e nella medesima maniera come i nazionali».
Per non restare nel vago, come se si volessero eliminare eventuali dubbi o fraintendimenti, l’articolo 1 prosegue precisando tutta una serie di circostanze: «Di conseguenza, i cittadini, di ciascuno dei due Stati, non meno che le loro famiglie, quando si uniformino alle leggi del paese, potranno liberamente entrare, viaggiare, soggiornare e stabilirsi in qualsivoglia parte del territorio, senza che pei passaporti e pei permessi di dimora e per l’esercizio di loro professione siano sottoposti a tassa alcuna, onere o condizione fuor di quelle cui sottostanno i nazionali…».
Il Trattato, inoltre, prevede per i cittadini di entrambi i Paesi la piena libertà di commercio, sia all’ingrosso che al minuto: «gli uni e gli altri saranno su un piede di perfetta eguaglianza in tutte le compere non meno che in tutte le vendite loro, liberi di stabilire e fissare il prezzo degli effetti, delle merci e degli oggetti quali siansi, tanto importati che indigeni, sia che li vendano nell’interno o che li destinino all’esportazione, purché si uniformino esattamente alle leggi e ai regolamenti del paese». La piena libertà riguarda anche l’esercizio di «ogni professione od industria» escludendo per tutte queste attività «obblighi od oneri maggiori e più gravi di quelli cui sono o potranno essere soggetti i nazionali».

Un buon inizio, ma senza garanzie per il futuro
A prima vista, i rapporti italo-svizzeri in materia di emigrazione non potevano avere inizio migliore. Il Trattato garantisce infatti ai cittadini italiani, rispettivamente ai cittadini svizzeri, domiciliati in Svizzera, rispettivamente in Italia, sostanzialmente gli stessi diritti e doveri dei nazionali, eccezion fatta per i diritti politici e gli obblighi militari, riservati a livello federale e in quasi tutti i Cantoni ai soli cittadini svizzeri.
Tuttavia, a chiunque leggesse per la prima volta le frasi citate, ma conoscesse almeno nelle linee essenziali la storia dell’immigrazione italiana in Svizzera, sorgerebbero spontanee almeno due domande. La prima: se il Trattato del 1868 garantisce agli immigrati praticamente gli stessi diritti economici e civili dei nazionali, perché la vita di intere generazioni di immigrati italiani in Svizzera è stata sottoposta a condizionamenti di ogni genere, esclusioni e persino discriminazioni? La seconda: perché l’Italia non è mai intervenuta efficacemente per far rispettare lo spirito e la lettera di quel Trattato, che è ancora ufficialmente in vigore?
Rispondere compiutamente a entrambe le domande, certamente pertinenti, richiederebbe molto spazio, per cui provo a dare una risposta solo alla prima, rinviando una risposta diretta o indiretta alla seconda a successivi articoli.

Amicizia non senza interessi da entrambe le parti
Anzitutto va ricordato che il contesto in cui il Trattato è stato stipulato era eccezionale e verosimilmente non avrebbe potuto durare invariato per sempre. Solo in quel momento, tanto la Confederazione che il Regno d’Italia, Stati «giovani» ancora in formazione, avevano tutto l’interesse a intrattenere soprattutto con i Paesi vicini rapporti di buon vicinato e di sostegno reciproco. Per di più in quel momento stavano maturando alcuni importanti progetti che richiedevano una grande convergenza d’idee e un sostanziale contributo di entrambi i Paesi.
La Confederazione era stata tra le prime nazioni a riconoscere lo Stato italiano ad appena due settimane dalla proclamazione del Regno d’Italia ed era particolarmente interessata a stabilire con tutti i Paesi vicini trattati d’amicizia e di domicilio, garantendo reciprocità. In questo modo essa intendeva anzitutto migliorare la situazione degli svizzeri all’estero e quindi anche quelli stabilitisi in Italia, dove c’erano al momento del Trattato importanti colonie di svizzeri: in Lombardia (Milano, Bergamo), nel Veneto (Venezia), in Liguria (Genova), nel Centro Italia (Roma, Firenze, Pisa, Livorno) e nel Mezzogiorno (Napoli, Salerno, Palermo) per complessivi 15-20.000 cittadini. Ma questo, come si vedrà, non era l’unico interesse della Svizzera.
L’amicizia tra Stati, però, è tanto più solida quanto più grandi sono i rapporti e gli interessi reciproci. In quel momento la Svizzera e l’Italia, oltre alla difesa dei propri cittadini, ne avevano due in particolare: la convergenza sulla scelta del traforo del San Gottardo per una ferrovia transalpina e un accordo commerciale.

L’opzione Gottardo determinante
L’Italia, che aveva certamente interesse ad avere col Paese confinante buoni rapporti di vicinato oltre che interesse a salvaguardare gli italiani (15-18.000) residenti in particolare nel Ticino e nei Grigioni, aveva da poco scelto l’opzione del tunnel sotto il San Gottardo per il progetto di ferrovia transalpina di cui si discuteva fin dai tempi di Cavour.
La realizzazione della ferrovia del San Gottardo fu determinante.
A sostegno di questa scelta erano intervenuti convintamente presso il governo italiano il politico milanese Carlo Cattaneo e il diplomatico nonché ex consigliere federale Giovan Battista Pioda. Nel 1866 un’apposita commissione aveva approvato a maggioranza il progetto del San Gottardo e il 1° maggio 1868 era stato firmato un trattato di commercio tra l’Italia e la Svizzera. E’ probabile che la decisione di realizzare il tunne più lungo del mondo (che avrebbe richiesto molta manodopera italiana) sia stata determinante anche per la firma del Trattato di domicilio e consolare del 22 luglio 1868.
L’Accordo del 1868 segnò di fatto l’avvio di un lungo periodo di immigrazione libera (ossia senza regole speciali) attraverso il confine italo-svizzero. Ad approfittarne sono stati soprattutto gli italiani che entrarono in Svizzera a decine di migliaia ogni anno e per decenni fino agli anni Ottanta del secolo scorso, fatta eccezione per il periodo fra le due guerre mondiali. (Segue)
Giovanni Longu
Berna, 25.1.2017