10 febbraio 2016

Capire la Svizzera: 15. Ricerca, innovazione e collaborazione le carte vincenti



Quando la Confederazione Svizzera si diede la prima Costituzione federale (1848) si diede anche come obiettivo primario il raggiungimento della «comune prosperità». I costituenti dovettero tuttavia costatare subito il divario economico e sociale esistente rispetto ai principali Stati europei dov’era in atto da tempo l’industrializzazione: Inghilterra, Francia e Germania. Competere con questi Paesi dovette apparire assai difficile, ma non impossibile, benché la Svizzera partisse molto svantaggiata, non disponendo né delle materie prime che essi possedevano in grande quantità né delle conoscenze necessarie (know-how). A distanza di oltre un secolo e mezzo si può tranquillamente affermare che quella sorta di sfida fu vinta: la «comune prosperità» è stata ampiamente raggiunta e la Confederazione attraverso un solido sistema formativo di alto profilo ha collocato la Svizzera ai primi posti nel mondo per la ricerca, lo sviluppo e l’innovazione.

Compito chiaro, ma difficile da realizzare
Il compito assegnato dalla Costituzione alla nuova Confederazione era chiaro: favorire il progresso e sviluppare le conoscenze necessarie. Dato il punto di partenza di relativa arretratezza, la strada da percorrere non dev’essere stata tuttavia né breve né facile. La Confederazione non poteva scavalcare le competenze dei Cantoni né sostituirsi ad essi in materia di formazione né ostacolare in campo economico la libertà di commercio e di industria dei cittadini garantita costituzionalmente.
Alla Confederazione restava, oltre a una competenza generale di coordinamento e una competenza propria di istituire il Politecnico federale, il compito non facile di «promuovere la comune prosperità». In altre parole, doveva creare le condizioni quadro perché l’istruzione fosse generale e di buon livello e l’economia potesse svilupparsi liberamente, sia pure nel solco tracciato dalla Costituzione, ossia tenendo conto che lo sviluppo economico dev’essere sostenibile e responsabile «verso le generazioni future» e che «la forza di un popolo si commisura al benessere dei più deboli dei suoi membri» (Preambolo della Cost. vigente).

Avvio promettente prima della crisi
Per la Confederazione, almeno inizialmente, si trattò soprattutto di eliminare alcuni vincoli interni come i dazi e le dogane per favorire la formazione di un mercato interno unico con una moneta unica e regole minime valide per tutti. Ben presto, tuttavia, si dovette affrontare insieme (Cantoni, Confederazione, banche, economia privata) il problema dei trasporti, indispensabili per lo sviluppo del Paese e le comunicazioni con i Paesi vicini. Altra sfida superata: in pochi decenni la Svizzera riuscì a darsi una delle reti ferroviarie e stradali più fitte ed efficienti d’Europa.
Già all’inizio della prima guerra mondiale la Svizzera aveva un’economia florida. La produzione industriale era in rapida crescita, il turismo interno e internazionale fioriva, le esportazioni contribuivano ad innalzare di un terzo il reddito della popolazione. Secondo alcune stime, la Svizzera superava l’Inghilterra e la Germania per valore di esportazioni pro capite di macchine e altri prodotti industriali. Il benessere si diffondeva tra la popolazione.
Durante la prima guerra mondiale, sebbene la Svizzera non partecipasse al conflitto in forza della sua neutralità, risentì fortemente della sua condizione di Paese interamente circondato da Stati belligeranti soprattutto nelle esportazioni e importazioni. Le difficoltà economiche inasprirono i contrasti sociali, soprattutto tra la classe operaia e alcuni imprenditori che avevano tratto enormi profitti dall’economia di guerra, che sfociarono nel famoso sciopero generale del 1918, fatto cessare con l’intervento dell’esercito che provocò quattro morti.
La chiusura lampo, un'invenzione svizzera.
Tra le due guerre mondiali la Svizzera attraversò un lungo periodo di crisi caratterizzato dal perdurare dei contrasti interni, dalla depressione degli anni ’30, dall’aggravarsi della disoccupazione (da 8000 disoccupati nel 1929 si era passati a 93’000 nel 1936) e dall’incertezza del dopoguerra. Per rasserenare il clima sociale e attenuare la contrapposizione tra i partiti borghesi e le sinistre, sindacati e datori di lavoro delle industrie meccanica e metallurgica sottoscrissero il 19.7.1937 un accordo, noto come pace del lavoro. Con esso le parti contraenti s’impegnavano a risolvere i conflitti lavorativi mediante negoziati, rinunciando alle tradizionali forme di lotta quali scioperi e serrate. Il clima sociale migliorò.

Nuovo slancio dopo il 1945
Finita la seconda guerra mondiale, la Svizzera si trovò in una condizione di vantaggio rispetto a tutti i Paesi vicini (che dovevano pensare anzitutto alla ricostruzione e abbisognavano di molti beni di consumo e strumentali) e non perse l’occasione per riprendere con slancio tutte le attività produttive che aveva dovuto ridurre prima. Per far fronte alla domanda crescente di beni e servizi proveniente dall’interno e da numerosi Paesi, già dalla fine del 1945 si rese conto di aver bisogno di molta manodopera generica e qualificata, che non aveva ma che poteva far arrivare dall’estero, soprattutto dall’Italia.
Per alcuni decenni la Svizzera beneficiò della congiuntura favorevole e presto divenne uno dei Paesi più progrediti e ricchi del mondo. Molto superficialmente si è pensato talvolta che il benessere della Svizzera sia dipeso dalle disgrazie altrui, dallo sfruttamento della manodopera estera come pure da un uso spregiudicato del segreto bancario, mentre le vere ragioni del benessere svizzero vanno cercate altrove, senza con ciò assolvere nella maniera più assoluta quanti hanno approfittato delle disgrazie altrui, della manodopera a buon mercato e abusato del segreto bancario.
Alla base del successo svizzero ci sta, a mio parere, anzitutto la capacità, la costanza e la risolutezza della classe politica svizzera dal 1848 ad oggi nell’attuazione del dettato costituzionale che impone alla Confederazione di promuovere la «comune prosperità». Va dato merito al Consiglio federale e al Parlamento di aver saputo creare nel tempo condizioni quadro perché l’economia evolvesse secondo le leggi del mercato, ma anche tenendo conto delle esigenze sociali attuali e future. I risultati, mi sembra, premiano globalmente l’attività del Governo e del Parlamento svolta finora.
La carta di alluminio, un'altra invenzione svizzera
Sarebbe tuttavia un errore attribuire il merito dell’attuale prosperità solo alla politica. Non vanno infatti dimenticati i veri protagonisti del successo svizzero, ossia gli svizzeri e quanti insieme a loro hanno saputo trasformare le materie prime in prodotti ad alto valore aggiunto, hanno creato ogni sorta di manufatti, si sono immersi nella ricerca, quella fondamentale e quella applicata, hanno inventato nuovi prodotti e nuove tecnologie, hanno contribuito alla diffusione del benessere e continuano incessantemente nella formazione, nella ricerca, nell’innovazione. Svizzeri e stranieri, in efficace sinergia, anche se non sempre armoniosa, sono i veri artefici del benessere svizzero.

Sinergie tra svizzeri e stranieri
A conferma di questa sinergia basterebbe ricordare la realizzazione delle maggiori infrastrutture (ferrovie, strada, autostrade, ponti, edilizia, riassetto urbanistico di molte città, ecc.), l’attività nelle grandi fabbriche di ogni tipo di produzione e nei servizi di ogni genere, ma anche l’intensa collaborazione nei centri di ricerca e di sviluppo, pubblici e privati. Bastano pochi nomi per dare l’idea della dimensione e dell’intensità dell’apporto di ingegno e d’imprenditorialità di molti stranieri allo sviluppo economico della Svizzera: Julius Maggi, Henry Nestlé, Carl Franz Bally, Karl Albert Wander, Charles Brown e Walter Boveri, Nicolas Hayek, Ernesto Bertarelli, ecc.
Il primo orologio da polso fu creato in Svizzera nel 1910
 per la regina di Napoli, Carolina Bonaparte
In questo contesto favorevole, che oltre che sulle sinergie tra svizzeri e stranieri si basa, soprattutto, sulle sinergie tra pubblico e privato, sono nate anche innumerevoli invenzioni, molte delle quali sono conosciute quasi esclusivamente in ambito scientifico e tecnologico, altre, pur essendo divenute di uso quasi quotidiano, non sono per nulla o poco conosciute dal grande pubblico.
Oltre a grandi scoperte come il motore a scoppio per le automobili, la turbina idraulica, la turbina a vapore, la turbina a gas, la sintesi delle vitamine, i nano robot, il rilevatore delle vittime di valanghe, ecc. meritano qui un accenno alcune invenzione che si sono rivelate di grande utilità pratica. Si pensi, per esempio, al latte in polvere, ai prodotti Maggi, al caffè solubile (Nescafé), alle capsule per il caffè Nespresso, all’orologio da polso, al swatch, alla cerniera lampo, alla chiusura a strappo velcro, alla carta di alluminio, al cellofan, alla catena della bicicletta, al pelapatate, allo stendibiancheria ad ombrellone, all’anitra WC, ecc.

La ricerca continua
Quando si discute di immigrazione e in generale di stranieri, talvolta con atteggiamenti di superiorità o comunque inappropriati, bisognerebbe ricordarsi che senza immigrati, magari prontamente naturalizzati, l’economia svizzera sarebbe evoluta diversamente, il benessere non avrebbe raggiunto l’ampiezza e il livello attuali e anche la ricerca e l’innovazione non occuperebbero le posizioni avanzate che detengono.

Quanto al futuro è rassicurante che il presidente della Confederazione Schneider-Ammann anche recentemente abbia confermato che «il mantenimento della posizione di punta della Svizzera nel campo dell'educazione, della ricerca e dell'innovazione resta una priorità del Consiglio federale», ma per esserne certi bisognerà che la Svizzera non esca dal quadro europeo della ricerca e faccia chiarezza sui suoi rapporti con l’Unione europea.
Una delle chiavi del successo svizzero dovrà essere anche in futuro la sinergia tra svizzeri e stranieri (integrazione) e l’intesa tra Svizzera e Unione europea. Nessun’altra strada dà maggiori garanzie.
Giovanni Longu
Berna, 10.02.2016

08 febbraio 2016

Unioni civili e doppia genitorialità?



Provo tristezza a seguire il dibattito sulle unioni civili in Italia. Nato come battaglia di civiltà per il riconoscimento dei diritti e dei doveri derivanti da una convivenza legittima delle coppie omosessuali, il tema rischia a mio parere di degenerare quando si pretende di accorpare ai diritti anche la violenza su eventuali minori negando loro il diritto alla genitorialità naturale. Che altro sarebbe, infatti, l’adozione del figlio o figlia del partner da parte dell’altro partner di una coppia omosessuale se non l’attribuzione a un bambino di un secondo padre o di una seconda madre?
Da che mondo è mondo ogni essere umano vede la luce grazie a un padre e a una madre. Con il disegno di legge (ddl) Cirinnà un bambino potrebbe essere costretto ad avere un genitore 1 e un genitore 2. Per rendersene conto basta andare a leggersi in un qualsiasi dizionario il significato del termine «adozione». In Wikipedia: «l'adozione è un istituto giuridico che permette a un soggetto detto adottante di trattare ufficialmente un altro soggetto detto adottato come figlio, il quale assume il cognome dell'adottante».
Per aggiungere confusione al problema, serissimo, si è persino giunti (e purtroppo non è la prima volta) a utilizzare per questo «istituto giuridico» l’espressione inglese «stepchild adoption», con scarso senso democratico (perché si sa bene che in Italia solo pochi conoscono sufficientemente l’inglese) e scarso rispetto della lingua italiana (anche se la Costituzione, purtroppo, non garantisce l’italiano come lingua ufficiale dello Stato).
Sicuramente qualche sostenitore del ddl Cirinnà ora in discussione al Senato, obietterà che con l’adozione del figlio acquisito si vuole unicamente la felicità del bambino e non certo (solo) quella della coppia omosessuale, ma mi pare un argomento insostenibile perché non è dimostrabile in anticipo la felicità o l’infelicità di un bambino per esempio nella delicata fase adolescenziale, quando il problema delle radici, ossia del padre e della madre, s’imporrà in maniera forte. Difficilmente si può escludere che il fatto di avere legalmente due padri o due madri possa comportare qualche trauma psicologico. Si tratterà infatti sempre di una situazione «a-normale», almeno statisticamente.
Trovo anche strano che uno Stato che per bocca di molti suoi rappresentanti si vanta di essere la culla del diritto  non trovi una soluzione più dignitosa e rispettosa del bambino orfano (o comunque in condizione simile) per garantirgli nel presente e nel futuro i diritti civili che gli spettano, senza ricorrere alla forzatura della doppia paternità o una doppia maternità.
A coloro che sostengono che è padre o madre solo chi ama si dovrebbe rispondere che si può amare un bambino (come qualunque altra persona) anche senza esserne né padre né madre e senza adottarlo. Gli esempi per dimostrarlo non mancherebbero certo. In ogni caso i diritti dei figli in condizione di adottabilità non andrebbero mescolati con i diritti civili rivendicati dalle coppie omosessuali.
Da questo punto di vista trovo coerente la legislazione svizzera che, nella «legge federale sull'unione domestica registrata di coppie omosessuali» (così si chiamano in questo Paese le unioni civili per non dare luogo alcuno a confusioni con la famiglia e col matrimonio tra uomo e donna) del 2004, dichiara esplicitamente: «Chi è vincolato da un'unione domestica registrata non può adottare né valersi di tecniche di procreazione medicalmente assistita» (art. 28).
Giovanni Longu
Berna, 8.2.2016