23 settembre 2015

Dibattito religioso aperto, ma sottotono


 
Questa estate la stampa nazionale è più volte intervenuta su questioni religiose, senza per altro aprire un vero dibattito nell’opinione pubblica. La Svizzera ha conosciuto la guerra di religione, le difficoltà di convivenza tra etnie diverse non solo per lingua, cultura, condizione economica, ma anche per confessione religiosa. Persino la provenienza di numerosi immigrati da Paesi tradizionalmente cattolici come l’Italia e la Spagna ha creato fino agli anni ’70 del secolo scorso difficoltà di rapporti tra indigeni e stranieri. Ora, da qualche decennio, la Svizzera conosce una solida pace religiosa, e non intende certo metterla in pericolo, nonostante periodiche strumentalizzazioni di una parte minoritaria della popolazione che considera l’ascesa della componente musulmana una minaccia.

La pace religiosa tiene
La pace religiosa tiene perché non ci sono più motivi di conflitto. Il paesaggio religioso della Svizzera è abbastanza stabile, dopo i grandi mutamenti degli ultimi cinquant’anni, che hanno visto aumentare la componente cattolica, divenuta predominante, e diminuire quella protestante. Entrambe le confessioni non hanno più motivi di rivalità o di contrasto e non sembrano affatto preoccupate dell’aumento dei musulmani, con cui per altro cercano il dialogo. Semmai, a creare qualche problema (anche di natura finanziaria) per entrambe è il numero crescente di persone che escono dalla chiesa e vanno ad ingrossare la fila delle persone che si dichiarano senza confessione (circa 1 milione e mezzo).
La pace tiene anche o forse soprattutto (?) perché la religione ha nettamente perso il significato e il valore che avevano in passato. L’appartenenza religiosa è sempre più un fatto privato, a parte l’aspetto fiscale obbligatorio per gli appartenenti alle maggiori confessioni di diritto pubblico (la cosiddetta imposta ecclesiastica). Quanto alla partecipazione dei fedeli alle cerimonie religiose, è facile costatare quanto sia divenuto raro e difficile riempire i luoghi di culto.
In questo contesto non può sorprendere che il dibattito religioso in Svizzera sia alquanto sottotono, a cominciare dall’interrogativo sulle responsabilità della situazione, ossia se questa perdita d’importanza della religione, almeno apparentemente, sia più dovuta a forme di materialismo e relativismo assai diffuse in una società del benessere come quella svizzera o anche all’incapacità delle chiese di «sentire» le esigenze della gente e proporre ideali perseguibili.

La discussione sulla famiglia
Uno dei pochi temi su cui il tono del dibattito si è un tantino elevato in questi ultimi mesi è stato quello sulla famiglia. Sebbene in Svizzera questa discussione sia aperta da tempo, sia pure in tono sommesso, quest’estate si è a
nimata per due circostanze particolari.
La prima spinta è venuta dalla convocazione di papa Francesco di un sinodo speciale dedicato alla famiglia ed è stata sicuramente quella più produttiva in quanto ha avviato tra i cattolici una riflessione sul significato della «famiglia cristiana» in un mondo, in particolare quello svizzero, in cui convivono pacificamente diverse tipologie di famiglia: oltre a quella tradizionale fondata sul matrimonio, tutte quelle altre forme costituite dalle famiglie allargate, dalle coppie «di fatto», con o senza figli, eterosessuali e omosessuali, ecc.
La seconda circostanza, che ha provocato molto rumore e poca sostanza, è dovuta ad alcune affermazioni del vescovo di Coira Vitus Huonder sulla omosessualità. Pur essendosi limitato a citare un brano della Bibbia del Vecchio Testamento in cui si evoca la pena di morte per gli omosessuali maschi, fu accusato nientemeno che di istigazione alla violenza. Non penso che intendesse provocare più che una riflessione sulla delicatezza del tema nell’ambito di un approfondimento attorno alla famiglia «cristiana», ma tant’è che tutta la stampa per qualche giorno non ha fatto che parlare del vescovo «ultraconservatore» di Coira, invocando un intervento chiarificatore dei vescovi svizzeri e addirittura del papa.

Temi caldi e aspettative deboli
Anche a prescindere dal tema sollevato dal vescovo Huonder, il prossimo sinodo che si aprirà ad ottobre, dovrà affrontare anche altri aspetti della «famiglia» sui quali a dire il vero le opinioni sono molteplici e alquanto discordanti: le coppie di fatto, etero e omosessuali, la condizione dei divorziati risposati nella chiesa, l’aborto, lo sfruttamento sessuale di donne e bambini, ecc.
Dai media o da discussioni occasionali, se posso interpretare l’opinione pubblica, non mi risulta ci sia tra i cattolici svizzeri una grande attesa di risultati sorprendenti dal prossimo sinodo. In fondo si dà per scontato che né i vescovi né il papa possano allontanarsi dalla tradizione che considera famiglia unicamente quella fondata sul matrimonio e condanna in linea di principio l’aborto, i contraccettivi e altre pratiche contrarie alla morale cattolica. Non si nasconde tuttavia una certa curiosità di vedere come l’assemblea romana e lo stesso papa si esprimeranno alla fine del sinodo sui temi più caldi.
Personalmente ritengo probabile che, soprattutto per impulso di papa Bergoglio, pur lasciando intatta la sostanza della tradizione cattolica in materia di famiglia e sessualità, il sinodo indicherà un diverso orientamento rispetto al passato. Se prima tutta la problematica era vista quasi esclusivamente alla luce della dottrina della fede, dei comandamenti, delle norme canoniche, ora è possibile e oltremodo probabile che finirà per prevalere nelle conclusioni sinodali un’impostazione meno dottrinale e più pastorale.
Per questo, credo, il sinodo insisterà anche sulla variabilità dell’approccio per tener conto delle molteplici problematiche e sensibilità a livello mondiale, senza pretendere d’imporre un’unica visione universalmente valida (si ricadrebbe inevitabilmente nella visione dottrinale del passato). Dal sinodo risulterà inevitabilmente anche una maggiore responsabilità dei vescovi e dei pastori delle diverse chiese locali. Perché la loro azione produca effetti salutari, nel solco della fede cristiana, sarà comunque inevitabile che si lascino guidare dallo Spirito e non dalle mode e nemmeno dai costumi, per quanto diffusi e accettati possano essere.

L’inno nazionale cambierà?
Un altro tema che ha provocato alcuni interventi appassionati sulla stampa ha riguardato la scelta del nuovo inno nazionale. Anche al riguardo va detto che il tema non ha appassionato l’opinione pubblica, ma è interessante notare che anche il mondo politico è intervenuto per non lasciare a parolieri e musicisti in esclusiva la scelta dell’inno nazionale della Svizzera.
Va ricordato che l’attuale inno, che si vorrebbe sostituire, è più simile a un salmo del Vecchio Testamento che a un inno patriottico. Il nome di Dio vi risuona più volte e sta a denotare quanto i padri della moderna Confederazione tenessero a porre la nazione sotto la benedizione e la protezione dell’Onnipotente. Poiché a molti svizzeri questo inno non piace, la Società svizzera di utilità pubblica (SSUP) ha pensato bene di lanciare un concorso per un nuovo inno.
In un ambiente sociale e culturale in cui ormai la religione è divenuta un valore minore, non ci si poteva certo aspettare un semplice ammodernamento della forma del vecchio inno, lasciando in qualche modo inalterata la sostanza. Il fatto è che il nuovo inno uscito vincitore dal concorso a cui hanno partecipato decine di concorrenti sembra tutt’altra cosa rispetto a quello attuale. Il significato religioso è totalmente scomparso perché, secondo l’autore dell’inno vincitore, Werner Widmer, «non abbiamo bisogno di una nuova preghiera», ma di una maggiore «apertura al mondo», in cui i valori da difendere sono la libertà, la pace, la pluralità, la solidarietà, ma non la religione. Eppure, secondo il mandato dell’associazione che aveva lanciato il concorso, la base del nuovo inno doveva essere il preambolo della Costituzione federale, che inizia con queste parole: «In nome di Dio Onnipotente!».
Questa scelta però non a tutti piace e, soprattutto nel mondo cattolico, molti sono insorti contro la proposta sostitutiva dell’attuale inno, che secondo la deputata al Gran Consiglio retico Nicoletta Noi-Togni, «è bello e pulito come i paesaggi svizzeri che evoca e rappresenta quella radice di comune conoscenza nel tempo e nel luogo capace di raggiungere l’intimo e di commuovere». Anche il consigliere nazionale Marco Romano è intervenuto presso il Consiglio federale per accertarsi se a fronte dell’iniziativa della SSUP ci sia stato un mandato del governo e contributi federali. Il Consiglio federale ha escluso l’uno e l’altro. Segno che per avere un nuovo inno il popolo svizzero dovrà prima o contemporaneamente dire no a quello attuale e trovare una buona maggioranza per approvarne un altro, che rivesta davvero un carattere «nazionale».
La discussione, anche se molto contenuta, su uno dei principali simboli del Paese sta a denotare che il popolo svizzero non si appassiona forse tanto alle questioni religiose istituzionali, ma è ancora molto sensibile ai suoi miti e ai suoi simboli. La «croce svizzera» fu decretata stemma ufficiale della Confederazione già nel 1815, quando ancora lo Stato federale non esisteva. Il mitico «Patto federale» del 1291 comincia con questa invocazione: «Nel nome del Signore, così sia». La prima Costituzione federale del 1848, fondamento della Confederazione moderna, si apre con un richiamo simile: «In nome di Dio Onnipotente!». La stessa espressione è ancora presente nel preambolo dell’attuale Costituzione del 1999. La Svizzera è disseminata di monumenti religiosi ultramillenari, considerati di «importanza nazionale». E’ ancora attiva, ininterrottamente da oltre 1500 anni, la più vecchia abbazia benedettina dell’Occidente, Saint-Maurice nel Vallese.
Non è pensabile che, all’improvviso, il popolo svizzero volti le spalle a questa plurisecolare tradizione, sia pure per un nuovo inno nazionale… che non la rappresenta.

Giovanni Longu
Berna, 23.9.2015

22 settembre 2015

L’Abbazia di Saint-Maurice ha compiuto 1500 anni




L’Abbazia di Saint-Maurice, nel Vallese (Svizzera), è probabilmente la più antica istituzione occidentale che da quindici secoli testimonia ininterrottamente la fede cristiana. Oggi si è concluso solennemente l’anno di festeggiamenti con una bella allocuzione del consigliere federale Didier Burkhalter alla presenza di un folto pubblico e numerosi rappresentanti delle autorità e di istituzioni civili, religiose e militari.

Saint-Maurice baluardo della fede da quindici secoli
Abbazia di Saint-Maurice (foto gl)
La cristianizzazione in Svizzera è cominciata presto, introdotta dai soldati romani, ma si è sviluppata soprattutto a partire dal VI secolo. In quel periodo, soprattutto nei presidi romani e nelle regioni da loro controllate, dunque soprattutto nella Svizzera occidentale, cominciarono a sorgere chiese, cappelle, monasteri.
Già nel IV secolo era stato edificato nella regione di Saint-Maurice un primo santuario dedicato a San Maurizio e ai martiri della Legione Tebana, costituita da cristiani. In esso erano stati raccolti i resti del santo e dei legionari che, alla fine del III secolo, sotto la dominazione di Diocleziano e Massimiano, erano stati uccisi per essersi rifiutati di perseguitare le popolazioni del Vallese convertitesi al cristianesimo. Divenuto troppo piccolo per contenere i numerosi fedeli che vi affluivano per devozione al santo, il re cattolico burgundo Sigismondo il 22 settembre 515 avviò la costruzione dell’attuale abbazia a ridosso della montagna sovrastante.
Da allora l’abbazia di Saint-Maurice ha costituito uno dei principali baluardi della fede cristiana in Svizzera. L’anno scorso, rivolgendosi alla Conferenza dei vescovi svizzeri recatisi in visita in Vaticano, papa Francesco ricordò esplicitamente «la lunga tradizione cristiana della Svizzera» e il giubileo dell’Abbazia, «un’impressionante testimonianza di 1.500 anni di vita religiosa ininterrotta, un fatto eccezionale in tutta l’Europa».
Chiostro dell'Abbazia di Saint-Maurice (foto gl)
Non so se gli svizzeri vanno fieri di questo primato, ma è certo che la Svizzera è impregnata di testimonianze cristiane. L’abbazia di Saint-Maurice è quella più antica, ma numerose altre, non meno significative, sono sparse in tutta la Svizzera. Molte sono ormai ultramillenarie. Solo nella regione di Thun (Cantone di Berna), ci sono dodici di queste chiese in stile romanico/gotico. Molte chiese, abbazie, collegiate sono anche autentici gioielli d’arte, noti anche fuori dei confini svizzeri. Basti ricordare le abbazie di San Gallo, Disentis e Müstair (nel Cantone dei Grigioni), Romainmôtier e Payerne (Vaud), Hauterive (Friburgo), Engelberg (Obvaldo), Einsiedeln (Svitto), le cattedrali di Basilea, Losanna, Ginevra, Zurigo, le collegiate di Saint-Ursanne (Giura), Neuchâtel, San Vittore (Ticino), Valere (Vallese), ecc.
In ogni città svizzera, ma anche nei piccoli centri e persino in molte campagne sono visibili i segni della presenza del cristianesimo attraverso grandiose cattedrali, santuari, chiese parrocchiali, cappelle, croci, statue, nomi di piazze e di strade intestate a eventi e personaggi della cristianità.

Presenza diffusa e radicata del cristianesimo
I segni della tradizione cristiana della Svizzera non si limitano ai monumenti. La stessa Costituzione federale comincia con un’invocazione a Dio: «In nome di Dio Onnipotente», la croce svizzera contrassegna tutti gli edifici pubblici federali e simboleggia la Svizzera a livello internazionale con la sua bandiera quadrata di colore rosso con una croce greca bianca al centro. Persino l’inno nazionale è una sorta di invocazione religiosa, tanto è vero che è conosciuto come «salmo svizzero».
La presenza di tanti segni cristiani spiega forse quell’atteggiamento di chiusura che talvolta si nota nel popolo svizzero soprattutto nei confronti dei musulmani (si pensi alla votazione del 2009 contro l’edificazione di minareti), come se la religione islamica rappresentasse un corpo estraneo fastidioso in questo tessuto quasi bimillenario. Spiega anche quella generale diffidenza che ha suscitato recentemente la proposta di un nuovo inno nazionale dove il richiamo del Trascendente è totalmente scomparso.
E’ sorprendente, tuttavia, come la coscienza cristiana del popolo svizzero, sembri risvegliarsi solo in certe occasioni, mentre abitualmente non dà segni di particolare vivacità. E’ facile del resto costatare quanto sia divenuto raro e difficile riempire i luoghi di culto, sia quelli cattolici sia quelli protestanti. Sembra addirittura che la società svizzera consideri ormai la religione nemmeno più un valore primario, ma solo un sentimento personale senza alcun riscontro esterno necessario. Eppure, pur senza bruciare, la fiamma della fede cristiana sembra ancora essere presente nella coscienza sociale del popolo svizzero.
Giovanni Longu
Berna, 22.9.2015