06 maggio 2015

Profughi di oggi come gli italiani di ieri?


In alcuni commenti sui continui sbarchi lungo le coste italiane, i «profughi» (preferisco chiamarli così e non «migranti») africani e asiatici sono stati paragonati ai «migranti» italiani del secolo scorso, in quanto anch’essi erano persone in fuga, se non dalla guerra da una condizione per loro insostenibile, erano alla ricerca di un avvenire migliore e spesso dovevano affrontare viaggi rischiosi. Il paragone, da certuni molto criticato, non è fuori luogo, pur essendoci sostanziali differenze da tener presenti in questo tipo di confronti.

Premesse essenziali
Anzitutto, quando si paragonano i profughi di oggi con i migranti italiani di ieri, ci si deve rendere conto che si sta cercando di mettere a confronto due realtà distanti fra loro oltre un secolo. Inoltre, sebbene esistano alcune analogie tra questi due fenomeni, non trovo appropriato che si confrontino «profughi» con «migranti».

Il naufragio della speranza, di Caspar David Friedrich
Quelli di oggi non sono propriamente «migranti» nel significato comune del termine che fa pensare generalmente a persone che, facendo uso della loro libertà di espatrio, si trasferiscono in un altro Paese alla ricerca di un lavoro e sperano di poter fare ritorno in patria in condizioni migliori. Quelli che sbarcano oggi sulle coste meridionali italiane (ma anche maltesi, greche, spagnole, ecc.), talvolta clandestinamente, sono nella stragrande maggioranza, «profughi» che fuggono da una realtà disperata perché funestata da guerre e carestie o in cui rischiano la vita per una persecuzione in atto e sono quindi in condizione di chiedere l’asilo ed essere accolti come «rifugiati».
I migranti italiani di oltre un secolo fa non erano profughi o rifugiati, perché non fuggivano né da un Paese in guerra né da un Paese dove rischiavano la vita a seguito di persecuzioni. In genere non erano nemmeno costretti a partire dalla miseria perché allora, come osservava nel 1901 il senatore Achille Visocchi, in Italia il lavoro non mancava, in particolare quello agricolo, ma erano spinti «dalla speranza e dalla voglia di guadagnare molto…».
Molti cercarono fortuna altrove anche perché il disagio sociale e la disperazione dovuti al malgoverno piemontese era divenuto insopportabile. In generale, tuttavia, i migranti italiani dell’Ottocento e inizio Novecento partivano verso le Americhe o verso alcuni Paesi europei, per motivi di lavoro, talvolta addirittura a richiesta, come nel caso dell’immigrazione italiana in Svizzera per la costruzione delle grandi trasversali transalpine. Inoltre, emigravano quasi tutti avvalendosi del diritto di espatrio che veniva loro riconosciuto dalle leggi dell’epoca, raramente in clandestinità.
Le differenze tra profughi di oggi e migranti italiani di ieri sono quindi notevoli e si commetterebbe un errore storico grossolano non tenerne conto. Eppure alcune analogie, come si vedrà, non possono sfuggire.

Analogie tra profughi di oggi e migranti italiani in partenza per le Americhe
Anzitutto, profughi e migranti hanno in comune la speranza di migliorare le condizioni di vita proprie e delle loro famiglie. Per entrambi è stata ed è questa la molla che li ha spinti e li spinge a partire, a sopportare viaggi disumani, a rischiare di non trovare la felicità inseguita. La speranza di trovar lavoro e far fortuna in fretta era talmente forte che i migranti italiani diretti nelle Americhe non venivano fermati nemmeno dalla prospettiva di un viaggio lungo e penoso e dall’incognita rappresentata dal Paese di destinazione, di cui molto spesso non sapevano nulla.
Per molti partenti, sosteneva nel 1888 il senatore Paolo Mantegazza, «l'America è ancora un mito, è un paese in cui si va per fare fortuna in breve tempo. I nostri emigranti non distinguono il Nord dal Sud, né New York da S. Paulo». Qualcosa di simile si potrebbe dire facilmente anche riguardo ai profughi di oggi. Ma le analogie non finiscono qui.
Anche il numero delle partenze è analogo. Oggi si parla di milioni di persone che dal Nord Africa, dall’Africa subsahariana e dall’Asia sono pronti a partire verso i Paesi europei, almeno inizialmente, per proseguire in seguito verso altri continenti. Ma quanti ricordano i milioni di italiani espatriati negli ultimi decenni dell’Ottocento e gli inizi del Novecento fino alla prima guerra mondiale? Ebbene si tratta di oltre 14 milioni. Anche allora una parte dei migranti si fermava in Europa, ma la maggior parte partiva per mete oltreoceano, soprattutto Argentina, Brasile e Stati Uniti.

Trafficanti di ieri e di oggi
Oggi da parte del governo italiano e della Commissione dell’Unione europea si dichiara la lotta agli scafisti, ai «trafficanti di disperati», ai «moderni schiavisti» (e si spera che abbia successo), ma forse molti non sanno che anche sulla prima ondata migratoria degli italiani verso le Americhe c’era chi lucrava sulla povera gente. Erano i cosiddetti «agenti di emigrazione», che reclutavano operai e contadini per conto di imprese e compagnie di navigazione, facendo balenare loro una volta giunti a destinazione facili fortune e ricchezze straordinarie. Ignoranti com’erano, molti si lasciavano illudere, racimolavano il denaro necessario e acquistavano i biglietti di viaggio.
Contro questi avidi faccendieri senza scrupoli che sfruttavano l’ingenuità e l’ignoranza di tanti contadini soprattutto meridionali si scagliò nel 1887 il vescovo di Piacenza oggi beato Giovanni Battista Scalabrini, definendoli «speculatori che fanno vere razzie di schiavi bianchi per spingerli, ciechi strumenti di ingorde brame, lontano dalla terra natale col miraggio di facili e lauti guadagni». Secondo Scalabrini essi non solo lucravano sul numero dei migranti che riuscivano a imbarcare, ma si rendevano in qualche modo responsabili anche del loro triste destino, non informandoli sufficientemente né sulla reale destinazione (condizioni climatiche e quant’altro) né sull’attività che avrebbero svolto. Infatti «l’agente può, nella miglior buona fede, mandare alla rovina tanta gente, non essendo egli obbligato ad avere cognizioni su questo punto, come vi sono obbligati per esempio gli agenti Svizzeri».
Monsignor Scalabrini  non era l’unico a contestare questi intermediari «inutili e dannosi», perché sfruttavano non solo i poveri migranti ma anche chi li richiedeva. Anche il governo ne era a conoscenza e dovette intervenire più volte presso i prefetti invitandoli ad essere più vigilanti. Gli agenti vennero poi aboliti definitivamente nel 1901.

Condizioni di viaggio disumane ieri come oggi
Anche le condizioni di viaggio di allora e di oggi presentano somiglianze impressionanti. Ricordava nel 1888 al Senato, nel corso della discussione della legge sull’emigrazione, il senatore Augusto Pierantoni: « ... Nella stazione di Genova tante volte vidi adunate in carovana emigrante le nostre classi operaie ed agricole giacere sul nudo sasso, dormendo sotto i portici, sotto gli alberi nella piazza ove sorge la statua di Cristoforo Colombo, aspettando l'agente di emigrazione e l'ora dell'imbarco. Quel triste spettacolo mi premeva il cuore…».
E un altro senatore, Pietro Manfrin Di Castione, riferiva qualche dettaglio delle condizioni di viaggio dei migranti che s’imbarcavano a Genova diretti alle Americhe:«La via crucis dell'esodo comincia dall'Italia (...). Chi in questi giorni si trova a Genova ed ha veduto anche per semplice curiosità l'imbarco di tante migliaia di individui, ed ha osservato il modo e le condizioni con cui sono lasciati partire, non ha potuto fare a meno di fremere di sdegno. I vapori partono carichi di carne umana, misurata a metri cubi (...). Tutti vogliono guadagnare sul povero emigrante, anche il Municipio di Genova….».
Purtroppo anche i rischi dei viaggi di oggi su barconi sgangherati non sono molto diversi da quelli che correvano i migranti italiani diretti in America. Anche allora per questo trasporto di carne umana venivano usati piroscafi vecchi, spesso già in disarmo, che potevano ospitare al massimo 700 persone, ma ne imbarcavano anche più di 1000. Erano chiamati «vascelli della morte» perché non davano alcuna garanzia di arrivare a destinazione. Di fatto i naufragi erano frequenti anche allora con centinaia, talvolta migliaia di morti, molti dei quali migranti italiani: 576 nel 1891, 549 nel 1898, 550 nel 1906, ecc.
Come si vede da questi cenni, esistono molteplici analogie tra i fuggitivi di oggi e i migranti italiani di ieri, anche se tra una realtà e l’altra è intercorso più di un secolo. Ricordare il passato, per lo più rimosso dalla memoria collettiva italiana, dovrebbe aiutare chiunque osserva il fenomeno degli sbarchi e dei profughi spesso abbandonati a sé stessi a indignarsi per come talvolta vengono trattate queste persone, per le soluzioni insoddisfacenti che sono state adottate a livello italiano ed europeo nei loro confronti, per i tentativi ignobili di scaricare su di essi la rabbia dei cittadini italiani più diseredati, come se fossero loro la causa del disagio sociale, della povertà e della disoccupazione che si sta espandendo oggi in Italia.
Gianni Morandi

Per una politica immigratoria lungimorante e sostenibile
Ha fatto bene Gianni Morandi a ricordare su Facebook le umiliazioni, le angherie, i soprusi e le violenze che hanno dovuto sopportare centinaia di migliaia di italiani, nel secolo scorso, andando a cercar fortuna e un futuro migliore per i propri figli in America, Germania, Canada...
Il ricordo del passato dovrebbe anche aiutare, secondo me, non solo a non fare agli altri quel che è stato fatto a tanti nostri connazionali, ma anche a considerare l’accoglienza dei profughi di oggi come una sorta di azione riparatrice dell’Europa opulenta, un tempo colonizzatrice di molti Paesi da cui fuggono oggi milioni di profughi, perché se in quei Paesi ci sono guerre, povertà, corruzione, sottosviluppo, non si può onestamente sostenere che l’Occidente sia totalmente esente da responsabilità dirette o indirette.
Resto tuttavia convinto che la miglior soluzione al problema di profughi, in generale, non sia «valutare l’uso della forza», come veniva proposto da più parti alla vigilia del vertice europeo di aprile sulla questione dei profughi, ma sia una politica di aiuto ampia e coordinata dei Paesi più industrializzati per lo sviluppo serio e durevole dei Paesi da dove si fugge, congiunta ad una moderna politica immigratoria lungimirante e sostenibile.
Giovanni Longu
Berna, 6.5.2015