30 gennaio 2013

Quando la Svizzera chiamò i lavoratori italiani (Seconda parte)


La Svizzera, uscita indenne dalla guerra e con un apparato produttivo messo sotto pressione per poter soddisfare le ingenti richieste di beni provenienti da mezzo mondo, aveva urgente bisogno di manodopera. Poiché quella indigena era insufficiente, soprattutto le grandi aziende e le organizzazioni dei contadini, degli albergatori e degli industriali insistevano sul governo, tramite l’Ufficio federale delle arti e mestieri e del lavoro (UFIAML), perché autorizzasse il reclutamento di manodopera straniera, «l’unica al momento in grado di coprire il fabbisogno urgente di personale delle aziende».
Tradizionalmente i lavoratori stranieri provenivano dai Paesi vicini: Germania, Austria, Francia e Italia. Nell’autunno del 1945 il Consiglio federale autorizzò le trattative con i vari Stati, indicando tuttavia alcuni principi inderogabili, ad esempio che la ricerca avvenisse dapprima tra i lavoratori svizzeri, che gli stranieri venissero assunti alle stesse condizioni salariali e lavorative degli svizzeri e che i governi interessati garantissero la disponibilità a riaccogliere i propri connazionali qualora non fossero stati più necessari alla Svizzera.

La Svizzera chiede all’Italia
In questo atteggiamento delle autorità svizzere è facile vedere non solo la volontà di evitare il rischio della disoccupazione e del disagio sociale in caso di una eventuale recessione (prevista da molti economisti per l’immediato dopoguerra), ma anche l’intenzione della Confederazione di gestire direttamente (e non tramite i Cantoni) la politica migratoria in modo da evitare l’inforestierimento, come imponeva la legge sugli stranieri del 1931. Questo significava, ad esempio, che (quasi) tutti i permessi di lavoro e di soggiorno fossero stagionali e non a tempo indeterminato.
Poiché le trattative con la Germania e con l’Austria non ottennero alcun risultato a causa dell’opposizione delle potenze occupanti a concedere permessi di emigrazione ai cittadini tedeschi e austriaci e anche quelle con la Francia non andarono a buon fine perché essa stessa cercava lavoratori, la Svizzera si rivolse all’Italia, a cui già in passato aveva chiesto molta manodopera generica e specializzata (lavori stradali e ferroviari, industria, ecc.).

I primi contatti nel 1945
I primi contatti con la Legazione italiana (elevata al rango di Ambasciata nel 1953) si ebbero già nell’autunno del 1945. Non fu difficile trovare subito un accordo informale. Si dovette invece aspettare fino al febbraio 1946 l’autorizzazione di Roma a sottoscrivere i primi provvedimenti di cooperazione migratoria tra i due Paesi.
Subito dopo, la Confederazione mise a disposizione delle imprese svizzere che ne avevano fatto richiesta all’UFIAML diverse migliaia di permessi d’immigrazione per lavoratori da destinare all’agricoltura, agli alberghi, agli ospedali, ai servizi domestici e all’industria tessile. L’UFIAML, esaminate le richieste (tanti muratori, tanti carpentieri, tanti contadini, ecc.), le inoltrò immediatamente alla Legazione, che a sua volta le trasmise agli organi competenti in Italia (uffici del lavoro, uffici di collocamento, ecc.).

Difficoltà di reclutamento
Nel reclutamento, tuttavia, non tutto andò per il verso giusto, tant’è che molti datori di lavoro lamentarono ritardi negli arrivi e un numero di lavoratori inferiore a quello richiesto. Persino la Legazione, che aveva garantito il reclutamento nell’arco di 3-4 settimane, dovette ammettere di non riuscire a soddisfare tutte le richieste svizzere a causa della lentezza e della disorganizzazione dell’apparato burocratico italiano.
Per superare queste difficoltà, la Legazione consentì che singoli datori di lavoro reclutassero in Italia direttamente il personale di cui abbisognavano. Da parte loro, le autorità svizzere, si dichiararono pronte a semplificare le procedure per l’ottenimento dei permessi. Con queste agevolazioni, molti imprenditori pensarono bene di provvedere tramite propri emissari a reclutare direttamente sul posto (dal Veneto fino in Sicilia) i lavoratori di cui avevano bisogno. Entro breve tempo venivano muniti del necessario permesso di lavoro e delle autorizzazioni svizzere, in modo da raggiungere il nuovo posto di lavoro in breve tempo. In questo modo, già nel 1946 vennero concessi agli italiani ben 48.808 permessi di lavoro, portati a 126.544 nel 1947, ma non tutti utilizzati.

L’Accordo di emigrazione del 1948
Questa pratica però non piaceva all'Italia, che preferiva il reclutamento collettivo tramite i canali ufficiali e controllato dagli uffici consolari, per timore di abusi e per garantire ai propri cittadini la tutela necessaria come previsto dalla nuova Costituzione. La divergenza tra i due Stati sarà risolta solo parzialmente dall’«Accordo tra la Svizzera e l’Italia relativo all'immigrazione dei lavoratori italiani in Svizzera» del 1948. 
Egidio Reale
L’artefice principale di questo accordo, per la parte italiana, è stato il primo Legato (e dal 1953 Ambasciatore) della Repubblica italiana a Berna, Egidio Reale, che già durante la guerra, come fuoruscito, aveva intrattenuto rapporti amichevoli con molti funzionari federali ed era molto stimato dal governo svizzero.
Tale Accordo non regolava tutti i problemi, ma salvaguardava i principali interessi di entrambe le parti. La Svizzera poteva attingere quasi a volontà a una sorta di «serbatoio» di lavoratori pronti per essere impiegati dall'economia svizzera. L’Italia poteva offrire uno sbocco controllato alla manodopera in eccedenza ed evitare possibili conflitti sociali legati alla forte disoccupazione del momento.
Gli impegni che la Svizzera assumeva erano oltremodo contenuti e senza rischi d'inforestierimento, come esigeva la menzionata legge federale del 1931. Nell'Accordo era scritto infatti nero su bianco ch’esso si applicava unicamente «all'immigrazione in Svizzera di mano d’opera stagionale o ammessa a titolo temporaneo» (art. 1), il che significava (ma non poteva essere scritto) in funzione dei bisogni dell’economia. Tanto è vero che, già l’anno seguente e in quello successivo, a causa della congiuntura sfavorevole, la richiesta di lavoratori italiani calò drasticamente, senza che l’Italia potesse obiettare alcunché. Anche solo per questo l’ingresso dei lavoratori e dei permessi di lavoro e di soggiorno erano strettamente controllati.

Clandestini e irregolari
Non si insistette più di tanto sulle procedure di reclutamento. Di fatto, anche in seguito molti datori di lavoro continuarono a reclutare in Italia una parte importante della propria manodopera e molti italiani, sapendo che in Svizzera si cercavano lavoratori, per evitare le lungaggini burocratiche, arrivavano qui col semplice passaporto turistico. Tramite qualche conoscenza speravano di trovare un datore di lavoro interessato alle loro prestazioni e a volte riuscivano a ottenere in questo modo l’indispensabile permesso di lavoro per poter restare. In molti casi tuttavia la ricerca non raggiungeva lo scopo sperato e il rientro in patria era inevitabile.
Per la Svizzera non si trattava di «clandestini», ma al massimo di «irregolari», la cui regolarizzazione non poneva grandi difficoltà, a condizione che disponessero di un contratto di lavoro valido. C’era anche, fin dal 1945, una parte di immigrazione «clandestina», ma era molto esigua perché i clandestini sapevano di correre il rischio di essere individuati ed espulsi.
Gli accenni precedenti, per quanto frammentari e sommari, lasciano facilmente intuire che l’immigrazione italiana in Svizzera nel secondo dopoguerra non sia stata affatto un’operazione semplice, come invece certe ricostruzioni farebbero pensare. Benché in quel periodo il lavoro abbondasse, non è affatto vero che bastava presentarsi all’ufficio del personale di un’azienda per chiedere un lavoro e ottenerlo.

Venuti… perché chiamati
E’ comprensibile che qualche immigrato riassuma la sua prima esperienza migratoria affermando di essere venuto qui come turista, in realtà con l’intenzione di cercare un lavoro e di averlo ottenuto, magari tramite qualche conoscenza. Ma anche in questi casi non va dimenticato che, secondo le leggi e i regolamenti esistenti allora e anche dopo, l’assunzione della manodopera estera era sempre preceduta da una richiesta e dalla relativa autorizzazione delle autorità competenti per il rilascio dei permessi di soggiorno. In effetti, soprattutto nei primi decenni del dopoguerra, gli immigrati italiani sono arrivati qui a decine di migliaia perché l’economia svizzera aveva assoluto bisogno di loro.
A quanti immaginano che in Svizzera si potesse tranquillamente arrivare, cercarsi un lavoro e sistemarsi per sempre andrebbe anche ricordato che ogni straniero era registrato e gli esponenti più in vista degli immigrati addirittura «schedati». I registri della Polizia degli stranieri raccoglievano tutti i dati più significativi di ogni straniero residente in Svizzera con un valido permesso di soggiorno. Infine, i permessi di soggiorno sottoposti a controllo (quelli stagionali e annuali) non erano affatto garantiti e non esisteva per la Svizzera alcun obbligo di rinnovo.

Intervento di Max Frisch
Max Frisch
Per completezza d’informazione si può ricordare che solo dopo la seconda metà degli anni Sessanta del secolo scorso, dopo una intensa discussione parlamentare sul nuovo accordo italo-svizzero del 1964, gli svizzeri hanno cominciato a interrogarsi sulla politica migratoria della Confederazione e sulle responsabilità nei confronti di quelle persone che impropriamente venivano chiamate «braccia», richieste dall’economia per far fronte alle crescenti esigenze dello sviluppo del secondo dopoguerra. 
Nella società civile, coinvolta ampiamente in questa discussione, intervenne anche lo scrittore Max Frisch, che ha sintetizzato l’intera problematica in questa celebre frase, scritta nel 1965: «abbiamo chiamato braccia e sono venuti uomini». Si riferiva principalmente agli italiani, che conosceva molto bene.
Giovanni Longu
Berna 30.01.2013