26 settembre 2012

Cercasi consigliere federale italofono!



E’ delle scorse settimane l’ennesima discussione parlamentare e mediatica sulla necessità o quantomeno sull’opportunità della presenza nell’esecutivo federale di un rappresentante della Svizzera italiana. L’esito è stato ancora una volta negativo. E’ da oltre un secolo e mezzo che il tema è ricorrente nelle Camere federali in attesa di una soluzione soddisfacente. Viene da chiedersi se il problema sia ben posto e se la strategia seguita sia quella giusta.

Il consigliere nazionale ticinese Marco Romano, grande sostenitore di una «rappresentanza regolare della Svizzera italiana in Consiglio federale» ritiene un «paradosso» che il supremo organo direttivo ed esecutivo della Confederazione sia ancora composto di 7 membri come nel 1848. Evidentemente la maggioranza dei colleghi non è dello stesso avviso. Inoltre, secondo l’esponente ticinese, l’attuale composizione, senza la partecipazione di un italofono, dopo la partenza dell’ultimo consigliere federale italofono Flavio Cotti, non sarebbe conforme all’articolo 175 della Costituzione federale secondo cui «le diverse regioni e le componenti linguistiche del Paese devono essere equamente rappresentate» nel Consiglio federale. Per garantire maggiori possibilità a una rappresentanza «regolare» della Svizzera italiana, Romano e la Deputazione ticinese alle Camere federali quasi all’unanimità hanno difeso in Consiglio nazionale l’iniziativa del Cantone Ticino di ampliare il Consiglio federale da 7 a 9 membri.

Il Consiglio nazione respinge l’iniziativa ticinese
Berna 2012: i 7 consiglieri federale e la cancelliera federale
Con tale iniziativa, i sostenitori speravano che aumentando il numero dei consiglieri federali fosse più facile l’elezione di un rappresentante italofono. Come noto, dopo breve discussione, il Consiglio nazionale ha respinto l’iniziativa del Cantone Ticino (96 voti contro 76 e 2 astenuti), seguendo il parere della maggioranza della Commissione delle istituzioni politiche, che con 15 voti contro 9 e 1 astensione aveva proposto al Plenum di non dar seguito all’iniziativa con queste motivazioni principali:
a) un aumento del numero di consiglieri federali nuocerebbe al principio di collegialità, col rischio che s’instaurino tra i vari dipartimenti meccanismi di concorrenza e tentativi di profilarsi;
b) risulterebbe più difficile gestire un collegio composto di nove consiglieri in quanto più un'autorità è grande e meno ciascuno dei suoi membri si sente coinvolto nel funzionamento dell'autorità collegiale;
c) non è affatto garantito che l'ampliamento del Consiglio federale consenta di rappresentare meglio le varie regioni del Paese; infatti, «se i seggi fossero nove, il Parlamento eleggerebbe sicuramente ancor più spesso due membri dello stesso grande Cantone, semplicemente perché tali Cantoni possiedono un serbatoio più ampio di potenziali candidati»;
d) il Consiglio federale deve salvaguardare gli interessi generali e la prosperità di tutto il Paese e non è tenuto a rappresentare gli interessi regionali, che spetta piuttosto al Parlamento difendere.
Francamente l’esito del dibattito commissionale e in Aula non è sorprendente. Come accennato sopra, il tema è ricorrente nelle cronache parlamentari da oltre un secolo e mezzo (se ne parlò addirittura prima ancora della definizione della Costituzione federale del 1848) ed è sempre stato liquidato più o meno con gli stessi argomenti.

Richiesta sempre respinta
Nel 1900, credo per la prima volta, la richiesta di un ampliamento del Consiglio federale a 9 membri sia stata avanzata dai deputati francofoni per garantire alle cosiddette «minoranze», ma s’intendeva la Svizzera latina (che allora rappresentava quasi un terzo della popolazione svizzera) e soprattutto la Svizzera romanda, almeno due rappresentanti. Non se ne fece nulla, anche se i romandi riusciranno ad avere quasi sempre almeno due rappresentanti.
La proposta dell’ampliamento del Consiglio federale venne nuovamente avanzata e discussa nel 1913-14, invocando il diritto delle diverse regioni linguistiche e delle minoranze linguistiche ad una «adeguata» rappresentanza. Ma la proposta fu respinta.
Nel 1917 fu lo stesso Consiglio federale a proporre, in un progetto di revisione dell’art. 95 della Costituzione, il numero di 9 consiglieri federali. Al Consiglio degli Stati, una richiesta di minoranza chiedeva nuovamente che la composizione del Consiglio tenesse conto fra l’altro delle «regioni linguistiche», ma anche in questa occasione il Parlamento non accolse la richiesta. In tanti si mostrarono d’accordo per un’equa rappresentanza anche della Svizzera italiana (in quel momento ben rappresentata dal consigliere federale Giuseppe Motta), anche in un Consiglio federale di 7 membri, ma un parlamentare ammonì che il Ticino si guardasse bene da rivendicare più di quanto potrebbero fare altri Cantoni più grandi.
La questione venne riproposta e nuovamente respinta nel 1940. Nel dopoguerra venne più volte evocata fino ai tentativi degli ultimi dodici anni.

I consiglieri federali italofoni
Di fronte all’ennesima risposta negativa del Parlamento di trovare una soluzione alle aspettative soprattutto ticinesi, sia pure in nome della «Svizzera italiana», di una rappresentanza italofona regolare in seno al Consiglio federale, c’è da chiedersi anzitutto se la presenza di un italofono deve dipendere dal numero dei consiglieri federali. La risposta credo che debba essere negativa, perché il diritto a una rappresentanza, se è dimostrato, dev’essere garantito anche in un Consiglio federale di sette membri.
Probabilmente più che di un diritto occorrerebbe parlare dell’opportunità di una rappresentanza italofona in Consiglio federale. Storicamente, tuttavia, l’opportunità è stata quasi sempre legata a condizioni particolari. Quasi tutti i consiglieri federali italofoni sono stati eletti in circostanze che avevano un carattere di eccezionalità e gli eletti rappresentavano in quel momento le persone più idonee a rivestire il ruolo in ragione delle loro personalità e competenze linguistiche e professionali più che della loro appartenenza a una stirpe, lingua o cultura. Inoltre, tutti avevano un ottimo rapporto con l’Italia sia per formazione sia per contatti personali. Di fatto la storia del Consiglio federale dimostra che tutte le elezioni di un consigliere federale italofono rispondevano non tanto a un diritto quanto piuttosto a un principio di opportunità.
Stefano Franscini
Basti pensare a Stefano Franscini (1848-1857), eletto nel primo Consiglio federale perché doveva rappresentare l’uguaglianza di tutte le stirpi e culture e di tutti i Cantoni, anche quelli di più recente entrata nella Confederazione, Ticino compreso, nel nuovo Stato federale, in cui era fondamentale dare radici profonde alla coesione nazionale.
Eccezionale fu anche l’elezione di Giuseppe Motta (1912-1940), dopo il lungo periodo di assenza di un italofono in Consiglio federale, quando il disagio dei ticinesi che si sentivano dimenticati e umiliati da Berna stava per toccare l’esasperazione. La sua elezione fu interpretata unanimemente come un segno importante dell’attenzione della Confederazione alla Svizzera italiana e come una garanzia di fedeltà di quest’ultima alla patria comune.
Ma anche gli altri consiglieri federali italofoni Giovan Battista Pioda (1857-1864), Enrico Celio (1940-1950), Giuseppe Lepori (1954-1959), Nello Celio (1966-1973) e Flavio Cotti (1987-1999) hanno rappresentato personalità eccezionali in momenti eccezionali per lo sviluppo di questo Paese. Con le loro caratteristiche personali, la loro ampia cultura umanistica e italiana, la passione per la cosa pubblica, gli ottimi rapporti con l’Italia hanno contribuito ad arricchire la terza componente fondamentale della Svizzera in misura importante, come sarebbe facile dimostrare.
Dal 1999 Flavio Cotti attende un successore italofono!

Cambio di strategia
Dalla votazione con cui il Consiglio nazionale ha respinto l’iniziativa del Cantone Ticino (96 voti contro 76 e 2 astenuti) emerge chiaramente che l’idea di un consigliere federale italofono non è ritenuta né strampalata né del tutto infondata. Per riuscire nell’impresa, tuttavia, alla luce degli esempi citati, occorre forse cambiare strategia.
Occorrerebbe anzitutto maggiore chiarezza nella formulazione delle intenzioni. Se l’ampliamento del Consiglio federale mira soprattutto a facilitare l’elezione di un italofono, tanto varrebbe avanzare la richiesta diretta di un consigliere federale italofono anche in Consiglio federale di sette membri. Ma anche in questo caso occorre non meno chiarezza: se per italofono s’intende un ticinese, bisognerebbe rivendicare un diritto del Ticino ad essere rappresentato. Lo stesso vale se invece del Ticino si usa l’espressione «Svizzera italiana». Basta leggere qualche agenzia di stampa o qualche intervento di parlamentari ticinesi per rendersi conto che le due dizioni sono usate come sinonimi. E’ vero che l’espressione «Svizzera italiana» è consacrata fin dai tempi di Franscini, ma non ci vuole molto a capire che allora l’italianità era tutta concentrata nel Ticino e in qualche lembo dei Grigioni. Oggi invece l’italianità è molto più diffusa e non è racchiudibile in una «regione unica e particolare del Paese» (l’espressione è di Marco Romano).
Purtroppo l’italofonia fuori del Ticino è oggi in crisi e bisognosa di attenzioni e di cure ben più intense di quella del Ticino e dei Grigioni italiani. Questa situazione, insieme all’esigenza di un rafforzamento dei rapporti bilaterali con l’Italia, potrebbe essere una di quelle circostanze eccezionali che hanno giustificato l’elezione di gran parte dei consiglieri federali italofoni da Franscini a Cotti.

Giovanni Longu
Berna, 26.09.2012