28 dicembre 2011

Dieci anni fa il CISAP

Dieci anni fa si chiudeva ufficialmente l’ultimo capitolo della lunga storia del CISAP, un’istituzione italo-svizzera che ha contribuito a traghettare l’immigrazione italiana nella fase più difficile della sua presenza in Svizzera. Mi sembra utile ricordare il «Centro italo-svizzero di formazione professionale», conosciuto con la sua sigla originaria CISAP, perché ogni anno che passa anche i ricordi più belli tendono a sbiadire. Non dovrebbe essere così nei confronti del CISAP, perché è entrato di diritto nella storia dell’immigrazione italiana in Svizzera.

Il CISAP era stato fondato attorno alla metà degli anni Sessanta da Giorgio Cenni e alcuni amici come lui immigrati in Svizzera nel dopoguerra, provenienti soprattutto dal Nord Italia. Si erano subito ben inseriti nelle fabbriche svizzere grazie alle loro provate capacità professionali e al loro spirito di adattamento. Negli anni Sessanta, con l’arrivo in massa di immigrati italiani soprattutto dal Mezzogiorno, quelle capacità e quello spirito erano fortemente carenti. Il rischio di restare tutta la vita manovali e di essere espulsi dal mercato del lavoro in periodi di crisi era molto alto. Va aggiunto che contro questo rischio non prevedevano antidoti né le autorità italiane né quelle svizzere. Nel recente accordo italo-svizzero di emigrazione del 1964 non era stato previsto assolutamente nulla per la formazione professionale di questa nuova manodopera impreparata ad affrontare le problematiche di un mondo della produzione industriale evoluto.

Un centro pionieristico per l’integrazione professionale
Il CISAP, una scuola serale e del fine settimana, orientata all’integrazione nel mondo del lavoro svizzero attraverso la formazione e il perfezionamento professionale fu la risposta confezionata e gestita con spirito pionieristico e volontaristico all’interno dell’immigrazione stessa. Convinti dell’utilità e della validità dei corsi offerti per tornitori, fresatori, aggiustatori, saldatori, automeccanici, disegnatori, montatori, muratori, falegnami, elettricisti, installatori, elettronici, informatici, ecc. sostennero la scuola i sindacati svizzeri, gli imprenditori, le autorità cantonali e federali e specialmente le autorità italiane. Vennero aperti centri affiliati in tutto il Cantone di Berna ma anche in altri Cantoni. Del metodo formativo adottato dal CISAP s’interessarono psicologi, pedagoghi, insegnanti e persino l’Organizzazione internazionale del lavoro.
Negli anni Settanta e Ottanta il CISAP era diventato per migliaia di italiani ma in seguito anche spagnoli, portoghesi, albanesi, turchi, e altri immigrati stranieri una sorte di faro che attirava lo sguardo e segnalava un percorso che avrebbe potuto portare al successo. Molti lo seguirono. Sui suoi banchi, nei laboratori e nelle officine dei centri CISAP si formarono migliaia di lavoratori e lavoratrici desiderosi di migliorare le proprie conoscenze e competenze professionali e di trasformare possibilmente la propria dipendenza in autostima e capacità imprenditoriali inizialmente inimmaginabili.

Il CISAP, come una stella…

1972: il presidente della Confederazione Nello Celio visita il CISAP

Nel 1990 un rappresentante degli industriali scrisse che il CISAP brillava come una stella in mezzo all’Europa, «comme une étoile au milieu de l’Europe…». Già, questa istituzione, sebbene fortemente radicata in Svizzera, aveva maturato negli anni anche una vocazione europea e intensificato i contatti non solo con i Paesi comunitari, soprattutto Spagna e Portogallo, ma anche con Paesi allora extracomunitari come l’Albania, la Cecoslovacchia, la Bulgaria e l’Ungheria.
Sul finire degli anni Novanta, tuttavia, quel faro e quella stella cominciarono a offuscarsi, non già perché il CISAP avesse perso luminosità, ma perché erano sempre meno coloro che li guardavano. L’immigrazione italiana era finita e secondo i dirigenti del CISAP, ma anche i sindacati svizzeri, l’associazionismo e le autorità italiane era inevitabile che anche l’esperienza del CISAP stesse per concludersi, come appunto avvenne dieci anni fa.
Resta e deve restare invece il ricordo di questa pagina memorabile della storia dell’immigrazione italiana in Svizzera perché rappresentò per molti versi un’esperienza eccezionale. Eccezionale fu l’intuizione del percorso che avrebbe potuto garantire il futuro professionale di molte persone; eccezionale il metodo che consentiva di acquisire conoscenze e competenze in tempi molto più stretti di quelli abituali; eccezionale l’organizzazione della scuola diretta da immigrati, mossi soprattutto da spirito di solidarietà e di volontariato; eccezionale l’equipaggiamento del centro di Berna, ricco non solo di aule e laboratori, ma anche di una vasta collezione di opere d’arte; eccezionale la volontà di riuscita tanto degli organizzatori quanto dei frequentatori dell’istituzione; eccezionale, soprattutto negli anni Sessanta e Settanta, fu anche la collaborazione istituzionale italo-svizzera suscitata dal CISAP. Per questo il ricordo del CISAP deve restare!

Giovanni Longu
Berna, 28.12.2011

SVIZZERA: nel segno della continuità e qualche strappo

Alla vigilia delle elezioni del Consiglio federale del 14 dicembre scorso c’era molta incertezza sull’esito di ben tre o addirittura quattro incognite: chi sarebbe succeduto alla dimissionaria socialista Micheline Calmy-Rey, se l’uscente Eveline Widmer-Schlumpf sarebbe stata rieletta e se il partito di Blocher, l’Unione democratica di centro (UDC), avrebbe riacquistato il secondo seggio perso quattro anni fa.

Le incognite sono state risolte con grande facilità nel segno della continuità. Infatti tutti i consiglieri federali non dimissionari sono stati rieletti, come vuole la consuetudine, rotta solo poche volte nella storia della Confederazione, l’ultima delle quali, di quattro anni fa, sancì la non rielezione di Blocher a vantaggio della dissidente dell’UDC Eveline Widmer-Schlumpf. Con la rielezione di quest’ultima, anche l’incognita del secondo seggio all’UDC in Consiglio federale si è risolta all’insegna della continuità con la situazione precedente. Quanto alla successione di Micheline Calmy-Rey, l’elezione del friburghese Alain Berset già al secondo turno è avvenuta secondo copione.
Il risultato più clamoroso è stato sicuramente la bocciatura delle ambizioni dell’UDC, di gran lunga il maggior partito politico svizzero. Alla vigilia dell’elezione infatti non vi era praticamente politico che non riconoscesse all’UDC, il diritto di essere rappresentato in governo con due consiglieri federali. Le opinioni divergevano quando si trattava di indicare al posto di chi avrebbe dovuto essere eletto il secondo rappresentante. Al posto della Widmer-Schlumpf, del Partito borghese democratico (PBD), un partito di centro con un peso di poco superiore al 5%, o di Johann N. Schneider-Ammann del Partito liberale radicale, il più vicino all’UDC, oppure di uno dei due rappresentanti socialisti?

Rotta la rigidità della formula magica
Collegata a questi interrogativi era anche la questione legata alla tenuta del principio della «concordanza», dipendente a sua volta dalla cosiddetta «formula magica», che tradizionalmente assegnava due rappresentanti ai tre partiti maggiori e uno al terzo partito. I vari rappresentanti eletti in base a tale formula erano tenuti a «concordare» la politica del Collegio, ossia del Consiglio federale. Ora, nella situazione attuale, che vede non più applicata la formula «magica», alcuni (pochi, in verità) s’interrogano se verrà meno anche il principio della concordanza. La maggioranza risponde tuttavia tranquillamente di no, anzi, con un solo rappresentante UDC il Consiglio federale dovrebbe funzionare meglio perché, senza una netta prevalenza né del centro-destra né del centro-sinistra, è quasi obbligato a cercare sempre la massima concordanza possibile. Anche al riguardo, pertanto, la continuità del sistema di governo svizzero è garantita.
Si può rilevare tuttavia una novità più che una rottura rispetto al passato. Poiché le elezioni di ottobre per il rinnovo del Parlamento avevano premiato i partiti minori di centro, la nuova Assemblea federale ha voluto in un certo senso rompere la rigidità della «formula magica» nella composizione del Consiglio federale a vantaggio di una più equa rappresentanza degli schieramenti eleggendo un rappresentante in più dei partiti di centro. Se questo orientamento sarà confermato si dovrà dire addio definitivamente alla formula che ormai da qualche tempo magica non lo è più.

Continua l’esclusione della rappresentanza italofona
Un altro elemento di continuità delle recenti elezioni del Consiglio federale è purtroppo l’ulteriore esclusione della rappresentanza italofona. Non è stato bello (per usare un eufemismo) vedere i socialisti romandi escludere quasi a priori la candidatura di Marina Carobbio rivendicando una sorta di diritto della Svizzera romanda ad almeno due rappresentanti in Consiglio federale. E’ invece decisamente triste, almeno per chi scrive, costatare la scarsa sensibilità generale nella politica e nella società per la realtà umana e socio-culturale italofona. Dispiace anche che nello stesso Ticino stia venendo meno la consapevolezza che la presenza italofona nel governo nazionale va preparata e voluta, anche senza un allargamento del Consiglio federale a 9 membri.
L’idea di costituire a Berna un Gruppo parlamentare per l’italianità, da me auspicato già alcuni anni fa e ora, a quanto sembra, in via di realizzazione, può rappresentare uno strumento di sensibilizzazione importante a livello politico, ma dovrebbe risultare chiaro che l’opera di sensibilizzazione dovrà uscire fuori dal Palazzo e coinvolgere tutte quelle forze, organizzazioni e persone che ritengono l’italianità una componente essenziale e irrinunciabile del patrimonio storico, culturale e istituzionale della Svizzera.

Giovanni Longu
Berna, 28.12.2011

ITALIA: discontinuità con qualche perplessità


Sta per concludersi uno degli anni più difficili per l’Italia. Dodici mesi fa osservavo che «la situazione non fa che peggiorare», soprattutto dopo la fuoruscita dei dissidenti finiani dal Popolo della Libertà e dalla maggioranza. Da allora la politica italiana è stata, per usare una metafora del Sommo Poeta «nave sanza nocchiere in gran tempesta», praticamente senza meta se non quella di sopravvivere.
Nonostante si celebrasse quest’anno il 150° anniversario dell’unità d’Italia, che avrebbe dovuto suggerire un maggiore senso dello Stato e del bene comune tra le forze politiche di governo e d’opposizione, la situazione è degenerata al punto da far dire a un attento osservatore come Piero Ostellino che «l’Italia è in guerra civile …. destinata ad avere conseguenze rovinose».
E’ dovuta intervenire l’Unione Europea (UE) per mettere in guardia l’Italia sui pericoli (fallimento) a cui andava incontro se non avesse adottato urgentemente riforme strutturali adeguate. Ma appariva sempre più evidente che il governo Berlusconi non sarebbe stato in grado di realizzarle, sia per la debolezza della sua maggioranza e sia per la pervicacia delle opposizioni che cercavano con ogni mezzo e in ogni occasione la sua caduta, nell’illusoria convinzione che essa bastasse da sola a salvare l’Italia dal presunto pericolo imminente.

L’intervento risolutivo di Re Giorgio
L’aggravarsi della crisi finanziaria internazionale, che sembrava trascinare nel baratro i Paesi più deboli della zona euro, Italia compresa, e l’insistenza delle opposizioni a una discontinuità col governo in carica hanno indotto il Capo dello Stato a sollecitare le dimissioni di Berlusconi e a dare l’incarico di formare un nuovo governo a un tecnocrate, Mario Monti, senza passare per la strada maestra delle elezioni.
Saggezza, precipitazione, illusione in questo susseguirsi di eventi che hanno poi segnato sicuramente una discontinuità col governo precedente? Solo il tempo darà una risposta conclusiva a questa domanda, anche se già a poche settimane dal suo insediamento si deve registrare un significativo calo di consensi alle misure approvate nel frattempo dal governo Monti, basate principalmente su nuove tasse, ritenute fra l’altro da molti poco eque.
Anche l’attivismo del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano non ha suscitato solo entusiasmi nell’opinione pubblica che l’ha definito Presidentissimo e addirittura «Re Giorgio» (New York Times), ma anche qualche perplessità nei palazzi della politica. Il fatto che, come ha scritto il quotidiano americano, Giorgio Napolitano abbia «orchestrato uno dei più complessi trasferimenti politici dell’Italia del dopoguerra» e che «ora gli italiani guardano a Napolitano perché guidi la nave dello Stato con la sua tranquilla abilità» ripropone in effetti il problema dell’architettura dello Stato italiano. In un mondo allo stesso tempo globalizzato e fortemente integrato (come dimostra anche l’attuale crisi internazionale) sembra ormai improcrastinabile che si affronti senza tabu il problema dei ruoli del Presidente della Repubblica, del capo del Governo e del Parlamento.

Nel segno della discontinuità
L’espressione più evidente della discontinuità col governo Berlusconi è senza dubbio la natura stessa del governo Monti, definito «tecnico» perché non è emanazione dei partiti politici e non ha la legittimazione democratica tipica dei governi che scaturiscono da un preciso esito elettorale, ma solo parlamentare, e perché chiamato a risolvere i problemi che per la loro gravità e urgenza il governo precedente e forse nessun altro governo «politico» sarebbe stato in grado di affrontare.
Un ulteriore elemento della discontinuità col Governo Berlusconi è dato anche dalla trasversalità delle forze politiche che sostengono l’attuale governo. Sono infatti saltate le coalizioni della situazione precedente tanto è vero che a sostenerlo sono oggi soprattutto i due principali partiti antagonisti di prima.
La discontinuità tra Monti e Berlusconi risulta evidente anche nel programma di governo, non tanto nelle finalità generali (molto simili) quanto nei tempi e nella misura del loro raggiungimento. Monti ha voluto imprimere un’accelerazione rispetto ai tempi lunghi della «politica», intervenendo in poche settimane su alcune riforme importanti e impopolari (ad es. imposta sulla casa, pensioni, patrimoniale) rinviandone altre ad una seconda e terza fase.
Purtroppo questa impostazione temporale ha scontentato gli ambienti maggiormente colpiti dalle nuove tasse suscitando qualche perplessità sulla medicina Monti negli ambienti sindacali e negli stessi partiti che sostengono il governo. Dopo l’approvazione del prima decreto «salva-Italia» l’ottimismo generale iniziale risulta fortemente ridimensionato. Secondo molti analisti, si sarebbe potuto e dovuto iniziare dai tagli agli sprechi (ponendo finalmente mano a un dimagrimento del costosissimo apparato statale), dalla riduzione dei costi della politica, dalle liberalizzazioni, dalla vendita del patrimonio dello Stato inutilizzato, dagli incentivi mirati e intelligenti agli investimenti soprattutto nel Mezzogiorno, ecc.
Ma bisognava pur cominciare da qualche parte. Il governo Monti non ha molto tempo per riuscire totalmente nella difficile impresa, ma potrebbe preparare il terreno perché altri dopo di lui raccolgano maggiori frutti.

Giovanni Longu
Berna, 28.12.2011


14 dicembre 2011

Corsi di lingua e cultura in Svizzera: errore micidiale!

Da anni ormai si organizzano tavole rotonde, incontri e convegni per discutere del futuro dei corsi di lingua e cultura in Svizzera. A intervenire, denunciare e implorare aiuto sono soprattutto gli insegnanti, i dirigenti dei cosiddetti enti gestori (Casci, Fopras, Ecap, ecc.) e qualche timido rappresentante dei genitori. Per avere ascolto cercano di coinvolgere non solo le autorità diplomatiche e consolari ma anche i parlamentari eletti all’estero, rappresentanti di partiti e sindacati, esponenti dell’associazionismo e dei cosiddetti organismi di rappresentanza, affinché si adoperino a Roma per trovare una soluzione. Ma i loro discorsi, invece di apportare lumi e infondere speranza, lasciano il tempo che trovano perché sostanzialmente vuoti, spesso autoreferenziali, inevitabilmente terminati col retorico appello a «non mollare», «restare uniti», «non lasciar morire i corsi».
Ho seguito uno di questi incontri, quello organizzato a Berna il 3 dicembre scorso, e mi sono reso conto della gravità della situazione almeno in alcune circoscrizioni consolari. Sentendo i vari interventi, per lo più fuori tema perché non tentavano nemmeno di rispondere al quesito del convegno («Quale futuro per i corsi di lingua e cultura italiana in Svizzera?»), mi sono anche reso conto che attorno a questo tema si sta compiendo un errore micidiale.

Errore micidiale guardare solo a Roma
Sebbene consapevoli della gravità della situazione, le organizzazioni degli insegnanti e gli enti gestori continuano a vedere la soluzione solo in una sorta di intervento salvifico (soprattutto finanziario) di Roma. E qui sta il primo aspetto dell’errore micidiale: ritenere che il problema dei corsi di lingua e cultura destinati agli italiani in età scolastica sia risolvibile solo a Roma e non (anche) in Svizzera.
Eppure alcuni degli intervenuti hanno messo in chiaro che la crisi finanziaria ed economica italiana ha spostato le priorità del governo altrove e con l’imperativo dei tagli non c’è spazio alle illusioni. La tendenza al risparmio anche nel Ministero degli affari esteri e nei capitoli riguardanti la cultura e la lingua italiane all’estero andrà accentuandosi, non riducendosi. Nell’editoriale della Rivista del novembre scorso, il direttore Giangi Cretti poneva la domanda secondo lui ormai indifferibile: «A chi interessa davvero l’italiano fuori d’Italia?». E rispondeva: «Poco o nulla allo Stato italiano».
Di fronte a una tale evidenza, a quanti sta davvero a cuore la sorte non tanto della lingua italiana in Svizzera ma della lingua e della cultura dei figli degli italiani in Svizzera, dovrebbe nascere spontaneo lo stimolo per cercare alternative valide al minor finanziamento da parte dello Stato italiano. In realtà ne sono state avanzate alcune, dal risparmio nell’organizzazione e nel riordino del personale insegnante a una maggiore responsabilizzazione finanziaria dei genitori degli allievi e persino a una parziale o totale privatizzazione dei corsi, ma non mi sono sembrate benaccolte. Soprattutto la prospettiva di una privatizzazione dei corsi mi è parsa scartata senza dibattito, perché, si dice, ne andrebbe della qualità dell’insegnamento e solo pochi enti gestori e pochi corsi riuscirebbero a sopravvivere! Eppure la via privatistica non andrebbe esclusa a priori. Proprio a Berna in molti ricordano ancora la storia pionieristica e volontaristica della scuola di formazione professionale CISAP, di diritto privato, che ha consentito per oltre trent’anni a migliaia di italiani non solo di imparare un mestiere ma anche di riappropriarsi di una cultura e di una dignità minacciate.

Errore micidiale non coinvolgere la Svizzera
Il secondo aspetto di questo errore micidiale è che, individuando l’unica possibile soluzione in un intervento salvifico di Roma, non si prendono nemmeno in considerazione altre possibilità, né quella della privatizzazione con un sostegno sussidiario dello Stato italiano né quella di un coinvolgimento delle autorità scolastiche locali. Incredibile ma vero, nell’incontro di Berna non solo mancava qualsiasi interlocutore svizzero ma non c’è mai stato nemmeno un accenno all’idea che la Svizzera potesse essere interessata ad intervenire in questo campo. Non va infatti dimenticato che l’italiano in questo Paese è lingua nazionale e ufficiale.
Ovviamente questo interesse è ancora da dimostrare, ma ritengo un grave errore escluderlo in partenza. La recente legge federale sulle lingue e la relativa ordinanza d’applicazione offrono almeno in punto di diritto alcune possibilità che andrebbero approfondite. Penso per esempio all’impegno della Confederazione e dei Cantoni a promuovere «il plurilinguismo degli allievi e dei docenti» e adoperarsi «per un insegnamento delle lingue straniere che assicuri agli allievi, alla fine della scuola dell’obbligo, competenze linguistiche in almeno una seconda lingua nazionale e in un’altra lingua straniera», ricordando che «l’insegnamento delle lingue nazionali tiene conto degli aspetti culturali di un paese plurilingue». Si deve anche sapere che «la Confederazione può concedere aiuti finanziari ai Cantoni per creare i presupposti per l’insegnamento di una seconda e di una terza lingua nazionale, […] promuovere la conoscenza della loro prima lingua da parte degli alloglotti».
Sono convinto, come ho già scritto in altre occasioni, che per l’italiano occorre agire maggiormente sui Cantoni. Non esplorare anche questa possibilità mi pare un errore micidiale.

Giovanni Longu
Berna, 14.12.2011

12 dicembre 2011

Se l’Italia fosse stata un Paese federale…di fronte alla crisi

Di fronte alla crisi che ha portato alle dimissioni del governo Berlusconi e all’insediamento del governo «tecnico» di Monti mi sono chiesto se l’Italia sarebbe giunta (come sembra) sull’orlo del fallimento se fosse stata un Paese federale. La mia risposta è: probabilmente no. Di fatto, tutti i Paesi federali europei anche se non godono di ottima salute (persino la prima della classe, la Germania, deve adottare misure di risparmio e operare tagli) sono comunque ben lontani dal rischio del tracollo.
Provo a dare una spiegazione: in un Paese federale (e penso in particolare alla Svizzera) i meccanismi di controllo e di autodifesa (solidarietà) sono tali da rendere quantomeno improbabile un dissesto finanziario globale come quello rischiato da Paesi centralisti come la Grecia, l’Irlanda, il Portogallo, la Spagna e l’Italia. Questi Paesi, in mancanza dei meccanismi di autocontrollo interni (federalismo), per superare le loro criticità hanno dovuto subire un prematuro cambio di governo (praticamente imposto) e accettare senza opposizione le richieste (vincolanti) dei poteri forti (mercati, borse, banche) e dei tecnocrati europei. L’Italia ha dovuto ricorrere persino a un cambio di governo al limite della costituzionalità per affidare a «tecnici» il risanamento dei conti pubblici, l’attuazione di riforme strutturali dolorose e impopolari, l’imposizione di una tregua tra i belligeranti delle opposte fazioni parlamentari, incapaci di adottare qualsiasi misura significativa per allontanare il rischio del fallimento.

Gli Stati federali gestiscono meglio le crisi
Come detto, gli Stati federali europei come la Svizzera, la Germania, l’Austria reagiscono meglio alla crisi perché di fronte al pericolo incombente scatta quel meccanismo fondamentale di salvaguardia chiamato solidarietà, per cui ogni membro dell’unione è chiamato a produrre il massimo sforzo per il bene di tutti secondo il motto (di cui vanno fieri gli svizzeri) «tutti per uno – uno per tutti».

Un tale meccanismo in Italia non esiste, tanto è vero che il principale partito politico che s’ispira, a suo dire, al federalismo, la Lega Nord, è stato il primo a schierarsi all’opposizione del governo Monti, non certo in nome dei principi del federalismo, bensì per opportunismo e mero calcolo elettorale. L’ennesima dimostrazione di quanto debole sia in Italia il pensiero federalista.
Confesso che ho sempre avuto molti dubbi sul federalismo alla Bossi-Maroni-Calderoli, perché in esso non trovo alcun riferimento ai principi che animano, per esempio, il federalismo elvetico. Già il termine «federalismo» mi sembra per il caso italiano improprio e una forzatura della Costituzione che non lo menziona nemmeno. All’articolo 5 si parla infatti solo di «autonomia» e di «decentramento», non di «sovranità» e «federalismo». Per definizione lo Stato federale si contrappone allo Stato unitario e l’Italia, com’è noto, è «una e indivisibile». E’ quasi impossibile passare da una forma all’altra. Di solito, Stato federale si nasce non si diventa.

Il federalismo svizzero insegna
Il caso svizzero può essere illuminante. Quando alla Svizzera, nel 1798, sotto l’occupazione napoleonica, si tentò di imporre una costituzione che all’articolo 1 recitava: «La Repubblica elvetica è una e indivisibile» e riduceva i Cantoni a unità amministrative, ci fu un’indignazione generale. Tanto è vero che cinque anni più tardi Napoleone dovette fare marcia indietro e scrivere un’altra costituzione che riconosceva l’autonomia e la sovranità dei Cantoni svizzeri. La Svizzera era nata federata (secondo la tradizione nel 1291) e tale intendeva restare.
Il carattere federativo della Svizzera è stato persino rafforzato nella Costituzione del 2000 sottolineando a più riprese che la sovranità appartiene al Popolo e ai Cantoni e che «il Popolo svizzero e i Cantoni… costituiscono la Confederazione». Questo intreccio di sovranità tra Confederazione, Cantoni e Popolo ha dato luogo a un sistema istituzionale complesso e strutturato a più livelli che è irripetibile in Italia, soprattutto perché manca l’equivalente dei Cantoni. Non è pertanto nemmeno pensabile in Italia, allo stato attuale, un autentico federalismo, anche se è ipotizzabile e a mio modo di vedere auspicabile uno Stato «regionale» con Regioni dotate di una maggiore autonomia soprattutto finanziaria.
Anche uno Stato «regionale», tuttavia, deve basarsi su alcuni principi del federalismo quali il riconoscimento e il rispetto reciproco di tutti i livelli istituzionali, la garanzia delle autonomie, lo spirito di solidarietà, il principio di sussidiarietà e corresponsabilità (ciascuno deve fare la sua parte) e il principio di partecipazione. La Svizzera ha concentrato l’essenza del federalismo nel motto che compare nel grande mosaico sotto la cupola del Palazzo federale di Berna: «tutti per uno – uno per tutti». Quando lo si potrà scrivere nel «Palazzo» della politica italiana?

Giovanni Longu
Berna 12.12.2011

30 novembre 2011

Italiano: meno discussioni e più pratica

Ritorno sul tema dell’italiano (v. L’ECO n. 48 del 23.11.2011) per soffermarmi su una domanda che mi posi nel 2002 all’indomani della pubblicazione dei risultati del censimento federale del 2000 sulle lingue: «L’italiano è ancora una lingua “nazionale”?». Ne scrissi sui tre quotidiani ticinesi, evidentemente senza suscitare grande interesse.
A una domanda analoga, ritenuta dagli organizzatori «provocatoria», è stato dedicato un dibattito su una televisione locale ticinese nel mese di marzo di quest’anno, dopo che il Cantone di San Gallo aveva rinunciato dietro forti pressioni a tagliare l’italiano come opzione specifica nelle scuole di maturità. A distanza di molti mesi, quando il problema dell’italiano è ridiventato acuto per la minaccia (e recentemente attuata) del Cantone di Obvaldo di abolirne l’insegnamento nella scuola di maturità di Sarnen, è intervenuto sul tema il linguista Stefano Vassere con un articolo (provocatorio?): «Ma l’italiano in Svizzera è una lingua regionale».

Italiano regionale o nazionale?
Il fatto che quel titolo non contenesse più un punto interrogativo finale ha suscitato, più ancora del contenuto dell’articolo (certamente discutibile), un’ondata di repliche di giornalisti, insegnanti, ricercatori e personalità autorevoli come Remigio Ratti, Titiana Crivelli, Michele Loporcaro e altri. Ma come, si sono detti quasi in coro, l’italiano è una lingua «nazionale» e non può essere declassato a lingua solo «regionale».
Mentre trovo lodevole la diffusa preoccupazione sulle sorti dell’italiano nella Svizzera tedesca e francese, sono sorpreso che di fatto si riduca il problema della tenuta dell’italiano a un problema meramente teorico, mentre è un problema eminentemente politico e pratico, fatto di persone più o meno interessate alla lingua italiana e della loro localizzazione. La statistica parla al riguardo un linguaggio chiarissimo: l’italiano s’indebolisce costantemente nella Svizzera tedesca e francese (non condivido pertanto l’ottimismo di Elena Maria Pandolfi dell’Osservatorio linguistico) e si rafforza nella Svizzera italiana. D’altra parte un’inversione di tendenza non è pensabile perché l’immigrazione dall’Italia è finita o comunque ridotta e l’apprendimento dell’italiano non può essere imposto per legge.
Sotto questo punto di vista Vassere non fa che prendere atto di una tendenza consolidata, senza nulla togliere al valore giuridico e ideale dell’italiano in Svizzera, considerato dalla Confederazione lingua nazionale e ufficiale. Come tale l’italiano è registrato addirittura nella Costituzione (articoli 4 e 70). Sul piano pratico, invece, non v’è dubbio che l’italiano tende sempre più a concentrarsi nella Svizzera italiana, l’unica regione in cui l’italiano non è a rischio d’estinzione.

L’italiano va affrontato in termini politici e pratici
Detto questo, mi sembra che il problema dell’italiano nel resto della Svizzera vada affrontato in termini essenzialmente politici e pratici. Anzitutto politici, agendo come indicavo nel precedente articolo sulla responsabilità dei Cantoni a mantenere per motivi ideali (coesione nazionale) ma anche economici (come sottolineato da Ratti) l’offerta di corsi d’italiano nelle loro scuole di ogni ordine e grado, ma anche agendo sullo Stato italiano (ambasciata e consolati) perché intraprenda con i Cantoni un percorso di sinergie e di cogestione dei corsi di lingua e cultura italiane. E’ ormai evidente, anche alla luce delle difficoltà finanziarie dello Stato italiano, che tali corsi possono sopravvivere solo col sostegno dei Cantoni.
Sul piano pratico anche le associazioni tradizionali italiane dovrebbero farsi carico di non trascurare il loro carattere «italiano» nelle loro manifestazioni e di testimoniare che la pratica dell’italiano e l’esternazione dell’«italianità» sono assolutamente compatibili con una riuscita integrazione. Lo si nota facilmente in tutte le «feste» italiane: tra i partecipanti sono sempre molto numerosi gli svizzeri. Evidentemente anch’essi apprezzano questa componente «meridionale» della Svizzera e forse ne sentono addirittura il bisogno. Per salvare l’italiano anche questo aspetto va tenuto in considerazione, approfondito e valorizzato.
Per quanto riguarda invece la discussione sulle nozioni di «nazionale» e «regionale» credo che non meriti ulteriori interventi. Del resto, già nel 2002 l’Ufficio federale della cultura ricordava in un comunicato che «la Svizzera ha definito lingue regionali o minoritarie ai sensi della Carta europea delle lingue il romancio e l'italiano, assoggettandole alle disposizioni di promozione contemplate».

Giovanni Longu
Berna 30.11.2011

Cittadinanza e integrazione

Si è riaccesa, in Italia, la discussione sulla cittadinanza degli stranieri di seconda generazione, ossia nati in Italia da genitori stranieri immigrati. Già alcuni anni fa se n’era parlato, poi il tema era stato radiato dal programma di governo per volontà di un partito della maggioranza, la Lega Nord. La questione era stata sollevata da Gianfranco Fini, allora membro della stessa maggioranza, probabilmente non perché gli stessero molto a cuore le sorti dei figli degli immigrati ma strumentalmente per marcare la sua distanza da Umberto Bossi e dal leader Berlusconi.
Il tema è serio e non può essere declassato ad argomento secondario o, peggio, stralciato dall’agenda politica, anche se in questo momento le priorità sono evidentemente altre. Basti pensare agli impegni gravosi e urgenti che devono affrontare governo e parlamento per fronteggiare le crescenti difficoltà finanziarie, economiche e sociali che stanno minacciando seriamente l’Italia. Resta comunque un tema serio, che prima o poi anche l’Italia dovrà affrontare come è stato ed è affrontato da tutti i Paesi d’immigrazione.
A riproporlo, con grande autorevolezza, è stato qualche giorno fa lo stesso Presidente della Repubblica Napolitano, che nel corso di un incontro al Quirinale con una delegazione della Federazione delle chiese evangeliche in Italia da dichiarato: «Mi auguro che in Parlamento si possa affrontare anche la questione della cittadinanza ai bambini nati in Italia da immigrati stranieri. È un’assurdità e una follia che dei bambini nati in Italia non diventino italiani. Non viene riconosciuto loro un diritto fondamentale. I bambini hanno questa aspirazione».

Tema complesso e controverso
Non credo che in questa legislatura l’argomento possa essere affrontato con la dovuta attenzione e tantomeno risolto, perché si tratta di un tema molto complesso e controverso. E sbaglierebbe, a mio parere, chi, partendo dalle parole del Capo dello Stato («è un’assurdità e una follia che dei bambini nati in Italia non diventino italiani», perché «non viene riconosciuto loro un diritto fondamentale»), ritenesse per davvero che la cittadinanza italiana sia un «diritto fondamentale» degli stranieri e quindi da garantire in maniera automatica e assoluta. Oltretutto mancano al riguardo linee direttive comunitarie applicabili in tutti gli Stati membri.
In realtà, il tema è di per sé molto complesso, tanto è vero che ogni Stato cerca di risolverlo a modo suo, ricorrendo a compromessi più che a soluzioni radicali. Là dove non si applica il diritto basato sul luogo di nascita, il cosiddetto «jus soli» (per cui diventa automaticamente cittadino chi nasce sul territorio), e non è possibile applicare il diritto di filiazione o «jus sanguinis», è giocoforza adottare dei compromessi. Basta consultare la legge sulla cittadinanza di un qualsiasi Stato moderno per rendersi conto della complessità della materia e delle condizioni per ottenerla. Non va inoltre dimenticato che il problema nei confronti degli stranieri si pone diversamente a seconda che si tratti di immigrati di prima generazione, dei loro figli (seconda generazione) o dei loro nipoti (terza generazione), ma soprattutto a seconda del loro grado d’integrazione.
In Svizzera, dove il tema ha cominciato ad essere dibattuto fin dalla nascita della moderna Confederazione (1848), sono state adottate nel tempo differenti soluzioni, volte da una parte a ridurre la proporzione sempre crescente di stranieri sulla popolazione globale e dall’altra a integrare nella società svizzera soprattutto i giovani stranieri nati e cresciuti nel Paese. Nel 1903 la Confederazione legiferò persino che i Cantoni potessero applicare per i giovani stranieri la naturalizzazione automatica, applicando una sorta di jus soli, ma praticamente nessun Cantone ne tenne conto, preferendo esaminare caso per caso le richieste di cittadinanza.

Integrazione prioritaria
In seguito l’argomento è stato abbandonato ed è ridiventato acuto solo negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, quando si trattava di dare un pieno riconoscimento a quelle decine di migliaia di giovani stranieri nati e cresciuti in questo Paese, di fatto pienamente integrati come i cittadini indigeni eppure considerati stranieri. Per superare questa anomalia e agevolare l’acquisizione della cittadinanza da parte dei giovani di seconda e terza generazione sono state proposte diverse modifiche costituzionali, ma sono state sempre respinte in votazione popolare.
«Regalare» o addirittura «svendere» la cittadinanza svizzera alla maggioranza degli svizzeri chiaramente non piace, anche se di fatto la pratica della naturalizzazione in questi ultimi decenni è stata resa più semplice e facile. C’è invece un larghissimo consenso sulla necessità di migliorare la politica d’integrazione, obbligando da una parte gli stranieri che intendono stabilirsi definitivamente in Svizzera a conoscere per esempio una lingua nazionale, e dall’altra le amministrazioni a creare le migliori condizioni possibili per l’integrazione degli stranieri.
Anche in Italia probabilmente la via maestra non è quella di adottare immediatamente una sorta di naturalizzazione automatica (jus soli) per tutti gli stranieri nati in Italia. E’ sicuramente più promettente la strada dell’integrazione, motivando gli stranieri ad una sempre più diffusa e responsabile partecipazione in ambito scolastico, sociale, professionale e persino politico, ad esempio nell’attività dei partiti e nelle votazioni a livello comunale.

Giovanni Longu
Berna 30.11.2011

23 novembre 2011

Per l’italiano occorre agire sui Cantoni

Dopo San Gallo e Obvaldo c’è da ritenere che l’attacco all’italiano continuerà ancora in altre scuole e in altri Cantoni. E la domanda mi viene spontanea: come finirà? Altrettanto spontanea mi viene la risposta: purtroppo male!, anche se la tendenza alla marginalizzazione dell’italiano fuori del Ticino (e del Grigioni italiano) sarà lenta. Le statistiche, indispensabili per conoscere la realtà, danno l’italiano in forte calo dovunque ad eccezione del Ticino.
Nel frattempo c’è chi disquisisce, legittimamente (ma quanto utilmente?), se l’italiano è lingua nazionale o solo regionale (senza per altro chiedersi e spiegare quali sono o sarebbero le conseguenze giuridiche e pratiche nel primo e nel secondo caso), chi denuncia «indignato» le inadempienze della politica (quella federale come quella cantonale soprattutto del Ticino), chi si cimenta nel dare consigli e suggerimenti «utili» su ciò che bisognerebbe fare o non fare, chi lancia grida di allarme all’attenzione del governo italiano per la deriva a cui sembrano condannati i corsi di lingua e cultura soprattutto nella Svizzera tedesca e francese e chi, impotente, sta a guardare.
Sono poi in molti che fondano le loro argomentazioni in difesa dell’italiano sul fatto che la lingua italiana in Svizzera è lingua «nazionale» e lingua «ufficiale», ma senza chiedersi la reale portata di queste espressioni. La Costituzione federale non va al di là delle affermazioni di principio né quando proclama la «libertà di lingua» (art. 18), né quando elenca le lingue «nazionali» (art. 4: «Le lingue nazionali sono il tedesco, il francese, l’italiano e il romancio») e nemmeno quando tratta più diffusamente delle lingue ufficiali (art. 70).

L’articolo costituzionale sulle lingue
Credo che per una discussione pacata sui problemi dell’italiano e soprattutto sull’impostazione di qualsiasi seria azione di salvaguardia dell’italiano soprattutto nella Svizzera tedesca e francese non si possa prescindere dall’art. 70 della Costituzione federale e dalla recente normativa sulle lingue. Per capirne la portata è tuttavia indispensabile ricordare che la Svizzera è un Paese federale, per cui le norme che concernono la Confederazione valgono in primo luogo per la Confederazione e non necessariamente vincolano anche i singoli Cantoni.
Nell’articolo 70, per esempio, al primo capoverso si afferma che «le lingue ufficiali della Confederazione sono il tedesco, il francese e l’italiano. Il romancio è lingua ufficiale nei rapporti con le persone di lingua romancia», ma nel secondo capoverso si dice esplicitamente che «i Cantoni designano le loro lingue ufficiali» con l’unica avvertenza che «per garantire la pace linguistica rispettano la composizione linguistica tradizionale delle regioni e considerano le minoranze linguistiche autoctone». Da notare con quanta accuratezza la Costituzione parli di «minoranze linguistiche autoctone» e non semplicemente di «minoranze linguistiche».
Nei successivi capoversi 3, 4 e 5 si parla della Confederazione come promotrice e sostenitrice di quanto i Cantoni fanno in ambito linguistico, menzionando in particolare «i provvedimenti dei Cantoni dei Grigioni e del Ticino volti a conservare e promuovere le lingue romancia e italiana». Ma non è precisato, per esempio, se il Cantone Ticino può sostenere l’italiano anche fuori del Ticino. Se così fosse, il Cantone dovrebbe spendere fuori del proprio territorio una parte del contributo finanziario che riceve nell’ambito della promozione linguistica. E’ sintomatico che questo problema non venga mai sollevato né dalle autorità cantonali né dalla Deputazione ticinese alle Camere federali. Meglio accontentarsi di prese di posizione ufficiali, che non costano niente.

Agire sui Cantoni
Va ancora aggiunto che, per quel che attiene alla sua competenza diretta, la Confederazione sembra seriamente impegnata a promuovere la terza lingua nell’Amministrazione federale e segno ne è il moltiplicarsi di corsi di lingua italiana anche tra i quadri medi e superiori dei vari dipartimenti e uffici. Per quel che concerne invece la sua competenza indiretta, per esempio il sostegno finanziario ai Cantoni nel campo della «promozione delle lingue nazionali nell’insegnamento» (art. 10 dell’ordinanza sulle lingue) o in quello della «promozione della conoscenza della loro prima lingua da parte degli alloglotti» (art. 11 della stessa ordinanza), la Confederazione sembra in posizione di attesa, perché i Cantoni non fanno e non chiedono generalmente niente.
Credo che la grossa partita sull’italiano la si giochi ormai soprattutto a livello cantonale. Solo le iniziative dei Cantoni, soprattutto quelli dove esiste ancora una discreta percentuale di italofoni, possono evitare il crollo dell’italiano su scala nazionale. E’ sui Cantoni che bisogna intervenire (com’è stato fatto nei confronti di San Gallo e Obvaldo), ma è anche sulla popolazione italofona che le associazioni e le organizzazioni dei genitori devono intervenire per motivare la frequenza dei corsi d’italiano, l’utilità dell’apprendimento dell’italiano, la difesa sul territorio dell’italianità.
Infine, perché non pensare, come suggerivo oltre un anno e mezzo fa, alla «cantonalizzazione» dei corsi di lingua e cultura italiane in una forma di cogestione e cofinanziamento tra lo Stato italiano e i Cantoni?

Giovanni Longu
Berna 23.11.2011

Governo Monti legittimato dall’urgenza di risanare l’Italia

Credo che ogni italiano debba augurare al governo Monti di riuscire in tempi brevi a traghettare l’Italia fuori della crisi dovuta al suo enorme debito pubblico. Tutti gli osservatori più qualificati nazionali e internazionali riconoscono al nuovo capo del governo le qualità e le capacità necessarie per riuscire nell’intento. Resta tuttavia un compito difficile. Non si tratta infatti solo di tranquillizzare i mercati sulla solidità e solvibilità del sistema economico italiano, ma anche e soprattutto di avviare un processo virtuoso di crescita, eliminandone i principali ostacoli, di natura strutturale e sociale.
Non va infatti dimenticato che i problemi che Monti dovrà affrontare hanno radici lontane e profonde. Il governo Berlusconi si è dovuto arrender di fronte all’evidenza di non poterli risolvere, sia a causa dei dissidi all’interno della sua fragile maggioranza e sia per la forte contrarietà pregiudiziali delle opposizioni ad ogni proposta di soluzione proveniente dal governo. Monti sembra avere le carte giuste per affrontare i problemi con maggiore determinazione e probabilità di riuscita. E’ importante però che agisca in fretta, sfruttando l’elevato indice di gradimento riscosso con un voto di fiducia quasi plebiscitario sia alla Camera che al Senato e il credito di fiducia ottenuto dalle massime istanze europee.
Gli ostacoli che il governo Monti dovrà affrontare per raggiungere i risultati sperati non saranno pochi sia all’interno che all’esterno del Parlamento. Se infatti la montagna da appianare è il debito pubblico, non si può ignorare che esso è in gran parte dovuto a una pace sociale mantenuta artificialmente, a un equilibrio politico basato su compromessi espliciti e taciti, a un sistema di welfare sbilanciato e a un tentativo evidentemente non riuscito di avvicinare il Sud al Nord trasferendovi per lo più risorse improduttive. Sarà pertanto inevitabile che per incidere sensibilmente sul debito si debba intervenire anche sullo stato sociale e sul sistema politico italiano.
Per rilanciare la crescita del Paese non basterà infatti recuperare risorse con una lotta mirata all’evasione fiscale, con una maggiore equità contributiva, con tagli drastici della spesa pubblica, con la vendita di una parte del patrimonio statale, ma occorrerà anche intervenire sui tagli radicali dei costi della politica, sulla flessibilità e mobilità del lavoro, sulle liberalizzazioni di molti servizi pubblici, sul controllo più rigido dell’impiego delle risorse pubbliche in tutte le amministrazioni locali, sulla piena implementazione della riforma della scuola e dell’università, sul sistema di sicurezza sociale non più al passo con un mondo che cambia velocemente, ecc.

Governo di emergenza e di tregua
E’ auspicabile che l’amplissima maggioranza che ha accompagnato la nascita del governo Monti continui a sostenerlo a lungo, ma è probabile che soprattutto di fronte ad alcune misure indubbiamente impopolari essa si sfaldi. Questo governo, non va dimenticato, nasce non per una esplicita volontà di stare insieme delle forze presenti in Parlamento, ma dalla speranza di superare il momento più drammatico della crisi derivante dal debito pubblico e dalla convenienza per tutti i partiti di evitare le elezioni anticipate. Sotto questo punto di vista il governo Monti appare molto fragile. Per le forze politiche antagoniste e alternative che occupano ancora il Parlamento il governo Monti rappresenta solo una tregua e si può star certi che alla prima occasione utile si daranno nuovamente battaglia. Purtroppo!
Del resto le prime avvisaglie si sono viste già nell’interpretazione del governo Monti (considerato dagli uni come un quasi golpe voluto dal presidentissimo Napolitano e un ribaltone contrario alle scelte democratiche delle ultime elezioni del 2008, e dagli altri come l’ultima ancora di salvezza per un’Italia sull’orlo del precipizio, l’unico possibile salvatore della patria). Ma l’esempio più evidente della conflittualità ancora esistente soprattutto tra i maggiori partiti antagonisti è stato il veto incrociato all’ingresso nel nuovo governo di due alte personalità, Gianni Letta e Giuliano Amato. Per non parlare dell’episodio meschino di un deputato questuante del Partito democratico, che con un «pizzino» fa sapere al presidente Monti che «Bersani vorrebbe interagire sulla scelta dei viceministri».
Benché il governo Monti sia nato in un contesto più da Prima Repubblica che a seguito di una regolare competizione elettorale, credo che gli italiani lo legittimerebbero a grande maggioranza se, oltre che per sanare il debito pubblico, s’impegnasse anche per sanare l’Italia dal degrado in cui il sistema politico l’ha portata. Basterebbe che ponesse finalmente mano alla riduzione del numero dei parlamentari, alla limitazione delle legislature dei deputati e dei senatori, all’eliminazione di tutti i privilegi retributivi e previdenziali dei parlamentari a livello nazionale e locale, al ridimensionamento dei poteri dei boss dei partiti con una nuova legge elettorale. E’ forse chiedere troppo al governo Monti?
Auguri Presidente Monti!

Giovanni Longu
Berna 23.11.2011

16 novembre 2011

Lunga vita a Neuchâtel millenaria

Neuchâtel, capitale dell’omonimo Cantone (nella Confederazione dal 1815), sede universitaria e importante centro di ricerca nel campo della microtecnica e delle nanotecnologie. E’ una città relativamente piccola per numero di abitanti (circa 32.000) ma ricca di storia, di arte e di cultura, tutta da scoprire, per chi ancora non la conosce.
Neuchâtel celebra quest’anno il primo millennio di vita. Risale infatti al 1011 la prima menzione della città. In realtà le sue origini si perdono nella preistoria, come testimoniano la scoperta di un villaggio neolitico nella zona dei Giardini inglesi e il ricco parco archeologico del Latenium nel vicino comune di Hauterive. Ma è sicuramente attorno al Mille che l’agglomerato primitivo cominciò a svilupparsi partendo dalla collina verso il lago, come testimoniano i resti delle prime fortificazioni e i basamenti delle tre torri ancora esistenti, ricostruite in periodi successivi (Torre del mastio, Torre delle prigioni e Torre detta di Diesse).

Il Castello e la Collegiata
Della sua rapida ascesa e del periodo del suo massimo sviluppo sotto i conti di Neuchâtel, la città conserva numerose vestigia, che per ristrettezza di spazio, vengono qui appena accennate. La massima concentrazione di questi segni, risalenti ai primi secoli dopo il Mille, si trovano sulla collina del castello, con il Castello, già dimora dei conti di Neuchâtel, e la Collegiata di Nostra Signora (Notre-Dame), oggi chiesa evangelica, un edificio romanico-gotico, rimaneggiato più volte dopo la Riforma protestante (introdotta nel 1530 da Guillaume Farel).
Neuchâtel fu più volte distrutta e ricostruita. Un incendio del 1450 risparmiò solo una dozzina di case e un altro incendio del 1714 distrusse una sessantina di case nella zona sottostante il Castello. Dopo ogni disgrazia la città risorgeva più solida e più bella, come dimostrano ad esempio la sfilata di case ricostruite dopo il 1714 lungo la via del Melo (rue du Pommier, al cui n. 1 si trova un palazzo signorile del Settecento, oggi tribunale). Passeggiando nel centro storico sono numerose le occasioni per soffermarsi ad ammirare i segni di un’epoca in cui Neuchâtel, città ricca e prestigiosa, era a capo di una contea prima e di un principato dopo (dal 1648) e si avvaleva di rinomati architetti per edificare palazzi e fontane.

Palazzi e fontane
Giusto per fare qualche esempio, una delle costruzioni più interessanti della città vecchia è la famosa Maison des Halles, un vecchio mercato coperto per granaglie e tessuti, in stile rinascimentale, situato nell’elegante Place des Halles. Nella città vecchia s’incontrano anche splendide fontane cinquecentesche, che un tempo non avevano certo la funzione ornamentale di oggi: Fontana del Banneret, Fontana della giustizia, Fontana del grifone (da cui, in occasione di alcune feste popolari, sgorgava vino invece dell’acqua), Fontana del gonfaloniere, ecc.
Tra i monumenti architettonici neocastellani che meritano di essere qui ricordati, edificati tra la fine del Settecento e la fine dell’Ottocento, non si può fare a meno di citare il Palazzo DuPeyrou (una sontuosa villa padronale del XVIII sec. fatta costruire da Pierre Alexandre DuPeyrou, grande amico di Jean-Jacques Rousseau e divulgatore delle sue opere), ma anche il Municipio (Hôtel-de-Ville), con facciata monumentale in stile neoclassico, il Collegio Latino, l’edificio centrale dell’Università, il Museo d’arte e di storia, la Posta centrale, ecc.
Neuchâtel è rimasta città vivace e aperta alla modernità anche in architettura, come dimostrano le costruzioni più recenti della nuova Scuola superiore di commercio, del Centro svizzero di ricerche in elettronica e microtecnica, della Facoltà di lettere dell’Università nel quartiere in riva al lago delle Belle Arti e delle Jeunes Rives (dove venne ospitata gran parte dell’Expo.02). Meritano di essere menzionati anche le recenti realizzazioni nella zona alta della città (nei pressi della stazione ferroviaria), i due grandi edifici dell’Ufficio federale di statistica e il complesso urbanistico modello (Ecoparc), dove sono ospitati fra l’altro il nuovo Conservatorio e la Scuola universitaria professionale dell'arco giurassiano.

Città d’arte e di cultura
Neuchâtel è, come detto, una città d’arte e di cultura, non solo per l’ottima conservazione del suo nucleo monumentale medievale e sette-ottocentesco, per l’Università e vari istituti di ricerca, ma anche per alcune altre istituzioni di prestigio. Come non ricordare, per esempio, i musei di Archeologia e di Etnografia e soprattutto il già citato Museo d’Arte e di Storia? In quest’ultimo sono conservati tre famosi androidi o automi: lo scrivano, il disegnatore e il musicista, costruiti da Pierre Jaquet-Droz e dal figlio Henri-Louis tra il 1770 e il 1773, ancora funzionanti. Né va dimenticato il prestigioso Centro Dürrenmatt, dedicato all’opera letteraria e pittorica del grande scrittore svizzero, in un edificio armonioso realizzato da Mario Botta.

Neuchâtel e gli immigrati italiani
Neuchâtel è una città e un cantone che ha avuto e continua ad avere un forte legame con gli «immigrati» italiani. In questo cantone, che introdusse nella sua costituzione il diritto di voto degli stranieri fin dal 1850, l’integrazione degli stranieri è un impegno costante, anche se non sempre i risultati sono stati confortanti. Soprattutto nei primi decenni del secondo dopoguerra, molti immigrati italiani si sentivano discriminati e umiliati. Un’immigrata di quel periodo ricorderà anni più tardi: «Ci si trovava fra noi [immigrati], gli svizzeri in quel periodo ci evitavano, eravamo solo mano d’opera niente altro… Era una sofferenza fisica e morale. Non si capiva, eravamo buoni solo per il lavoro ma per il resto non eravamo accettati».
In effetti la storia dell’immigrazione italiana a Neuchâtel e nel Cantone ha avuto periodi di grande chiusura e grande apertura. E’ possibile che abbia costituito per lungo tempo un ostacolo all’integrazione la diversità di confessione religiosa e di orientamento politico: rigidamente protestanti e conservatori i neocastellani, cattolici e di sinistra gli immigrati italiani. Per lungo tempo l’intesa è stata difficile, mai impossibile.

Integrazione religiosa e politica
Fino alla fine dell’Ottocento, i cattolici a Neuchâtel erano una esigua minoranza, che non disponevano nemmeno di una chiesa, ma tenevano i loro culti in una cappella nel quartiere della Maladière. Fu solo quando cominciarono ad arrivare numerosi gli immigrati italiani, negli ultimi decenni dell’Ottocento, che la città venne incontro alle richieste dei cattolici, rappresentati dalla Società libera dei cattolici romani di Neuchâtel, e mise loro a disposizione un terreno nella zona bassa della città sottratta alle acque del lago, dove sorgerà, tra il 1897 e il 1906, la chiesa dedicata a Nostra Signora dell’Assunzione, elevata al rango di Basilica dal papa Benedetto XVI nel 2008. La singolarità di questa chiesa è data anche dal suo colore rosso, dovuto alla pietra artificiale utilizzata. Per la sua costruzione non fu richiesto alcun aiuto statale. Il denaro necessario fu raccolto facendo appello alla generosità dei cattolici e al sostegno delle istituzioni cattoliche. Negli appelli dei sostenitori dell’iniziativa s’invocava spesso la difesa della fede cattolica contro la «devastazione delle sette protestanti».
Oggi, evidentemente, la convivenza fra cattolici e protestanti è assolutamente pacifica, come quella tra conservatori e progressisti. Al riguardo è utile ricordare che gli stranieri e gli italiani in particolare, fino a pochi decenni orsono, non hanno fatto grande uso del diritto di voto a livello cantonale concesso loro dalla costituzione. Furono le circostanze e soprattutto la diffusa xenofobia degli anni Sessanta e Settanta che spinse alcune organizzazioni di immigrati, e specialmente la locale Colonia libera italiana, a mobilitare politicamente i numerosi italiani residenti nella città e nel cantone di Neuchâtel. Vitaliano Menghini, un italiano allora presidente della Colonia, costituì negli anni Ottanta un vero e proprio partito politico svizzero chiamato «Solidarités», orientato a sinistra e finalizzato soprattutto alla lotta contro il razzismo e all’ottenimento del diritto di voto a livello comunale e di eleggibilità sia a livello comunale che cantonale. Oggi (dal 2007) gli stranieri del Cantone di Neuchâtel hanno il diritto e di eleggibilità a livello comunale, mentre il diritto di eleggibilità a livello cantonale non è stato ancora raggiunto, ma la lotta continua, assicurano i fautori di questo diritto.
Il partito di Menghini ha avuto un buon successo elettorale nelle elezioni del consiglio comunale del 2000, riuscendo addirittura a rovesciare l’equilibrio politico nel comune di Neuchãtel, amministrato da forze di destra sin dal 1848, l’anno della sua istituzione. Nel 2004 riuscì persino a far eleggere sindaco un membro del partito. Naturalmente nel partito Solidarités non militano solo italiani, ma è significativo di quanto anche gli stranieri, se ben integrati, possono ottenere col loro impegno e la loro partecipazione in campo sociale, politico e culturale.

Giovanni Longu
Berna, 16.11.2001

09 novembre 2011

Elezioni in vista… per fare cosa?*

Stando ai media nazionali e stranieri che osservano la politica italiana, il governo Berlusconi sarebbe ormai giunto al capolinea, logorato da un’acerrima opposizione, unita da un viscerale antiberlusconismo, e da una fronda interna al centro-destra, che si appresta a saltare sul carro del vincitore. Già si respira un’aria da basso impero, quando intrighi e congiure di palazzo erano all’ordine del giorno.
Se Berlusconi dovrà, forse presto, rimettere il mandato nel capo dello Stato è anche dovuto alla sua incapacità di gestire un governo e una maggioranza eterogenea e litigiosa. Un governo che non sa governare è giusto che vada a casa. Ma c’è poco da stare allegri, perché dietro l’angolo non c’è affatto un altro governo in grado di garantire quanto l’attuale non è stato capace di realizzare e con ricette miracolose per uscire subito dalla crisi. Purtroppo il macigno del debito pubblico e il dovere di mantenere gli impegni presi con l’Europa continuerà a gravare pesantemente su qualunque governo verrà dopo quello di Berlusconi. Come continuerà a pesare sul mancato sviluppo del prodotto interno lordo (PIL) il dissesto idrogeologico, che ogni anno fa centinaia di vittime e miliardi di danni, il forte ritardo nella realizzazione delle infrastrutture ferroviarie e autostradali, il crescente distacco sempre più accentuato tra nord e sud in termini di produzione e consumo di ricchezza, occupazione e disoccupazione, impiego e spreco di risorse, ecc.
Di fronte alla mole di problemi che dovrebbe unire le migliori forze del Paese per evitare disastri peggiori, è sconcertante assistere da alcune settimane al peggiorare dello scontro politico, in barba agli appelli del Capo dello Stato (a quando il presidenzialismo?) che invita a una maggiore moderazione e coesione. Per il governo, che dovrebbe decidersi finalmente a indicare le soluzioni alla crisi sfidando tutte le opposizioni, sembra invece prioritario avere in Parlamento i numeri per sopravvivere. Per le opposizioni, incapaci di rendersi conto che basterebbe un loro sostegno per fare approvare misure non certo risolutorie ma comunque utili al Paese, come quelle richieste all’Italia dall’Unione Europea e in particolare dalla Banca centrale europea, la priorità è diventata ormai solo mandare a casa Berlusconi. L’Europa può aspettare e anche il Fondo monetario internazionale, che dovrebbe certificare trimestralmente le realizzazioni fatte dal governo italiano per uscire dalla crisi.

Rischi di ribaltoni e di ritorno alla Prima Repubblica
Chi si fosse illuso, in questi ultimi anni, che la frammentazione politica che caratterizzava la Prima Repubblica fosse stata archiviata dal bipolarismo introdotto da Berlusconi e Prodi, deve ricredersi. Nell’Italia del Duemila, si diceva, non c’è più spazio per i ribaltoni. Evidentemente la storia in Italia corre a rilento. In questi ultimi mesi si assiste a un via vai di parlamentari che passano da un gruppo all’altro, da un partito all’altro e quel che è peggio da una coalizione all’altra. Se con l’affermarsi del bipolarismo sembrava evidente che le coalizioni dovessero avere un solo leader, oggi questo principio è messo in discussione.
Nel centro-destra il leader ufficiale è Berlusconi, ma in realtà è sotto tutela non solo di Bossi, ma anche di Tremonti, di Scajola e chi sa di quanti altri ancora. Nel centro-sinistra manca del tutto un leader e, se mai si profilasse come tale quello del maggior partito Bersani, difficilmente potrebbe evitare un condizionamento interno da parte dei vari D’Alema, Bindi, Renzi, Veltroni e soprattutto il condizionamento esterno dei leader dei numerosi altri partiti e movimenti d’opposizione da Di Pietro a Vendola, da Casini a Fini, a Rutelli.
Come in certi film dell’horror si ha l’impressione che gran parte di questi pretendenti leader passino il tempo di giorno a elaborare ricette per salvare l’Italia malata e di notte ad affilar coltelli. Basta sentirli parlare per rendersi conto delle ambizioni sfrenate che nascondono. Del resto, com’è possibile credere a un Fini che pur di riemergere dal fondo (di credibilità) in cui è precipitato non solo ha voltato le spalle al suo sdoganatore dall’infamia fascista, ma è passato tranquillamente armi e bagagli dalla parte degli avversari politici dati per prossimi vincitori, tradendo (per cui «traditore» è il termine giusto) il patto con gli elettori che lo elessero deputato in alleanza con Berlusconi e in opposizione con Bersani e con Casini?
E com’è possibile credere allo stesso Casini, che mentre si propone come salvatore della patria e affossatore del tiranno Berlusconi altro non fa che prepararsi il terreno per divenire una sorta di «deus ex machina», senza il quale nessun governo è possibile? In questo gioco di sfrenate ambizioni rientra anche la prova di forza dei prossimi giorni: il governo Berlusconi non deve durare fino alla sua scadenza naturale, ma deve cadere prima, con la complicità dei cospiratori, in modo da confermare in piena regola il ritorno alla pessima usanza della Prima Repubblica di far durare i governi da pochi mesi a pochi anni.

In democrazia, solo gli elettori decidono le maggioranze
Credo che tutte le idee vadano rispettate, purché oneste e democratiche. Nelle proposte di chi sarebbe disposto a votare le indicazioni del governo a condizione che prima cada la testa di Berlusconi, e nelle richieste di un governo di larghe intese senza il benestare dei partiti vincitori delle elezioni non c’è niente di onesto e di democratico. Se il governo, per la sua debolezza e incapacità non è più sostenibile, è giusto che cada il più presto possibile; ma è altrettanto giusto che a decidere da quale maggioranza debba essere sostenuto il prossimo governo debba essere unicamente il popolo degli elettori.
Giovanni Longu
Berna, 9.11.2011

* Questo articolo è stato scritto il 6.11.2011, quando Berlusconi non aveva ancora annunciato le prossimi dimissioni.

Conosciamo davvero le istituzioni politiche svizzere?



UNITRE di SOLETTA
Anno accademico 2011/2012

Conosciamo davvero le istituzioni politiche svizzere?
Questa domanda potrebbe essere rivolta ugualmente sia agli svizzeri che agli stranieri. In un ipotetico sondaggio è tuttavia verosimile che gli svizzeri risulterebbero migliori conoscitori del proprio Paese degli stranieri, anche se non mancherebbero sorprese se il campione utilizzato fosse stratificato per età e livello di formazione. In questo caso, tuttavia, la domanda è rivolta principalmente agli stranieri e in primis agli italiani. Conosciamo davvero le istituzioni politiche svizzere?

Chi è in Svizzera da molti anni, ossia gran parte degli italiani adulti, e chi ha frequentato le scuole in questo Paese risponderà a questa domanda probabilmente con un «sì» deciso. In effetti la conoscenza di un Paese o di una città dipende molto non solo dalle letture fatte, dalle informazioni ottenute a scuola o attraverso i media, ma anche dalla durata del soggiorno, dai rapporti intercorsi con la gente del posto, dalle informazioni dirette.

Sicuramente, dunque, molti sanno, per esempio, che la Svizzera è una Confederazione, che ci sono i Cantoni che contano più delle regioni italiane, che c’è un Parlamento che fa le leggi, un Governo che le mette in pratica e una Magistratura che giudica. Ma se appena si volesse indagare sul significato di «Confederazione» o sulla composizione e sui compiti specifici del Parlamento, del Governo e della Magistratura la sicurezza delle conoscenze si attenuerebbe rapidamente.
Molti, nel mese di ottobre, hanno seguito l’esito delle elezioni politiche, anche se probabilmente in pochi si sono accorti della campagna elettorale che le ha precedute (perché meno chiassosa e combattuta di quanto avviene di solito in Italia). Ma quanti saprebbero valutare, sia pure a grandi linee, la nuova forza dei partiti rispetto alle precedenti elezioni? E in che ordine saranno occupati i seggi del Consiglio nazionale e del Consiglio degli Stati?

Berna, Palazzo del Parlamento: Sala del Consiglio nazionale
 Un corso dell’UNITRE di Soletta

L’UNITRE di Soletta ha proposto per l’anno accademico 2011/2012 un approfondimento di queste conoscenze sommarie e credo che l’argomento lo meriti, non solo perché interessante ma anche perché utile. Quando si parla di Confederazione, ad esempio, pochi sanno che nel 1291 col Patto del Grütli tra le tre comunità di Uri, Svitto e Untervaldo non è nata la Confederazione (nella forma attuale) ma semmai è stata solo concepita. La gestazione, per restare nella metafora della biologia, è stata lunga e anche dopo la nascita il suo organismo si è sviluppato e consolidato lentamente fino a trovare una forma definitiva nel 1848 con una Costituzione federale vincolante per tutti i Cantoni che nei secoli avevano aderito alla cellula primitiva costituita dalle tre comunità primitive.
Anche solo da questi accenni si può capire perché ci siano voluti secoli per sviluppare quella forma di «federalismo» di cui tanto si parla, ma di cui spesso non si conosce il contesto storico e politico. E siccome il federalismo è l’«ambiente» in cui è nata e si è sviluppata la Confederazione di oggi, anche le istituzioni politiche vanno studiate e capite in un contesto che è storicamente molto diverso ad esempio da quello italiano.
Dovrebbe essere dunque interessante e utile (come arricchimento delle proprie conoscenze e maggiore competenza nelle discussioni) per gli iscritti al corso «Istituzioni politiche svizzere» approfondire insieme le tematiche attorno a parole ormai di uso comune come democrazia, sovranità popolare, federalismo, sussidiarietà, sistemi elettorali, legge, decreto, diritti politici, ecc. Dovrebbe essere altresì interessante e utile venire a conoscere quasi nel dettaglio come si fa una legge, come funziona la macchina dello Stato, com’è amministrata la giustizia in Svizzera, senza trascurare la questione dei «diritti politici» degli stranieri.
Per dare concretezza al corso è anche prevista una visita del Palazzo federale, il luogo dove si esprime al massimo livello la volontà popolare e la democrazia. Ma sarà solo al termine del corso che i partecipanti potranno dire consapevolmente di conoscere maggiormente le istituzioni politiche della Svizzera e dunque anche la Svizzera.

Giovanni Longu
Berna 9.11.2011


26 ottobre 2011

Le suore, angeli custodi degli emigrati italiani



La storia dell’immigrazione italiana in Svizzera è stata ampiamente studiata e ancora si continua a scrivere sulla sua origine e il suo sviluppo. Queste ricerche e questi studi mettono anche in luce numerosi personaggi che hanno influito sull’evoluzione della collettività immigrata. Tra questi personaggi, nelle ricerche più approfondite, si trovano anche alcuni missionari soprattutto bonomelliani e scalabriniani. Raramente capita di leggere pagine che ricordano le suore che da oltre cent’anni affiancano i missionari nella loro attività pastorale e sociale.

Eppure, le suore meriterebbero un ricordo e una menzione più accurata. Pur non essendo forse mai state protagoniste, perché la storia (scritta soprattutto da uomini) ha assegnato loro un rango subalterno, hanno svolto in seno all’immigrazione un ruolo di primo piano. Basti pensare all’istruzione dei figli degli immigrati, alla cura degli infortunati e dei malati, all’assistenza ai carcerati, alle ragazze, agli anziani, agli orfani, all’attività pastorale a fianco dei missionari.

Le Suore di San Giuseppe in Svizzera
L’occasione per parlarne è il recente 180° anniversario di fondazione (15 ottobre 1831) della Congregazione delle Suore di San Giuseppe di Cuneo. La loro origine, a dire il vero, risale addirittura alla metà del Seicento in Francia per iniziativa del gesuita Jean Pierre Médaille. Sarebbe troppo lungo rievocarne qui anche sommariamente la storia e la loro ramificazione in numerose congregazioni. Merita invece soffermarci sulla Congregazione di Cuneo, perché le prime suore che giunsero in Svizzera per affiancare i missionari nell’opera di assistenza religiosa degli immigrati italiani provenivano proprio da questa Congregazione. Da allora hanno accompagnato fino ad oggi, a piccoli gruppi, la vita della collettività italiana immigrata.

Fu il vescovo di Cremona monsignor Geremia Bonomelli a richiedere la loro opera nel periodo più frenetico della costruzione della rete ferroviaria svizzera. Le loro prime destinazioni, nel 1900, furono il Cantone dei Grigioni, durante la costruzione della linea ferroviaria dell’Albula (a Surava-Preda e Bergun), e Basilea, importante crocevia di immigrati. La loro presenza è attestata poi nel 1903 anche nel Cantone di San Gallo durante il traforo del Ricken (a Kaltbrunn) e dal 1906 nel Vallese e nei Cantoni di Berna e Soletta per tutta la durata dei grandi cantieri per la costruzione delle ferrovie del Sempione, del Lötschberg (a Kandersteg, Goppenstein, Naters-Brig) e della linea Grenchen-Moutier (a Grenchen, nella famosa baraccopoli chiamata Tripoli). A Berna, quale ultima sede, giunsero molto più tardi, nel 1960.

Suore di San Giuseppe di Cuneo a Goppenstein
 Senza esagerazione si deve dire che l’epoca delle grandi infrastrutture ferroviarie fu un periodo eroico non solo per i minatori italiani ma anche per le Suore di San Giuseppe. La prima richiesta alla Superiora generale non lasciava dubbi: doveva trattarsi di «tre suore di buono spirito, disposte al lavoro e al sacrificio, per fare un po’ di bene presso gli operai italiani».

Ambiente spesso aspro e anticlericale
Ben presto le prime arrivate si resero conto di quanto l’ambiente naturale fosse «inospitale e selvatico, Siberia dei Grigioni». Non era meglio nelle alture del Vallese, soprattutto a Goppenstein, dove «un nemico insidioso minaccia il Paese da novembre a maggio e lo tiene in apprensione continua: la valanga». I cantieri erano situati in alta montagna e le baracche per gli operai, ma anche gli ambulatori, gli ospedali, gli asili e le scuole, non potevano essere molto distanti. Anche le suore partecipavano a tutti i disagi ambientali.
A creare difficoltà al lavoro dei missionari e delle suore era tuttavia spesso l’ambiente umano, soprattutto al di fuori delle zone a prevalenza cattolica e quando sul posto erano presenti molti socialisti e anarchici, generalmente molto critici nei confronti della Chiesa e della religione. Le suore in particolare erano spesso oggetto di lazzi e insulti.
Un episodio drammatico legato all’anticlericalismo di immigrati socialisti si manifestò a Kandersteg in occasione della cerimonia funebre delle vittime della tragedia del Lötschberg del 1908. Racconta una fonte: «Non si voleva che l’acqua santa bagnasse la bara, non volevano il drappo nero, non la croce, non il crocifisso e tantomeno il sacerdote (…). Il missionario fu minacciato durante la messa, dovette ritirarsi e chiudersi in casa senza accompagnare il feretro al camposanto. Anche le suore dovettero tornare indietro per la situazione pericolosa e drammatica in cui si trovarono».

Attività sociali e pastorali delle suore
Le Suore di San Giuseppe si adattavano con coraggio e senza tentennamenti alla difficile situazione. Sapevano di essere missionarie in prima linea e con grande fede e spirito di carità seppero far fronte ai loro molteplici compiti nonostante le difficoltà. Oltre all’assistenza ai feriti e ammalati negli ospedali, gestivano asili per i più piccoli, vere e proprie scuole per i bambini più grandi (talvolta con centinaia di allievi) e laboratori per le ragazze e, soprattutto, riuscivano a curare l’assistenza religiosa di molti lavoratori. Non va dimenticato che le baraccopoli dei grandi cantieri ferroviari ospitano per diversi anni talvolta oltre tremila persone.
Grazie alle suore, proprio a Kandersteg nel 1910 il vescovo di Novara riuscì ad amministrare la cresima a circa 200 ragazzi e adulti. Le difficoltà che dovettero superare, vista l’opposizione non solo dei socialisti e degli anarchici ma anche dei protestanti furono enormi, «tanto da scoraggiare del tutto – scrisse una suora nel suo diario – se non avessimo avuto piena fiducia nell’aiuto di Dio».

Come angeli custodi
Le Missioni di montagna avevano di solito la stessa durata dei grandi cantieri. Terminati i lavori in un posto si apriva ben presto un altro cantiere altrove e questo per tutta la durata della costruzione della rete ferroviaria svizzera, ossia fino alla vigilia della prima guerra mondiale. Con la chiusura di un cantiere e la smobilitazione della Missione degli italiani anche le suore dovevano partire. Scrisse la stessa suora: «Al servizio dei lavoratori emigrati, nomadi con o senza famiglia, le suore fissavano o levavano le loro tende man mano che sorgevano o si muovevano le baracche». Durante l’intero periodo delle costruzioni ferroviarie seguirono praticamente tutte le vicende umane, quelle drammatiche ma anche quelle gioiose, degli immigrati italiani in Svizzera. Erano come angeli custodi che li seguivano ovunque, soprattutto là dove maggiore era il bisogno.


Le ultime due Suore di San Giuseppe di Cuneo in Svizzera,
presso la MCI di Berna: Suor Albina M. Migliore e suor
Barbara Maccagno, oggi impegnate soprattutto nella pastorale.
  Negli acquartieramenti in prossimità dei grandi cantieri ferroviari le suore erano adibite soprattutto all’assistenza negli ospedali e all’educazione dei più piccoli, ma non trascuravano affatto l’assistenza spirituale perché grandi erano «le miserie morali dell’ambiente, l’ignoranza supina in fatto di religione» che incontravano visitando le case degli immigrati. Di fronte a tanta miseria e sofferenza, si legge in alcune cronache, ciò che stava maggiormente a cuore delle suore era il conforto spirituale da dare ai più sofferenti. Grazie a questa loro dedizione, frutto di fede e carità, riuscirono spesso a far avvicinare alla fede e alla religione anche adulti sani. Tant’è che furono regolarizzati molti matrimoni e amministrati molti battesimi e cresime.
La delicatezza del loro compito si manifestava soprattutto nelle Missioni di città, specialmente in quella di Basilea. Le suore, racconta una fonte, cercavano il contatto con gli italiani «nei sobborghi più poveri, più luridi: purtroppo gli italiani non potevano trovarsi che in quelli. Eccole a contatto di gente che in patria avrebbero schivato per motivi di prudenza, in mezzo a famiglie irregolari e disordinate».

Contributo fondamentale
Le cronache del primo decennio della permanenza delle Suore di San Giuseppe svelano non solo alcuni aspetti noti ma poco circostanziati dell’immigrazione italiana di quel periodo, ma anche la grandezza spirituale e morale dei missionari e delle suore che fornirono con ogni mezzo la massima assistenza possibile a quegli immigrati, il più delle volte abbandonati a sé stessi. A parte gli ambienti anticlericali menzionati, che rimasero ostili all’opera dei missionari e delle suore, numerose fonti attestano l’apprezzamento e la riconoscenza nei loro confronti da parte di tutti i beneficiari più diretti della loro assistenza.
Non ha senso chiedersi come sarebbe evoluta l’immigrazione italiana in Svizzera senza le Missioni e senza le suore, ma è innegabile che le une e le altre abbiano contribuito probabilmente più di quel che appare allo sviluppo di una comunità spirituale, culturale e sociale che ha influito notevolmente sullo sviluppo dell’intera società svizzera.

Giovanni Longu
Berna 26.10.2011

19 ottobre 2011

Stato di diritto e politica

L’Italia è stata la patria del diritto; ma fa di tutto per dimenticarsene. Ha messo al mondo una delle più belle costituzioni, ma la sua osservanza sembra un miraggio. Le istituzioni repubblicane dovrebbero concorrere a realizzare il bene comune e invece sembrano capaci solo di generare il malcontento generale. Gli «indignati» sono ormai milioni. Una disgrazia, per un Paese con un alto potenziale di riuscita, che mentre festeggia 150 anni di storia unitaria è lacerato profondamente. Per uscire dalla crisi basterebbe osservare la Costituzione, ispirandosi al suo principio fondamentale: la sovranità appartiene al popolo.

La politica è deragliata
Non credo occorrano studi di diritto per comprendere la portata dell’articolo 1, che recita: «L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione». In altre parole, la sovranità, ossia il potere dello Stato, appartiene al popolo.
Nelle democrazie moderne, ispirate al modello del «governo del popolo», il potere dovrebbe essere esercitato dai tre organi dello Stato: Parlamento, Governo e Magistratura, chiamati impropriamente «poteri». Dovrebbero esercitare solo «funzioni» (legislativa, esecutiva, giudiziaria), ma si continua a chiamarli «poteri» e, quel che è peggio, ognuno si comporta come il vero detentore del potere, nonostante l’articolo costituzionale citato e il principio della separazione dei «poteri» adottato da tutte le costituzioni moderne. Mai, credo, le istituzioni italiane si sono trovate in perenne conflitto come in questi tempi. La sovranità del popolo sembra completamente dimenticata.
Quello che un tempo si chiamava «Stato di diritto» e rispecchiava la sovranità popolare, sembra essersi trasformato in una sorta di arena in cui troppi protagonisti cercano di accaparrarsi la fetta più grande del potere, senza alcun ritegno. L’espressione «lotta politica» è ormai di uso quotidiano, e i concorrenti sono diventati avversari o nemici da distruggere o da sottomettere. Ogni protagonista si sente legittimato, anche solo per il fatto di essere stato eletto o di poter indossare una toga, ad esercitare il «suo» potere in nome del popolo italiano e a dare patenti di legittimità ad altri concorrenti-avversari.
Parlamento, Governo, Magistratura si comportano come se fossero i fondamenti del diritto, dimenticando che a loro spetta solo di gestirlo, precisarlo, amministrarlo perché il popolo possa vivere in pace e progredire. La politica italiana è deragliata, è fuori controllo.

Un Parlamento schizofrenico
La fotografia più emblematica del Parlamento italiano vista da milioni di telespettatori è forse quella dell’Aula semivuota della Camera dei Deputati quando qualche giorno fa il Presidente del Consiglio dei ministri chiedeva l’ennesima fiducia. Le opposizioni si erano dileguate, in barba a tutti i principi di democrazia, per segnalare anche fisicamente il loro totale dissenso dalla politica del governo. Era l’immagine di un Parlamento dove l’incomunicabilità tra maggioranza e opposizioni regna sovrana e la collaborazione è ridotta a zero.
Lungi da me assolvere la maggioranza e il governo, poco efficaci e poco credibili, ma sono soprattutto le opposizioni che lasciano allibiti. Non si rendono conto che il loro oltranzismo contro tutto quello che il governo legittimo di Berlusconi tenta di fare danneggia l’Italia. Negare il proprio contributo a migliorare disegni di legge è sabotare un’istituzione della Repubblica. Chiedere le dimissioni del capo del governo è legittimo, invocarne la caduta per implosione anche, ma non arrendersi all’evidenza che in oltre 50 voti di fiducia le opposizioni non si sono nemmeno avvicinate al numero fatale per mandarlo a casa è cocciutaggine.
Lo dice la Costituzione: «La Camera dei deputati e il Senato della Repubblica sono eletti per cinque anni» (art.60). E ancora: «il voto contrario di una o d’entrambe le Camere su una proposta del Governo non importa obbligo di dimissioni» (art. 94). Perché dunque questa richiesta assordante delle dimissioni del governo anche senza voto di sfiducia? Non sarebbe il caso che siano proprio le opposizioni a fare un passo indietro e a dare un contributo disinteressato per far uscire l’Italia dalla crisi? Sarebbe tanto facile e soprattutto utile al Paese. Nel frattempo possono prepararsi alle prossime elezioni sperando di vincerle per dare poi loro la dimostrazione del buon governo.
La Costituzione dice ancora, all’articolo 67, che «ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato». Di fatto guai a chi non segue la disciplina del partito di appartenenza. Ne sanno qualcosa i radicali eletti nelle file del Partito democratico. Non avendo disertato l’Aula durante il recente discorso di Berlusconi sulla fiducia, per rispetto delle istituzioni ma in dissenso col Pd in cui sono stati eletti, sono stati attaccati violentemente dai vertici del partito. «Quanto tempo ancora un partito come il mio deve sopportare questa umiliazione?» avrebbe detto la presidente del Pd Rosy Bindi, aggiungendo: «spero che qualcuno prenda le decisioni del caso». In barba all’autonomia dei singoli deputati e senatori.

Un Governo che non governa
E il governo che fa? Dovrebbe governare, ossia cercare di risolvere i problemi del Paese, ma non governa, o almeno non in maniera adeguata, perché non riesce nemmeno a governare sé stesso. Non è solo colpa delle opposizioni. Sembra bloccato soprattutto per una serie di contrasti in seno alla maggioranza che lo sostiene, ma anche per dissidi interni tra ministri e specialmente tra qualche ministro e il presidente del Consiglio.
Alla vigilia dell’approvazione del disegno di legge di stabilità più di un ministro aveva minacciato di votare contro se ci fossero stati altri tagli al suo ministero. Siamo ai ricatti? Sembrerebbe di sì e questo è un oltraggio alla collegialità, ma anche un sintomo grave della debolezza dell’attuale governo. Il presidente del Consiglio dovrebbe intervenire avendone i poteri, perché è lui che secondo la Costituzione «dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile. Mantiene l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promovendo e coordinando l’attività dei ministri» (art. 95). Sente di non farcela? Coerenza vorrebbe che si dimettesse, altrimenti … deve agire e senza ulteriori indugi.

Magistratura senza autocritica
Da alcuni anni i giudici, un tempo considerati persone austere e riservate, sono divenuti protagonisti della scena pubblica, si credono i veri interpreti del diritto, anzi in taluni casi le fonti del diritto. Eppure gli errori anche clamorosi di investigazioni sbagliate o insufficienti, di sentenze approvate in primo grado e annullate in secondo o terzo grado sono sotto gli occhi di tutti, persino all’estero. La delicatezza del loro compito meriterebbe maggiore prudenza e riservatezza e forse anche un po’ più di modestia e di autocritica.
E’ infatti anomalo che se un tribunale d’appello capovolge la sentenza di primo grado, nessun giudice ammetterà di essersi sbagliato, ma continuerà a dire che in Italia la giustizia prima o poi arriva. Se un innocente si è fatto diversi anni di galera ingiustamente non si troverà mai un responsabile, perché la giustizia è per definizione giusta! Se invece vengono inviati ispettori del Ministero di grazia e giustizia al tribunale di Napoli, il procuratore Lepore lo trova scandaloso: «Vogliono delegittimare la procura». E il populista Antonio Di Pietro (Idv) parla addirittura di «un colpo aberrante allo Stato di diritto» perché sarebbe «un'iniziativa per intimidire i magistrati delle due città meridionali solo perché stanno indagando sul premier». Di rimando, la maggioranza replica che un tale atteggiamento altro non è che una «dichiarazione di guerra al ministro della Giustizia». A chi credere?
Qui non si tratta di credere, ma di guardare ai fatti. E i fatti non assolvono nessuno perché le lotte fra i «poteri» dello Stato sono manifeste e gravi. Il terreno di scontro più evidente e più nocivo per l’equilibrio dei «poteri» e per l’affermazione del diritto è senz’altro quello della giustizia. Troppi veti incrociati impediscono un riordino della materia. Una delle conseguenze è il dilagare delle intercettazioni, divenute strumenti di lotta politica anche se inservibili ai fini processuali. In nome del diritto d’informazione e d’opinione si è così diffuso in Italia un sistema mediatico di linciaggio personale che non ha paragoni in alcun altro Paese occidentale. Una larga fetta della stampa quotidiana e periodica vive ormai quasi esclusivamente di gossip, decretando purtroppo anche la mediocrità dell’intero sistema mediatico nazionale.

Ritornare alla fonte del diritto
A questo punto non basta il presidente Napolitano a ridare fiducia agli italiani. Occorre che il popolo italiano si renda conto che al di fuori delle regole e del rispetto delle regole non ci può essere una Comunità. Sta ad esso creare il diritto e farlo rispettare, secondo l’assioma latino «ubi societas ibi ius» (dove c’è una società civile, lì c’è il diritto), in quanto é la società civile – e non solo la comunità politica o mediatica – che crea il diritto.

Giovanni Longu
Berna, 19.10.2011

12 ottobre 2011

Cercavamo braccia e sono venuti…

In questo periodo preelettorale svizzero è inevitabile che anche il tema dell’immigrazione sia oggetto di discussione, anche se questa volta in tono minore, ad eccezione dell’Unione democratica di centro (UDC), la destra radicale svizzera, che ne ha fatto un argomento centrale. Per gli altri partiti l’argomento interessa solo marginalmente, preferendo affrontare singoli aspetti quali il tipo di immigrati da preferire, l’integrazione, la libera circolazione e, nel caso di tutti i partiti ticinesi, il numero, l’attività e il salario dei frontalieri.
Il tema dell’immigrazione è comunque sempre d’attualità. Qualche giorno fa mi ha colpito un titolo: «Sie kommen, um zu gehen – und bleiben», ossia vengono di passaggio e invece restano. A prescindere dal contenuto, riferito a uno studio su un campione di stranieri di recente immigrazione, mi ha colpito la formulazione del titolo, che rispecchia ampiamente un modo diffusissimo di interpretare l’immigrazione in questo Paese, anche quella italiana. L’idea è essenzialmente questa: gli stranieri chiedono, la Svizzera risponde; gli stranieri cercano, la Svizzera dà. Non è un’impostazione storicamente corretta.

Max Frisch e gli stranieri
Correttamente, nel 1965, scriveva Max Frisch ai suoi concittadini: «Abbiamo chiamato braccia e sono venuti uomini». Il grande scrittore vedeva bene la dinamica dell’immigrazione, soprattutto quella italiana: la Svizzera chiama, l’Italia risponde. Storicamente, infatti, non furono gli italiani che si precipitarono ai valichi di frontiera con la Svizzera per chiedere un lavoro, ma fu sempre questo Paese ricco di progetti e d’iniziative ma povero di manodopera indigena a «chiamare» lavoratori stranieri.
Purtroppo Frisch ha avuto pochi seguaci perché la lettura che si dà abitualmente del fenomeno migratorio è esattamente inversa. Sembrerebbe quasi che gli stranieri (italiani) non solo non abbiano bussato alla porta prima di entrare ma abbiano addirittura forzato la serratura. Eppure non andrebbe dimenticato che persino nell’epoca più liberale della storia svizzera, fino allo scoppio della prima guerra mondiale, le frontiere erano aperte perché la Svizzera le lasciava intenzionalmente aperte. Tanto è vero che allo scoppio della guerra le ha chiuse in maniera praticamente ermetica e da allora ha sempre posto condizioni molto rigide soprattutto per il soggiornare.
Eppure, per citare solo qualche esempio su una letteratura molto vasta, nel 1981, in un opuscolo della Commissione federale per i problemi degli stranieri intitolato «Giovani stranieri e associazioni giovanili: un problema?» si poteva leggere proprio all’inizio del primo capitoletto: «Cercavano lavoro…» con questa spiegazione: «I coabitanti stranieri, provenienti in gran parte dai paesi mediterranei, sono qui perché vogliono lavorare. Queste donne e questi uomini non sono venuti, il più delle volte, di loro spontanea volontà. Hanno dovuto farlo per assicurarsi un’esistenza. A casa, nella loro patria, non avevano trovato lavoro e le loro piccole aziende agricole rendevano troppo poco per nutrire un’intera famiglia». Così era visto in generale il fenomeno migratorio.
Ad onor del vero, forse avvertendo la fragilità di una tale ricostruzione, gli autori di quell’opuscolo aggiungevano: «Non pochi tra loro furono chiamati da noi, perché i paesi industriali del nord avevano bisogno di manodopera…».

Calmy-Rey e l’immigrazione italiana
Nel 2011, anche la Presidente della Confederazione Micheline Calmy-Rey sembra avere qualche difficoltà a ripercorrere la vera storia dell’immigrazione italiana. Nel suo saluto agli italiani in occasione del 150° dell’unità d’Italia, ne ricostruisce così a grandi tratti l’evoluzione:
«Negli anni a cavallo delle rivoluzioni del 1848/49, molti rifugiati italiani e grandi personalità del Risorgimento (…) trovarono accoglienza in Svizzera. La seconda metà del XIX secolo segnò poi l’inizio della prima ondata immigratoria nel nostro Paese. Si passò dai circa 10.000 immigrati italiani nel 1860 ai 117.000 nel 1900 e agli oltre 200.000 nel 1910. (…) Alla fine della seconda guerra mondiale, allo scopo di allentare la situazione politica interna e sociale, l’Italia favorì l’emigrazione; oltre 100.000 italiani raggiunsero la Svizzera nel 1947 e altrettanti l’anno successivo. La comunità italiana continuò a crescere fino al 1975, quando con 573.085 persone registrate rappresentava più dei due terzi della popolazione straniera residente in Svizzera».

E’ vero che a questo punto la Presidente della Confederazione sente il bisogno di ringraziare gli italiani, che «hanno contribuito sensibilmente al rapido aumento del benessere nel nostro Paese», ma la sua ricostruzione storica di questo contributo è imprecisa e lacunosa.

Qual è stata la vera dinamica migratoria?
La dinamica dell’immigrazione italiana nella seconda metà dell’Ottocento è dovuta soprattutto alla volontà della Svizzera di sviluppare la propria rete ferroviaria, per esigenze interne e internazionali. Per realizzare tutti i grandi progetti la Svizzera, non disponendo della manodopera indigena necessaria, dovette cercarla all’estero, soprattutto in Italia. E a decine di migliaia vennero chiamati minatori, sterratori, carpentieri, manovali… per realizzare non solo le grandi gallerie ma anche le rampe di accesso, i ponti e tutte le altre infrastrutture della rete ferroviaria e stradale.
Quando tra la prima e la seconda guerra mondiale l’economia svizzera tirava poco e non aveva bisogno di molta manodopera, pochissimi italiani vennero in Svizzera semplicemente perché non ne erano richiesti di più!
La Presidente della Confederazione ha giustamente ricordato che la seconda ondata importante dell’immigrazione italiana in Svizzera è stata registrata nel secondo dopoguerra. Ma la sua analisi è purtroppo parziale, perché si limita a registrare che la situazione politica e sociale dell’Italia favoriva l’emigrazione, ma sorvola completamente sull’urgente bisogno della Svizzera di manodopera italiana. Uscita indenne dalla guerra e con un apparato produttivo messo sotto pressione per poter soddisfare le richieste di beni provenienti da mezzo mondo, la Svizzera aveva urgente bisogno di manodopera. Non potendola ottenere dalla Germania e dall’Austria (perché le potenze occupanti non concedevano permessi di emigrazione) e nemmeno dalla Francia (perché non aveva esuberi da collocare all’estero), la Svizzera si rivolse all’Italia, dove la manodopera abbondava.
Già verso la fine del 1945, la Svizzera si rivolse all’Italia e subito dopo che il governo italiano ebbe dato il proprio assenso (inizio di febbraio 1946) la Svizzera presentò il 14 febbraio alla Legazione italiana di Berna (non ancora Ambasciata) una prima richiesta di manodopera da impiegare nell’agricoltura, nel ramo alberghiero e della ristorazione, negli ospedali e istituti, nell’industria tessile e nei servizi domestici. Per gli italiani erano già pronte per il 1946 non meno di 20.000 autorizzazioni, che sarebbero state oltre 90.000 per il 1947. Nella richiesta, che specificava il fabbisogno per ciascun ramo, si esprimeva anche il desiderio che si procedesse celermente (ossia nel giro di 3-4 settimane) al reclutamento.

Perché il boom di arrivi «stagionali»
Negli anni e decenni successivi le richieste di manodopera italiana si moltiplicarono. Per questo ci fu per oltre un trentennio un vero e proprio boom di arrivi, che favorì enormemente anche la nascita di nuove imprese, tra cui, per citare solo un nome, la Monteforno di Giornico, Ticino. Uno storico, Matteo Pelli, ricordava qualche anno fa che «il fattore decisivo [per la creazione dell’acciaieria] fu senz’altro la possibilità di importare dall’Italia manodopera già formata e con grande esperienza nel settore». In questa acciaieria, nel 1947 lavoravano 42 operai, ma saliranno a 990 nel 1974, per una produzione annua che passò da 20.000 tonnellate a 334.000 tonnellate nel 1974.
Gli anni Cinquanta e Sessanta sono contrassegnati in Svizzera da una lunga fase di crescita economica (creazione di imponenti infrastrutture idroelettriche, stradali e autostradali, edilizia commerciale e residenziale, urbanistica, ecc.). Tra il 1947 e il 1970 la Svizzera mise a disposizione ben tre milioni di permessi stagionali. Ne vennero utilizzati oltre due milioni e mezzo: le esigenze dell’economia prevalevano persino sui sentimenti antistranieri che minacciavano tensioni sociali e fino alla crisi della metà degli anni Settanta nemmeno i contingenti di manodopera introdotti dalla Confederazione riuscivano a limitare le richieste dell’economia e l’afflusso di immigrati.
La domanda di manodopera estera, soprattutto «stagionale» (per impedire che potessero domiciliarsi in Svizzera!) era talmente consistente che le grandi imprese di costruzione avevano una vera e propria rete di reclutamento in Italia, con funzionari che percorrevano l’Italia in lungo e in largo per ingaggiare personale da adoperare nei grandi cantieri, dove la manodopera svizzera scarseggiava. Solo quando la crisi si fece sentire, dopo il 1974, in pochi anni circa 300.000 lavoratori stranieri dovettero lasciare la Svizzera: non erano più richiesti!

Bilancio positivo, ma per chi?
Col tempo la collettività italiana immigrata ha messo radici in questo Paese e oggi anche la Svizzera ufficiale la riconosce come la comunità «straniera» più integrata. Del resto, numerosi svizzeri di origine italiana siedono ora nel parlamento federale e in quelli cantonali e comunali, nei consigli di amministrazione di banche e grandi imprese, nelle università, nel giornalismo, ecc.
Ciononostante sono ancora molti coloro che trattano questo capitolo della storia svizzera come di un periodo di grande magnanimità della Svizzera nei confronti di decine di migliaia di persone bisognose in cerca di lavoro. Si dimentica facilmente la vera ragione per cui sono venute e soprattutto quanto hanno dato in cambio. In un ipotetico bilancio tra dare e avere, gli immigrati sono quelli che hanno dato più di quanto hanno ricevuto. Lo diceva nel 1972 l’allora presidente della Confederazione Nello Celio.

Giovanni Longu
Berna 12.10.2011