30 dicembre 2009

Contestazione della democrazia e crisi italo-svizzera

Due cose mi hanno particolarmente colpito nell’anno appena trascorso nell’ambito di questo osservatorio: la discussione sulla democrazia sia in Italia che in Svizzera e la battuta d’arresto nei rapporti italo-svizzeri.
Contestazione della democrazia in Italia
Sistematicamente, all’indomani delle elezioni politiche, si apre un’interminabile discussione sui ruoli della maggioranza e della minoranza, come se la Costituzione non esistesse e il giudizio popolare fosse interpretabile a piacere. Evidentemente il «governo del popolo» (ossia la «democrazia» degli antichi Greci) non ha ancora assunto un significato univoco e condiviso. Su questa incertezza si basano molte ambiguità e animosità che animano il dibattito politico.
Quando sorgeva una disputa nel mondo cristiano, soprattutto nei secoli passati, e su questa interveniva d’autorità il Papa, si diceva: «Roma locuta est, causa finita est», ossia, una volta intervenuta la decisione papale, la questione doveva considerarsi risolta. Era così, e in parte lo è ancora, perché nel campo religioso cattolico non esiste un’autorità superiore a quella del Papa a cui potersi appellare. Qualcosa di analogo succedeva anche nelle monarchie assolute, in cui la massima autorità era rivendicata dal re, che per questo veniva chiamato «sovrano».
Con l’avvento della democrazia nella maggior parte degli Stati del mondo, l’unica «sovranità» riconosciuta da tutti è quella del popolo. La Costituzione italiana lo dice chiaro e tondo: «La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione»,(art. 1). Dovrebbe essere pertanto chiaro che una volta che il popolo «sovrano» si è pronunciato, in libere elezioni, la questione di chi deve governare e di chi deve stare all’opposizione dovrebbe considerarsi chiusa. Invece non è così. Anche l’attuale governo e l’attuale maggioranza sembrano non godere della piena legittimazione da parte delle opposizioni.
In fondo, in Italia non si accetta il principio di legittimazione da parte del popolo sovrano, non si accetta in buona sostanza il fondamento stesso della democrazia. C’è infatti una minoranza, spesso assai consistente, che sistematicamente contesta il verdetto del popolo «sovrano». Non potendo dire apertamente che l’elettorato è costituito da imbecilli e incompetenti, dice magari che il popolo non ha fatto la scelta giusta perché disinformato, stordito dalla propaganda, ammaliato dalle sirene o illuso dalle assurde promesse e via discorrendo. In realtà si nega la sovranità del popolo, accusandolo di essere incapace d’intendere e di volere.
Con questi presupposti, è facile capire perché in Italia il dibattito politico ha un profilo molto basso, anzi deleterio. A furia di interpretare la scelta popolare, una parte (maggioranza) finisce per considerare la sua missione (di per sé di durata limitata) come una sorta d’investitura per governare incondizionatamente e senza intralci e l’altra parte (minoranza) per ritenersi obbligata a intraprendere qualsiasi azione pur di impedire alla maggioranza di governare, ritenendola almeno moralmente indegna di guidare il Paese.
Come si spiegherebbe altrimenti che molti politici dell’opposizione non riconoscano alla maggioranza nemmeno la legittimità a legiferare e considerino deputati e senatori che si apprestano a farlo come fossero dei rinnegati e servi del padrone? Di fatto non sono pochi coloro che dopo un’interminabile campagna di delegittimazione finiscono per considerare il governo voluto dalla maggioranza del popolo italiano una iattura, una sorta di «regime» e di «dittatura», e chi lo guida una sorta di tiranno da abbattere. E come non collegare, almeno indirettamente, l’aggressione del 13 dicembre al premier Silvio Berlusconi col degrado della politica italiana, che in talune espressioni e in taluni atteggiamenti esprime vero e proprio odio?
Dubbi anche sulla democrazia elvetica
I problemi di democrazia non agitano solo la politica italiana. Anche in Svizzera, patria della democrazia diretta, ossia la massima espressione storica della volontà popolare, le discussioni non mancano, soprattutto quando i temi messi in votazione sono «sensibili» come quelli della migrazione, della cittadinanza o della religione.
Il caso più recente è stato la votazione popolare sui minareti. Chi non ha sentito il dovere di interpretare il verdetto delle urne? E chi non ha sentito il bisogno di esprimere giudizi sulla maturità o immaturità del popolo svizzero nei confronti del rispetto che si deve all’altro e agli altri, anche quelli che professano lingue, culture e religioni diverse da quelle maggioritarie nel Paese? Pochi, invece, hanno ammesso che il giudizio della maggioranza è sempre indice della maturità generale del Paese e soprattutto del suo grado d’informazione in quel determinato momento storico.
Democrazia imperfetta
E’ evidente che la democrazia di oggi, come quella di ieri, è imperfetta. Basti pensare a quanto (facilmente) le persone si lascino influenzare dall’informazione (o disinformazione), dalla pubblicità, dai luoghi comuni (un tempo si diceva: l’ha detto la radio, oggi magari si dice: lo dicono i sondaggi, ecc. ). Questo comunque non toglie che quando il popolo sovrano, comunque si sia fatta un’opinione, prende una decisione, la sua volontà va accettata e rispettata.
Il popolo ha dunque sempre ragione? Messa in questi termini, la domanda non lascia scampo. Il popolo ha sempre ragione, in quanto non esiste allo stato attuale un tribunale superiore che possa decidere ragione e torto in base a principi superiori. E’ tuttavia un «sì» condizionato dalla stessa premessa: allo stato attuale non esiste una forma di governo migliore.
L’imperfezione della democrazia dovrebbe costituire l’impegno di tutti a far sì che il popolo «sovrano» decida sempre nella pienezza delle informazioni necessarie e nella massima indipendenza di giudizio possibile. Poiché tuttavia la macchina dell’informazione (e della disinformazione) diviene sempre più potente, dovrebbe essere compito di ogni Stato sottrarre l’informazione ai monopoli e garantire il pluralismo. Dovrebbe essere inoltre un obiettivo prioritario dei popoli e degli Stati dotarsi di organismi sovranazionali legittimati ad esercitare un controllo superiore, in modo che in occasione di votazioni importanti non vengano mai violati i diritti fondamentali dell’uomo e i principio fondamentali della convivenza tra i popoli.
Senza il pluralismo e la libertà d’informazione e senza questi organismi, la perfezione della democrazia resta un’utopia come la repubblica di Platone, che prevedeva ai suoi vertici solo saggi illuminati e integerrimi. Nel frattempo, tuttavia, conviene accettare e rispettare le decisioni popolari, perché diversamente sono sempre in agguato le tentazioni del caos, della delegittimazione reciproca, dell’instabilità e persino dell’anarchia e della dittatura.
Rapporti bilaterali in crisi?
Rispetto ad altri periodi critici della storia delle relazioni italo-svizzere, gli attuali rapporti ufficiali tra la Svizzera e l’Italia non si possono definire «in crisi», ma nemmeno «eccellenti», come vorrebbero le buone abitudini diplomatiche. E’ indubbio, infatti, che quest’anno i tradizionali vincoli di collaborazione e amicizia tra i due Paesi hanno subito una battuta d’arresto, soprattutto nella regione, il Ticino, che maggiormente risente del clima generato dalle correnti nord-sud.
Un primo segnale il Ticino l’ha manifestato già all’inizio dell’anno per i noti problemi irrisolti dell’inquinamento transfrontaliero (per cui la stessa Unione Europea aveva avviato una procedura d’infrazione), delle difficoltà nei trasporti, delle continue scorribande di criminali provenienti dall’Italia, della forte penetrazione di ditte italiane che rischiano di deprimere i salari e comunque generano insicurezza del posto di lavoro, ecc.
Il segnale più clamoroso il Ticino l’ha dato tuttavia l’8 febbraio in occasione della votazione sugli Accordi bilaterali bis tra la Svizzera e l’Europa. Bocciandoli con una forte maggioranza ha inteso segnalare a Berna che l’Italia andava richiamata perché gli accordi già sottoscritti (Bilaterali I, del 2000) non li rispettava e poneva ad esempio insuperabili ostacoli burocratici alle ditte ticinesi che intendevano lavorare oltreconfine. Il Ticino si sentiva minacciato o quantomeno non sufficientemente protetto contro possibili effetti negativi dei Bilaterali II e sperava in una pronta reazione della Confederazione.
Berna, si sa, ha tergiversato in mancanza di fatti e dati certi, contribuendo ulteriormente ad esasperare gli animi di molti ticinesi, soprattutto quanti si riconoscono nella Lega dei ticinesi. Non potendosi rivolgere direttamente contro l’Italia, anche perché «all’Italia e ai suoi abitanti il Ticino deve molto per la sua rapidissima ascesa economica» (Beat Allenbach), lo scontento dei ticinesi si scaricava contro i loro rappresentanti politici e soprattutto contro la Confederazione. Solo un ex consigliere nazionale, Adriano Cavadini, ha osato richiamare alla mente dei ticinesi l’origine dell’attuale benessere: «Si è dimenticato troppo facilmente che il benessere economico, di cui beneficia tuttora il nostro Cantone, proviene in gran parte dalla vicinanza con l’Italia. La nostra industria e numerose aziende dell’edilizia e di servizio, ad esempio nella sanità (ospedali, case per anziani), non sarebbero in grado di produrre e funzionare senza la preziosa collaborazione dei lavoratori italiani residenti e dei moltissimi frontalieri. La piazza finanziaria ticinese deve gran parte del suo sviluppo alla vicinanza dell’Italia».
Naturalmente il colpo più pesante alle relazioni italo-svizzere l’ha assestato lo scudo fiscale. La Svizzera, che non ha mai contestato la legittimità della misura adottata dall’Italia, non ha risparmiato le critiche per il modo con cui è stata applicata nei suoi confronti. Soprattutto non ha digerito la volontà dichiarata del ministro Tremonti di voler annientare il segreto bancario svizzero e ridimensionare la piazza finanziaria ticinese, decima a livello mondiale. Il ministro italiano ha persino travalicato il linguaggio delle buone maniere tipico della diplomazia e delle relazioni ministeriali, chiamando i Ticinesi «mafiosi» e meritevoli di un salutare intervento dell’esercito. Certe cose non si dicono e nemmeno si pensano.
E’ vero che alcuni ministri, quelli economici e della giustizia, hanno contribuito a ripristinare un clima di ottimismo nelle relazioni italo-svizzere, ma non c’è dubbio che i gesti scortesi e le parole sconsiderate di altri rischiano di creare ferite che stentano a rimarginarsi. Purtroppo, anche molti «rappresentanti» della numerosa collettività italiana residente in Svizzera, invece di trovare argomenti per tranquillizzare i connazionali, giustamente preoccupati, hanno invece contribuito a generare confusione e ad esasperare i sentimenti d’insicurezza.
C’è solo da augurarsi che il 2010 rafforzi sia in Italia che in Svizzera i valori della democrazia, riporti il sereno al di qua e al di là della frontiera comune, e faccia ricordare a tutti che i due Paesi e i due Popoli si sono dichiarati fin dai loro esordi «pace perpetua» e amicizia fraterna.
Giovanni Longu
Berna, 30.12.2009

29 dicembre 2009

Legge sulle lingue senza illusioni

(Corriere del Ticino, 29.12.2009)
Il 1° gennaio 2010 entrerà in vigore la legge sulle lingue. Nel darne l’annuncio, qualche settimana fa, il Consiglio federale non ha suscitato alcun entusiasmo nemmeno tra coloro che l’attendevano da anni (la legge era già stata approvata il 5 ottobre 2007).
Per quel che concerne l’italiano, la legge non apporterà alcunché di significativo, anche perché è sotto gli occhi di tutti la debolezza della lingua di Dante sul piano nazionale e in particolare nell’amministrazione federale. Che rimedi può produrre una legge voluta da pochi e accettata (a malincuore) dalla maggioranza, oltretutto nata troppo tardi? Potrà davvero migliorare lo stato di salute dell’italiano in Svizzera?
A dubitarne sono in tanti, a cominciare dai politici: dall’on. Simoneschi Cortesi che si chiedeva qualche giorno se esiste ancora la Svizzera plurilingue, all’on. Cassis, per il quale l’italiano rimane in serie B o all’on. Marina Carobbio (ma non è l’unica) che per essere più convincente tra i colleghi del Palazzo deve sacrificare l’italiano a vantaggio del tedesco. Ancor più espliciti sono il programma nazionale di ricerca 56 che non ha trovato l’italiano nell’amministrazione federale e una delle tante testimonianze provenienti dal suo interno, secondo cui «a Palazzo l’italiano è una zavorra».
Affermare che l’italiano nell’amministrazione federale non esiste, mi pare eccessivo, ma bisogna intendersi. Non esiste (e non potrebbe esistere) come lingua di lavoro e nemmeno come lingua parlata, anche se nei contatti col pubblico molti servizi d’informazione sono dotati di persone che parlano anche l’italiano. Nell’amministrazione federale l’italiano è soprattutto una lingua di traduzione, anche se con molti limiti.
Quanto alla rappresentanza degli italofoni non giova farsi troppe illusioni. Saranno sempre pochi e anche per loro la lingua di lavoro non potrà essere l’italiano. All’incirca in questo periodo di cinque anni fa il consigliere federale Hans Rudolf Merz dichiarava senza mezzi termini che i funzionari italofoni erano sovrarappresentati in generale e solo nelle funzioni superiori erano «lievemente sottorappresentati». Da allora la situazione è peggiorata e dubito fortemente che migliorerà dopo l’entrata in vigore della legge sulle lingue. Soprattutto per due ragioni.
La prima: si continua a prendere come riferimento per la rappresentanza delle comunità linguistiche i soli cittadini svizzeri e non l’intera popolazione residente. Errore gravissimo sul quale ho richiamato più volte e inutilmente l’attenzione anche della Deputazione ticinese alle Camere federali. Se non vi si pone rimedio, con una rappresentanza di italofoni del 4,3% (dato dell’ultimo censimento del 2000) c’è ben poco da rivendicare. Si provi ad immaginare, in un ufficio federale di dimensioni medie, il 4,3% di un gruppo composto da una ventina o trentina di alti funzionari: il risultato non andrà oltre l’unità.
La seconda ragione per cui non bisogna farsi troppe illusioni è che manca un’autorità di controllo sul rispetto del plurilinguismo nell’Amministrazione federale. Quando questo controllo sarebbe stato utile, fine anni ’90 o inizio di questo decennio, non si è fatto nulla. Allora si doveva monitorare l’andamento delle rappresentanze linguistiche in base alle direttive federali (sono infatti del 1997 le prime istruzioni del Consiglio federale sul plurilinguismo). Un’autorità di controllo indipendente è mancata allora e non viene rivendicata nemmeno ora. Dalla Deputazione ticinese si chiede infatti solo un ombudsman, un mediatore e non un garante, e intanto ci si deve accontentare di un semplice «consulente per la politica delle lingue nell’amministrazione», il pur bravo Verio Pini.
Eppure un’autorità di controllo indipendente, un delegato al plurilinguismo a livello federale, sarebbe auspicabile. E’ strano che nessun parlamentare ticinese si sia accorto finora dell’anomalia di avere in (quasi) tutti gli uffici federali e in (quasi) tutti i dipartimenti un delegato al plurilinguismo (sia pure senza veri poteri di controllo) come previsto dalle Istruzioni del 1997 e 2003, mentre manca la persona delegata per l’insieme della Confederazione.
Mi rendo conto che non è facile chiedere e soprattutto ottenere una figura del genere, perché creerebbe non poche difficoltà a più di un Consigliere federale e a numerosi quadri dirigenti degli uffici (dove è soprattutto carente la presenza italofona). Ma è forse più facile accettare l’ipocrisia di avere sotto gli occhi una realtà che non corrisponde alle norme stabilite sul plurilinguismo? Esiste forse un ufficio dove la lingua italiana è lingua di lavoro, all’infuori dei gruppi di traduttori italofoni (che per altro devono comunicare con i vari committenti quasi esclusivamente in tedesco o francese)? E quanti sono i direttori e i quadri superiori che hanno sufficienti conoscenze attive o anche solo passive di italiano, come invece dovrebbero? Quanto potrà fare Verio Pini a cui faccio i migliori auguri? Non resta che sperare, ma senza illusioni!
Giovanni Longu
Berna 29.12.2009