28 ottobre 2009

Finalmente il Museo Nazionale dell’Emigrazione!

Se ne parlava da anni e non si sapeva dove farlo, come farlo, e dove trovare i soldi per realizzarlo. In Italia, per certe cose mancano sempre i soldi, anche quando si tratta di recuperare la propria memoria storica! Sono trent’anni che l’emigrazione italiana (almeno quella di massa) è finita e se ne sta perdendo lentamente il ricordo. Finalmente, dunque, che un po’ di quella memoria sia conservata almeno in un museo nazionale.
Finalmente! Perché l’emigrazione, come ha ben detto il Presidente della Repubblica, al termine dell’inaugurazione del Museo, «è un capitolo essenziale della nostra storia». Non un semplice capitolo, uno dei tanti, ma un capitolo «essenziale» per capire la storia dell’Italia.
Si sta per celebrare il 150° anniversario dell’Unità d’Italia e non si può dimenticare che uno dei maggiori problemi che il nuovo Stato dovette affrontare fu quello dell’emigrazione. Fino ad allora era quasi inesistente e per lo più aveva un carattere stagionale nelle regioni settentrionali di confine. Poi divenne un fenomeno sempre più consistente. I primi governi cercarono di frenarne la crescita con ogni sorta di ostacoli. Si voleva evitare soprattutto di fornire attraverso gli emigrati un’immagine negativa dell’Italia quasi fosse in preda alla miseria e all’ignoranza. Ma i governi di allora e poi anche quelli successivi non seppero arrestare gli espatri garantendo a tutti, soprattutto ai giovani che abbandonavano le campagne, sufficienti possibilità di lavoro in Italia.
Tra i primi e più importanti flussi migratori dall’Italia non si può dimenticare quello verso la Svizzera. Basti ricordare che il primo accordo tra l’Italia e un altro Stato riguardante lavoratori italiani migranti fu quello con la Svizzera e risale al 1868, dunque pochi anni dopo l’Unità d’Italia.
Soprattutto negli ultimi decenni dell’Ottocento e agli inizi del Novecento furono milioni gli italiani che lasciarono l’Italia per produrre lavoro e ricchezza non solo nei Paesi che li ospitarono, ma anche nel Paese che li aveva espulsi dal mercato del lavoro come lavoratori in esubero, si direbbe oggi. Già, perché non va dimenticato – e mi auguro che il Museo lo ricordi e lo documenti – le rimesse degli emigrati hanno fatto gola a tutti i governi e sono servite non solo alle famiglie degli emigrati ma anche a riequilibrare la bilancia dei pagamenti dell’Italia con l’estero. L’emigrazione è stata per l’Italia una incredibile risorsa, anche sotto l’aspetto finanziario, che è giusto ricordare, almeno in un museo.
Vi ha accennato il Ministro degli Affari Esteri Frattini il giorno dell’inaugurazione del Museo: «Per comprendere come è cresciuto il Paese, per capire come si è sviluppata l'economia e la società italiana, è indispensabile conoscere e riconoscere che milioni di contadini sono stati costretti a lasciare le loro terre, che altri milioni di lavoratori hanno preferito abbandonare volontariamente un Paese privo di prospettive». Sarebbe bene che lo ricordassero tutti gli italiani e lo si insegnasse nelle scuole dello Stato.
Vari interventi, il giorno dell’inaugurazione del Museo, hanno sottolineato a giusta ragione i disagi e le sofferenze fisiche e morali che hanno caratterizzato molta parte della vita degli emigrati. Per rendersene conto basterebbe rileggersi qualche rievocazione storica dell’emigrazione d’oltreoceano o europea o anche solo della Svizzera, soprattutto in certi periodi in cui gli italiani erano disprezzati e malvisti. Attenti però a non limitarsi a questo aspetto, e mi auguro che il Museo ne tenga conto. L’emigrazione italiana nel mondo ha infatti prodotto ovunque anche genialità, stili di vita invidiabili e invidiati, cultura, arte, letteratura, scienza, gioia di vivere.
Non conoscendo il materiale espositivo del Museo, è difficile fare considerazioni specifiche al riguardo. Spero comunque che il Museo non sia solo una sorta di fotografia di un passato remoto e triste, da osservare magari con stupore e commozione. Mi auguro che sia in grado di parlare al presente, di coinvolgere il visitatore non solo risvegliandone la memoria del passato, ma anche suscitando in lui sentimenti di coraggio, intraprendenza, solidarietà, creatività, rispetto, e invitandolo a confrontarsi con la realtà immigratoria italiana di oggi.
«Oggi che accogliamo immigrati nel nostro Paese, e siamo diventati un Paese d’immigrazione», ha ancora detto il Capo dello Stato, «non dovremmo mai dimenticare di essere stati un Paese di emigrazione». Ciò significa che l’Italia intera, istituzioni e cittadini, devono impegnarsi a trattare con un occhio di riguardo gli immigrati, a evitare ogni forma di xenofobia e a favorire con ogni mezzo la loro integrazione. Non deve più capitare ai nuovi immigrati quanto è tante volte capitato agli italiani di mezzo mondo, di essere trattati come schiavi, discriminati, incolpati ingiustamente, assegnati ai lavori più difficili e pericolosi, ghettizzati ed emarginati. Mai più! Mi auguro che il Museo dell’Emigrazione dica anche questo.
Purtroppo questo Museo si trova solo a Roma e francamente mi pare insufficiente. Un Museo dell’Emigrazione dovrebbe sorgere in ogni Regione italiana e in ogni Paese del mondo, dove i discendenti degli emigrati italiani di fine Ottocento e gran parte del Novecento costituiscono ancora una collettività numerosa e importante. Penso per esempio alla Svizzera, dove la collettività italiana è particolarmente numerosa ed ha ereditato il patrimonio ricchissimo di una storia migratoria ormai lunga quanto quella italiana e, purtroppo, poco conosciuta.
A quando il Museo dell’Emigrazione Italiana in Svizzera?
Giovanni Longu
Berna 27.10.2009

26 ottobre 2009

Davide Piscopo lascia un vuoto

«Quel che è giusto è giusto»!
Davide Piscopo se n’è andato, la settimana scorsa, all’improvviso, lasciando un vuoto nella sua area politica in Svizzera che difficilmente potrà essere colmato. E’ stato uno di quei personaggi che s’imponeva per la sua singolarità. Assolutamente convinto delle sue idee di destra, è stato per almeno un trentennio avversato da quanti militavano sul fronte opposto. Era divenuto una sorta di cavaliere solitario e si era credo convinto che fosse ormai un perdente. L’ultima volta che lo incontrai, circa un anno fa, mi aveva detto che stava pensando di ritirarsi definitivamente da ogni incarico politico.
Conoscevo Piscopo da una trentina d’anni. Non condividevo le sue idee, ma lo rispettavo perché trovavo corretto in una democrazia il pluralismo delle idee. Lo incontravo sovente in incontri pubblici e celebrazioni ufficiali. Ma al di là delle battute di circostanza non abbiamo mai avuto occasione di affrontare seriamente alcun tema scottante. Del resto in comune non avevamo quasi nulla, a parte il reciproco rispetto.
A prescindere dai contenuti, nei suoi interventi apprezzavo la dialettica tagliente, la lucidità del ragionamento, una certa signorilità persino nell’affrontare gli avversari. Sapevo che rispettava le mie idee e apprezzava il mio modo di presentarle a voce e per iscritto. Più di una volta ricevetti i suoi complimenti. L’ultima volta è stata nel mese di agosto scorso. Aveva appena letto un mio articolo su «Marcinelle: la tragedia italiana e l'immigrazione clandestina», in cui contestavo Tremaglia a riguardo degli immigrati clandestini. Mi telefonò per dirmi che era d’accordo con la mia analisi, anche se contraddiceva quella del suo amico Tremaglia: «quel che è giusto è giusto», mi disse testualmente.
Non conosco assolutamente nulla di preciso della sua vita privata e nemmeno della sua vita professionale. Ho conosciuto il Piscopo politico e l’uomo pubblico impegnato a modo suo a risolvere i problemi dell’emigrazione. Il bilancio dei suoi tentativi lo tirerà qualche altro. A me resta il ricordo di una persona pubblica che si è coerentemente battuta per le sue idee e ha indubbiamente contribuito a introdurre nel dibattito politico degli italiani in Svizzera un confronto e una dialettica che non possono che far bene al formarsi di un’opinione pubblica intelligente e matura.
Giovanni Longu
Berna 25.10.2009