02 giugno 2009

2 giugno, festa degli italiani?

Gli italiani festeggiano il 2 giugno la nascita della Repubblica. Quel che non è stato ancora possibile per la Resistenza è divenuto da decenni per la Festa della Repubblica una celebrazione corale, almeno apparentemente. Tutti gli italiani indistintamente si riconoscono ormai figli della Repubblica. Eppure le divisioni sui grandi problemi del Paese permangono.
Quel 2 giugno 1946, in cui la maggioranza degli italiani decise le sorti della monarchia e l’avvento della repubblica, non fu un giorno tranquillo. Un’accesa campagna referendaria aveva diviso il popolo italiano chiamato a una scelta difficile. Anche nei giorni successivi, l’attesa del risultato fu drammatica, come registrano le cronache, sia per l’incertezza del voto, sia per le accuse di brogli, e sia per la paura che il destino della forma di governo dell’Italia potesse decidersi con le armi e persino con l’intervento di qualche potenza straniera.
Solo il 10 giugno 1946 la Corte di Cassazione riuscì a proclamare i risultati del referendum, ma furono contestati. Si dovette attendere fino al 18 giugno per averne la conferma definitiva (12.718.641 voti per la repubblica e 10.718.502 per la monarchia) e proclamare ufficialmente la Repubblica. L’Italia si scoprì divisa quasi a metà tra nord e sud, non solo fisicamente ed economicamente: se al nord aveva nettamente prevalso la repubblica, al sud la preferenza dei votanti era andata a favore della monarchia.
Il 2 giugno 1946, oltre al referendum istituzionale tra monarchia e repubblica, si svolsero anche le elezioni dei 556 deputati dell'Assemblea Costituente incaricata di redigere una nuova Costituzione. In attesa che terminassero i lavori, si tentò, fino al maggio 1947, una riconciliazione tra tutte le forze politiche costituendo governi di unità nazionale, ma fu solo una tregua nella tradizionale lotta politica italiana.
Il 22 dicembre 1947 venne approvata la nuova Costituzione con 453 voti a favore e 62 contrari. Il 27 dicembre venne promulgata dal Capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola ed entrò in vigore il 1° gennaio 1948.
Sembrava che la nuova Costituzione, una delle più belle del mondo, né troppo rigida né troppo flessibile, potesse aggregare i sentimenti di tutti gli italiani e garantire il funzionamento dello Stato in maniera equilibrata ed efficiente. Ma già le elezioni del 1948 misero in evidenza le divisioni politiche del popolo italiano.
Per favorire il sentimento di identità e unità nazionale, nel 1949 la giornata del 2 giugno fu dichiarata festa nazionale. Per circa un trentennio svolse questa funzione, ma dal 1977 le celebrazioni vennero spostate alla prima domenica di giugno. Inutile dire che la Festa perse d’interesse popolare, finché nel 2001, il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi e il Parlamento decisero di ripristinare il 2 giugno come festa nazionale.
Oggi, il ricordo delle divisioni di 63 anni fa è affidato essenzialmente ai libri di storia, ma non si può dire che il popolo italiano si ritrovi finalmente unito a celebrare con spirito unitario la Repubblica come una sorta di casa comune in cui «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali» (art. 3 comma 1 della Costituzione). Non tutti, purtroppo, possono dare alla Repubblica un voto sufficiente nello svolgimento di uno dei suoi compiti essenziali: «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (art. 3, comma 2).
Divisioni e delusioni
A dividere e a deludere gli italiani, oggi, non è però la Repubblica, ma i suoi organismi, che continuano a rivelarsi incapaci di rinnovarsi e di rispondere pienamente alle esigenze di una modernità che sembra irraggiungibile.
Forse uno degli impedimenti è legato proprio alla Costituzione italiana, concepita in maniera quasi perfetta per i tempi in cui è stata elaborata e per questo ritenuta quasi immodificabile. A giudizio di molti, il perfetto equilibrio tra i poteri dello Stato voluto dai Costituenti andrebbe ripensato alla luce di nuove esigenze.
Non si tratta certamente di riscrivere l’intera Costituzione, ma è sotto gli occhi di tutti che i principali organi dello Stato, a cominciare dal Parlamento, danno segni di inefficienza. Che tra Governo, Parlamento e Magistratura ci possa e persino ci debba essere una certa dialettica è vitale per una democrazia, ma in uno Stato di diritto la collaborazione dovrebbe essere la regola. Invece sembrano predominare le contestazioni, le interferenze, la confusione dei ruoli, l’ingovernabilità. Basta pensare alle polemiche in gran parte strumentali di queste settimane tra maggioranza e opposizione. La complessa macchina dello Stato ne risulta fortemente indebolita e inefficiente. Anche per questo la riforma dell’architettura dello Stato è ineludibile.
Se è vero che «la sovranità appartiene al popolo» (art. 1 comma 2), non dev’essere ritenuto scandaloso rivolgersi al popolo anche in materia elettorale o di composizione del Parlamento, o del ruolo del Capo del Governo o del Presidente della Repubblica o della Magistratura. Anzi, il ricorso al popolo potrebbe sbloccare la situazione di stallo che si è venuta a creare con la riduzione della politica a due soli schieramenti, una situazione non prevista dai Costituenti.
In ogni caso è auspicabile che i politici italiani, piuttosto che specializzarsi nella contrapposizione e nello scontro, si rendano conto che per loro vale l’obbligo di «concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale» (art. 49). Con metodo democratico, non con armi improprie tipo calunnie, maldicenze, accuse provocatorie e simili. Spesso si dimentica che il metodo democratico presuppone il rispetto delle istituzioni e delle persone, anche se avversarie.
Giovanni Longu
Berna 2.6.2009

01 giugno 2009

1° giugno, festa del beato Scalabrini «Padre dei migranti»

Il 1° giugno i missionari Scalabriniani ricordano ogni anno il loro fondatore, il Beato Giovanni Battista Scalabrini, «Padre dei migranti», morto a Piacenza il 1° giugno 1905. Se viene ricordato anche qui è per rendere omaggio a una figura carismatica che ha contribuito molto, col suo impegno personale e attraverso la sua Congregazione, a dare dignità agli emigranti italiani dalla seconda metà dell’Ottocento in poi.
Nelle ricostruzioni storiche dell’emigrazione italiana, si mette giustamente in rilievo il contributo dato all’elevazione sociale ed economica delle collettività italiane emigrate dalle società di mutuo soccorso, da alcuni movimenti politici e sindacali, dall’associazionismo. Spesso tuttavia si dimentica di sottolineare il fondamentale contributo dei missionari, che hanno accompagnato i grandi flussi migratori nelle Americhe e in Europa.
Figure come quelle di monsignor Geremia Bonomelli (fondatore dell’Opera di assistenza per gli italiani emigrati in Europa), del beato Giovanni Battista Scalabrini (fondatore della Congregazione dei Missionari di San Carlo Borromeo, conosciuti come Scalabriniani) o di santa Francesca Saverio Cabrini (fondatrice dell’Istituto delle Missionarie del Sacratissimo Cuore di Gesù) meriterebbero maggiore attenzione. E’ vero, essi si occupavano principalmente della cura delle anime, ma sono stati per decenni anche in prima linea nella lotta contro il sottosviluppo, l’analfabetismo, l’emarginazione, l’umiliazione, la povertà degli emigrati.
Del beato Scalabrini vorrei ricordare qui non tanto il suo contributo indiretto nel campo dell’assistenza - attraverso la sua Congregazione, attiva per altro ancor oggi in molte Missioni, anche in Svizzera - quanto il suo contributo diretto per conferire al problema dell’emigrazione italiana un carattere politico e nazionale.
Prima però vorrei ricordare che la realtà migratoria a cui si riferiva il vescovo Scalabrini era ben peggiore di quella che nemmeno i più anziani immigrati in Svizzera hanno conosciuto. Per questa ragione avrebbe voluto porre un freno al flusso migratorio, benché ritenesse l’emigrazione un diritto. In uno scritto del 1887 osservava: «Le cause che determinano l’emigrazione e la fanno aumentare di anno in anno, altre sono di ordine morale, altre di ordine economico, generali e particolari, e riflettono il benessere fisico e quella smania tormentosa di subiti guadagni, che ha invasa la fibra italiana dalle classi più alte a quella che sta al piede della scala sociale, formata dalla immensa turba dei diseredati».
Per questo denunciava lo Stato di non fare abbastanza per trattenere in patria i migranti ed estirpare alla radice le cause generali dell’emigrazione, che erano secondo lui soprattutto: «le mutate condizioni dei tempi e del vivere civile, i bisogni aumentati non in rapporto alle ricchezze, il desiderio naturale di migliorare la propria posizione, la crisi agraria che pesa da anni sui nostri agricoltori come una cappa di piombo, il carico veramente enorme dei pubblici balzelli, che gravita sull’agricoltura e sulle piccole industrie e le schiaccia; a tutto questo si aggiunga il fuoco che le tre male faville [superbia, invidia ed avarizia], di cui parla Dante, hanno acceso nei cuori, e avremo appunto le cause della emigrazione…».
Rientrava nella strategia del vescovo di Piacenza anche il miglioramento della normativa sull’emigrazione. E quando nel 1887, sotto il primo governo Crispi, si pose mano a una legge organica per regolare l’intera materia, monsignor Scalabrini intervenne per denunciare l’effetto nocivo della figura dell’«agente di emigrazione» prevista nel disegno di legge. Egli riteneva infatti che gli intermediari, ritenuti veri e propri «lenocinî degli impresari di braccia umane»,«sensali di carne umana», interessati più al profitto personale e dei mandanti che dei poveri emigranti, fossero una causa ulteriore e legalizzata dell’emigrazione.
Per essere facilmente compreso, Scalabrini faceva un esempio. «Un agente ha incarico da una Società di imprenditori o da un governo di arruolare 2, 3, 4, 10 mila operai o contadini. L’agente compie la sua operazione e li spedisce nei modi e colle garanzie volute dalla legge. Ora, il Governo sa che il paese ove sono diretti quegli infelici è, per condizioni climatiche o per altra ragione qualunque, inabitabile; sa che quei poveri pionieri non sono condotti a far fortuna ma a quasi sicura morte. Eppure il Governo, dato che il nuovo disegno abbia sanzione di legge, non potrebbe né punire, né impedire tanta catastrofe. E si noti che l’agente può, nella miglior buona fede, mandare alla rovina tanta gente, non essendo egli obbligato ad avere cognizioni su questo punto, come vi sono obbligati p. es. gli agenti Svizzeri».
Consapevole di non poter impedire l’emigrazione, l’intenzione esplicita di monsignor Scalabrini era quella «di sorreggerla, di illuminarla, di dirigerla coll’opera e col consiglio». Uomo di chiesa, vescovo e pastore di anime, egli era preoccupato soprattutto di salvare la loro fede, spesso messa a dura prova in ambienti talvolta dichiaratamente ostili.
Passando dalla storia alla cronaca, soprattutto italiana, mi viene da osservare che i problemi migratori, lungi dall’essere scomparsi dal nostro mondo, sono sempre attuali e talvolta ancora in forma drammatica. Basti pensare alla situazione che ruota attorno ai cosiddetti «respingimenti» sia prima che dopo.
Quale sarebbe oggi l’atteggiamento di Giovanni Battista Scalabrini? Probabilmente lo stesso assunto oltre un secolo fa, soprattutto nel richiamare la responsabilità dei governi e delle organizzazioni internazionali a eliminare nei Paesi di provenienza le ragioni dell’emigrazione forzata, a regolarne i flussi, a condannare quelle losche figure d’intermediari che non esitano ad abbandonare in mare barconi strapieni di esseri umani. Ma soprattutto, sarebbe stato dalla parte dei migranti, in un autentico spirito evangelico di accoglienza, rispetto e solidarietà.
Giovanni Longu
1° giugno 2009